Ecumene

Martedì, 04 Settembre 2018 11:06

Parola divina e parola umana (Sergej Averincev)

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Oggigiorno alla fede nella Rivelazione si contrappone una sfida totalmente nuova, che ha preso il posto del defunto ateismo: la sfiducia nella parola in quanto tale, l'ostilità verso il Logos. Che cos'è successo?

In principio era il verbo»: a ogni lettore, sia pur inesperto, del Vangelo di Giovanni, balza evidente il nesso ideale esistente fra questo «in principio» e un altro «in principio», che apre il Libro della Genesi e insieme l'intero corpo della Bibbia: «In principio Dio creò il cielo e la terra». Il Libro della Genesi passa subito dopo a narrare di come Dio creò l'essere dal non-essere, e cioè esattamente attraverso il suo Verbo. «Dio disse: "Sia la luce!". E la luce fu». Il Creatore diede esistenza al creato chiamando le cose per nome, rivolgendosi ad esse, osiamo dire dialogando, parlando ad esse; ed esse cominciarono ad esistere, perché esistere significa permanere entro un dialogo, entro un rapporto. Del resto, ciò che l'Apocalisse definisce come «seconda morte» non è forse il volontario e definitivo distacco dell'intelletto creato da Dio, per l'eternità, la rottura della comunione, il rifiuto di ascoltare e di essere uditi? Invece del dialogo, iniziato «in principio» per continuare eternamente, assistiamo a un permanere al di fuori del dialogo, un permanere anch'esso eterno, ma solo perché il dialogo è eterno. Chi intende il linguaggio biblico comprenderà senza fatica che il «principio» di cui si parla in entrambi i casi è qualcosa di più della categoria cronologica del Big Bang, del punto d'inizio del tempo, del momento 0, del punto originario della durata fisica. Già la parola greca αρχη ha una semantica straordinariamente ricca, di «principio» ontologico (cioè principium), traduzione latina del greco αρχη in particolare nei due testi in esame, che nella traduzione della Vulgata suonano quindi «In principio erat Verbum» e «In principio creavit Deus coelum et terram»). È la semantica del fondamento originario, dell'origine dell'essere (si pensi ai termini tedeschi «Urgrund» e «Ursprung»). Quando Origene scrisse la sua opera Περι αρχων, voleva parlare appunto dei «principi» e dei «fondamenti» della realtà. Ma proseguiamo: in entrambi i testi biblici dietro la parola greca c'è la semantica semitica. In ebraico la parola «principio» ha la stessa radice della parola «testa». Aquila, che nel II secolo tentò di fare una nuova traduzione greca dell'Antico Testamento sulla base di una rigida letteralità, superando abbondantemente in angolosa puntualità la traduzione dei Settanta, non tradusse «in principio», ma «in testa», 'εν κεφαλιω. Il Verbo divino non è semplicemente la «causa efficiente», causa efficiens, secondo la terminologia scolastico-aristotelica, e attraverso questa funzione causale il principio temporale di tutti i processi mondiali; costituisce anche la causa «formale» e «finale» della realtà, in quanto «Testa», cioè Archetipo degli archetipi e Fine dei fini.
Bisogna essere freddi dottrinari-teisti alla Voltaire per ostinarsi ad affermare – dopo aver ammesso che Dio, oppure, nella lingua del deismo, l'«Essere Supremo», abbia dialogato con la creazione nell'atto creativo che sta all'inizio del mondo – per affermare, dunque, che in seguito Egli si sia immerso in un completo silenzio e non abbia più detto né dica niente a noi, rinserrandosi in se stesso. Si può capire la conclusione che da questa concezione trae Alfred de Vigny, quando propone al saggio di «rispondere con un freddo silenzio al silenzio eterno di Dio» («la silence eternelle de la Divinité»). Silenzio, del resto, qui non è la parola più adeguata. Silenzio può essere anche il silenzio mistico, cioè un particolare (e anche particolarmente intenso) modo di chiamare (non solo Dio, ma anche gli uomini talvolta sanno tacere in modo quanto mai eloquente); può essere, come la «notte spirituale» di san Giovanni della Croce, una pausa nel dialogo, che provoca fruttuosamente l'interlocutore e struttura il dialogo. No, Vigny, come i deisti, la concezione dei quali egli rende oggetto di riflessione poetica, intende la semplice e vuota assenza di comunicazione. Ma un dio di questo tipo, non silenzioso bensì completamente sprovvisto di parole, «incapace di comunicare», esiste solo nella cupa immaginazione intellettuale dei liberi pensatori dell'Europa moderna.
L'intuizione religiosa universale dell'umanità, per bocca di pagani, ebrei, musulmani e cristiani, afferma il contrario. Su questo punto è unitaria. Oltre, però, comincia la grande divisione delle menti.

Le «voci» del mondo pagano

Il paganesimo, storicamente precedente le tappe della Rivelazione divina (poiché dal paganesimo fu chiamato Adamo, «padre di tutti quelli che credono», Rm 4,11, e i popoli prima pagani diventarono ognuno a suo tempo cristiani, ripetendo l'«esodo» di Abramo dalla propria esistenza tribale) coesiste in seguito con la fede biblica, come suo sfondo indivisibile, come tentazione continuamente ricorrente, come inerzia della natura che si contrappone al miracolo, come forza di gravità pronta ad ogni istante a ricordare la propria presenza, non appena si indebolisca lo slancio del volo; anche ai giorni nostri è pronto – diciamo, nelle forme della New Age, cioè integrandosi con lo gnosticismo – a subentrare alla fede biblica, condividendo il potere sui cuori, come era già avvenuto negli ultimi tempi di Roma, con l'incredulità vera e propria. Del resto, che cos'è il paganesimo? Bisogna essere giusti nei confronti del paganesimo, per lo meno è un fenomeno «naturale»: il concetto innaturale di incomunicabilità ontologica, di interruzione della comunicazione tra i livelli della realtà gli è estraneo. Per il pagano il mondo è pieno, come disse a suo tempo Eraclito, di «dei, demoni e anime», e quindi anche di voci: il fruscio degli alberi e il volo degli uccelli, il delirio dell'estasi narcotica (come per la Pizia) e le oscure immagini dei sogni, i battiti e i fruscii di folletti o sedute spiritiche, tutti questi elementi trasmettono tali voci fino all'orecchio dell'uomo. Sono molte, troppe. Come scherzava un antico scettico romano, è più facile incontrare un qualche dio, che non l'uomo. Proprio per questo, tuttavia, neppure una voce possiede una definitiva, superiore affidabilità. Esiste una massa di oracoli ad hoc, ma nessuna Rivelazione. L'oracolo è locale, non universale («di Delfi», «di Dodona»), non si rivolge al mondo, ma solo all'individuo che gli sottopone una domanda, e generalmente il suo contenuto resta nei limiti della situazione concreta. Inoltre giunge al destinatario attraverso una serie di interventi naturali e umani; ad esempio, la Pizia pronunciava nell'estasi parole sconnesse, ma il pellegrino giunto a Delfi per interrogarla riceveva torniti esametri elaborati dai sacerdoti incaricati di tradurre le sue profezie, e questo non era un segreto né turbava alcuno. Oppure la «voce» veniva trasmessa dal fruscio delle foglie della quercia di Dodona, o dal volo degli uccelli osservato dagli auguri. Il paganesimo infatti è naturale anche in questo senso: intuisce la distanza tra i livelli della realtà esattamente nello spirito del buon senso pratico, secondo cui quanto più una cosa è in alto, tanto più è lontana. Per giungere fino a noi, che ci troviamo in basso, le voci dall'alto devono superare una distanza, scendono verso di noi sottomettendosi alle leggi dell'acustica, e giungendo quasi come l'eco di se stesse.
La Rivelazione in senso dottrinale per il paganesimo è impossibile anche per il motivo che al paganesimo non verrebbe mai in mente che gli dei possano trasmettere i loro segreti all'uomo, violando il pathos della distanza (naturalmente, il paganesimo è in contraddizione con se stesso; nei culti misterici, nelle dottrine sacerdotali esoteriche, diciamo, dell'Egitto o dell'India, nelle correnti di natura orfista o pitagorica appare un rapporto più ardito verso i misteri degli dei, ma è già sintomatico che questo rapporto fosse strettamente riservato alla cerchia degli iniziati, e non diventasse regola comune). Dal punto di vista della norma pagana, all'uomo basta che le voci di altri mondi gli diano consigli nelle sue vicende personali, umane, come avveniva appunto solitamente per gli oracoli. Questa saggezza pratica, questo buon senso pagano che non esce dall'ambito della realtà naturale, la sua umanamente comprensibile esitazione nei rapporti con ciò che eccede tale ambito, impedì io sviluppo e la vittoria nel corso dell'«evoluzione delle idee» di quegli elementi di monoteismo che non è difficile trovare in ogni forma di paganesimo, particolarmente arcaica, oppure al contrario filosoficamente elaborata. L'Altissimo, se esiste, e addirittura soprattutto se esiste, dal punto di vista del pagano si trova così in alto, che è impossibile far giungere il proprio grido fino a Lui, e anche solo far memoria di Lui è un imperdonabile passo falso; il Dio Uno è talmente grande, che l'uomo non può condividere niente con Lui. Chi è alla portata dell'uomo, il suo interlocutore reale, è il dio locale, la divinità piccola, lo spirito, il demone. Quanto più si scende sulla scala che si innalza sopra le nostre teste, tanto più, evidentemente, ci si avvicina a noi. Logico, non c'è che dire. Tanto più sorprendente la decisione con cui la Bibbia respinge questa logica.
In che cosa, propriamente, il monoteismo biblico si differenzia dal politeismo pagano? Per il fatto che il concetto di Unità in senso puramente numerico si contrappone al concetto di molteplicità? Oh no, le cose non sono così semplici. La critica razionalista dell'unicità della Rivelazione biblica del Dio Uno ama, per abitudine, sostituire la frattura con l'evoluzione, indicando gli elementi monoteisti delle credenze pagane e quelli che richiamano il politeismo nelle religioni monoteiste, che riconoscono ad esempio l'esistenza degli angeli, o in generale di «Forze» cosmiche e sovracosmiche. E la critica in quanto tale, all'interno della sua concezione, è giusta. Se la differenza consistesse solo nel problema delle «Forze» o di un misterioso Dio Uno che sta dietro tali «Forze», la si potrebbe intendere - senza cadere in una grossolana mistificazione - come una differenza quantitativa, e non qualitativa. Anche nei pagani si può trovare una certa conoscenza del Dio Uno, così come nella fede biblica si può trovare il concetto di «Forze» che servono, oppure, nel caso della caduta, si oppongono inutilmente al Dio Uno. Ma la vera differenza non è affatto qui. Perché i pagani narrano miti su molti dei, invece di occuparsi del Dio Uno, perché chiedono aiuto a dei, semidei, minuscole divinità locali e demonietti, invece di pregare il Dio unico? Perché dal loro punto di vista il Dio unico non può essere assolutamente una divinità personale, «intima» all'uomo. Lo spirito del focolare e lo spirito dei boschi sono vicini, lo stregone attraverso cui io posso entrare in contatto con essi, è ancor più vicino, mentre Colui che ha creato il cielo e la terra è vertiginosamente lontano (tutti sanno che questa logica pagana ritorna continuamente come «doppia fede» nei popoli già battezzati). Di contro, tutta la sostanza della fede biblica è espressa nelle parole che aprono il salmo 62 (63), purtroppo intraducibili in tutta la loro portata di significato. «O Dio, tu sei il mio Dio»; qui per la prima volta è usato il nome di Dio (Elohim), che viene usato nelle già citate parole iniziali del Libro della Genesi sulla creazione del cielo e della terra. «Elohim» è, per così dire, il Dio Supremo, Uno, a cui i prudenti pagani non osavano neppure pensare, di cui i filosofi ragionavano solo in termini astratti («Uno», eccetera). Ed ecco che la santa follia e la beata audacia della fede biblica dicono l'impensabile: proprio Lui, che supera ogni vivente, Lui, davanti al quale tutti gli «dei» sono servi oppure una menzogna, ebbene, Lui per me è il «mio» Dio, a cui io appartengo e che appartiene a me, più intimamente di quanto ogni altra divinità domestica del paganesimo, i «lari» o i «penati», appartenessero al mondo del padrone di casa. Colui che è più alto di tutti non è il più lontano da chi sta in basso, ma al contrario è il più vicino. Le parole del Corano, secondo cui Allah è più vicino all'uomo della sua vena giugulare, non sono che un'eco, una parafrasi delle parole bibliche.
Che cos'è dunque la Rivelazione, la Parola che Dio pronuncia su se stesso, la sua iniziativa nel dialogo con la sua creatura?

La Rivelazione materializzata in un Testo

L'ebraismo e l'islam rispondono in modo univoco a questa domanda: la Rivelazione è un Testo, il Libro dei Libri, rispettivamente la Torah (e il «Tanak» nel suo complesso), o il Corano. La Rivelazione si è materializzata in un Testo, si è unita e fusa con esso, dalla prima all'ultima sua lettera. Non a caso la tradizione religiosa ebraica ama tanto enumerare le lettere della Scrittura, riflettere sulle sue lettere appunto in quanto lettere, sulla loro grafia e in particolare sul loro significato numerico (la cosiddetta gematria, particolarmente sviluppatasi nelle correnti cabalistiche, ma esistente anche all'infuori di esse). All'ebraismo non è estranea neppure l'idea della preesistenza precosmica della Scrittura, elaborata poi con definitiva precisione dalla riflessione teologica islamica: l'originale, l'«archetipo» del Corano esisteva già prima della creazione del mondo, e rispetto ad esso l'autografo di Maometto non rappresenta, propriamente parlando, che una copia.
E il cristianesimo? I teologi dell'islam dividevano l'umanità in due categorie: i pagani e gli «uomini del libro» (ahl al-kitab). A questo secondo gruppo essi attribuivano gentilmente, oltre agli ebrei, anche noi cristiani. È adeguata questa definizione nei nostri confronti? Vi sono molti motivi per essere d'accordo. Non crediamo forse nella Sacra Scrittura, custodita dalla Chiesa come Testo conchiuso, perfetto in se stesso, «canonico» dal Libro della Genesi al Libro dell'Apocalisse, da «In principio Dio creò il cielo e la terra...» fino a «Vieni, Signore Gesù!»? La riflessione teologica cattolica ha elaborato una dottrina ampiamente accettata anche nel dibattito teologico ortodosso, sulla Sacra Scrittura e sulla Sacra Tradizione come «fonti» complementari della Rivelazione (almeno formalmente paragonabile alla concezione ebraica della «Torah scritta» e «Torah orale»). In effetti, questa dottrina cattolica apparve nell'epoca del Concilio di Trento per necessità di rispondere al motto protestante «sola Scriptura» (formula di Lutero), e la sua assimilazione ortodossa si localizza fondamentalmente a livello degli istituti di formazione del clero. In ogni caso, alle fonti del cristianesimo noi incontriamo la formula «come sta scritto», sia sulle labbra dello stesso Cristo che sotto la penna di san Paolo. «La Scrittura non può essere annullata» - dice Gesù ai suoi persecutori (Gv 10,35). Il Nuovo Testamento insiste sul valore assoluto di quanto è detto nella Scrittura: «Nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione, poiché non da volontà umana fu recata mai una profezia» (2 Pt 1,20-21).

«E il Verbo si è fatto carne...»

Se questa è la tesi, esiste però un'antitesi. Il Simbolo di fede cristiano parla come oggetto di fede delle tre Ipostasi della santa Trinità e della Chiesa; non menziona la Scrittura come particolare oggetto di fede. Alla fede degli scribi ebrei nella lettera del testo della Torah si contrappongono le parole dello scriba pentito, Paolo: «La lettera uccide, lo Spirito dà vita» (2 Cor 3,6). Alla fede islamica nella preesistenza del Corano, cioè di un Testo, si contrappone la fede cristiana nella preesistenza di Gesù Cristo, cioè di una Persona. Non è privo di interesse il fatto che Cristo non abbia scritto nulla, rivolgendosi agli uomini solo con la parola viva, immediata, sonante, di cui le trascrizioni degli evangelisti non sono che una semplice ripetizione. Lo stesso Paolo dice che la vera «lettera» (sia dell'apostolo, sia di Cristo che lo ispira) agli uomini, e quindi il vero «testo», sono i credenti stessi nella loro esistenza personale, che lo Spirito di Dio scrive «non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori» (2 Cor 3,2-3). Per gli autori stessi del libro che porta la croce in copertina, e che chiamiamo Nuovo Testamento, il «Nuovo Testamento» non è il titolo di un Testo materializzato, ma la definizione della Chiesa stessa, della «Vita nuova» (Rm 6,4, da cui Dante trarrà il titolo della Vita nova). Proprio perché la Rivelazione per il cristianesimo si identifica con il testo con severi limiti canonicamente definiti, e al tempo stesso soverchia i limiti di ogni testo, collocandosi in quella «lettera» viva di cui parla san Paolo, appare così tragicomica la controversia (portata sino all'assurdo), sul Cristo «storico» e «kerygmatico».
Se conosco una certa persona, conosco altri che la conoscono meglio di me, intrattengo con essa determinati rapporti, e poi ricevo da questa persona una lettera particolarmente importante, che mi costringe a prendere una decisione, siamo in una situazione logica; ma se la lettera deve bastare da sola a dimostrare l'esistenza del mittente, l'esistenza delle mie relazioni con lui eccetera, siamo in un vicolo cieco. Con tutto il rispetto sia per i Padri della Riforma, sia per i Padri del Concilio di Trento, sia per la scienza teologica ortodossa che ha fatto propria la formula tridentina, per le ragioni storiche di Lutero che sosteneva gelosamente la dignità della Scrittura, come pure dei polemisti cattolici e ortodossi che difendevano la Tradizione, ebbene, con tutto questo mi arrischio a dire che né la «sola Scriptum» di Lutero, né il dualismo tridentino «Scrittura e Tradizione» rendono adeguatamente il concetto cristiano di Rivelazione. La Chiesa esisteva già, quando il canone neotestamentario non esisteva ancora (mentre la scrittura del Corano precede la nascita della comunità islamica). La Scrittura esiste all'interno della Tradizione e all'interno della Chiesa, e non viceversa. Agostino ha tutte le ragioni di dichiarare che crede al Vangelo solo perché del Vangelo, a lui, Agostino, si fa garante la Chiesa. Soltanto, per comprendere giustamente le sue parole, bisogna abbandonare la concezione di Chiesa come semplice «istituzione» sociale. Agostino non intende dire che obbedisce ai «superiori» ecclesiastici, come un funzionario obbedirebbe ai suoi superiori. Per lui la Chiesa è l'esperienza viva dei santi, la «lettera» scritta sulle tavole di carne dei cuori, di cui parlava san Paolo e da cui secondariamente è certificata l'autenticità del Vangelo, scritto su papiro o su pergamena. I santi esistono, i martiri esistono, la loro esperienza testimonia la fedeltà dell'uomo a Dio, e ultimamente la fedeltà di Dio all'uomo: ergo, quanti) si dice nel Vangelo è vero, cioè «degno di fede». Ultimamente Agostino intende la Chiesa in quanto Corpo di Cristo. Di conseguenza, la risposta ultima, definitiva alla domanda su che cosa sia la Rivelazione per il cristiano, suona così: la Persona stessa di Gesù Cristo, Verbo incarnato, che ha dato voce, secondo l'espressione dei Padri della Chiesa, al mistero del silenzio del Padre, visibile «immagine del Dio invisibile» (2 Cor 4,4; Col 1,5), e immagine pienamente veritiera, poiché «consustanziale» a Colui che raffigura. In tal modo, dapprima viene Cristo, che ha scritto (e continua a scrivere) non sulla carta, ma nei cuori; in secondo luogo, la «lettera» scritta nei cuori, esperienza viva della risposta di fede e di fedeltà dell'uomo alla fedeltà di Dio; e infine viene quello che sta scritto «sulla carta», cioè la Sacra Scrittura, il libro con la croce in copertina. Tale concezione esclude totalmente sia il relativismo scettico, sia il pavido «fondamentalismo», il timoroso feticismo del Testo. Come si guardava a questi problemi al tempo degli interlocutori degli apostoli, lo apprendiamo dalle considerazioni (tramandateci da Eusebio) di uno di tali interlocutori, Papia di Gerapoli, che con totale naturalezza nel 130 ca. dice: il Vangelo di Marco nasce dalle prediche dell'apostolo Pietro, che Marco, non essendo stato testimone degli avvenimenti narrati, traduce per gli ascoltatori a Roma; ma Pietro non raccontava per ordine, bensì a caso, e per questo la sostanza nel Vangelo di Marco è esposta in modo veritiero, mentre la cronologia assolutamente no (Eusebio, Storia della Chiesa, III, 39). Come siamo lontani dalla concezione di Scrittura in cui ogni parola sia scritta direttamente «Spiritu Sancto dictante», e tanto più dalla concezione islamica di Testo esistente da sempre nell'altro mondo, e di là passato nel nostro mondo, quasi come la meteorite venerata dai musulmani nella Kaaba si è catapultata dallo spazio interplanetario nell'atmosfera terrestre!
La tesi enunciata sopra, tuttavia, nel cristianesimo non viene affatto annullata dall'antitesi, e per questo il testo canonico, di cui «non passerà neppure uno iota» (Mt 5,18), conserva di millennio in millennio la sua rilevanza almeno come norma che frena il nostro arbitrio, che sarebbe ben lieto di spacciare i propri «comandamenti» per le parole di Cristo scritte nei nostri cuori. Capirlo è un problema di elementare sincerità nel guardare a noi stessi. E tuttavia il Testo ci parla sempre e soltanto di un'unica assoluta Rivelazione, quella di Cristo.
Così Dio, superando l'«incomunicabilità» ontologica, non cessa in Cristo di parlarci e di ascoltarci («Qui Mariam absolvisti et latronem exaudisti», si rivolge a Cristo la famosa sequenza medioevale del Dies irae), in che lingua si svolge il dialogo? Noi parliamo nella nostra lingua umana, non saremmo capaci di esprimerci altrimenti. Ma anche il nostro Interlocutore, con un gesto di ineguagliabile celeste condiscendenza, si rivolge a noi nella stessa lingua, l'unica che siamo in grado di intendere e di capire. La parola di Dio è una parola divino-umana.
In che cosa consiste qui la specificità della concezione cristiana di Rivelazione, rispetto all'ebraismo e all'islam? Innanzitutto, al cristianesimo è originariamente estraneo il concetto di un particolare linguaggio «sacro», nel quale, e nel quale soltanto, può parlare la Rivelazione. Per l'ebraismo tale lingua è l'ebraico, per l'islam l'arabo; dal punto di vista di entrambe le religioni, soprattutto dell'islam, la traduzione della Scrittura è un atto illecito (cfr. la leggenda ebraica che definisce il giorno della comparsa della Bibbia dei Settanta come un giorno nero). Al contrario, i Vangeli fin dall'inizio sorgono come trasposizione della narrazione su Gesù dalla lingua aramaica in quella greca, come prodotto di «inculturazione», come lavoro di traduzione, nel senso più ampio della parola. Cristo parlava in aramaico; secondo la tradizione, la versione originaria del Vangelo di Matteo fu scritta in aramaico, ma i quattro Vangeli conservati dalla Chiesa sono già tutti scritti in greco, nella lingua in cui potevano essere letti dal maggior numero possibile di sudditi dell'impero romano. Certo, la tradizione cattolica per lungo tempo ha dato lo status dì lingua sacra al latino, e la tradizione ortodossa russa lo attribuisce tuttora allo slavo; ma si tratta già di fenomeni secondari, che hanno una rilevanza più storico-culturale che teologica. In secondo luogo, solo il cristianesimo può collocare il carattere terreno della lingua in cui ci parla la Rivelazione nel contesto illuminante del dogma dell'Incarnazione e Kenosis di Dio. La parola umana, maldestra, stentata, talvolta balbettante, di cui si riveste il Verbo di Dio, è anch'essa un aspetto della Spoliazione kenotica che il Logos prende su di sé per amor nostro. Il cristianesimo afferma che nella persona umana fisicamente limitata di un certo ebreo, che come tutti noi possiede un anno di nascita, una determinata statura, un determinato peso, colore di occhi e di capelli, «abita corporalmente tutta la pienezza della divinità» (Col 2,9). Per questo esso ha il diritto di affermare che per logica interna di questo stesso miracolo, nella parola umana può essere contenuto l'incontenibile Verbo divino; che la parola umana, come rende bene la formula latina, è «capax Dei». In realtà, per far ciò la parola umana deve superare se stessa, oltrepassare i propri limiti, restando puramente umana ma trasformandosi anche in qualcosa di più che umano. Ne derivano alcune particolarità stilistiche. La parola Rivelazione deve essere segno e simbolo; ma ogni segno, anche la semplice indicazione stradale, deve attirare la nostra attenzione e concentrarla sul messaggio in esso contenuto, da cui è irresistibilmente condizionata la sua forma. La «segnicità» si riflette in una certa singolarità, talvolta in una sorta di stentatezza del discorso, sovraccarico di significato. E come un gesto della mano protesa nello sforzo di indicare la direzione in cui bisogna andare. Dal punto di vista del genere letterario, la parola della Rivelazione è più vicina al discorso poetico che non al discorso teorico: Cristo non definisce «che cos'è» il Regno dei cieli, ma ne parla attraverso similitudini, paragoni, in «parabole». Le esperienze di retroversioni dei discorsi di Gesù in aramaico ne mettono particolarmente in rilievo la natura poetica, quasi in versi, data l'abbondanza di allitterazioni. Infine, si tratta di una lingua poetica, che tuttavia non può divagare in descrizioni ed è dinamica per sua natura. Questa parola non è una riflessione né una descrizione, ma un «gesto».
La fede nella Rivelazione che si esprime in una parola, in un Verbo, che si fa non solo carne (Gv 1,14), ma in un certo senso anche parole, discorso, testo, attribuisce alla lingua e alle parole un'altissima dignità. La vecchia esegesi, che insegnava i quattro significati della Scrittura (letterale, allegorico, morale e «analogico», atto cioè a «elevare» l'anima ai vertici dell'ineffabile), esprime la solida e baldanzosa fede nella fondamentale chiarezza, leggibilità, certezza di quanto è scritto, che offre un senso fondato in qualunque direzione si muova il lettore: verso la prossimità della lettera o verso la lontananza dell'allegoria, nelle profondità dell'etica o sulle vette della mistica. Evidentemente, per la mente umana offuscata dal peccato e dall'ignoranza, la Scrittura può essere incomprensibile ed enigmatica, può essere - Dio non voglia - capita a rovescio, tuttavia questa incomprensione empirica è un fenomeno secondario: in se stessa la parola della Rivelazione è chiarezza, apertura, è la speranza stessa. Il Dio Uno della Bibbia ha un epiteto che sarebbe stato impensabile per qualunque divinità pagana: Egli è «fedele» (cfr. ad es., Dt 7,9 e 32,4). La verità della Rivelazione non è un'adeguatezza astrattamente impersonale, «gnoseologica» (adaequatio intellectus ad rem), ma proprio la fedeltà all'Alleanza, la giustizia all'interno di un rapporto dialogico personale. Molto interessante da questo punto di vista è la semantica biblica (ebraica) del concetto di verità, ha parola verità, αληθεια, veritas, dai tempi della Bibbia dei Settanta e della Vulgata rende il termine ebraico che i nuovi traduttori sempre più spesso rendono, almeno in molti contesti, come «fedeltà». In ogni caso ha la stessa radice delle parole «fedeltà, fede, fedele», e «amen». Paralleli che riguardano l’identificazione della verità di quanto è espresso con la sua «fedeltà» o la sua «giustizia» si incontrano, naturalmente, anche in altre lingue (cfr. il russo «eto verno» e il francese «c'est juste» nel significato di «è vero», oppure le sorti del sostantivo russo «pravda», che inizialmente stava a significare la «giustizia», e addirittura, nell'espressione «Russkaja pravda», la definizione legislativa dell'«equità» normativa, ma poi è diventata sinonimo di «verità»); tuttavia nel linguaggio biblico questa identificazione è particolarmente espressiva e coerente.
A questo punto può sorgere una domanda: Dio dunque è fedele, ma è fedele, certa la parola che partecipa della debolezza umana?
Certamente, l'umanità su su fino a Tjutcev ha sempre conosciuto i dubbi che hanno indotto il poeta ad affermare che il pensiero tradotto in parola è inganno (notiamo, nello spirito dell'ironia degli antichi sofismi ed aporie greche, che anche il verso tjutceviano appartiene alla categoria dei pensieri tradotti in parola). L'esperienza suggerisce al salmista un pensiero, che egli stesso in verità chiama sconsiderato, ma che tuttavia esprime: «Ogni uomo è inganno» (115/116,2). Amare scoperte di questo genere possono indurre a due tipi di conclusioni, che non si differenziano tra loro come il cielo e la terra, ma come il paradiso e l'inferno.
Si può vedere che i pensieri del cuore umano, come dice ripetutamente la Bibbia, sono malvagi fin dalla sua giovinezza, e agire come hanno sempre agito i santi: raddoppiare, decuplica re la severità verso se stessi, gli sforzi per raggiungere il dominio di sé. Oppure si può, al contrario, avendo saputo di questi pensieri malvagi, diciamo, attraverso i discepoli di Freud, ravvisare in essi la prova definitiva dell'inconsistenza delle esigenze cristiane nei confronti dell'uomo, e con questo mettersi il cuore in pace. Esattamente allo stesso modo la facilità ad equivocare sulla parola umana può diventare motivo di ascesi nella parola, renderci ancor più esigenti verso ciò che diciamo, senza abbandonare però la fede che la nostra parola ingannatrice sia tuttavia «capax Dei», che contenga la verità divina e tanto più quella umana; ma può fondare anche un programma di «distruttivismo».
L'umiltà insegnata dal cristianesimo è in effetti la suprema audacia; dal punto di vista della saggezza di questo mondo è un'audacia imperdonabile, il vertice della follia ottimista. Riconoscersi seriamente piccoli e insignificanti davanti a Dio, significa credere seriamente di avere un rapporto reale con Dio. È così pacifico questo nel senso usuale della parola «umiltà»? Il poeta tedesco del XX secolo Gottfried Benn, personalità profonda ma decisamente atea, nichilista dichiarato, alla fine della vita spiegava che non è che non credesse, propriamente, in Dio, di cui non sapeva nulla, ma nell'esistenza di un proprio «io» in grado di avere un rapporto con Dio; la fede gli appariva una posizione estremamente pretenziosa. E noi, credenti, ci muoviamo proprio in direzione di questa pretesa, di questa audacia; voglia Dio che ci rendiamo conto, almeno ogni tanto, di dove stiamo andando!

Quando la parola perde ogni potere

Oggigiorno alla fede nella Rivelazione si contrappone una sfida totalmente nuova, che ha preso il posto del defunto ateismo: la sfiducia nella parola in quanto tale, l'ostilità verso il Logos (come diceva Platone, la misologia, solo in una misura che Platone non si sarebbe neppure sognato). Che cos'è successo? Semplificando, possiamo descrivere così la situazione. Alla predicazione della fede era sempre stato possibile obiettare con una domanda «critica»: che cosa significa «credere»? In epoche passate, innocenti, questa domanda presupponeva una risposta, positiva o negativa, ma pur sempre una risposta. Chi sceglieva una risposta negativa (ad esempio, «credere significa essere ingannati»), era al massimo un ateo, vale a dire un uomo che non credeva in Dio, ma credeva nelle risposte. Egli credeva fermamente che la sua negazione rispondesse effettivamente alla domanda, che cioè la superasse e la eliminasse. L'altro tipo di «libero pensatore», il cosiddetto scettico o agnostico, presupponeva anch'egli che il suo «ignoramus et ignorabimus» (non sappiamo e non sapremo) fosse un genere di risposta che conservava integralmente il procedimento della domanda e risposta. La differenza fra «ateismo» e «teismo», è data dalla sola lettera alfa. Le proposizioni «Dio esiste» e «Dio non esiste» si fondano sulla medesima grammatica. Non a caso lo «stolto», che dice in cuor suo che «Dio non esiste», viene citato all'inizio del salmo 52/53 e, per così dire, entra insieme alla sua sacrilega dichiarazione a far parte dello spazio sacro della parola biblica, sia pure per ricevere la propria condanna. Grammaticalmente, anche se naturalmente non teologicamente, la sua tesi è compatibile con il contesto del salmo.
Ma ecco che lo «stolto», arricchitosi di esperienza millenaria, anche se non di sapienza, attenta ai procedimenti grammaticali, distorcendo il senso esistenziale di ogni domanda e tramutandolo nel suo contrario: invece di una domanda come esigenza di risposta abbiamo così una domanda intesa come divieto di risposta (sul genere della barzelletta sovietica, «tacere, è questo che vi chiedo!»); la stessa domanda «che cosa significa credere?» viene posta in modo completamente diverso, cioè in modo tale che ogni risposta ad essa, sia pur negativa o scettica, venga bloccata in anticipo dalla modalità della domanda, e a causa di tale modalità risulti impossibile e assurda fino all'idiotismo, quando lo stesso verbo «credere» viene smontato e dissolto in lettere e fonemi puramente esteriori, senza più significato. Ebbene, ci troviamo davanti al capolavoro dell'inferno, la situazione post-atea. La visione della dissoluzione della parola significante anticipata nei diari di Franz Kafka, in cui si descrivono ripetutamente, ad esempio, l'atomizzazione e l'automazione dell'Umlaut tedesca («Questa ä, separatasi dalla frase, è rotolata via come una palla in un prato», 1910).
Questa ossessione di elementi che fuoriescono dall'insieme del testo può suscitare il pensiero delle «radici» ebraiche di Kafka, e precisamente delle componenti cabalistiche della tradizione giudaica; tuttavia tale associazione non ci sembra molto adeguata. L'atteggiamento tradizionale ebraico verso la lettera e il suo significato numerale esprime proprio la straordinaria certezza nella intellegibilità della parola della Rivelazione, la speranza che, comunque la si legga, foss'anche al contrario, sostituendo le lettere con cifre, la sua intelligibilità rimanga. La mistica post-atea di Kafka testimonia l'esperienza contraria: la parola, invece di rivelare possibilità ancora sconosciute di chiara leggibilità, perde la più normale, quotidiana intelligibilità. Di qui la posa di disperazione in cui lo scrittore guarda al suono del linguaggio che si è separato ed è «rotolato via». Il genio è tale perché perfino le sue curiose idiosincrasie sono sintomatiche di un'intera epoca. Vien naturale ricordare la maledizione pronunciata in un romanzo di C.S. Lewis: «Chi rifiuta la parola di Dio, viene spogliato anche della parola umana».
Un grande poeta del nostro secolo, come Kafka discendente di antenati ebrei, ha espresso una volta lo sforzo della lotta contro la distruzione della parola, che appartiene ora alle conditions humaines: si tratta di Paul Celan. Come è noto, non è un poeta «religioso» in nessuna delle accezioni della parola, né ebraica né cristiana. Tanto più interessante che si sia sforzato di superare il «che-ne-so-io?» post-ateo, l'incubo dell'incomprensibilità totale, e di «leggere» in modo sostanziale l'annuncio della Rivelazione biblica attraverso una formula cristiana:

«Il detto dice - a chi? A se stesso:
"Servire Dio significa regnare"; io posso,
posso leggerlo, e tutto si fa più chiaro,
fuori delle secche del che-ne-so-io».

Mai il potere della parola umana era stato tanto evidentemente, tanto chiaramente, tanto fondamentalmente dipendente dalla fede nel Verbo che in principio era presso Dio, nella vittoria dell'iniziativa di Dio - «sia!» - sopra l'incomunicabilità del non-essere. L'umanesimo lasciato in balìa delle proprie forze, evidentemente, non si perita più di fondarlo con le sue forze.

Sergej Averincev

(in La Nuova Europa, n. 2, 1996, pp. 5-19)

 

Letto 2433 volte Ultima modifica il Martedì, 04 Settembre 2018 16:19
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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