Ecumene

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Prima di tutto vorrei condividere con voi un episodio del mio passato, vissuto nella Chiesa Ortodossa Russa, della quale faccio parte come presbitero. Dico subito: davanti alla sfida della pace penso che questa Chiesa si trova attualmente in una grave crisi spirituale. Come dice il Salmo: “di pace essi parlano ai loro vicini, mentre malizia c’è nel loro cuore” (28,3). Adesso non parlano nemmeno. La Teologia della pace esiste ancora, ma la pace non c’è. Per cominciare propongo la mia testimonianza.

Quando ero giovane, la parola “pace” faceva parte del discorso indispensabile della Chiesa ortodossa Russa, nella quale sono stato battezzato nel lontano 1971. Questa Chiesa mi ha spalancato le porte della fede cristiana. Ho avuto la sfortuna di venire in un mondo che era costretto, la mia famiglia inclusa, quasi condannato, all’ateismo di Stato, ma io ho avuto anche la fortuna di trovare la fede nell’età adulta, con una scelta cosciente. Poi ho riflettuto tutta la vita su questa svolta, chiedendomi : perché il Signore mi ha mandato un invito improvviso a questo banchetto? E sono diventato sacerdote proprio per non lasciarlo mai più.

La Chiesa ortodossa nell’Unione Sovietica, come tutti sanno, esisteva su di un territorio ideologico dove era incluso tutto ciò che esisteva e dal quale nessuno poteva uscire. Se tu occupaviun posto più che modesto nella gerarchia sociale, potevi almeno tacere. La Chiesa, come ogni struttura religiosa giuridicamente legale, era sempre sospettata e non aveva questo diritto. In quel tempo, parlo degli anni brezneviani, la memoria delle persecuzioni subite, sanguinarie sotto Stalin, oppure senza effusione di sangue, ma con la chiusura massiccia dei luoghi di culto sotto Kruscev, era ancora molto viva e dolorosa nella Chiesa. Dagli anni venti del secolo scorso il suo organismo ha imparato la scienza dell’adattamento, del conformismo, senza frontiere. Peggio ancora: la Chiesa si è inserita con comodità in questa posizione declassata e degradata. L’ha anche amata, in un certo senso, perché il conformismo era pieno di privilegi per le persone importanti, per i vescovi, i metropoliti. Uno dei privilegi era il permesso di uscire dal mondo ermeticamente chiuso, invalicabile per i cittadini semplici, ed andare all’estero, in Occidente in primo luogo. Certo, non per turismo personale, ma per parteciparealle varie conferenze teologiche con i colleghi occidentali. Per fare la teologia della pace prima di tutto.

Cosa dicevano questi teologi alle conferenze internazionali? Oltreai problemi degli addetti ai lavori, due motivi emergevano ed erano sempre presenti negli incontri all’estero e che andavano benissimo anche insieme ai discorsi più sublimi. Il primo: nell’Unione Sovietica non c’erano mai e non potevano neanche esserci una qualche persecuzione della fede cristiana (o di un’altra religione) per mano del regime poiché la sua Costituzione garantiva la libertà di coscienza per tutti i suoi cittadini. Qualunque chiacchiera su questo argomento non era altro che propaganda antisovietica e non poteva nemmeno essere discusso. Un altro motivo, più permanente ed insistente,durante i colloqui di quel tenore, era la lotta per la pace. Se con i diritti dei credenti non tutto era chiaro per gli interlocutori occidentali, con la lotta per la pace le cose procedevano più liscie e nel reciproco compiacimento.

Ma la lotta con chi? I due mondi usavano un linguaggio quasi comune e tuttavia con un messaggio diverso. “Siete per la pace in tutto il mondo?” - chiedevano gli inviati sovietici agli interlocutori occidentali. “Certo!”. “Siete contro la bomba atomica?”- “Come tutto il mondo”. “Siete contro l’imperialismo occidentale e soprattutto americano?”. “Senza dubbio”. “Siete contro i vostri governi venali al soldo del padrone d’oltreoceano?” “In gran parte sì, siamo decisamente contro”... e così via. Questo era il piatto principale, tutto il resto era, direi, il contorno. Una piena compressione reciproca si stabilisce tra due teologie della pace quando ambedue manifestano una nobile volontà per il trionfo del bene sul male dappertutto. Era assolutamente inopportuno e maleducato parlare in questo contesto dei diritti dei credenti in Oriente e della libertà di coscienza, oppure menzionare l’invasione di un altro paese, come la Cecoslovacchia o l’Afghanistan. Sotto questi discorsi patetici, molto simili ai discorsi cristiani, nella parte ortodossa si poteva leggere il programma chiaramente politico di uno Stato apertamente anticristiano. Le parole, però, spesso coincidevano e sembravano quasi identiche. Lo slogan della pace, anche se solo slogan, era più importante della realtà – assai poco pacifista. Pochi, anzi pochissimi, potevano indovinare che tutte queste belle parole facevano parte di un compito speciale, dato a ciascuno dei partecipanti, i quali dopo ogni riunione avrebbero dovuto scrivere un rapporto segreto alla polizia che aveva dato il permesso di partecipare a questi colloqui, con il resoconto di ogni cosa, inclusi i contatti privati, soprattutto quelli avvenuti fuori aula.

In Russia queste cose non facevano un gran mistero. Tutto ciò che all’interno e fuori del Paese si chiamava “lotta per la pace” ha avuto per noi un suo prezzo, per dire la verità, a buon mercato. Bisogna aggiungere che all’epoca la lotta per la pace andava avanti anche con lo stesso ecumenismo ortodosso. Ma appena è arrivata la libertà, i vecchi amici ecumenici sono rimasti perplessi: perché dopo il crollo del regime è quasi crollato anche l’ecumenismo? Semplice: perché un’attività del genere non era più obbligatoria, la scena internazionale era cambiata. In quel momento la stessa parola “pace”, abusata e compromessa, si è svuotata di qualsiasi contenuto specifico, al pari di un vecchio dettaglio del discorso ideologico. La Chiesa Russa non è più minacciata e non ha più bisogno di giustificare la propria esistenza all’interno di uno Stato che era, confessionalmente e aggressivamente, ateo. Invece il discorso sulle persecuzioni, proibitissimo qualche anno fa, dagli anni ‘90 in poi è diventato non soltanto lecito, ma quasi ufficiale. La parola “pace” piano piano è sparita dallo spazio pubblico. Poi, trent’anni dopo, un’altra svolta inaspettata: lo Stato, più che ortodosso e diventato autoritario, dichiara l’Operazione Speciale contro l’Ucraina. E la parola “pace” ha cambiato rotta. Proprio nel senso orwelliano: la “pace” ormai significa guerra. Ma come? In che modo la lotta per la pace si è trasformata nella benedizione del massacro?

Non si può spiegare tutto solo con l’ubbidienza cieca allo Stato. Questa Operazione Speciale che sostituisce la parola guerra ha una sua dimensione non soltanto ideologica, ma anche psicologica, perfino spirituale. Naturalmente, la Chiesa Russa non dice apertamente: “andate tutti alla guerra, uccidere è una gioia per il cristiano”. Ella chiama il suo gregge alla difesa della patria. Difesa contro chi? Qui troviamo il momento più drammatico, emozionante: l’invenzione del nemico. Il nemico dello Stato nella guerra con l’Ucraina coincide, nel nostro caso, con il nemico ecclesiale. Chi è questo nemico? È lo stesso, il nemico da secoli, raramente anche amico, cioè l’Occidente collettivo – ma con qualche sfumatura in più. Nel caso politico tutto è semplice: l’Occidente è l’aggressore, colui che fa la guerra contro la Russia sulla terra ucraina. Tutto qui. Ma nella prospettiva ecclesiale questa battaglia si riveste dei vestiti teologici, come il sacro dovere della difesa della patria contro l’invasione straniera. La guerra, parola non pronunciabile, è ormai sacra perché l’invasore possiede i tratti apocalittici dell’Anticristo. Anzi, infernali come Satana. Satana: proprio questa parola gira negli ambienti ecclesiali ed esce dalla bocca dello stesso patriarca.

Non cerchiamo le tracce del senso comune in questa posizione, sia politica, sia teologica; di solito l’ideologia prevale sul sano ragionamento. Ma dal punto di vista ecclesiale con quali “versetti satanici” l’Occidente conduce la guerra contro la Russia? Prima di tutto, si tratta della caduta morale: l’Occidente è accusato della corruzione totale: come modo di vivere, dell’omosessualità onnipresente, dei matrimoni tra persone dello stesso sesso, delle lezioni di educazione sessuale cominciando dalla più tenera età, e così via. Di più. L’Occidente che ha tradito se stesso vuole imporre la sua corruzione anche a noi, puliti e sani, aspira a rubare l’Ucraina dalla sua salute morale. Non è tanto chiaro come queste accuse possano giustificare le bombe che cadano sulla gente pacifica che non è omosessuale, bambini inclusi, ma à la guerre come à la guerre, nella lotta totale contro l’Occidente le vittime non si contano e non hanno i tratti individuali. L’invenzione di qualsiasi nemico va sempre insieme all’invenzione della sua controparte, alla personificazione del bene, anche inventato, nell’incarnazione della patria stessa. Oggi questo bene s’incarna nel “mondo russo”, nel cosiddetto “russkij mir”.

Il “mondo russo” è progettato come il simbolo, la bandiera, la fortezza della moralità, cominciando dall’opposizione della sessualità sana a quella perversa. Da testimone di due mondi, russo e occidentale, potrei affermare che in questo campo non ci sia una grande differenza. Nell’orrore della guerra i soldati occupanti stuprano anche le bambine. Lo slogan “il mondo russo” serve per l’orgoglio nazionale, ma soprattutto per la ricerca della propria identità. Dal punto di vista ecclesiale, espresso da tanti teologi della Chiesa ortodossa, ma al di fuori della Russia, il concetto stesso di “mondo russo” introdotto nel vocabolario spirituale della Chiesa rappresenta una pura eresia. Ma questa eresia non è da ieri. Come non è da ieri è la confusione degli interessi dello Stato con la vita propria della Chiesa. Questo tipo di confusione esiste da tanto tempo; nel 1872 il concilio locale di Costantinopoli ha condannato la confusione di questo genere con il nome di etnofiletismo. La condanna è ancora valida, ma essa, come la libertà di coscienza garantita nella Costituzione, serve piuttosto da decorazione; quasi tutte le Chiese ortodosse sono alquanto ripiegate su se stesse. Tra le innumerevoli ricchezze e virtù della Chiesa ortodossa l’universalismo del messaggio cristiano non occupa il primo posto. La psicosi militarista dopo aver infettato il “russkij mir”, ha rubato i cervelli, danneggiando la fede stessa. Coinvolge la gente semplice nella follia della guerra non soltanto socialmente, ma anche spiritualmente.

Mi ricordo un’immagine quasi commovente che ho trovato sulla pagina FB di un sacerdote ortodosso italiano: una pia vecchietta al momento del voto per lo zar-presidente fa il segno della croce benedicendo l’urna elettorale. Credo che l’autore della fotografia non abbia sospettato che in questo modo lui ci offre un ritratto perfetto della dittatura. Non quella di una tirannia primitiva e violenta, ma quella della padronanza vera e onnipresente che agisce nelle anime. Sotto l’apparenza di una “sancta simplicitas” il televisore-Putin, insieme a tutti i mezzi della comunicazione dei quali egli ha il controllo totale, con le mani del manipolatore-mafioso-Putin vota per il dittatore-Putin. Non a caso il sistema totalitario preferisce chiamarsi democrazia popolare, perché il capo (oppure il partito) unico e il suo popolo fanno in questo tipo di democrazia la stessa cosa. Almeno nel mondo virtuale. Nel mondo reale il padrone non chiede a nessuno il permesso di gettare il proprio popolo nelle fiamme della guerra, ma la guerra si fa sempre nel nome del valore supremo, con un coinvolgimento della sua popolazione non solo sul piano politico (dove la gente non è mai ammessa), ma su quello prima di tutto verbale, dottrinale, appassionato e anche religioso. Proprio l’omogeneità ideologica della società costituisce il nucleo del regime totalitario, sia sovietico, sia attuale, basato sull’identità comune dell’Uno e degli altri. Il “russkij mir” produce oggi questa identità comune.Chi non vuole iscriversi in questa personalità collettiva va defenestrato, emarginato, esiliato, eliminato in un modo o nell’altro.

I giornali parlano della guerra di Putin, è vero o no? Direi, sì e no nello stesso tempo. Certo, solo lui, capo delle forze armate, ha potuto dare l’ordine per iniziare l’Operazione militare speciale che, secondo i suoi progetti, avrebbe dovuto essere breve e trionfante. Tre giorni per prendere Kiev. Tre settimane per schiacciare tutta l’Ucraina. Poi fare il bagno nell’osanna della Russia-vincitrice, come fu dopo la presa della Crimea, e l’umiliazione dell’Occidente che si morderà le mani nel suo rancore impotente. Dopo il restauro graduale dell’impero russo, detto storico, di cui l’Unione Sovietica era solo una tappa provvisoria. Moldova, Georgia, preparatevi! Paesi Baltici, perché no? Se l’Occidente lascia l’Ucraina, lascerà anche la Finlandia che fino al 1918 faceva parte dell’impero russo. L’Europa avrà paura di opporsi alla superpotenza nucleare. Tutti si ricordano la dichiarazione di Putin che la caduta dell’URSS rappresenta la tragedia più grande del XX secolo. Non la Seconda guerra Mondiale con l’Olocausto, non il Gulag. Chi riesce a capovolgere questa tragedia riceverà il gran premio dalla storia.

L’operazione, però, non è andata secondo i progetti iniziali. Essa non è diventata la guerra-lampo, ma un fango di sangue in cui si è trovato tutto il paese. Non soltanto militarmente, ma soprattutto ideologicamente. Nella Federazione Russa attuale non c’è più un’ideologia di Stato di tipo classico (proibita tra l’altro anche dalla Costituzione, ancora eltsiniana) ma c’è un’ideologia in atto, il cui pilastro più importante è la vittoria nel passato. La vittoria sovietica nella Guerra patriotica è festeggiata il 9 maggio ogni anno con una solennità liturgica crescente mentre la partecipazione degli Alleati è sempre più oscurata. Questa festa non fa più accenno alle vittime incalcolabili (nessuno sa la cifra esatta, ma non meno di 30 milioni), ma si basa sempre sulla gloria, sull’eterna invincibilità della Russia. Proprio la vittoria del 1945 è ormai la parte principale di una religione di Stato; tanti bambini nell’età della scuola materna portano con orgoglio l’uniforme militare, mentre mamme sorridenti fanno spesso la gita usando carrozzelle costruite come piccoli carri armati. Nelle strade si possono vedere automobili con sopra l’iscrizione “A Berlino!”. In questo anno nelle tante scuole materne ed elementari sono state introdotte le lezione obbligatorie del patriottismo. Adesso, alla fine del 2024, una decina di conferenze ecclesiali è programmata per festeggiare la gloria degli 80 anni dalla vittoria del 1945. Certo, non tutta la popolazione è tentata da quest’ossessione (di una “vittoria indemoniata”, secondo l’espressione di un sacerdote ortodosso), ma il vento impetuoso che soffia sulle acque russe è così.

Quel vento soffia sulla Chiesa ortodossa perché la guerra in corso ha anche una sua dimensione teologica. Secondo una formula famosa, la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Tra questi mezzi il primo posto è occupato dalla demonizzazione del nemico, anche se inventato. Ripeto, non eravamo noi ad aver attaccato il paese vicino, ma l’Occidente l’ha fatto con le mani ucraine. Noi difendiamo la nostra patria dall’aggressione occidentale, ma anche dalla sua corruzione, dalla loro democrazia falsa e ipocrita. Ci difendiamo dai missili che nel futuro, forse, sarebbero stati messi ai nostri confini. Se le nostre bombe cadono sugli ospedali, sui teatri, le chiese ed i sistemi energetici in Ucraina (soprattutto sulle città russofone Kharkiv, Odessa, ma anche Kiev) e se lasciamo le città rase al suolo, lo facciamo, come ho detto, per difendere la Santa Rus’ dall’Anticristo.

Di più: difendiamo gli ucraini stessi dal loro ucrainismo testardo, perché la difesa della patria in un caso si chiama patriottismo, nellaltro nazismo. Come se gli ucraini fossero soltanto dei russi smarriti che vanno puniti per aver ceduto all’appello delle sirene occidentali. Il nome stesso Ucraina è sbagliato, il vero nome suo è Novorossia, la vecchia Russia Nuova che faceva sempre parte di quella vecchia. Tutto questo è stato apertamente scritto e proclamato dal Concilio Mondiale Popolare Russo che non è un organo ecclesiale, ma il cui presidente è il patriarca Kirill in persona. Per chi ha un po’ di chiarezza cartesiana nello spirito, si tratta di una povera leggenda politica che comunque funziona. Le guerre non si fanno con le chiarezze, ma con i miti.

Si può capire che sotto un regime dittatoriale la posizione pubblica del capo della confessione più grande del paese non possa essere completamente indipendente. Leggendo i numerosissimi interventi pubblici del patriarca si vede come egli, una persona comunque intelligente, davvero creda alla giusta causa di questo massacro di due popoli, ucraino e russo. Nessun dittatore ha affermato quella recente novità teologica secondo cui i caduti russi di questa guerra siano già liberati da tutti i loro peccati e vadano subito nel Regno dei Cieli. Ciò è molto simile all’assoluzione dei peccati garantita una volta ai crociati. I dittatori non inventano cose del genere. Nello stesso tempo Sua Santità non ha pronunciato nemmeno una parola di compassione nei confronti delle vittime ucraine che rimangono ancora, almeno dal suo punto di vista, nel suo ovile ecclesiale.

La mitologia politica della guerra va avanti e si riveste della teologia. Oggi la Russia si proclama il Katechon (2 Ts. 2,6-7), colui che trattiene (l’ordine divino). La Russia trattiene, si oppone, fa d’ostacolo all’Anticristo collettivo e la Chiesa partecipa per prima in questa battaglia cosmica. Senza nessuna esitazione, a questa battaglia per il Katechon sono mandati anche i criminali comuni. A tutti paesi belligeranti mancano i soldati e la Russia chiede che i carcerati - con qualsiasi crimine sulle spalle - prendano le armi, più uno stipendio oltre le stelle, in cambio di un servizio di sei mesi al fronte, per poi essere liberi. La metà di loro ha già perso la vita. Un’altra metà torna in libertà e uccide di nuovo. È un grande flagello per la società civile quando decine di migliaia di assassini professionisti sono rimessi in libertà senza nessun controllo. Di più: qualsiasi protesta in Russia, anche un semplice “no alla guerra”, pronunciato pubblicamente, può costare qualche anno di galera. Per quale motivo? Per calunnia alle forze armate o addirittura per terrorismo. Ma il fatto più drammatico è che la stessa logica agisce anche nella Chiesa; il patriarca personalmente ha composto la preghiera per la vittoria della mitica “Santa Rus” e l’ha imposta come obbligatoria a tutti i chierici della Chiesa Russa. La devono leggere tutti. Chi si rifiuta è sospeso o anche ridotto allo stato laicale. La maggior parte dei sacerdoti la legge con una buona fede “patriotica”, ma altri - non si sa quanti - col cuore spezzato. Essi sono messi di fronte ad una scelta insopportabile: andare contro la propria coscienza o perdere tutto, rompere con la parrocchia che, a volte, loro stessi hanno costruito, condannando la propria famiglia alla miseria. A tutti i crimini della guerra se ne aggiunge un altro: la confusione totale delle anime, la violenza sulla coscienza, l’asservimento della verità.

La verità da sempre è la prima vittima della guerra, come anche la nostra capacità di compassione, di empatia, di partecipazione al dolore di un altro essere umano si trovano paralizzate. Un’altra vittima è la nostra facoltà di guardare le cose in faccia: un male demografico; le perdite russe sono davvero terribili (spesso i cadaveri dei soldati russi sono abbandonati sui campi di battaglia), una rovina economica imminente, una macchia di sangue sullo stesso nome “Russia” nel mondo. Gli sforzi enormi che la guerra chiede alla Federazione Russa minacciano la sua esistenza stessa come paese unito e multinazionale; bisogna essere ciechi per non accorgersi di questo pericolo.

Immaginiamo: dopo aver sacrificato un milione dei suoi soldati, che ormai non daranno figli, dopo aver provocato un’emigrazione di massa dei migliori specialisti, scienziati, scrittori, dopo aver mandato migliaia e migliaia di giovani che non volevano uccidere in prigione, dopo aver speso mille miliardi di euro per la vittoria militare, dopo aver imposto al paese conquistato un governo fantoccio e la bandiera russa sventolare a Kiev e dappertutto, la Russia finalmente avrà vinto. Con quale guadagno? La conquista di uno spazio completamente rovinato e imbevuto d’odio fino alla gola verso gli invasori che durerà per secoli? Questa guerra non si fa per un guadagno reale, ma per sconfiggere un nemico inventato. La sagoma di questo nemico cresce ogni giorno, chiude la nostra facoltà di riflettere. Una capacità di giudizio sobrio, però, è la virtù più apprezzata nell’Ortodossia.

Qui sta il punto: l’infezione della fede in Cristo con la follia dell’ideologia statale. La confusione della fede ortodossa con la menzogna e gli orrori del regime. Non si tratta di una semplice collaborazione o obbedienza alle circostanze che non si possono cambiare, ma proprio del danno portato all’Ortodossia stessa, del miscuglio del Vangelo con la macchina della propaganda putiniana, ben ingrassata con i soldi dello Stato e che lavora senza sosta. La trasformazione della fede ortodossa in una sorta di religione civile con la sua Santa Rus’, un concetto immaginato nel XIX secolo, contro il mondo anglosassone, come nemico da sempre e così via?... E per questa religione i soldati russi che tornano a migliaia a casa nelle bare di zinco?

Questa guerra si fa non per i soldi che sono buttati via in quantità enorme, ma per il mito nazionale inserito nella stessa vita religiosa. Per il territorio imperiale che è diventato un vero feticcio nella spiritualità perversa. Per provare al mondo corrotto che siamo i più forti, i più veri, i più perfetti. Ma chiediamo: cosa può fare la teologia della pace di cui abbiamo provato a descrivere il suo passato miserabile e il suo presente ingannevole per tornare alla pace vera in futuro? Cristo disse “Abbiate pace in me” (Gv.16,33). Non abbiate l’orgoglio che la vostra fede sia migliore di quella degli altri, che la vostra patria sia più bella e virtuosa, ma abbiate pace in comunione con Cristo – cosa che la Chiesa ortodossa insegna da sempre. Ma che insegna rivolgendosi ad un quadro strettamente personale, che non esce mai fuori dalla pratica ascetica, dal combattimento invisibile. L’Ortodossia ha tutti i mezzi spirituali per liberarsi dalla gabbia ideologica perché la via d’uscita si trova nel suo patrimonio. Questa via è il pentimento. Ho sentito tanti discorsi e prediche sul pentimento e mi chiedevo sempre: perché la spiritualità adatta per una singola persona non è compatibile con la comunità, con la Chiesa di Cristo nel suo insieme? Perché il pentimento per un singolo e l’orgoglio nazionale per il gregge? Se la Chiesa un giorno trova la strada per passare da una spiritualità isolata di tipo monastico alla spiritualità comune, e condivisa con tanti, essa troverebbe anche una vera teologia della pace con gli altri. Dopo essere usciti dalla gabbia dorata del “mondo russo”, possiamo aprirci anche al mondo creato da Dio che Cristo è venuto a salvare. L’unico vantaggio che possiamo avere in questo disastro è il risveglio d‘una nuova vocazione spirituale che crede nell’uomo e che ha aperto le porte a Cristo non soltanto nella cella dell’anima di un monaco solitario, ma nella solidarietà con l’umanità sofferente.

La “Santa Rus’” del lontano passato è un’icona di un paese che esisteva solo nell’immaginario o nel subconscio collettivo e che si è nascosta sotto il nome del “russkij mir”, oggi è opposta alla fede cristiana e davvero ortodossa. Questo è il compito della teologia della pace che consiste non nelle belle citazioni e buone intenzioni, ma anche nella scoperta del pericolo penetrato nella stessa eredita cristiana. Bisogna saper tracciare una linea di demarcazione proprio spirituale tra il messaggio politico e quello ecclesiale, tra la fedeltà a Cesare e la fedeltà a Dio. Nel “mondo russo” (vi ricordo tra l’altro che un centinaio di popoli di etnie diverse vivono sul territorio della federazione Russa) riconosciamo la faccia del fariseo evangelico, in questa pretesa d’essere portatoridi valori eccezionali nei confronti degli altri popoli. Questa è la nuova versione dell’ideologia della terza Roma del XV secolo. Questa ideologia si riduce ai tre formule; la Prima Roma è caduta per eresia, la seconda Roma, Costantinopoli è caduta sotto gli infedeli, la Terza Roma è rimasta come unica guardiana della vera fede con il suo zar ortodosso e rimarrà per sempre.

Credo che le vie della speranza e della pace vera non sono esaurite ancora. Oltre l’Ortodossia nazionale e cosiddetta patriottica c’è anche l’Ortodossia cristiana che non si esaurisce mai. La Tradizione ortodossa che proviene dai Padri della Chiesa, dai Padri del deserto nasce dalla radice spirituale che istruisce a distinguere il bene e il male dentro noi stessi giudicando noi stessi. In questa scienza del stare davanti al giudizio di Dio l’Ortodossia ha sviluppato una profondità eccezionale ma la sua spiritualità rimane nei muri dei monasteri, nell’intimità di una singola anima. È arrivato il tempo in cui il senso del pentimento dovrebbe uscire fuori, per entrare nel campo sociale confessando i nostri peccati davanti il mondo intero. Questo tipo di pentimento sarebbe perfettamente ortodosso senza consolazioni celeste e metafisiche, senza chiacchere sulla “Santa Rus”, senza nascondersi dietro il “mondo russo”, dietro il Katechon, ecc. “Ho peccato davanti al cielo e davanti a te”, come dice il figlio prodigo, sono diventato il complice dei peccatori coperti del sangue dei fratelli; una vera teologia della pace inizia con la confessione della colpa, una teologia che resta ancora da scoprire.

Le Chiese occidentali hanno un grande esperienza nella confessione della colpa non soltanto personale, ma anche collettiva. Mi ricordo il primo paragrafo della Dichiarazione di Barmen del 1934: “Gesù Cristo, così come ci viene testimoniato nella Sacra Scrittura, è la sola Parola di Dio che noi dobbiamo ascoltare, cui dobbiamo affidarci in vita e in morte e cui dobbiamo obbedire”. Come manca una fermezza simile alla Chiesa d’oggi! La fermezza del metropolita Filippo di Mosca che cinque secoli fa aveva proclamatoin faccia dell’ortodossissimo Ivan il Terribile - e poi fu da lui ucciso. “Noi cristiani facciamo immolazione senza sangue sull’altare, ma fuori delle nostre chiese è versato dappertutto il sangue cristiano”. Perché un giorno qualcuno di alto rango ecclesiale non potrebbe dire: noi imploriamo il Signore per il perdono dei nostri peccati e perché il nostro esercito, anche se super ortodosso, con la nostra piena benedizione ed i suoi cappellani militari uccide i nostri fratelli in Ucraina con il pretesto ideologico inventato da un altro zar?

Si può ricordare anche la confessione di colpa di Stoccarda dopo la Seconda Guerra Mondiale, come anche numerosissime confessioni simili nella Chiesa cattolica all’epoca di Giovanni Paolo II e così via. Il riconoscimento comune della colpa, anche se le colpe sono diverse, non è la strada giusta per una vera teologia della pace? Anzi, non si tratterebbe soltanto della pace nella prospettiva dell’unità di tutti noi, cristiani colpevoli?

Anche da noi, nel nostro piccolo, nel marzo di 2022, subito dopo l’inizio della guerra, circa 300 sacerdoti della Chiesa Russa hanno firmatouna protesta. Il tono di questa lettera era molto pacifico, ma comunque una trentina di questi sacerdoti ha già subito un contraccolpo da parte della Chiesa ufficiale, con la sospensione a divinis o anche la riduzione allo stato laicale. Certamente, una trentina di sacerdoti sono una minima parte del clero che non è d’accordo con la guerra, ma i firmatari si rendevano conto del pericolo che potevano subire. Senza dubbio, questa la lettera non ha avuto nessun effetto pratico, ma è importante per la coscienza che le parole chiave fossero pronunciate. Ogni voce di protesta ha il suo peso, perché si tratta del futuro della Chiesa. Fuori di internet, parole simili non esistono, naturalmente, nello spazio pubblico all’interno della Russia, ma un giorno la Chiesa potrà ricordarle. Anzi, trovare in queste parole la sorgente della propria rinascita, come dopo il crollo del regime sovietico la Chiesa ha ritrovata nelle testimonianze dei suoi martiri, negati prima, la forza della propria identità.

Vladimir Zelinskij

 

 

Pubblicato in Chiese Cristiane

Mi ricordo un’immagine quasi commovente che ho trovato sulla pagina FB di un sacerdote ortodosso italiano: una pia vecchietta al momento del voto per lo zar-presidente fa il segno della croce benedicendo l’urna elettorale. Credo che l’autore dellafotografia non abbia sospettato che in questo modo ci offre un ritratto perfetto della dittatura. Non quella di una tirannia primitiva e violenta, ma quella della padronanza vera e onnipresente che agisce nelle anime. Sotto l’apparenza di una “sancta simplicitas” il televisore-Putin con le mani del manipolatore-Putin vota per il dittatore-Putin. Non a caso il sistema totalitario preferisce chiamarsi democrazia popolare, perché il capo (oppure il partito) unico e il suo popolo fanno la stessa cosa. Almeno nel mondo virtuale. Nel mondo reale il padrone non chiede a nessuno il permesso di gettare il proprio popolo nelle fiamme della guerra, ma la guerra si fa sempre nel nome della patria, con un coinvolgimento della sua popolazione non tanto sul piano politico (dove la gente non è mai ammessa), ma su quello prima di tutto verbale, dottrinale, appassionato e anche religioso. Proprio l’omogeneità ideologica della società costituisce il nucleo del regime totalitario, sia sovietico, sia attuale, basato sull’identità comune dell’Uno e degli altri. Chi non vuole iscriversi in questa personalità collettiva va defenestrato, emarginato, esiliato, eliminato in un modo o nell’altro.

La guerra di Putin, dunque? Sì e no. Certo, solo Putin ha dato l’ordine per cominciare l’Operazione militare speciale che, secondo i suoi progetti, avrebbe dovuto essere breve. Tre giorni per prendere Kiev. Tre settimane per schiacciare tutta l’Ucraina. Poi l’osanna della Russia intera, come fu dopo la presa della Crimea, e l’umiliazione dell’Occidente che si morderà le mani nel suo rancore impotente. Poi il restauro graduale dell’impero russo, detto storico, di cui l’Unione Sovietica era solo una tappa provvisoria. Moldova, Georgia, preparatevi! Paesi Baltici, perché no? Se l’Occidente lascia l’Ucraina, lascerà anche la Finlandia che fino al 1918 faceva parte dell’impero russo. L’Europa avrà paura di opporsi alla superpotenza nucleare. Tutti si ricordano la dichiarazione di Putin che la caduta dell’URSS rappresentassela tragedia più grande del XX secolo. Non la Seconda guerra Mondiale con l’Olocausto, non il Gulag. Chi riesce a capovolgere questa tragedia riceverà il premio dalla storia.

L’operazione, però, non è andata secondo i progetti iniziali. Essa è diventata la guerra senza fine che ha coinvolto nel suo corso tutto il paese. Non soltanto militarmente, ma prima di tutto ideologicamente. Nella Federazione Russa attuale non c’è più un’ideologia di Stato di tipo sovietico (proibita tra l’altro anche dalla Costituzione, ancora eltsiniana) ma c’è un’ideologia in atto, il cui pilastro più importante è la vittoria. La vittoria sovietica nella Guerra patriotica è festeggiata il 9 maggio ogni anno con una solennità liturgica crescente mentre la partecipazione degli Alleati è sempre più oscurata. Questa festa non fa accennoalle vittime incalcolabili (nessuno sa la cifra esatta, ma non meno di 30 milioni), ma si basa sempre sulla gloria, sull’invincibilità della Russia. La vittoria è ormai la parte principale di una religione di Stato; tanti bambini nell’età della scuola materna portano con orgoglio l’uniforme militare, mentre mamme sorridenti fanno spesso la gitausando carrozzelle costruite come piccoli carri armati. Nelle strade si possono vedere automobili con sopra l’iscrizione “A Berlino!”. Certo, non tutta la popolazione è tentata da quest’ossessione (di una vittoria indemoniata, secondo l’espressione di un sacerdote ortodosso), ma il vento impetuoso che soffia sulle acque russe è così.

Quel vento soffia anche sulla Chiesa ortodossa perché la guerra in corso ha anche una sua dimensione ecclesiale. Secondo una formula famosa, la guerra, è la continuazione della politica con altri mezzi. Tra questi mezzi il primo posto è occupatodalla demonizzazione del nemico, anche se inventato. Non eravamo noi ad aver attaccato il paese vicino, ma l’Occidente l’ha fatto con le mani ucraine. Noi difendiamo la nostra patria dall’aggressione occidentale, come abbiamo fatto da sempre. Ci difendiamo dai missili che nel futuro, forse, sarebbero stati messi ai nostri confini. Difendiamo la nostra gente dalla corruzione morale, dall’omosessualità totale e infernale, dalla loro democrazia falsa e ipocrita. Se le nostre bombe cadono sugli ospedali, sui teatri, le chiese ed i sistemi energetici in Ucraina (soprattutto sulle città russofone Kharkiv, Odessa, ma anche Kiev) e se lasciamo le città rase al suolo, le bambine stuprate, le tracce delle torture, lo facciamo di nascosto solo per difendere la Santa Rus’ dall’Anticristo.

Di più: difendiamo gli ucraini stessi dal loro ucrainismo, perché la difesa della patria in un caso si chiama patriottismo, nell’altro - nazismo. Come se gli ucraini fossero soltanto dei russi smarriti che vanno puniti per aver ceduto all’appello delle sirene occidentali. Il nome stesso Ucraina è sbagliato, il vero nome suo è Novorossia, la vecchia Russia Nuova. Tutto questo è stato apertamente scritto e proclamato dal Concilio Mondiale Popolare Russo che non è un organo ecclesiale, ma il cui presidente è il patriarca Kirill. Per chi ha un po’ di chiarezza cartesiana nel cervello, si tratta di una pura leggenda politica che comunque funziona. Le guerre non si fanno con le chiarezze, ma con i miti.

Si può capire che sotto un regime dittatoriale la posizione pubblica del capo della confessione più grande del paese non possa essere completamente indipendente. Poca gente è pronta al martirio, come il metropolita di Mosca Filippo, nel XVI secolo, che si è ribellato contro le atrocità di Ivan il Terribile ed è stato perciò ucciso. Ma leggendo i numerosissimi interventi pubblici del patriarca si vede come egli davvero creda alla giusta causa di questo massacro. Nessun dittatore ha affermato quella recente novità teologica secondo cui i caduti russi di questa guerra siano già liberati da tutti i loro peccati e vadano subito nel Regno dei Cieli. Ciò è molto simile all’assoluzione dei peccati garantita ai crociati. La logica dei dittatori, però, è estranea ad argomenti del genere. Nello stesso tempo Sua Santità non ha pronunciato nemmeno una parola di compassione nei confronti delle vittime ucraine della guerra che rimangono ancora, almeno dal suo punto di vista, nel suo ovile ecclesiale.

Così la mitologia della guerra va avanti e si riveste della teologia. Oggi la Russia si proclama il Katechon (2 Ts. 2,6-7), colui che tiene. La Russia si tiene contro l’Occidente come l’Anticristo collettivo e non si contano le vittime di questa battaglia cosmica. A tutti paesi belligeranti mancano i soldati. La Russia chiede che i carcerati - con qualsiasi crimine sulle spalle - prendano le armi, più uno stipendio oltre le stelle, in cambio di un servizio di sei mesi al fronte, per poi essere liberi. La metà di loro ha già perso la vita. Un’altra metà torna in libertà e uccide di nuovo. Qualsiasi protesta in Russia, anche un semplice “no alla guerra” pronunciato pubblicamente può costare qualche anno di galera. Per cosa? Per calunnia alle forze armate o addirittura per terrorismo. La violenza statale ha infettato anche la Chiesa; il patriarca personalmente ha composto la preghiera per la vittoria e l’ha imposta come obbligatoria a tutti i chierici della Chiesa Russa. Chi si rifiuta di leggerla è sospeso o anche ridotto allo stato laicale. La maggior parte dei sacerdoti la legge in buona fede, ma altri - non si sa quanti - col cuore spezzato. Essi sono messi di fronte ad una scelta insopportabile: andare contro la propria coscienza o perdere tutto, condannando la propria famiglia alla miseria. A tutti i crimini della guerra se ne aggiunge un altro: la confusione totale dei cervelli e la violenza sulla coscienza, l’asservimento della verità.

La verità da sempre è la prima vittima della guerra, come anche la nostra capacità di compassione, di empatia, di partecipazione al dolore di un altro essere umano si trovano paralizzate. Un’altra vittima è la nostra facoltà di guardare le cose come sono: un male demografico. Le perdite russe sono davvero terribili (e i cadaveri dei soldati russi sono spesso abbandonati sui campi di battaglia), una rovina economica imminente, una macchia di sangue sullo stesso nome “Russia” nel mondo. Gli sforzi enormi che la guerra chiede alla Federazione Russa minacciano la sua esistenza stessa come paese unito e multinazionale; bisogna essere ciechi per non accorgersi di questo pericolo.

Immaginiamo: dopo aver sacrificato un milione dei suoi soldati, che ormai non daranno figli, dopo aver provocato un’immigrazione di massa dei migliori specialisti e scienziati, dopo aver mandato migliaia e migliaia di giovani che non volevano uccidere in prigione, dopo aver speso mille miliardi di euro per la vittoria militare, dopo aver imposto al paese conquistato un governo fantoccio e la bandiera russa sventolare a Kiev e dappertutto, la Russia finalmente avrà vinto. Con quale guadagno? La conquista di uno spazio completamente rovinato e imbevuto d’odio fino alla gola verso gli invasori che durerà per secoli? Questa guerra non si fa per il guadagno, ma per sconfiggere un nemico inventato. La sagoma di questo nemico cresce, chiude ogni nostra facoltà di riflettere. Una capacità di giudizio sobrio, però, è la virtù più apprezzata nell’Ortodossia.

Qui sta il punto: l’infezione della fede in Cristo con la follia dell’ideologia statale. La confusione della fede ortodossa con la menzogna e gli orrori del regime. Non si tratta di una semplice collaborazione o obbedienza alle circostanze che non si possono cambiare, ma proprio del danno portato all’Ortodossia stessa, del miscuglio del Vangelo con la macchina della propaganda putiniana, ben ingrassata con i soldi dello Stato e che lavora senza sosta. La trasformazione della fede ortodossa in una sorta di religione civile con la sua Santa Rus’, un concetto inventato nel XIX secolo, contro il mondo anglosassone, come nemico eterno e così via?... Con questi fantasmi, con i droni che cadono sui civili in Ucraina e i soldati russi che tornano a migliaia a casa nelle bare di zinco?

Questa guerra si fa non per i soldi, ma per l’orgoglio nazionale. Per il territorio imperiale che resta sempre nostro. Per provare al mondo che siamo i più forti, i più veri, i più perfetti. Quest’orgoglio si può superare solo con l’impegno spirituale che si trova proprio nel patrimonio della fede ortodossa: il pentimento. Perché la spiritualità adatta per una singola persona non è compatibile con una comunità, con la Chiesa di Cristo? L’unico vantaggio che possiamo avere in questo disastro è il risveglio, una nuova spiritualità che crede nell’uomo – il quale è secondo le parole di Sant’Ireneo “la gloria di Dio” – e che ogni essere umano è più prezioso per il Signore di qualsiasi impero.

Vladimir Zelinsky
Pubblicato in Chiese Cristiane
Lunedì, 26 Febbraio 2024 08:59

Navalny: Memoria e immagine (Vladimir Zelinskij)

“Il condannato Navalny dopo la passeggiata si è sentito male, poi si è svenuto. Subito sono arrivati i medici, poi è stata chiamata la brigata del pronto soccorso che – dopo tutte le cure necessarie che non hanno dato un risultato positivo - è stata costatata la morte del condannato”.

Così nel linguaggio della menzogna ufficiale è stato comunicato il decesso del più conosciuto oppositore del regime. Lo scopo di questa notizia è ovvio: creare il quadro della “normalità” - delle cure, del pronto soccorso, ecc. senza nessuna intenzione d’essere creduto. Come se il carcere russo fosse simile a quello norvegese. Navalny è morto nel ШИЗО, cioè nella corsia d’isolamento più severo, nella prigione dentro la prigione dove le passeggiate semplicemente non possono esserci, ma ci sono solo le torture della fame, del freddo, dei muri grigi che ti schiacciano. Nemmeno è possibile di restare sdraiato sul letto perché il letto è adossato al muro per tutta la giornata o sedere sulla sedia, non si può avere le cose personali… una tortura, insomma, anche senza il freddo e la fame per una decina di giorni. Per Navalny questa punizione era già la ventesima dopo aver passato lì in totale 10 mesi.

Navalny prima di tutto è stato conosciuto come combattente contro la corruzione. Nella Russia d’oggi combattere la corruzione significa affrontare il regime mafioso. La Fondazione da lui creata ha svelato tantissime ricchezze, lussuosissimi yacht, ville private disperse in tutto il mondo che appartenevano (e appartengono anche oggi) ai funzionari di Stato di più alto rango. È diventato famoso il suo film sulle proprietà di Medvedev, all’epoca primo ministro, il cui il costo è uguale al corrispettivo di circa 1300 anni del suo stipendio ufficiale. Il film è stato guardato da più di venti milioni di spettatori russi, ma nessuno nella Duma o sulla stampa ha osato chiedere l’indagine. La Russia d’oggi è così. Ma quando Navalny ha mostrato il palazzo personale di Putin, fantastico per la grandezza, il lusso ed il prezzo, tanta gente cominciava aspettare la reazione.

E la reazione non è tardata, Navalny è stato avvelenato durante un volo ed è giusto scampatoalla morte solo perché l’aereo ha fatto una fermata non pianificata. Poi è stato trasportato in Germania, dove è guarito quasi per miracolo. È tornato in Russia, ed è stato arrestato subito alla frontiera per dei crimini inventati dal regime. Una condanna è seguitaall’altra: 9 anni per le truffe, 19 anni per la creazione di una società sovversiva, cioè la sua Fondazione. Navalny non ha perso il suo coraggio, l’intelletto, il suo carisma e neanche il suo senso dell’umorismo. Di più: anche nel carcere ha continuato l’attività politica. Dal carcere uscivano gli appelli alla resistenza. Su internet è facile trovare la sua foto in carcere, con l’iscrizione: “Io non ho paura, non l’abbiate neanche voi”. È difficile non avere paura nella Russia di oggi dove per le semplici parole “No alla guerra” qualsiasi cittadino può essere preso e condannato. Per cosa? Per calunnia all’esercito o addirittura per terrorismo. È chiaro che quest’uomo è diventato il volto della resistenza quando ogni volto umano è offuscato dalla paura.

Adesso è arrivato l’ultimo contraccolpo. Navalny è morto. Anzi è stato ucciso. Per il momento nemmeno il suo corpo è stato rilasciato ai suoi cari. Il Cremlino ha già dichiarato che la morte di Navalny si stata una provocazione dei servizi segreti ucraini per recare danno all’immagine della Russia o qualche cosa del genere. Bisogna essere davvero drogati dalla propaganda per prendere sul serio una simile versione.

La vita di Navalny è finita. Adesso sta per partire una altra vita, quella della memoria e quella dell’immagine che entrano nella storia. La memoria e l’immagine hanno una forza incredibile che senza dubbio faranno il proprio lavoro in quel paese libero e giusto che la Russia, forse, diventerà un giorno. Oggi essa è spaccata in due, con uno scisma così profondo simile a quello della guerra civile di più di cento anni fa e nel centro di questa spaccatura si trova la guerra che è in corso. Non solo la guerra, ma tutto ciò che si nasconde alle sue spalle. Ma la nostalgia dell’URSS, anche staliniana, la dittatura senza vergogna, la corruzione senza limiti non sono il destino eterno della Russia. Un sacrificio così nobile, come quello di Navalny, così pieno di senso deve rimanere per sempre nel cuore della Russia. Navalny non è soltanto un eroe – cosa che è ovvia – ma un eroe profetico. Navalny ha trovato il nucleo, il motivo principale, la radice della sua azione proprio nella fede cristiana, da poco scoperta. “Faccio tutto, - lui disse all’ultimo processo di due anni fa nella sua maniera abituale che sfiorava lo scherzo, - secondo l’istruzione. La mia istruzione è il Vangelo dove è scritto «Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati»”.

Vladimir Zelinskji

 

 

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Giovedì, 21 Dicembre 2023 10:51

L'Ortodossia in Italia (Vladimir Zelinskij)

Il tema è vasto, ma poco conosciuto. Gli ortodossi sono accanto a noi, ma spesso non sono tanto visibili. Non appaiono nello spazio culturale e nelle comunicazioni; noi vediamo solo badanti, commercianti, turisti, mogli degli italiani... Da un anno anche profughi e non solo ucraini. Ma anche molto prima della guerra, i cosiddetti immigranti economici sono venuti in massa da più di tre decenni; così sul nostro continente si è creato un Arcipelago di comunità ortodosse che appartengono a Chiese diverse. Sono davvero tante.

In Italia, un paese, probabilmente, più aperto agli “ospiti” irregolari, ancora negli anni ‘70-80 del secolo scorso si potevano contare poche chiese ortodosse, per quanto io sappia. Quattro russe: a Firenze, a Bari, a Sanremo e a Merano. Una greca a Venezia, una serba a Trieste, due o tre rumene... Le tre ondate dell’emigrazione ex-sovietica - la prima dopo la Rivoluzione Russa del 1917, la seconda durante la Seconda Guerra mondiale, la terza negli anni ‘70 sotto la copertura, spesso finta, dell’emigrazione in Israele – e l’esodo dei greci dall’Asia Minore, non hanno lasciato in Italia tante tracce ecclesialmente visibili. La quarta ondata, invece, la più massiccia сhe continua ancora adesso, è iniziata con il crollo del comunismo nell’Est europeo all’inizio degli anni ‘90, quando le frontiere sono diventate finalmente attraversabili. Adesso siamo presenti davanti alla quinta ondata, quella dei profughi che scappano dalla guerra: milioni ucraini, centinaia di migliaia di russi.

Così l’Europa si è trovata di fronte ad una nuova realtà, anche sul versante religioso. Ma non lasciamo al margine l’immigrazione da altri paesi dell’Est, prima di tutto dalla Romania, la più numerosa, poi dalla Moldova, dalla Russia, dalla Serbia e dalla Giorgia, molto meno numerosa, naturalmente. Quest’immigrazione non ha fatto tanto rumore quanto le barche che arrivano dall’Africa. In passato una persona arrivava con il visto turistico (o senza visto, come i rumeni, che dal 2007 sono cittadini europei), cercava e trovava un lavoro – prima in nero, poi in regola – e rimaneva per un tempo indeterminato, spesso per sempre. Centinaia di migliaia di famiglie italiane, con i propri cari anziani, ospitano in casa una badante ucraina o rumena, in possesso del permesso di soggiorno o priva di documenti, in modo illegale. Dopo l’inizio della guerra l’Europa ha compiuto un gesto di una grande generosità: i profughi ucraini ricevono questo permesso nel giro di qualche settimana.

Noi, in Europa, siamo abituati a pensare ancora all’Ortodossia in termini etnografici, come confessione destinata a rimanere sempre orientale, senza quasi accorgersi che già da tempo esiste un’Ortodossia occidentale: francese, inglese, tedesca – senza parlare di quella americana, che ha una sua Chiesa autocefala... Ma un’ortodossia propriamente italiana ancora non c’è. Esistono le parrocchie di Costantinopoli, di Mosca, di Bucarest. Non meno di 500 comunità, delle quali 300 circa sono rumene. La maggior parte di esse usufruisce dell’ospitalità della Chiesa Cattolica. Sommando il tutto, si possono contare un paio di milioni di fedeli di origine ortodossa, forse, di più, ma essi restano dispersi tra la popolazione e per la maggior parte svolgono i lavori più umili, spesso non sono identificabili nello spazio pubblico. Non costruiscono una comunità, non si sentono, direi, una minoranza religiosa perché non sono uniti sulla base confessionale, ma piuttosto divisi – non soltanto etnicamente e linguisticamente, ma anche ecclesialmente. Si possono contare in Italia sei o sette Patriarcati canonici, oltre ad una nebulosa incerta di Chiese non canoniche, che non sono riconosciute dalle altre grandi Chiese nazionali e che non si trovano in comunione con loro. Molto spesso non sono in comunione neanche tra di esse. Alcune di queste Chiese appartengono alla cosiddetta “vera ortodossia”, una versione di lefebrismo orientale. Le altre non canoniche sono alcune piccole chiese proprio italiane, che non vogliono dipendere dalle comunità straniere e cercano di creare un’Ortodossia locale a modo loro, ma rimanendo fuori dalla comunione con l’Ortodossia mondiale perché non si può fondare una Chiesa solo a partire dal proprio progetto.

Le Chiese “straniere”, però, anche se perfettamente canoniche, non sono in regola con il principio ortodosso: per ogni paese la sua Chiesa, secondo le parole di San Paolo: La Chiesa di Dio che è in Corinto (1Cor 1,1). Canonicamente è assurda la coesistenza sullo stesso territorio delle diverse Chiese di Dio in comunione eucaristica tra di loro, ma che sul piano umano non si conoscono. Hanno i corrispondenti vescovi che dovrebbero costituire una Chiesa sola, ma sono separate da muri etnici che è quasi impossibile superare. Almeno per due motivi. Le Chiese Madri non vogliono in nessun modo lasciare andare le loro Chiese figlie che si trovano oltre frontiera poiché vogliono mantenere i fedeli per sé, per le cosiddette “cure spirituali” come anche le proprietà, se ci sono. Ma anche gli stessi fedeli non sono pronti a lasciare le proprie abitazioni ecclesiali dove spiritualità, lingua, abitudini nazionali – direi anche l’aria stessa della patria – formano una cosa sola.

Tutto questo si è manifestato in modo ancora più forte con la guerra e l’arrivo dei tanti profughi ucraini e le nuove tensioni. Faccio un esempio. Nella mia parrocchia a Brescia, alcune vecchie e fedelissime (cioè, non meno da 10-15 anni) parrocchiane non vogliono frequentare più una comunità dipendente, anche in modo formale dal Patriarcato di Mosca. Vi ricordo che il nostro Arcivescovado delle Chiese Ortodosse della tradizione russa fino al 2019 faceva parte del Patriarcato di Costantinopoli. Poi, nel 2019 il Patriarca Bartolomeo ha cambiato il nostro statuto diluendo l’Arcivescovado delle Chiese Ortodosse in Europa Occidentale della tradizione russa – che esisteva dal 1921 – nelle diocesi greche che sono presenti dappertutto. La maggior parte dell’Arcivescovado non ha accettato questo cambiamento e ha aderito al Patriarcato di Mosca, ma come diocesi autonoma, cioè che fa parte del Patriarcato, ma non si trova sotto la guida giuridica del Patriarca e del suo Sinodo. Tutto questo era quasi normale per la nostra parrocchia con una presenza al 90% ucraina anche prima della guerra – questa guerra sostenuta oggi pienamente e teologicamente dalla Chiesa di Mosca. Ma un piccolo gruppo di parrocchiani non ha potuto accettare questa dipendenza, anche se puramente simbolica. Accanto c’è un’altra piccola minoranza che sta per staccarsi perché una preghiera non formale per l’Ucraina sofferente e la non commemorazione liturgica del patriarca per loro è diventata insopportabile.

La situazione è ancora più complicata perché le radici della divisione si trovano nell’Ucraina stessa con la sua spaccatura ancora molto dolorosa che ha diviso tra loro tanti milioni di ortodossi. Una parte fa il riferimento al Patriarcato di Costantinopoli, un’altra molto più numerosa dipendeva da Mosca, ma dal maggio dell’anno scorso è formalmente indipendente. Senza Mosca o no, questa Chiesa del metropolita Onufrij rimane la Chiesa-madre con cui essi non possono rompere, neanche nella tragica situazione attuale.

Gli ucraini hanno portato con se all’estero tutte queste divisioni e ferite. Al pari dei russi, che una volta erano i cosiddetti bianchi, e che hanno portato nell’emigrazione e non solo in Occidente le loro ferite e rotture interne tra diversi orientamenti politici e ecclesiali che non si sono cicatrizzati fino ad oggi. E le altre Chiese? Secondo me, tutte soffrono della loro “ghettizzazione”, come può essere chiamata la loro mentalità ecclesiale – senza che nemmeno se ne accorgano. Per quanto ne sappia, la Chiesa rumena, numericamente la più presente in Europa, costituisce una comunità compatta, abbastanza ecumenica, ma ripiegata su stessa. Come anche la Chiesa greca, cioè di Costantinopoli, vive nel suo mondo; ci sono in Italia tanti greci già di madre lingua italiana, che si presentano come ortodossi, ma che spesso vanno in chiesa solo dove la celebrazione è in greco. La stessa cosa è con la comunità serba e con le altre – con alcune eccezioni, naturalmente.

Direi in generale che noi ortodossi, che abitano fuori dei nostri paesi d’origine, ci siamo ritrovati nella gabbia dorata dell’etnofiletismo, condannato sempre in teoria, trionfante sempre nella pratica. Tanti nostri teologi sono convinti che debba nascere in Italia una Chiesa ortodossa autocefala, o almeno nell’Europa Occidentale, ma nessuno la vuole. I fedeli vogliono rimanere nel proprio ghetto nazionale, senza nemmeno conoscere gli uni gli altri.

A questo isolamento bisogna aggiungere anche una vecchia e fatale divisione tra gli ortodossi ed i greco-cattolici. Formalmente, questi ultimi sono cattolici, in Ucraina dal 1596, ma solo formalmente. Tutte e due sono grandi comunità – la greco-cattolica, numerosa e ben organizzata con le sue circa 160 parrocchie in Italia, e l’ortodossa, appartengono non solo alla stessa etnia, ma allo stesso luogo di provenienza, alla stessa lingua, molto spesso condividono anche una religiosità popolare simile.

Nonostante tutte queste divisioni, rotture, ferite, la Chiesa Ortodossa Italiana è in lenta, direi anche, lentissima maturazione. Nelle famiglie degli immigrati della prima generazione crescono i bambini, giovani con la mentalità europea e la madre lingua italiana. La nuova generazione degli ortodossi, legata solo in modo simbolico al paese dei genitori, è comunque in arrivo. Di sicuro questa generazione dovrà svelare la propria identità in senso confessionale e culturale. Gli adolescenti di oggi o i loro figli avranno la voglia di diventare proprio ortodossi italiani, anche in senso strutturale, giurisdizionale e prima di tutto spirituale. I profughi non nascono, vivono tutta la vita e muoiono come profughi. Ma le mentalità strettamente nazionali rimangono l’ostacolo principale per la formazione di un’Ortodossia Italiana o, forse, Europea come un unico corpo, che comunque si affaccia all’orizzonte.

Dobbiamo renderci conto, però, che una fusione decisa “dall’alto” di tutte queste parrocchie (rumene, russe, greche, serbe) in un unico corpo ecclesiale, sarebbe canonicamente buona e giusta, ma porterebbe subito alla creazione spontanea di piccole comunità filetiste, le quali non accetterebbero questa rottura con la propria terra d’origine, anche se in pratica tutto – la lingua e le tradizione locali – rimasse come prima. In altre parole, si potrebbe prevedere un nuovo scisma, la cosa che tutte le Chiese ortodosse temono di più. Nel passato ce ne sono stati tanti. Nel presente, anche di più. Basta ricordare ancora quella linea di divisione che separa Mosca, cioè l’Ortodossia Russa, e Costantinopoli, cioè, l’Ortodossia greca, provocata dalla creazione della Chiesa Ucraina indipendente. È come se l’universo ortodosso fosse spaccato in due. La Chiesa unica sul territorio italiano deve nascere dopo una lunga gestazione sulla base della spiritualità comune e del dialogo con le altre Chiese cristiane. Profittando di questa tribuna vorrei ricordare ai nostri cari ortodossi che le Chiese nazionali separate sul territorio di un’altra nazione, anche per le cure spirituali dei profughi, non è proprio quello che Cristo ha chiesto al Padre nella sua preghiera sacerdotale.

Questa nuova Chiesa può portare il messaggio dell’Ortodossia riscoperta all’interno della società occidentale, per entrare in un dialogo spirituale, etico e filosofico con il cristianesimo occidentale, per aprire uno spazio di confronto e di dibattito. L’Ortodossia è vista spesso in Occidente come la confessione più vecchia che ha perso il treno dell’epoca moderna e, da un punto di vista superficiale, questo potrebbe essere parzialmente vero. Non dimentichiamo che la maggior parte delle Chiese ortodosse sono state incatenate per una buona parte del XX secolo e quando sono uscite dai regimi ideologici hanno deciso di cercare la propria identità nel proprio passato. L’Ortodossia in Occidente nata dopo tante prove, catastrofi, necessità è un’opportunità provvidenziale per la propria rinascita, la nascita nuova, piena delle sue ricchezze secolari, ma liberata dal suo glorioso passato nazionale, dal peso del nazionalismo, dal peso della storia, vissuta nella sua riserva etnica e sociale, separata dagli altri. Mi pare che il cristianesimo occidentale abbia bisogno della testimonianza ortodossa, ma non quella venuta dall’estero – quella nata proprio sul suo territorio, con le sue esperienze, con la sua visione di persona, d’essere umano. L’Occidente e l’Oriente cristiano hanno creato due antropologie diverse e tutte le difficoltà del dialogo ecumenico provengono da questa mancanza di comprensione reciproca. Credo che il concetto o la visione dell’uomo nella Chiesa d’Oriente e nella Chiesa d’Occidente, come anche nelle Chiese della Riforma possa diventare il tema principale del dialogo dei Convegni futuri.

Questa Chiesa appena nata o che sta per nascere avrà bisogno di uno spazio culturale, dei mezzi di comunicazione, della possibilità di scambiare le notizie. Di comunicare con le altre Chiese e con la società civile, ecc. Credo che si tratti di un avvenire non proprio lontanissimo. Credo anche che la nostra unità per cui Cristo ha pregato con i suoi discepoli, abbia maggiori opportunità di essere scoperta in esilio – nell’esilio inteso come patria di una Chiesa nuova, di una nuova Ortodossia.

Vladimir Zelinsky

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Quando il clima civile della società lancerà una sfida simile – la sfida del servizio femminile istituzionale nella Chiesa – quest’ultima comincerà a cercare la risposta. Il processo è già in corso, ma di sicuro non sarà veloce.

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Questa Pasqua ha aggiunto un po’ di sobrietà alla nostra fede, ha tolto un po’ dell’elemento magico. Non per tutti, però. Tuttavia, questa triste lezione rimarrà per lungo tempo. Anche per noi.

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Domenica, 19 Maggio 2019 18:50

Andate in tutto il mondo (Vladimir Zelinskij)

"Andate in tutto il mondo", dice Gesù, ma il mondo è cambiato enormemente e il suo cambiamento continua anche davanti ai nostri occhi. Viviamo in un mondo in cui il sapere umano è cresciuto così che può superare le capacità mentali dell’uomo stesso.

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La teologia cristiana in generale e, al suo interno, quella protestante entrano in dialogo con il cristianesimo pentecostale e con gli sforzi di nuove inculturazioni dell'Evangelo alla ricerca di piste nuove per una più ampia e profonda conoscenza dello Spirito.

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Una grande crepa è apparsa nell’universo ortodosso e ha la tendenza ad allargarsi. Una vera saggezza spirituale si chiederà in futuro da parte dei capi delle Chiese per guarire questa ferita che, a dire la verità, maturava da secoli. Questa guarigione, se verrà, potrebbe diventare anche il modello o, almeno, il primo passo per la riconciliazione tra tutti i cristiani.

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Martedì, 04 Settembre 2018 11:06

Parola divina e parola umana (Sergej Averincev)

Oggigiorno alla fede nella Rivelazione si contrappone una sfida totalmente nuova, che ha preso il posto del defunto ateismo: la sfiducia nella parola in quanto tale, l'ostilità verso il Logos. Che cos'è successo?

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