Ecumene

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Le apparizioni «ufficiali» del Risorto
al gruppo apostolico (Gv 20, 19-31)

di Rita Pellegrini





L’evangelista nel c. 20 ha descritto le apparizioni del Risorto ai primi discepoli nel giorno di Pasqua, dividendole in due grandi unità letterarie. Nella prima unità, il Risorto si fa vedere a Maria di Magdala nei pressi del sepolcro vuoto (20,1-18); nella seconda, si mostra ai discepoli e a Tommaso in un luogo chiuso (20,19-29). L’epilogo del redattore termina il capitolo con i vv. 30-31. La nostra riflessione si concentrerà sulle apparizioni ufficiali al gruppo apostolico.

Martedì, 05 Febbraio 2008 23:32

«Mio Signore e mio Dio» (Bruno Maggioni)

«Mio Signore e mio Dio»

di Bruno Maggioni






Nei racconti evangelici della risurrezione non manca mai un accenno al «dubbio» dei discepoli. Per esempio, Matteo scrive: «Vedendolo lo adorarono, altri però dubitavano» (Mt 28,17). E nel Vangelo di Luca si legge: «Perché siete turbati e perché sorgono dubbi nel vostro cuore?» (Lc 24,36-38).

Dal dubbio alla fede

L’evangelista Giovanni, però, ha preferito concentrare il tema del dubbio e del suo superamento in due scene contrapposte (prima l’incredulità e poi la fede), sviluppandolo attorno a un solo personaggio: l’apostolo Tommaso. La tesi principale è senza dubbio teologica: approfondire il rapporto fra il vedere e il credere, la fede del gruppo apostolico e la fede della comunità successiva. Giovanni non tratta il tema concettualmente, ma narrativamente com’è sua abitudine.

Gesù risorto appare la prima volta al gruppo dei discepoli assente Tommaso (20,19-23). Al ritorno di Tommaso i discepoli gli dicono: «Abbiamo visto il Signore»(20,25). Dicendo «il Signore» i discepoli mostrano di riconoscerne la profonda identità: Gesù è il Signore vivente e presente nella comunità.

Una maturazione, dall’inizio alla fine

Non basta ritenere che il Crocifisso è tornato alla vita. Occorre capire che ora è il Signore entrato in una vita e in una condizione che appartengono a Dio.

Così è la vera fede.

C’e’ dunque una differenza notevole fra quest’esclamazione e la prima dei discepoli che si legge in 1,41: «Abbiamo trovato il Messia».

- All’inizio i discepoli riconoscono che Gesù è il Messia, alla fine egli è il Signore.

- All’inizio trovano, alla fine vedono.

- All’inizio non sanno che il Messia sarà crocifisso, alla fine comprendono che il Signore risorto è il Crocifisso. Lo riconoscono, infatti, non dal volto o da altro, bensì dai segni della croce.

L’idea di messia è così doppiamente cambiata: il Messia è il Signore, il Messia è il Crocifisso.

Tommaso non si lascia convincere dalla visione che gli altri discepoli hanno avuto. Egli vuole personalmente vedere e toccare. Ma quando poi Gesù ricompare per la seconda volta e lui è presente, non si dice che Tommaso abbia toccato né le mani né il costato trafitto. In questa seconda scena tutto si concentra sul dialogo fra Gesù e Tommaso. Gli altri discepoli assistono silenziosi.

«Il mio Signore»

Nelle parole di Gesù c’è un rimprovero: «non continuare a essere incredulo [così il verbo greco nella forma dell’imperativo presente], ma diventa credente». Tommaso a questo punto riconosce il Risorto, un riconoscimento pieno, il più alto ed esplicito dell’intero Vangelo: «Il mio Signore e il mio Dio». La confessione di Tommaso non esprime soltanto il riconoscimento ma l’appartenenza, lo slancio e l’amore. Non dice: «Signore Dio», ma: «Il mio Signore e il mio Dio». La presenza dell’articolo nel testo greco suggerisce anche la totalità dell’appartenenza. Si potrebbe parafrasare così: «»Sei il mio unico Signore e il mio unico Dio.

La fede sul fondamento dell’ascolto

«Beati quelli che senza aver visto hanno creduto»: è questa la vera beatitudine del Vangelo. Beato è chi crede senza pretendere di vedere. Con la fede di Tommaso si apre una nuova tappa nell’itinerario della fede: credere senza vedere. Quando l’evangelista scriveva il suo Vangelo erano già molti coloro che credevano senza aver visto. Forse è per questo che il verbo è al participio aoristo, come se si riferisse a una situazione già sperimentata («Hanno creduto»).

Dalle poche cose dette si può comprendere che la scena dell’apparizione di Gesù ai discepoli presente Tommaso assume grande importanza, divenendo il punto di passaggio dalla visione alla testimonianza, dai segni all’annuncio. Si apre sul tempo della Chiesa. Credente è ora chi, superato il dubbio e la pretesa di vedere, accetta la testimonianza autorevole di chi ha veduto. Nel tempo di Gesù visione non deve più essere pretesa: basta la testimonianza apostolica. Il che non significa che ora al credente sia preclusa ogni personale esperienza del Risorto. Tutt’altro. Gli è offerta l’esperienza della gioia, della pace, del perdono dei peccati, della presenza dello Spirito. Ma la storia di Gesù deve essere accettata per testimonianza. L’esperienza apostolica, in sostanza, risulta di due elementi: la visione storica (non più ripetibile) e la comunione di fede con il Signore (sempre possibile e attuale).

Il primo elemento è trasmissibile per via di testimonianza, come una memoria fissata e fedelmente raccontata. Il secondo si pone, invece, come fatto perennemente contemporaneo, aperto quindi all’esperienza diretta e personale di tutti coloro che accolgono l’annuncio.

(da Parole di Vita)
Martedì, 05 Febbraio 2008 23:21

Ragione ed etica (Frei Betto)

Ragione ed etica

di Frei Betto

Può una società “quantificata” dal mercato, come la nostra, trovare spazio per valori etici “qualificanti”? Davanti all’impunità di politici trovati non-etici, c’è speranza che beni “infiniti” possano prevalere su quelli “finiti”?

Socrate fu condannato e giustiziato per “eresia”. I suoi detrattori lo accusarono di corrompere i giovani, predicando loro “nuovi dei”. La conoscenza che egli aveva raggiunto gli aveva aperto gli occhi non per guardare il cielo, ma la terra. Si era convinto di non poter mai dedurre un’etica per gli esseri umani dall’Olimpo. Gli dei potevano, tutt’al più, spiegare l’origine delle cose, ma non dettare norme di condotta.

La mitologia, piena di esempi poco edificanti, obbligò i greci a cercare nella ragione i principi normativi di una buona convivenza sociale. La promiscuità che regnava presso gli dei poteva solo essere “accettata per fede”, non tradotta in atteggiamenti da imitare. Così, la ragione conquistò la propria autonomia nei confronti della religione.

Impegnato nella ricerca di valori normativi per la convivenza umana, Socrate addita il luogo dove trovarli: la ragione. Per lui, l’etica esige nome eterne e immutabili; non può, pertanto, dipendere dal variare delle opinioni. Platone apporta nuova luce in questo senso, insegnandoci a discernere tra realtà e illusione. Nel primo libro della Repubblica, egli riferisce l’opinione di Trasimaco sul rapporto fra la giustizia e il potere: il più forte si serve della giustizia per mascherare il proprio interesse. (Concetto che Marx riprenderà, applicandolo all’ideologia). Cos’è il potere per Trasimaco? Il diritto concesso a un individuo – o conquistato da un partito o una classe sociale – d’imporre la propria volontà a tutti gli altri.

Aristotele si domanda: cosa desidera il popolo sopra ogni altra cosa? E risponde: la felicità. Ma poi si premura di strapparci da ogni forma si solipsismo, associando felicità e politica. Secoli dopo, formulando i principi di una etica politica, Tommaso d’Aquino sottolinea il primato che spetta al bene comune e valorizza la coscienza individuale e la sovranità popolare come principi imprescindibili. Nicolò Machiavelli, invece, destituisce la politica di ogni etica, riducendola a un mero gioco di potere in cui il fine giustifica i mezzi.

Immanuel Kant afferma che la grandezza dell’essere umano non risiede nella sua capacità tecnica di soggiogare la natura, ma nel suo essere “etico”, cioè nella sua capacità di autodeterminarsi a partire dalla propria libertà. Ci sarebbe in noi un senso innato del dovere: non dovremmo astenerci dal fare una data cosa perché è peccato, ma perché è ingiusta.

«Perfino il santo del Vangelo deve essere paragonato con il nostro ideale di perfezione morale [...] Da dove prendiamo il concetto di Dio come sommo bene? Unicamente dall’idea, che la ragione stabilisce a priori, della perfezione morale, connessa indissolubilmente con il concetto di volontà libera» (Fondazione della metafisica dei costumi). Il grande filosofo tedesco aggiunge che l’etica individuale deve essere completata da un’etica sociale, perché noi, esseri umani, non siamo un gregge di individui, ma una società che esige regole e leggi e, soprattutto, la cooperazione di tutti i suoi membri per raggiungere una convivenza sociale felice.

Hegel e Marx sottolineano come la nostra libertà sia sempre condizionata e “in relazione”, poiché consiste nell’edificazione di comunioni (con la natura e con i nostri simili). È l’ingiustizia a rendere alcuni dissimili dagli altri. Dalla tradizione giudaico-cristiana Marx eredita l’irriducibile dignità di ogni uomo e, pertanto, il diritto alla parità di opportunità. In altri termini: siamo tanto più liberi quanto più costruiamo istituzioni capaci di promuovere la felicità di tutti.

La filosofia moderna ha pensato di fare un passo in avanti con l’affermare che, una volta che si obbedisce alla legge, ciascuno è libero di fare ciò che più gli garba. La privacy come il regno della più totale libertà! Il problema con questo tipo di impostazione sta nel suo svuotare l’etica di ogni responsabilità sociale, indirizzandola verso l’esasperata affermazione dei diritti individuali, con il rischio di ridurla a un soggettivismo egocentrico. L’uomo etico moderno sembra preoccupato soltanto dei suoi sacrosanti diritti, sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani.

E i doveri? E gli obblighi che una persona dovrebbe sentire nei confronti della società? E i vincoli che la dovrebbe legare agli altri, in particolare all’affamato, all’oppresso e all’escluso? Un’etica universale non può ridursi alla difesa dei fondamentali diritti dell’individuo: deve, invece, essere coronata dalla volontà di intensificare le virtù, i valori e le responsabilità sociali.

Oggi l’etica non sembra di casa nel mondo della politica: chi la viola rimane impunito; chi la vive, non ne riceve onore. L’esame di coscienza di un politico sembra ridursi a rispondere alla domanda: «Ho fatto forse qualcosa di proibito dalla legge?». Ma questo non basta. Il politico è chiamato ad agire secondo giustizia e con generosità: a regolare il suo comportamento ci deve essere il rigore etico. Nello stesso tempo, egli non può supporre che la sua etica dipenda esclusivamente dalle sue virtù personali. Devono esistere una continua interdipendenza e una interrelazione fra la vita individuale e la vita sociale. «Io sono io e la mia circostanza» diceva Ortega y Gasset.

L’etica deve espletarsi nel modo in cui è organizzata la società. Oltre agli individui, anche le istituzioni sociali devono essere imbevute di eticità. In questo modo, l’individuo potrebbe anche cedere alla corruzione, ma si troverà la strada sbarrata dal mortaio della legalità, che, mentre sostiene le istituzioni, impedisce a esse di favorire l’impunità. Sembrare etico è una questione di estetica, tipica dell’opportunismo. Essere etico, invece, è questione di carattere.

(da Nigrizia, settembre 2007)

Dire che l'ecumenismo è un prodotto del XX secolo significa svalutare la storia della Chiesa cristiana. Dire, invece, che il XX secolo ha visto maturare ed imporsi il problema ecumenico significa prendere atto di una delle realtà storiche dell'epoca in cui viviamo.

Come leggere la Bibbia

del Vescovo Kallistos di Diokleia

Tutta la Scrittura è ispirata da Dio (2 Tim 3:16)

"Se un re terreno, il nostro imperatore," scriveva San Tikhon di Zadonsk (1724-83), "ti scrivesse una lettera, non la leggeresti con gioia? Certamente, con grande esultanza, cura e attenzione." Ma qual'è, egli chiede, la nostra attitudine verso la lettera che ci è stata spedita niente meno che da Dio stesso? "Ti è stata spedita una lettera, non da qualche imperatore terreno, ma dal Re dei Cieli. Eppure quasi disprezzi un tale dono, un tesoro senza prezzo." Aprire e leggere questa lettera, dice San Tikhon, vuol dire entrare in una conversazione personale faccia a faccia con il Dio vivente. "Tutte le volte che leggi il Vangelo, Cristo stesso ti sta parlando. E mentre leggi, tu sei in preghiera e in conversazione con lui."

Esattamente questa è la nostra attitudine ortodossa verso la lettura delle Scritture. Devo vedere la Bibbia come la lettera personale di Dio inviata in modo specifico a me. Le parole non sono intese solo per altri, vissuti lontano e molto tempo fa, ma sono scritte particolarmente e direttamente a me, qui e ora. Ogni volta che apriamo la nostra Bibbia, entriamo in un dialogo creativo con il Salvatore. Mentre ascoltiamo, rispondiamo. "Parla, perché il tuo servo ti ascolta," rispondiamo a Dio (1 Samuele 3:10); "Eccomi" (Isaia 6:8).

Due secoli dopo San Tikhon, alla Conferenza tenuta a Mosca nel 1976 tra gli ortodossi e gli anglicani, la vera attitudine verso le Scritture è stata espressa in modo differente ma in termini ugualmente validi. Questa dichiarazione congiunta, firmata da delegati di entrambe le tradizioni, forma un eccellente riassunto del punto di vista ortodosso: "Le Scritture costituiscono un insieme coerente. Esse sono allo stesso tempo divinamente ispirate e umanamente espresse. Portano testimonianza autorevole a Dio che si rivela - nella creazione, nell'Incarnazione del Verbo, e nell'intera storia della salvezza. E come tali esprimono la parola di Dio in linguaggio umano. Noi conosciamo, riceviamo e interpretiamo le Scritture attraverso la Chiesa e nella Chiesa. Il nostro approccio alla Bibbia è un approccio di obbedienza."

Combinando le parole di San Tikhon e la dichiarazione di Mosca, si possono distinguere le quattro caratteristiche chiave che contrassegnano la "mente scritturale" ortodossa. Primo, la nostra lettura delle scritture è obbediente. Secondo, è ecclesiale, in unione alla Chiesa. Terzo, è cristocentrica. Quarto, è personale.

Leggere la Bibbia con obbedienza

Prima di tutto, vediamo le Scritture come ispirate da Dio, e ci accostiamo a loro in spirito di obbedienza. L'ispirazione divina della Bibbia è sottolineata allo stesso modo da San Tikhon e dalla Conferenza di Mosca del 1976: Le Scritture sono una "lettera" che viene dal "Re dei Cieli," scrive San Tikhon; "Cristo stesso ti sta parlando." La Bibbia, dice la Conferenza, è la "testimonianza autorevole" che Dio dà di Se stesso, che esprime "la parola di Dio in linguaggio umano." La nostra risposta a questa parola divina è, giustamente, una risposta di obbediente ricettività. Mentre leggiamo, siamo al servizio dello Spirito.

Poiché è divinamente ispirata, la Bibbia possiede un'unità fondamentale, una coerenza totale, poiché lo stesso Spirito parla in ogni pagina. Non ci riferiamo ad essa al plurale come "i libri," ta biblia. La chiamiamo "la Bibbia," "il libro," al singolare. Si tratta di un libro, una Sacra Scrittura, con lo stesso messaggio generale - una storia composita e allo stesso tempo singola dalla Genesi all'Apocalisse.

Allo stesso tempo, tuttavia, la Bibbia è anche umanamente espressa. È un'intera biblioteca di scritti distinti, composti in vari tempi, da persone differenti, in situazioni ampiamente diverse. Troviamo qui Dio che parla "in molti tempi e in molti modi" (Ebrei 1:1). Ogni libro della Bibbia riflette il carattere dell'epoca in cui fu scritto e il particolare punto di vista dell'autore. Dio infatti non abolisce la nostra individualità ma la esalta. La grazia divina coopera con la libertà umana: noi siamo "collaboratori," cooperatori di Dio (1 Corinzi 3:9). Nelle parole della Lettera a Diogneto del secondo secolo, "Dio persuade, non obbliga; la violenza è infatti contraria alla natura divina." Precisamente così avviene nella composizione delle Scritture ispirate. L'autore di ogni libro non era solo uno strumento passivo, un flauto suonato dallo Spirito, un dittafono che registra un messaggio. Ogni autore delle Scritture vi contribuisce con i propri particolari doni umani. A fianco dell'aspetto divino, c'è anche un aspetto umano nelle Scritture, e noi dobbiamo dare valore a entrambi.

Ciascuno dei quattro evangelisti, per esempio, ha il suo punto di vista particolare. Matteo è il più "ecclesiastico" e il più ebraico dei quattro, con il suo speciale interesse alla relazione tra il vangelo e la legge ebraica, e la sua comprensione del cristianesimo come "nuova legge." Marco scrive in un greco meno forbito, vicino al linguaggio della vita quotidiana, e include vividi dettagli narrativi che non si trovano negli altri Vangeli. Luca insiste sull'universalità dell'amore di Cristo, sulla sua onnicomprensiva compassione che si estende in pari misura all'ebreo e al gentile. Il quarto vangelo esprime un approccio più interiore e mistico, e fu ben definito da San Clemente di Alessandria "un vangelo spirituale." Esploriamo anche noi e godiamo pienamente questa vivifica varietà nella Bibbia.

Dato che le Scritture sono in questo modo la parola di Dio espressa in linguaggio umano, c'è spazio per un'onesta ed esigente ricerca critica quando si studia la Bibbia. Il nostro cervello e la sua facoltà di ragionamento sono un dono di Dio, e non dobbiamo avere paura di usarli pienamente quando leggiamo le Scritture. Come cristiani ortodossi, trascuriamo a nostro rischio e pericolo i risultati della ricerca accademica indipendente sulle origini, le datazioni e gli autori della Bibbia, anche se vorremo sempre mettere alla prova questi risultati alla luce della Santa Tradizione.

A fianco di questo elemento umano, tuttavia, dobbiamo sempre vedere l'aspetto divino. Questi testi non sono semplicemente opera degli autori individuali. Ciò che ascoltiamo nelle Scritture non sono semplici parole umane, caratterizzate da una maggiore o minore abilità e percezione, ma l'eterna, increata Parola di Dio stesso - il Verbo del Padre che "esce dal silenzio," per usare la frase di Sant'Ignazio di Antiochia - il Verbo divino della salvezza. Accostandoci alla Bibbia, dunque, non proveniamo da una posizione di mera curiosità, o per ottenere informazioni storiche. Veniamo con una domanda specifica: "Come posso essere salvato?"

La ricettività obbediente alla parola di Dio significa soprattutto due cose: un senso di meraviglia e un'attitudine di ascolto.

(1) La meraviglia si estingue facilmente. Non proviamo anche troppo spesso, leggendo la Bibbia, che essa è divenuta troppo familiare, perfino noiosa? Non abbiamo forse perso la nostra vigilanza, il nostro senso di aspettativa?

Dobbiamo continuamente ripulire le porte della nostra percezione e guardare con occhi nuovi, con timore reverenziale e stupore, il miracolo che ci viene proposto - il miracolo sempre presente della parola divina di salvezza espressa in linguaggio umano. Come faceva notare Platone, "l'inizio della verità è la meraviglia di fronte alle cose."

Alcuni anni fa ho fatto un sogno che ancora ricordo chiaramente. Ero di nuovo nella casa dove da bambino, per tre anni, avevo vissuto in convitto. Un amico mi portava attraverso le camere che mi erano familiari dai ricordi di vita cosciente della mia infanzia. Poi, nel sogno, entravamo in altre camere che non avevo mai visto prima - spaziose, eleganti, piene di luce. Infine, arrivammo in una cappella piccola e scura, con mosaici dorati che brillavano alla luce di candele. "Che strano," dissi al mio compagno, "che io sia vissuto qui per tanti anni, e senza mai sapere dell'esistenza di tutte queste camere." Ed egli replicò: "Ma è sempre così." Mi svegliai, e mi accorsi che era un sogno.

Non dovremmo forse reagire in presenza della Bibbia esattamente con la stessa sorpresa, con lo stesso senso di gioia e di scoperta che avevo sperimentato nel mio sogno? Ci sono così tante stanze nelle Scritture nelle quali ancora non siamo neppure entrati. C'è ancora così tanto da esplorare.

(2) Se l'obbedienza significa meraviglia, significa anche ascolto. Tale è per la verità il significato della parola "obbedire" in greco e in latino: ascoltare. Il problema è che per la maggior parte noi siamo più capaci di parlare che di ascoltare. Lo dimostra fin troppo bene un episodio del Goon Show, che io ascoltavo regolarmente alla radio nei miei giorni di studente. Suona il telefono, e uno dei personaggi alza il ricevitore. "Pronto," esclama, "pronto, pronto." Il volume della sua voce cresce. "Chi parla? Non riesco a sentire. Pronto, chi parla?" Una voce all'altro capo dice: "Ma sei tu che parli." "Ah," risponde il protagonista "ecco perché la voce mi sembrava familiare." e riappende il ricevitore.

Uno dei requisiti primari, se vogliamo acquisire una "mente scritturale," è quello di smettere di parlare e iniziare ad ascoltare. Quando entriamo in una chiesa ortodossa decorata nel modo tradizionale, e guardiamo in alto verso il santuario, vediamo nell'abside la figura della Madre di Dio con le mani levate al cielo - l'antico modo scritturale di pregare che molti usano ancora oggi. Tale deve essere la nostra attitudine verso le Scritture - un'attitudine di apertura e di attenta ricettività, con le nostre mani invisibilmente protese verso il cielo.

Leggendo la Bibbia, dunque, dobbiamo conformarci in tal modo al modello della Beata Vergine Maria, come a colei che ascolta in modo supremo. All'Annunciazione, ascoltando l'angelo, risponde con obbedienza: "Sia fatto di me secondo la tua parola" (Luca 1:38). Se non avesse prima ascoltato la parola di Dio ricevendola spiritualmente nel suo cuore, non avrebbe mai portato corporalmente la Parola di Dio nel suo grembo. L'ascolto ricettivo continua a essere la sua attitudine lungo tutta la storia dei Vangeli. Alla natività di Cristo, dopo l'adorazione da parte dei pastori, "Maria custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuore" (Luca 2:19). Dopo la visita a Gerusalemme quando Gesù aveva dodici anni, "Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore" (Luca 2:51). L'importanza vitale dell'ascolto è pure indicata nelle ultime parole attribuite alla Theotokos nelle Sacre Scritture, alla festa di nozze a Cana di Galilea: "Fate tutto quello che vi dirà" (Giovanni 2:5), ella dice ai servitori - e a tutti noi.

In tutto ciò la Vergine serve come uno specchio e un'icona vivente del cristiano biblico. Ascoltando la parola di Dio, dobbiamo essere come lei: meditare, custodire tutte queste cose nel nostro cuore, fare tutto ciò che Egli ci dice. Dobbiamo ascoltare in obbedienza mentre Dio parla.

Comprendere la Bibbia attraverso la Chiesa

Come afferma la Conferenza di Mosca, "Noi conosciamo, riceviamo e interpretiamo le Scritture attraverso la Chiesa e nella Chiesa." Il nostro approccio alla Bibbia non è solo obbediente ma ecclesiale. Le parole della Scritture, che ci sono rivolte a titolo personale, ci sono rivolte allo stesso tempo in quanto membri di una comunità. Libro e Chiesa non vanno separati.

L'interdipendenza tra Chiesa e Bibbia è evidente almeno in due modi. Dapprima, noi riceviamo le Scritture attraverso la Chiesa e nella Chiesa. È la Chiesa a dirci che cosa fa parte delle Scritture. Nei primi tre secoli di storia cristiana, fu necessario un lungo processo per passare al setaccio, mettere alla prova e distinguere ciò che era autenticamente parte delle Scritture "canoniche," e che portava un messaggio autorevole della persona e del messaggio di Cristo, e di ciò che era "apocrifo," forse utile per l'insegnamento, ma non una fonte normativa di dottrina. Perciò, è la Chiesa che ha deciso quali libri formano il Canone del Nuovo Testamento. Un libro non è parte delle Sacre Scritture a causa di qualche particolare teoria sulla sua datazione e autorevolezza, ma poiché è la chiesa che lo tratta come canonico. Supponiamo, per esempio, che potesse essere provato che il Quarto Vangelo non sia stato scritto di fatto da San Giovanni, il discepolo amato da Cristo - a mio parere, ci sono invece forti ragioni per continuare ad accettare l'attribuzione a Giovanni - e tuttavia, anche in tal caso, ciò non altererebbe il fatto che noi consideriamo il Quarto Vangelo come parte delle Scritture. Come mai? Perché il Quarto Vangelo, chiunque sia il suo autore, è accettato dalla Chiesa e nella Chiesa.

In secondo luogo, noi interpretiamo le Scritture attraverso la Chiesa e nella Chiesa. Se è la Chiesa che ci dice che cosa fa parte delle Scritture, allo stesso modo è la Chiesa che ci dice come le Scritture vanno comprese. Giungendo dall'Etiope mentre questi leggeva l'Antico Testamento nel suo carro, l'Apostolo Filippo gli chiese, "Comprendi ciò che stai leggendo?"

"E come potrei," rispose l'Etiope, "se qualcuno non mi guida?" (Atti 8:30-31).

La sua difficoltà è pure la nostra. Le parole delle Scritture non si spiegano sempre da sole. La Bibbia ha un filo conduttore di meravigliosa semplicità, ma quando è studiata in dettaglio può risultare un libro difficile. Invero, Dio parla direttamente al cuore di ciascuno di noi mentre leggiamo la nostra Bibbia - come dice San Tikhon, la nostra lettura è un dialogo personale tra ciascuno di noi e Cristo stesso - ma noi abbiamo bisogno anche di una guida. E la nostra guida è la Chiesa. Possiamo usare pienamente la nostra comprensione personale, assistita dallo Spirito. Possiamo usare pienamente i commentari biblici le scoperte della moderna ricerca. Ma sottomettiamo le opinioni individuali - siano esse le nostre o quelle degli studiosi - al giudizio della Chiesa.

Leggiamo la Bibbia in modo personale, ma non come individui isolati. Non diciamo "io", ma "noi." Leggiamo come membri di una famiglia, la famiglia della Chiesa Cattolica Ortodossa. Leggiamo in comunione con tutti gli altri membri del Corpo di Cristo in ogni parte del mondo e in tutte le generazioni. Questo approccio comunitario o cattolico è riassunto in una delle domande poste a un convertito nell'ufficio di ricezione usato nella Chiesa Russa: "Riconosci che le Sacre Scritture devono essere accettate e interpretate in accordo con la fede che è stata tramandata dai Santi Padri, fede che la Santa Chiesa Ortodossa, nostra madre, ha sempre mantenuto e tuttora mantiene?" Il criterio decisivo per la nostra comprensione del significato delle Scritture è la mente della Chiesa.

Per scoprire questa "mente della Chiesa," da dove dobbiamo incominciare? Un primo passo consiste nel vedere come le Scritture sono utilizzate nel culto. Come, in particolare, si scelgono i passi biblici da leggere nelle diverse feste? Un secondo passo consiste nel consultare gli scritti dei Padri della Chiesa, soprattutto San Giovanni Crisostomo. Com'è che essi analizzano e applicano il testo delle Scritture? Un modo ecclesiale di leggere la Bibbia è in tal modo sia liturgico che patristico.

Per illustrare che cosa significhi interpretare le Scritture in modo liturgico, consideriamo le letture dall'Antico Testamento al Vespro della Festa dell'Annunciazione (25 Marzo), e al Vespro del Sabato Santo, la prima parte dell'antica Vigilia Pasquale. All'Annunciazione ci sono cinque letture:

(1) Genesi 28:10-17: Il sogno di Giacobbe di una scala che si eleva dalla terra al cielo.

(2) Ezechiele 43:27-44:4: la visione che il profeta ha del tempio di Gerusalemme, con la porta chiusa attraverso la quale nessuno può passare, se non il Principe.

(3) Proverbi 9:1-11: uno dei grandi passi sofianici dell'Antico Testamento, che inizia con le parole "La sapienza si è costruita la casa."

(4) Esodo 3:1-8: Mosè al roveto ardente.

(5) Proverbi 8:22-30: Un altro passo sofianico, che descrive il posto della Sapienza nell'eterna provvidenza di Dio: "Dall'eternità sono stata costituita, fin dal principio, dagli inizi della terra."

In questi passi dall'Antico Testamento, abbiamo una serie di potenti immagini per indicare il ruolo della Theotokos nello sviluppo del piano di salvezza di Dio. Ella è la scala di Giacobbe, poiché per mezzo suo, Dio discende ed entra nel nostro mondo, assumendo la carne da lei fornita. Ella è sia Madre che Sempre-Vergine; Cristo è nato da lei, eppure ella rimane ancora inviolata, e la porta della sua verginità sigillata. Ella fornisce l'umanità, o la casa che Cristo la Sapienza di Dio (1 Corinzi 1:24) si prende come propria dimora; in alternativa, ella stessa va considerata come Sapienza di Dio. Ella è il roveto ardente, che contiene nel suo grembo il fuoco increato della Divinità, eppure non è consumata. Da tutta l'eternità, "dagli inizi della terra," ella fu prescelta da Dio per essere sua Madre.

Leggendo questi passi nel loro contesto originale nell'Antico Testamento, potremmo non accorgerci subito che essi prefigurano l'Incarnazione del Salvatore dalla Vergine. Ma esplorando l'uso che il lezionario della Chiesa fa dell'Antico Testamento, possiamo scoprire molteplici strati di significati che sono tutt'altro che ovvi a una prima lettura.

La stessa cosa accade quando consideriamo l'uso delle Scritture al Sabato Santo. Qui non vi sono meno di quindici letture dall'Antico Testamento. Purtroppo, in molte delle nostre parrocchie la maggioranza di queste letture viene omessa, così il popolo di Dio viene privato del suo appropriato nutrimento biblico. Questa lunga sequenza di letture ci mette di fronte il significato più profondo del "passaggio" di Cristo attraverso la morte verso la risurrezione. La prima delle letture è il resoconto della creazione (Genesi 1:1-13): la Risurrezione di Cristo è una nuova creazione (2 Corinzi 5:17; Apocalisse 21:5), l'inaugurazione di una nuova età, l'età ventura. La terza lettura descrive il rituale ebraico del pasto pasquale: Cristo crocifisso e risorto è la nuova Pasqua, l'Agnello pasquale che solo può prendere su di sé il peccato del mondo (1 Corinzi 5:7; Giovanni 1:29). La quarta lettura comprende tutto il libro di Giona: i tre giorni del profeta nel ventre del pesce prefigurano la risurrezione di Cristo dopo tre giorni nella tomba (Matteo 12:40). La sesta lettura racconta il passaggio del Mar Rosso da parte degli israeliti (Esodo 13:20-15:19), Cristo ci guida dalla schiavitù dell'Egitto (il peccato), attraverso il Mar Rosso (il battesimo), nella terra promessa (la Chiesa). La lettura finale è la storia dei tre Santi Fanciulli nella fornace infuocata (Daniele 3), ancora una volta un "tipo" o prefigurazione della risurrezione di Cristo dalla tomba.

Come possiamo sviluppare questo modo ecclesiale e liturgico di leggere le Scritture nei gruppi di studio biblico all'interno delle nostre parrocchie? A una persona si può dare il compito di notare quando un passo particolare è usato per una festività o per il giorno di un santo, e il gruppo può quindi discutere assieme le ragioni per cui è stato scelto così. Ad altri nel gruppo possono essere assegnati i compiti di ricerca tra i Padri, riferendosi soprattutto alle omelie di San Giovanni Crisostomo. All'inizio possiamo essere delusi: il modo di pensare e di parlare che hanno i Padri è spesso nettamente differente dal nostro di oggi. Ma c'è molto oro nei testi patristici, se solo abbiamo sufficiente pazienza e immaginazione per scoprirlo.

Cristo, il cuore della Bibbia

Il terzo requisito per la nostra lettura delle Scritture è che essa sia cristocentrica. Se siamo d'accordo con la Conferenza di Mosca del 1976, che dice che "le Scritture costituiscono un insieme coerente," dove dobbiamo situare la loro completezza e coerenza? Nella persona di Cristo. Egli è il motivo unificante che passa attraverso l'intera Bibbia, dalla prima all'ultima frase. Gesù si incontra con noi in ogni pagina. Tutto ha un senso a causa sua. "Tutte le cose sussistono in lui" (Colossesi 1:17).

Molto dello studio delle Scritture da parte degli studiosi occidentali moderni ha adottato un approccio analitico, scomponendo ogni libro in quelle che vengono viste come le sue fonti originarie. I legami di connessione vengono sciolti, e la Bibbia è ridotta a una serie di unità isolate. Recentemente vi è stata una reazione a questo approccio, e i critici biblici in occidente hanno dato maggiore attenzione al modo in cui queste unità primarie sono state unite assieme. A ciò, come ortodossi, possiamo sicuramente essere favorevoli. Dobbiamo vedere l'unità delle Scritture tanto quanto la diversità, la coesione globale della fine così come le dispersioni degli inizi. L'Ortodossia preferisce per la maggior parte uno stile di ermeneutica "sintetico" a uno analitico, dato che vede la Bibbia come un insieme integrato, e Cristo, ovunque, come il suo legame d'unione.

Precisamente questo, come abbiamo appena visto, è l'effetto della lettura delle Scritture nel contesto del culto della Chiesa. Come è reso chiaro dalle letture dell'Annunciazione e del Sabato Santo, ovunque nell'Antico Testamento troviamo segnali e indicazioni stradali che fanno riferimento al mistero di Cristo e di Maria sua Madre. Interpretando l'Antico Testamento alla luce del Nuovo, e il Nuovo alla luce dell'Antico - come il lezionario della Chiesa ci incoraggia a fare - scopriamo come tutta la Scrittura trovi il suo punto di convergenza nel Salvatore.

L'Ortodossia fa un uso esteso di questo metodo "tipologico" di interpretazione, in cui i "tipi" di Cristo, i segni e i simboli della Sua opera, vanno scoperti attraverso tutto l'Antico Testamento. Per esempio Melchisedek, il re-sacerdote di Salem, che offrì pane e vino ad Abramo (Genesi 14:18), è considerato un "tipo" di Cristo non solo dai Padri ma anche nel Nuovo Testamento stesso (Ebrei 5:6; 7:1). La roccia da cui fluì acqua nel deserto del Sinai (Esodo 17:6; Numeri 30:7-11) è allo stesso modo un simbolo di Cristo (1 Corinzi 10:4). La tipologia spiega la scelta delle letture, non solo al Sabato Santo, ma in tutta la seconda parte della Quaresima. Perché le letture della Genesi nella sesta settimana sono dominate dalla figura di Giuseppe? Perché si legge dal libro di Giobbe nella Settimana Santa? Perché Giuseppe e Giobbe, che soffrirono entrambi da innocenti, prefigurano la sofferenza redentiva di Cristo sulla Croce.

Possiamo scoprire molte altre corrispondenze tra l'Antico e il Nuovo Testamento usando una concordanza biblica. Spesso il miglior commentario è semplicemente una concordanza, o un'edizione della Bibbia che abbia a margine una scelta ben fatta di riferimenti incrociati. Limitandosi a connettere, tutto si lega assieme. Nelle parole di Padre Alexander Schmemann, "Un cristiano è colui che, ovunque guarda, trova Cristo e si rallegra in Lui." Ciò è vero in particolare del cristiano biblico. Dovunque guarda, in ogni pagina, dappertutto trova Cristo.

La Bibbia come lettura personale

Secondo San Marco il Monaco ("Marco l'Asceta", del quinto/sesto secolo): "Colui che è umile nei suoi pensieri e attivo nel lavoro spirituale, quando legge le Sacre Scritture, applicherà tutto a se stesso e non al suo prossimo." Dobbiamo guardare a tutte le Scritture per un'applicazione personale. La nostra domanda non è semplicemente "Che cosa significa?" ma "Che cosa significa per me?" Come insiste San Tikhon, Cristo stesso sta parlando a te. Le Scritture sono un dialogo diretto, intimo tra il Salvatore e me stesso - Cristo che si rivolge a me, e il mio cuore che risponde. Questo è il quarto criterio nella nostra lettura della Bibbia.

Devo vedere tutte le narrazioni delle Scritture come parte della mia storia personale. la descrizione della caduta di Adamo, allo stesso modo , è un resoconto di qualcosa che rientra nella mia stessa esperienza. Chi è Adamo? Il suo nome vuol dire semplicemente "uomo," "umano": Adamo sono io. E a me che Dio chiede, "Dove sei?" (Genesi 3:9). Noi spesso chiediamo "Dov'è Dio?" Ma la vera domanda è quella che Dio pone all'Adamo che è in ognuno di noi: "Dove sei tu?"

Chi è Caino, l'assassino del proprio fratello? Sono io. La sfida di Dio, "Dov'è Abele, tuo fratello?" (Genesi 4:9), è rivolta al Caino in ognuno di noi. La via a Dio passa per l'amore alle altre persone, è non c'è altra via. Rinnegando la mia sorella o il mio fratello, sostituisco l'immagine di Dio con il marchio di Caino, e nego la mia umanità essenziale.

La stessa applicazione personale è evidente negli offici quaresimali, e soprattutto nel Grande Canone di Sant'Andrea di Creta. "Io sono l'uomo caduto tra i briganti," diciamo (v. Luca 10:30) "Ero il tuo figlio più giovane, e ho sperperato le ricchezze che mi hai dato... e ora sono vuoto e affamato" (v. Luca 15:11-14). "Chi sono le pecore, e chi sono i capri?" erano soliti chiedere i Padri del Deserto d'Egitto (v. Matteo 25:31-46) "Le pecore sono note a Dio," rispondevano. "Quanto ai capri - significano me."

Ci sono tre passi da fare nella lettura delle Sacre Scritture. Per prima cosa, riflettiamo sul fatto che ciò che abbiamo nelle Scritture è storia sacra: la storia del mondo dalla Creazione, la storia del popolo eletto di Dio, la storia di Dio stesso incarnato in Palestina, la storia delle "grandi opere" (Atti 2:11) dopo Pentecoste. Non dobbiamo mai dimenticare che ciò che troviamo nella Bibbia non è un'ideologia, né una teoria filosofica, ma una fede storica.

Quindi, osserviamo la particolarità, la specificità di questa storia sacra. Nella Bibbia troviamo che Dio interviene in tempi specifici e in luoghi particolari, entrando in dialogo con esseri umani individuali. Vediamo davanti a noi le distinte chiamate fatte da Dio a ciascuna persona differente, ad Abramo, Mosè e Davide, a Rebecca e a Rut, a Isaia e ai profeti. Vediamo Dio che si incarna una sola volta, in un particolare angolo della terra, in un momento particolare e da una Madre particolare. Non dobbiamo considerare questa particolarità come uno scandalo, ma come una benedizione. L'amore divino è universale nel suo scopo, ma sempre personale nella sua espressione.

Questo senso di specificità della Bibbia è un elemento vitale nella "mente scritturale" ortodossa. Se amiamo davvero la Bibbia, ameremo le genealogie e i dettagli nella datazione e nella geografia. Uno dei migliori modi per ravvivare lo studio delle Scritture è quello di andare in pellegrinaggio in Terra Santa. Camminate dove ha camminato Cristo. Scendete presso il Mar Morto, salite sul monte delle Tentazioni, osservate le terre desolate, provate ciò che deve avere provato Cristo durante i suoi quaranta giorni di solitudine nel deserto. Bevete dal pozzo presso il quale Gesù parlò con la donna samaritana. Prendete una barca e uscite sul Mare di Galilea, chiedete ai pescatori di fermare il motore, e guardate in silenzio attraverso le acque. Andate di notte al Giardino del Getsemani, sedetevi al buio sotto gli antichi ulivi, e guardate attraverso la valle le luci della città. Gustate appieno il "sapore" caratteristico dell'ambientazione storica, e riportate quell'esperienza nella lettura quotidiana delle Scritture.

Dobbiamo quindi fare un terzo passo. Dopo avere vissuto nuovamente la storia biblica in tutta la sua particolarità, dobbiamo applicarla direttamente a noi stessi. Dobbiamo dire a noi stessi, "questi non sono solo luoghi distanti, eventi di un remoto passato. Appartengono al mio incontro con il Signore. Le storie includono me."

Il tradimento, per esempio, è parte della storia personale di ciascuno. Non abbiamo forse tradito tutti qualcuno in qualche momento della nostra vita, e non abbiamo conosciuto tutti che cosa significhi essere traditi? La memoria di questi momenti non ci lascia forse profonde e continue cicatrici sulla nostra psiche? Leggendo, pertanto, il racconto del tradimento di Cristo da parte di San Pietro, e della sua reintegrazione dopo la Risurrezione, possiamo vedere ciascuno di noi come un attore nella storia. Immaginando ciò che provarono sia Pietro che Cristo nel momento immediatamente successivo al tradimento, facciamo nostre le loro percezioni. Io sono Pietro; nella situazione del tradimento, posso anche essere Cristo? Riflettendo allo stesso modo sul processo di riconciliazione - vedendo come il Salvatore risorto, con un amore totalmente privo di sentimentalismo, reintegra dopo la sua caduta Pietro alla comunione, e vedendo come Pietro dal canto suo abbia il coraggio di accettare tale reintegrazione - chiediamoci: quanto simile a Cristo sono io, con coloro che mi hanno tradito? E, dopo i miei stessi tradimenti, quanto sono in grado di accettare il perdono degli altri: sono capace di perdonare me stesso?

Prendiamo, come un altro esempio, la "donna peccatrice," che versò il vaso d'olio sui piedi di Cristo (Luca 7:36-50), e che alcuni identificano con Santa Maria Maddalena, anche se questa non è l'interpretazione ortodossa consueta. Posso vederla rispecchiata in me stesso? Condivido la sua generosità, la sua spontaneità e la sua amorevole impulsività? "I suoi peccati, che sono molti, le sono perdonati, poiché molto ha amato." Oppure sono calcolatore, meschino, reticente, mai pronto a impegnarmi in alcunché di buono o di cattivo? Come dicono i Padri del Deserto, "Meglio qualcuno che ha peccato, se sa di avere peccato e si pente, piuttosto che una persona che non ha peccato, e pensa di essere giusta."

Un approccio personale di questo tipo significa che nel leggere la Bibbia noi non siamo semplicemente osservatori distaccati e obiettivi, che assorbono informazioni e prendono nota di fatti. La Bibbia non è meramente un'opera letteraria o una collezione di documenti storici, anche se ci si può certamente accostare ad essa a questo livello. Si tratta di qualcosa di molto più fondamentale, di un libro sacro, rivolto a credenti, da leggere con fede e amore. Non avremo un pieno profitto dalla lettura dei Vangeli se in noi non c'è amore per Cristo. "Il cuore parla al cuore:" io entro nella verità viva delle Scritture solo quando il mio cuore risponde con amore al cuore di Dio.

Leggendo le Scritture in questo modo - in obbedienza, come membri della Chiesa, trovando ovunque Cristo, e vedendo ogni cosa come parte della nostra storia personale - percepiremo qualcosa della forza e della guarigione che si trovano nella Bibbia. Eppure nel nostro viaggio biblico di esplorazione siamo sempre al principio. Siamo come persone che si lanciano in una piccola barca su un oceano senza limiti. Ma per quanto grande sia in viaggio, possiamo imbarcarci oggi, in questa stessa ora, in questo stesso momento.

Al culmine della sua crisi spirituale, mentre era in lotta con se stesso in un giardino, Sant'Agostino udì la voce di un bambino che diceva "Prendi e leggi, prendi e leggi." Egli prese la sua Bibbia e lesse, e ciò che lesse cambiò tutta la sua vita. Facciamo anche noi lo stesso: prendiamo e leggiamo.

"Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino" (Salmo 118 [119]:105).

Sabato, 02 Febbraio 2008 23:39

Cristiani russi in cifre

Cristiani russi in cifre





Sotto la guida di Alessio II, eletto nel 1990 patriarca di Mosca, la Chiesa ortodossa russa conta attualmente 132 diocesi (136 con la Chiesa ortodossa autonoma del Giappone), più di 26.600 parrocchie (di cui 12.665 in Russia), 175 vescovi, 688 monasteri (di cui in Russia 207 maschili e 226 femminili); 5 Accademie teologiche, due Università ortodosse, 34 seminari.

Per quanto riguarda la Chiesa cattolica in Russia, stabilita nel 1782 con la diocesi di Moghilev per la cura pastorale dei sudditi cattolici dell’Impero russo, alla vigilia della Rivoluzione contava 150 parrocchie con più di 250 preti, per un totale di circa mezzo milione di fedeli. Attualmente la Chiesa cattolica, di cui nel 1991 veniva ristabilita la struttura gerarchica con un Amministratore apostolico (...), conta quattro arcidiocesi, 225 parrocchie (di cui circa un quarto non dispone ancora di una propria chiesa), un seminario, 270 preti e 250 religiose, in maggioranza stranieri, provenienti da 22 Paesi diversi (solo il 10 per cento del clero è di origine russa). I fedeli cattolici presenti nel territorio della Federazione russa sono circa 600 mila.

(da Mondo e Missione, gennaio 2007)







Le Chiese dell'oriente cristiano

La Chiesa Ortodossa di Grecia

di John Nellykullen


La rivoluzione greca contro il regime turco cominciò nel 1821, e culminò, dopo l’intervento europeo, con il riconoscimento dell’indipendenza di un piccolo stato greco da parte della Turchia nel 1832. La Chiesa ortodossa ebbe un grande ruolo nella rivoluzione, e pagò un prezzo elevato per questo. Il Patriarca di Costantinopoli Gregorios V ed un certo numero dei metropoliti furono accusati di tradimento e subito dopo l’inizio della rivoluzione, furono impiccati dai turchi.

Il nuovo governo di Grecia, a dispetto della tradizionale, era riluttante al fatto che la Chiesa Ortodossa in Grecia rimanesse sotto la giurisdizione della Patriarca di Constantinopoli, la cui sede era rimasta nel territorio dell’impero ottomano. Per questo ragione nel 1833 la Chiesa di Grecia fu dichiarata autocefala, e posta sotto l’autorità di cinque membri del Sinodo dei vescovi e del re. Il re fu dichiarato come capo della chiesa. Lo stato di autocefalia della Chiesa di Grecia fu riconosciuto da Costantinopoli nel 1850 con un tomos patriarcale in cui si specificava che l’arcivescovo di Atene sarebbe stato il capo permanente del Sinodo dei vescovi.

Un nuovo territorio fu incorporato alla Grecia a spese dell’Impero Ottomano e nuove Diocesi ortodosse furono aggiunte alla nuova Chiesa di Grecia. Gli ortodossi del territorio, della parte nord, riconquistato dai turchi rimasero direttamente sotto la giurisdizione del Patriarca Ecumenico fino al 1928, quando con un accordo furono posti provvisoriamente sotto l’amministrazione della Chiesa di Grecia.

Il controllo dello stato sulla Chiesa di Grecia fu gradualmente ridotto con l’implementazione delle regolarizzazioni posteriori, benchè la costituzione del 1975 riconoscesse l’Ortodossia come la religione predominante in Grecia. Si riconosce anche il diritto delle altre religioni ad esercitare il culto senza interferenze statali. Però il culto dei non-ortodossi non deve disturbare l’ordine pubblico. Ogni proselitismo è stato proibito. Al contrario delle costituzioni passate, il Presidente della Grecia non necessariamente deve essere un cristiano ortodosso e non è più richiesto di giurare di proteggere la religione di Stato. La costituzione dice anche che la Chiesa ortodossa di Grecia è autocefala ed è governata da il Santo Sinodo dei vescovi in carica, e dal Santo Sinodo Permanente che è composto da alcuni membri del primo. La struttura rispetta le provisioni del tomos del 1850 riguardo l’autocefalia. Oggi il Santo Sinodo Permanente è composto da 13 membri, incluso l’arcivescovo di Atene che lo presiede . Nel 1955 la Chiesa e lo Stato hanno iniziato un dialogo sulla possibilità di cambiamenti nei loro rapporti. Però nel 1996 il governo annunciò che i dati costituzionali già in atto non dovevano essere cambiati. La statistica ufficiale ci mostra che il 96% della popolazione di Grecia è ortodossa, l’1% è composto di cattolici e di protestanti, ed il 2% di musulmani.

Le diocesi ortodosse in Grecia sono piccole. Ve ne sono 80 in Grecia, 8 a Creta e 4 nelle isole del Dodecanneso che è sotto la giurisdizione del Patriarca Ecumenico.

Il monachesimo, che era in costante decadenza dal dicianovessimo secolo, ha avuto recentemente una ripresa. Nel 1986 c’erano 2.000 monaci ortodossi e 2.000 monache nella chiesa di Grecia. La republica monastica del Monte Athos, benchè sia in Grecia, è sotto la giurisdizione del Patriarca Ecumenico.

C’è stato un movimento significativo di rinnovamento nella chiesa di Grecia dopo la secondo guerra mondiale. Questo è stato causato da un nuovo tipo di monachesimo, composto da fraternità di laici che sono nate all’inizio del secolo. Il più emergente di questi gruppi, Zoè, ha avuto un particolare sviluppo nella metà di 1960 anni. Ha avuto 130 membri, tutti teologi, di cui 34 preti. La comunità ha lavorato per riformare l’atteggiamento dei Greci verso la Chiesa Ortodossa dando importanza alla devozione personale. Zoè ha unito la spiritualità monastica all’apostolato attivo, e in qualche modo è stata simile alle comunità apostoliche che si sono sviluppate nella chiesa occidentale. Nel 1960 i membri di Zoè più tradizionalisti si sono separati dalla Zoè per formare una piccola nuova fratellanza, che si chiama Sotir. Benchè oggi questi movimenti siano in decadenza e tanti membri siano anziani, hanno dato un modello nuovo di vita religiosa ortodossa ed hanno avuto un’influenza profonda sulla Chiesa di Grecia.

La Chiesa Ortodossa Greca è coinvolta nell’attività filantropica, non soltanto con dichiarazioni pubbliche sulla giustizia sociale, anche avendo cura di orfanotrofi, case per anziani, ospedali, etc.

L’erudizione teologica in Grecia è centrata su due facoltà teologiche erette nelle Università di Atene e di Tessalonica. Ci sono anche altri seminari per la formazione dei preti. Un gran numero di teologi della chiesa Greca sono laici.

L’arcivescovo Christodoulos di Atene e di tutta la Grecia è stato eletto nell’aprile del 1998 per succedere all’arcivescovo Seraphim, che aveva guidato la chiesa dal 1974. Il nuovo arcivescovo è stato intronizzato il 9 maggio, ed ha subito dichiarato di voler accrescere il ruolo della chiesa nella società, di voler combattere le manifestazioni di xenofobia e di razzismo, di voler far crescere il rapporto della Chiesa con il mondo giovanile, di voler migliorare i rapporti con il Patriarca Ecumenico, e di affermare il ruolo della Grecia in Europa sostenendone il pieno ingresso nell’Unione Europea.

Gli ortodossi greci della diaspora sono sotto la giurisdizione del patriarca di Costantinopoli.


Guida: l’Arcivescovo Ieronimos II

Titolo: Arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia

Residenza: Atene, Grecia

Membri: 9.025.000.

Sito Web: http://www.ecclesia.gr

Dialogo per "superare ogni divisione"

intervista a Samuel Kobia *


Il dialogo? “Più si è vicini alla vetta più bisogna fare attenzione perché nessuno rimanga indietro”. Anche perché “le questioni morali, più che le questioni teologiche classiche, stanno minacciando di dividere le Chiese e le comunioni mondiali cristiani”. E per questo bisogna parlarsi, con calma. Perché qualche traguardo è vicino. Il reverendo Samuel Kobia per il dialogo ha speso una vita. Pastore metodista, 61 anni, dal 2004 è segretario del World Council of Churches (Wcc), il Consiglio ecumenico delle Chiese che annovera trecentoquarantasette fra Chiese e comunità religiose. Il 16 giugno del 2005 ha fatto visita a Papa Benedetto XVI, pochi giorni prima di recarsi in Russia per incontrare il patriarca Alessio II. Dall'inizio degli anni Ottanta è attivo nel favorire il dialogo e l'unità, a partire dal Consiglio nazionale delle Chiese del Kenya, il Paese dove è nato. Un impegno costante, in ogni angolo del mondo. Oggi dunque il reverendo Kobia ritiene che il dialogo passi anche attraverso il confronto sui temi etici, oltre che teologici. Le sfide della globalizzazione inoltre chiedono alle Chiese di dare risposte convincenti all'individualismo e al capitalismo esasperato, tenendo conto delle difficoltà poste dalla rinascita di movimenti nazionalisti e fondamentalisti. Compiti difficili ma non proibitivi, perché il reverendo Kobia ha due sogni: approfondire i rapporti con Roma e vedere entro la metà del secolo ogni cristiano “benvenuto alla mensa del Signore in ogni chiesa”.

Osservatore Romano: Per la prima volta il giornale del Papa intervista il segretario del Consiglio ecumenico delle Chiese. E accade in occasione dei 100 anni della settimana di preghiera per l'unità. Cento anni passati con quale bilancio?

Samuel Kobia: Cento anni fa, la Settimana di preghiera per l'Unità dei Cristiani sfidava l'odio e l'ostilità che avrebbe spinto i paesi cosiddetti cristiani verso la Prima guerra mondiale. La cooperazione ecumenica e la ricerca di unità tra le Chiese ha certamente svolto un ruolo nel superare il retaggio di due guerre mondiali e costruire rapporti pacifici in Europa.
Chi avrebbe pensato, all'inizio dello scorso secolo, che solo pochi decenni dopo ortodossi, anglicani, luterani, riformati, metodisti, battisti e Chiese di altra tradizione avrebbero lavorato insieme nel Consiglio Mondiale delle Chiese? Certamente il Concilio Vaticano II è stato uno spartiacque e ha aperto le porte a una cooperazione ecumenica significativa tra la Chiesa cattolica romana e molti membri del World Curch Council.

O.R. Parlando di ecumenismo sono in molti a sottolineare ciò che ancora divide e le difficoltà da superare. Perché di solito si mettono meno in evidenza i passi compiuti e gli obiettivi raggiunti?

S.K. Cercare l'unità visibile della Chiesa è come scalare una montagna. Il cammino diventa più erto e difficile più ci si avvicina alla vetta. Qualcuno vorrebbe fare una sosta prima di procedere, altri vorrebbero affrettarsi, forse perché ritengono che la meta sia vicina; ma sottovalutano la distanza che ancora rimane e i rischi che corrono arrampicandosi troppo in fretta. Più si è vicini alla vetta, più occorre fare attenzione affinché arriviamo tutti insieme e nessuno venga lasciato indietro o precipiti.

O.R. Si pensa in alcuni ambiti ecumenici, ma anche tra i cattolici, che il dialogo tra Roma e il Wcc sia più difficile rispetto al dialogo con le Chiese ortodosse. È fondata questa impressione, quali sono i motivi di questa maggiore difficoltà?

S.K. Il Wcc è una associazione di trecentoquarantasette Chiese membro, di tradizione ortodossa, protestante e anche di altre tradizioni. Non è facile paragonare il dialogo tra la Chiesa cattolica romana e quelle ortodosse con il dialogo multilaterale che il Wcc persegue attraverso la Commissione Fede e Costituzione. Le persone alle quali lei si riferisce forse non sanno che il Pontificio consiglio per la Promozione dell'unità dei cristiani partecipa pienamente al lavoro di questa commissione. Naturalmente, sia la Chiesa ortodossa sia quella cattolica romana sottolineano il ruolo centrale del vescovo e della successione apostolica. Non tutte le Chiese membro del Wcc concordano con ciò. Questo rimane uno degli ostacoli sul cammino verso l'unità della Chiesa.

O.R. In ambito ecumenico ora si cerca di andare in profondità. Dopo il dialogo della carità ora si punta a considerare il dialogo teologico. Pensa che potranno sorgere nuove difficoltà?

S.K. In effetti, il dialogo teologico sull'insegnamento e sulle pratiche delle Chiese è sempre stato una dimensione fondamentale del movimento ecumenico e del Wcc. Inoltre, il Wcc ha sempre considerato l'unità, la testimonianza e il servizio congiunto come tre dimensioni correlate della vita e della missione della Chiesa. Oggi le tensioni sorgono non tanto intorno alle questioni teologiche classiche dell'unità della Chiesa, quanto su convinzioni etiche e morali. Le questioni morali stanno minacciando di dividere le Chiese e le comunioni mondiali cristiane. Secondo alcuni è in gioco la verità del Vangelo. Dicono che bisogna scegliere fra unità e verità. Questa situazione riguarda molte Chiese, a prescindere dalla loro tradizione teologica.

O.R. Benedetto XVI ha trovato un generale riscontro positivo nell'ambito ecumenico quale interlocutore affidabile ed esperto dei problemi sul tappeto. Ci sono delle attese particolari da parte del Wcc nei suoi confronti?

S.K. Abbiamo grande rispetto per l'impegno ecumenico di Sua Santità Papa Benedetto XVI. All'inizio del suo pontificato il Papa ha ribadito il suo pieno impegno per l'ecumenismo e ha detto che il cammino verso l'unità visibile è irreversibile. Ciò ci è servito come grande incoraggiamento e ispirazione. Siamo molto grati per il sostegno che offre al cardinale Kasper e al Pontificio consiglio per la Promozione dell'unità dei cristiani.

O.R. Può delineare un bilancio di massima nel dialogo tra Roma e Wcc? Ci sono speranze per nuovi progressi?

S.K. Permettetemi di dare un esempio dei risultati del dialogo e della cooperazione tra il Vaticano e il Wcc. Ai tempi del Concilio Vaticano II la Chiesa cattolica romana non era membro di nessun consiglio di Chiese nazionale o regionale. Tuttavia, nel 1971, solo sette anni dopo la promulgazione del decreto sull'ecumenismo Unitatis redintegratio, la Chiesa era entrata a far parte dei consigli nazionali delle Chiese in undici Paesi. Nel 2003 questo numero era salito a settanta. La Chiesa cattolica romana ora fa parte di tre organizzazioni ecumeniche regionali su sette. Le Chiese membro del Wcc e la Chiesa cattolica romana devono affrontare molte sfide comuni nel contesto sociale, politico, culturale e religioso e nel panorama ecclesiale in rapido cambiamento.

O.R. Che significato assume per il Wcc la Settimana di preghiera per l'unità che quest'anno festeggia il suo centesimo anniversario?

S.K. La Settimana di preghiera per l'Unità dei Cristiani offre un'opportunità a ogni congregazione e alle Chiese locali di praticare insieme l'ecumenismo in maniera fondamentale ed essenziale. Spesso non raggiungiamo le Chiese locali con le nostre pubblicazioni e gli altri mezzi di comunicazione; il materiale per la Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani invece le raggiunge. La pagina dedicata alla Settimana di preghiera è tra le più visitate nel sito internet del Wcc.

O.R. Quali sono le iniziative del Wcc per la Settimana?

S.K. Abbiamo celebrato il centenario la scorsa domenica a Ginevra, insieme con le Chiese locali della regione ginevrina e con i rappresentanti delle Chiese provenienti da diversi parti del mondo. Volevamo dimostrare che la Settimana di preghiera ha un profondo significato per l'ecumenismo locale e per la cooperazione ecumenica in tutto il mondo.
Abbiamo volutamente programmato l'incontro del gruppo congiunto di lavoro della Chiesa cattolica romana e del Wcc a Roma durante il periodo della Settimana di preghiera. Venerdì parteciperò, insieme con i membri del gruppo, alla celebrazione ecumenica in occasione del centenario che si terrà nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, presieduta da Papa Benedetto.

O.R. Il Wcc celebra quest'anno anche i suoi sessanta anni di vita. Può tracciare un bilancio dei risultati e delle difficoltà registrati in questi decenni?

S.K. Il Wcc è cresciuto molto in questi 60 anni. Mentre la maggior parte delle Chiese fondatrici hanno sede in Europa e in Nord America, il Wcc è diventata un'associazione di Chiese veramente mondiale nel 1961, quando molte Chiese del sud si sono unite ad essa insieme con il Consiglio Missionario Internazionale. E un numero rilevante delle Chiese ortodosse orientali degli ex Paesi comunisti potrebbero entrare a far parte del Wcc durante l'assemblea che si terrà a New Delhi. Un altro importante passo avanti è stato la partecipazione di osservatori ecumenici al Concilio Vaticano II e l'istituzione del Segretariato per l'unione dei cristiani, poi diventato il Pontificio consiglio per la Promozione dell'unità dei cristiani. Si sono sviluppati vincoli strutturali tra il Wcc e la Chiesa cattolica romana. L'Assemblea di Uppsala nel 1968 ha segnato una svolta nella testimonianza sociale del Wcc. L'impegno per la giustizia e contro il razzismo venne messo in cima all'agenda. Negli ultimi venti anni la globalizzazione ha cambiato il contesto in cui viviamo a tutti i livelli. I profondi cambiamenti dopo la caduta del muro di Berlino hanno inciso sui rapporti con le Chiese membro ortodosse. Ci siamo dovuti confrontare con una crisi profonda nel 1997, subito prima dell'assemblea di Harare. Oggi ringraziamo Dio perché questa crisi ha messo in evidenza alcune delle nostre debolezze fondamentali. La Commissione speciale sulla partecipazione ortodossa al Wcc ha avviato cambiamenti importanti nell'ethos e nei processi decisionali del Wcc. Ritengo che le Chiese vedono sempre più e di nuovo l'importanza e la necessità della cooperazione ecumenica attraverso il Wcc.

O.R. Quali sono i principali impegni e obbiettivi che attendono il Wcc nei prossimi mesi?

S.K. Nel programma abbiamo introdotto una nuova enfasi sull'accompagnamento delle Chiese nelle situazioni di conflitto. Ci stiamo preparando a inviare «lettere viventi» — vale a dire delegazioni delle Chiese membro che visitano una Chiesa membro che deve affrontare sfide difficili — nel mio paese natale, il Kenya, e anche in Sudan. Le «lettere viventi» contribuiscono al Decennio per superare la violenza che culminerà in una Convocazione Ecumenica Internazionale per la Pace nel 2011. Con il tema «Gloria a Dio e pace in terra», questo evento è inteso a rafforzare la testimonianza di riconciliazione e di pace giusta delle Chiese.
Un'altra priorità per le Chiese membro del Wcc è la situazione nel Medio Oriente e la necessità urgente di pace nell'intera regione. Attraverso il Forum Ecumenico Israele Palestina, costituito di recente, possiamo accompagnare le Chiese a un livello più profondo, aumentando la loro capacità di contribuire ai processi di pace in loco. Molte delle nostre Chiese membro e dei nostri interlocutori ecumenici hanno anche intensificato il lavoro nell'ambito dei cambiamenti climatici, riconoscendo le gravi conseguenze del riscaldamento globale su molti aspetti della vita.

O.R. Quali aree di conflitto interreligioso la preoccupano maggiormente?

S.K. Abbiamo osservato conflitti mortali di dimensioni etniche e interreligiose nascere in troppi posti negli ultimi anni, talmente tanti che non posso nemmeno elencarli. Uno degli sviluppi recenti che mi incoraggia è la lettera firmata da centotrentotto religiosi e studiosi musulmani. È un'iniziativa notevole e sfida le Chiese a rispondere con voce coerente.

O.R. Di fronte alla modernità e alle sfide della secolarizzazione secondo alcuni osservatori il Wcc si sente meglio attrezzato della Chiesa cattolica e delle Chiese ortodosse. È un'opinione fondata?

S.K. È quello che si diceva in passato. Molti pensavano che le Chiese non avessero altra scelta che adattarsi al mondo moderno secolarizzato. Non credo più che ciò sia vero. Abbiamo visto la rinascita della religione e nuove politiche d'identità in risposta alla globalizzazione. Le comunità in molte parti del mondo si oppongono al forte individualismo e all'egemonia dei valori liberali occidentali. Questa è una delle ragioni per il crescente fondamentalismo. Osservo però anche l'emergere di nuove risposte al contesto che cambia, specialmente tra i giovani. Tutti noi dovremo adattarci alle nuove realtà del ventunesimo secolo, ma spero che possiamo farlo senza essere troppo relativistici. Dobbiamo rimanere saldamente radicati nei nostri valori cristiani fondamentali.

O.R. La figura di Gesù Cristo è diventata una delle questioni attuali anche nell'ambito della cultura laica. Esiste un comune sentire tra i cristiani su Gesù rispetto alla sensibilità laica e secolarizzata?

S.K. Papa Benedetto XVI ha scritto un libro molto istruttivo su Gesù. Gesù Cristo, figlio di Maria e figlio di Dio, che è una cosa sola con il Padre e con lo Spirito Santo, è l'origine e il centro della nostra fede cristiana. Mentre una simile affermazione è incompatibile con una mentalità secolarizzata, è il terreno comune per le Chiese membro del Wcc e per molte altre comunità cristiane. Unisce i cristiani attraverso l'ampio spettro delle denominazioni. Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari, ci ha sempre ricordato che Gesù crocifisso e abbandonato è al centro della spiritualità dell'unità. Sono lieto di andarla a trovare sabato.

O.R. Quali sono i risultati emersi dalla tavola rotonda di Ginevra in occasione della settimana di preghiera per l'unità?

S.K. Quando ai partecipanti alla tavola rotonda all'inizio della Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani a Ginevra è stato chiesto di dare esempi concreti dei risultati della mancanza di unità delle Chiese, la risposta di suor Sheila Flynn, religiosa domenicana che opera tra persone che convivono con hiv e aids nei pressi di Johannesburg, è stata: «Il risultato della mancanza di unità nel nostro contesto è la morte!». Questa affermazione mostra che l'unità della Chiesa non è soltanto una domanda o un concetto che qualche teologo o funzionario ecclesiastico potrebbe considerare importante. No, è un interrogativo che riguarda ogni singolo cristiano, poiché è una questione sulla vita o sulla morte. L'unità è imperativa per la credibilità della testimonianza della Chiesa nel nostro mondo.

O.R. Quali sono le basi per un dialogo fecondo tra le Chiese? In che modo la cultura e l'economia influenzano questo dialogo?

S.K. Il dialogo non può ignorare le condizioni contestuali delle Chiese. La cultura e l'economia sono fattori importanti che incidono sulla vita dei cristiani e sul loro reciproco percepirsi. Per molto tempo, i cosiddetti «fattori non teologici» non sono stati presi sufficientemente sul serio. La credibilità degli interlocutori nel dialogo soffrirà se lo scandalo del crescente divario tra ricchi e poveri o l'egemonia della cultura consumistica, che va di pari passo con l'espansione dell'economia globale, non verranno affrontati. La credibilità è un presupposto per la fiducia e la confidenza reciproche, necessarie per un dialogo fecondo.

O.R. Trecentoquarantasette fra Chiese e comunità religiose fanno parte del Wcc. Quale di queste sta portando contributi nuovi e/o nuovi impegni per l'organizzazione?

S.K. L'appartenenza al Wcc è stata ripetutamente definita come il desiderio delle Chiese membro di essere «insieme sul cammino» verso l'unità visibile e la testimonianza comune. In questo modo, le Chiese membro sono preparate a portarsi avanti reciprocamente, ognuna offrendo un dono particolare all'associazione, un dono che aiuta tutti noi a riconoscere la nostra unità in Cristo.

O.R. Qual è la sua visione personale dei futuri rapporti con Roma e del cammino ecumenico in generale?

S.K. La mia visione del movimento ecumenico è che entro la metà del ventunesimo secolo avremo raggiunto un livello di unità tale che i cristiani ovunque, a prescindere dalla loro affiliazione confessionale, potranno pregare e venerare insieme e sentirsi i benvenuti alla Mensa del Signore in ogni chiesa; e che attraverso questo esempio la Chiesa potrà aiutare l'umanità a superare ogni divisione e i popoli del mondo a riuscire a vivere insieme in pace e armonia, indipendentemente dal loro sfondo culturale e dalla loro identità. A tal fine, sono convinto che i rapporti tra il Wcc e Roma saranno più forti e profondi negli anni a venire. Personalmente sono impegnato a portare questo rapporto verso vette più alte.


* L’intervista con Samuel Kobia, segretario generale del Consiglio
ecumenico delle Chiese, è stata realizzata da Marco Bellizi e pubblicata da L’Osservatore
Romano’
il 24-01-2008.

Il rituale offre un'ampia scelta di letture bibliche


Rito del matrimonio: i testi biblici

di Giovanni Giavini



Nel nuovo rituale i testi biblici proposti sono moltissimi, più o meno ampi, completi o ridotti, scelti con criteri presentati in modo sintetico (troppo) nelle premesse, senza indicazioni sul modo di accorparli in una specifica celebrazione (lasciato alla libertà del celebrante o dei nubendi); i testi si aprono a diversi utilizzi e a varie interpretazioni (magari sfruttando solo una frase).

Essere ortodosso in Occidente

di Vladimir Zelinskij




Il tema che mi è stato proposto non solo non si potrebbe esprimere nel quarto d'ora che mi è stato accordato, ma neppure in quella che è la mia lingua madre. “Essere ortodosso in Occidentecome argomento, forse, corrisponde perfettamente allo spazio di un quarto d'ora, ma tutto quello che può essere abbracciato dalle parole russe “byt' pravoslavnym na Zapade” [essere ortodosso in Occidente] basterebbe a scrivere un libro intero “di fredde osservazioni della mente e dolenti note del cuore” (Puškin). La differenza tra la frase italiana e il suo legnoso calco russo è simile alla differenza tra la russa “confessione di un cuore ardente” (Dostoevskij) e la conferenza cortesemente distaccata, che si mantiene entro precisi argini. Tuttavia lo stile del nostro discorso spesso ne condiziona la sostanza e perciò, se vogliamo mantenerci fedeli al tema, dobbiamo trovare una via intermedia, che operi un compromesso fra queste due tonalità, esprimendo in russo un'esperienza italiana, vissuta tra due realtà e per lo meno in due lingue.

Com'è noto la terra d'esilio - esprimiamo con questo elevato termine puškiniano la strana sensazione di strappo fisico dal nostro stesso passato - ci condanna a tornare in noi. Per questo “essere ortodosso in Occidente” prima di tutto ha voluto dire per me cercare di esserlo di nuovo, tornare all'ortodossia ricco di una nuova esperienza, compiere un pellegrinaggio interiore “nel paese d'Oriente” (Hesse) pur restando in Occidente, mantenendo contatti quotidiani, culturali, amicali e spesso di preghiera con la Chiesa cattolica. E questo mio ritorno non ha voluto dire in alcun modo dissociarsi dalla nuova esperienza occidentale, ma ricercare la comune origine spirituale. Poiché in questa origine, ortodossia e cattolicesimo rimangono nel profondo, nonostante tutto ciò che li divide, rivolti l'uno verso l'altra, direi che segretamente si cercano. Segretamente, perché nessuna delle due parti ancora si rende conto del bisogno che ha.

Innanzitutto, come ben sappiamo, le due Chiese confessano se stesse negli stessi identici termini, proclamando di essere una, santa, conciliare o cattolica, basata sulla comune eredità apostolica. E questo rivendicare un'unica verità indivisibile, ferme restando le sue diverse interpretazioni, crea ad un tempo il terreno per un secolare conflitto e per una riconciliazione nell'unica fede, riconciliazione che dobbiamo ancora scoprire o meglio lasciare che si rinnovi, come può rinnovarsi un icona in risposta alle preghiere umane. Anche per questo non bisogna parlare della necessità di trovare una verità comune, quanto della necessità di un nuovo incontro nella verità eterna che “da tempo è stata trovata” (Goethe), ma che si cela sotto la coltre delle nostre tradizioni e neanche in primo luogo delle tradizioni ma delle forme, delle ombre storiche e confessionali che una Chiesa getta sull'altra.

Tuttavia la divisione tra Oriente e Occidente non corre solo tra le diverse forme della verità ma anche, per dirla con le parole di Buber, “tra due tipi di fede”, che naturalmente, oltre al fondamento dogmatico, ne hanno anche uno umano. L’Occidente visto da Oriente, così come l'Oriente visto in proiezione da Occidente manifestano spesso il nostro segreto desiderio di guardare l'altro come vorremmo vederlo, o meglio, il desiderio di non guardarlo affatto, a seconda che lo consideriamo con simpatia o con ostilità. La libertà che è esplosa in Oriente - e non parlo solo della Russia - ha dato via libera a questi desideri ed oggi si sono delineate per lo meno due immagini “ortodosse” di Europa, che continuano a respingersi l'una l'altra.

In un caso l'immagine ortodossa dell'Europa si leva come un baluardo per respingere l'ininterrotta aggressione occidentale contro l'ortodossia. È una sorta di linea Maginot psicologica posta a salvaguardare l'ultimo sostegno dell'autentica pietà, mentre quest'ultima, più si sente dolorosamente circondata da ogni lato più si spinge verso l'alto, arrivando ormai fino al cielo, anzi “nel più alto dei cieli”, per suddividerlo in settori, quello aperto per noi, e quello chiuso per gli altri. È pur vero che l'Europa e l'America, in certi casi, servono da spauracchio preso a prestito da agitare davanti al nemico di casa, e la stessa parola Occidente non è altro che il simbolo della tentazione occidentalista, che agisce e corrode oppure che si accinge a rinnovare l'ortodossia dal di dentro. Capita che l'antiecumenismo più sfegatato in Oriente, anche se si atteggia a san Giorgio che uccide il drago, possa tranquillamente instaurare rapporti amichevoli e persino cordiali col drago, che gli renda visita nella sua stessa tana in Occidente, e arrivi persino a fargli dono dei propri libelli anti-drago. In realtà, il mostro cattolico, per quanto astuto e ostile possa essere, resta per chi lo combatte un oggetto di scarso interesse; del resto anche la diaspora ortodossa in Occidente spesso lo considera un vicino seccante e poco simpatico (che per di più occupa tutto lo spazio a disposizione) e gli volta le spalle. Di conseguenza, nella prospettiva dell'unità, l'antiecumenismo ortodosso freddo e rigido qui in Europa è ben peggiore e senza rimedio degli anatemi orientali. Ma qui si aprirebbe un altro discorso.

Esiste, a dire il vero, anche un'altra immagine ecumenica, o piuttosto antiantiecumenica dell'Occidente che ha solide radici in Oriente, immagine che parte più o meno consapevolmente dal presupposto che il cattolicesimo sia appunto l'ortodossia ideale, tornata finalmente al Vangelo, liberatasi dallo spirito mercantile moscovita, dalla pesantezza imperiale, dall'iraconda intolleranza da Avvakum e dall'abbietta adulazione untuosa. Ricordo come si crea quest'immagine in base alla mia esperienza personale, ma ora so anche che le Chiese ideali non si edificano cercando di eliminare con un'operazione mentale determinati difetti della propria Chiesa, poiché la strada dell'unità non incomincia dalle nostre proiezioni, ma deve prendere corpo organicamente dal terreno, dallo spazio spirituale in cui sussistiamo.

UNA CHIESA RIDOTTA A MUSEO

Ma se l’Oriente, nei riguardi dell'Occidente, come dice Blok, “scruta, scruta e scruta, con odio e con amore”, l'Occidente, dal canto suo, spesso incapace persino di immaginare un tale ribollire di sentimenti, prende le distanze dall'Oriente, posto che vogliamo chiamare convenzionalmente con questo nome l'ortodossia, con una scelta più conciliante, più amichevole e soprattutto più astuta. L'Occidente non costruisce baluardi, però circonda l'Oriente con una sorta di recinto invisibile ma impenetrabile, alle cui porte sta scritto “museo delle credenze orientali”. Su queste porte fa bella mostra di sé la chiesa di San Basilio, imponente come un lustro samovar, copiato dai dépliant turistici. E dietro al San Basilio-samovar incomincia subito quello che io chiamo “la più vieta Zagorsk” (perché, bene o male, in Occidente hanno assimilato il concetto che la Lituania e la Georgia non fanno più parte della Russia, ma quasi nessuno ce la fa a pronunciare il nome della “Lavra della Trinità di san Sergio”).

A Zagorsk dunque (nella Lavra vera e propria o più o meno là attorno), le lampade davanti alle icone tremolano in modo così intimo e misterioso, il popolo canta così a lungo, in modo incomprensibile ma tanto, tanto devoto, che sembra venuto fuori dritto dalla santa Rus'; insomma qui spira, scintilla e alita quello che è definito dalla misteriosa parola spiritualità. La spiritualità (non troveremmo un termine analogo che sia adeguato nell'uso linguistico russo) viene spesso concepita come una sorta di lusso orientale un po' eccessivo nella vita cristiana normale; è questa spiritualità che si mette in mostra e si onora talvolta proprio come un reperto del museo di Zagorsk.

Qualche volta, non avendo sottomano il famoso popolo o un bel pellegrino vecchio stile, mi invitano come massimo esperto di Zagorsk che c'è in circolazione, ai più svariati incontri e conferenze per sentirsi raccontare in quindici minuti che là a Zagorsk le vicende ecumeniche, la riconciliazione tra le Chiese e l'amore per tutta l'umanità stanno andando a gonfie vele. Chissà perché ogni volta, dopo queste conferenze, mi vien voglia di controproporre un mio tema non troppo conciliante però tipicamente zagorskiano e discutere, ad esempio, dei chiari, sinistri e indiscutibili segni della venuta dell'anticristo in questo mondo, oppure della cerimonia per accogliere nell'ortodossia un eretico e secondo quale Rituale scacciare da lui i demoni. Il tentativo di disfarsi dell'Occidente tradisce una specie di reazione di difesa dell'Oriente, il quale continua a pensare, per quanto si cerchi di farlo ricredere, che l'altro lo voglia rendere totalmente uguale a sé. In compenso in Occidente si coltiva viceversa la molteplicità più rigogliosa, la dissimiglianza, l'insistita orientalità di tutto ciò che non è Occidente, e nel complesso, si ammette con assoluta tranquillità che le fedi debbono essere tante, che sono tutte “belle e buone”, e che ognuno può averne una sua personale.

Ricordo che la redattrice di una famosa rivista, una signora praticante e colta, nel commissionarmi un articolo sull'ortodossia mi ha chiesto con estrema benevolenza di spiegare ai lettori, i quali “non sanno assolutamente nulla”, che differenza passa tra la mia religione e il cristianesimo. Nella sua domanda non c’era nessun sottinteso complesso di superiorità cattolica, ma piuttosto la coscienza che tutte le religioni sono buone e quelle orientali, nella loro stranezza, sono ancor meglio; ma ammetto che ogni volta, davanti a questo genere di interesse verso l'ortodossia, mi viene da rispondere come il Mancino leskoviano (1): “Che differenza? Semplice: che i nostri libri contro i vostri sono più grossi, e che abbiamo anche le icone fatte dalla mano di Dio, e le teste che stillano tomba, e i monaci veggenti, e i Zosima di Dostoevskij, e i pope col barbone...”. Fate del Mancino un dottore in teologia e la sua risposta diventerà esattamente come quella che si aspettano da me, basta solo aggiungere un pizzico di ecumenismo dolciastro. Infatti la benevolenza occidentale verso il museo di Zagorsk, mi par di capire, deriva in sostanza da una segreta, strettissima parentela con l'intolleranza di Zagorsk; che l'una e l'altra usino maniere ben differenti è evidente, ed ha il suo peso, ma per quel che concerne l'unità cristiana non sono di alcuna utilità.

IL RICHIAMO PROFONDO DELL'UNITÀ

Essere ortodosso in Occidente, se non ti vuoi seppellire da solo in un ghetto dorato e non scegli di stare in un perenne stato di guerra fredda con l'Occidente, vuol dire sentire ogni tanto che la tua ortodossia non solo è chiusa a sette mandate dietro alle spesse mura della vera Zagorsk, costruite contro gli eterodossi, ma è anche difesa da un'ampia cancellata da museo, dietro alla quale si trovano diverse “riserve religiose”, comprese le più esotiche e le più intolleranti.

Tuttavia, questa mentalità è resa un tantino retrograda dal fatto che prende in considerazione un'immagine del mondo che sta scomparendo a vista d'occhio. Per questo l'Occidente, se parliamo delle masse popolari, della gente della strada, non si accorge affatto dell'ortodossia che ha in casa, non dico del mosaico delle più diverse Chiese nazionali, ma appunto della fede che è già nata, che ha messo radici e intende svilupparsi qui. All'ortodossia si trova un posto solo nella “riserva indiana”, russa, greca o romena che sia. Del resto, la maggioranza dei parrocchiani e tutti i sacerdoti del Patriarcato di Mosca in Italia, tanto per fare un esempio, ormai sono di nazionalità italiana; tra i monaci del Monte Athos si possono trovare anche giovani francesi; le Chiese ortodosse locali (ovvero la diaspora ortodossa) crescono a poco a poco ma costantemente negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Finlandia, in Polonia, eccetera. Io sono in corrispondenza con un predicatore carismatico ortodosso del Kenya; ad ascoltarlo, a vedere nelle foto la popolazione locale che prega genuflessa davanti a un icona della Madre di Dio, viene involontariamente da pensare: guarda dov'è andata a finire la Santa Rus'. La vecchia geografia confessionale cambia ogni giorno e la fede della Chiesa bizantina, estinta da tempo immemorabile, dopo tutti gli uragani e i turbini che l'hanno colpita nel nostro secolo (e che non l'avevano risparmiata neppure nei secoli precedenti), ha manifestato all'improvviso un’insolita vivacità e inaspettatamente, contro la propria volontà e quasi inosservata, si è diffusa per i sei continenti. E penso che l'esistenza di un’ecumene ortodossa sia un bene non soltanto per l'ortodossia stessa, ma anche per il mondo cristiano che la circonda e che interagisce con essa, dato che dopo l'epoca delle escursioni nei musei dell'ecumenismo che le Chiese si sono scambiate fino ad ora, incomincia finalmente il tempo di un autentico scambio di doni.

Esattamente allo stesso modo, non si può non vedere che il nascere e il diffondersi del cattolicesimo nell'Oriente ortodosso è un processo altrettanto irreversibile ed organico, forse parzialmente forzato, ma certo non totalmente impiantato dall'esterno. Il cosiddetto cattolicesimo russo, e sottolineo questo aggettivo, affonda le sue radici non solo in personalità come Čaadaev e Solov'ëv, come Leonid Fëdorov e il vescovo Varfolomej Remov, ma anche nella persona di padre Sergij Bulgakov, benché questi, dopo il suo improvviso avvicinamento a Roma, continuò poi a polemizzare con essa per tutta la vita. Il fatto è che la cattolicità (kafoličnost', come diciamo noi rifacendoci al greco), o universalità, è il tema o piuttosto uno dei temi dell'anima religiosa russa. L’impulso spontaneo di padre Sergij Bulgakov, che trova espressione nell'opera Alle mura di Chersoneso, anche se ripudiato e rimosso subito dopo, ha messo a nudo meglio di qualsiasi altra cosa, per un istante ma con chiarezza penetrante, questa aspirazione all'universalità, o la “ricerca universale della verità” che talvolta si nasconde nell'anima ortodossa, in quella russa in particolar modo, anche se spesso ne viene scacciata come una “tentazione dell'Occidente”. E si troveranno sempre degli uomini, in terra ortodossa, che si comporteranno come se non avessimo mai litigato e non cercassimo cospirazioni esterne, per i quali questa ricerca della cattolicità-universalità e della “Città Nuova” prenderà le forme di un pellegrinaggio spirituale e confessionale dalla Terza Roma alla Prima.

D'altro canto, in Occidente non fa che crescere il numero delle persone che, nelle proprie confessioni occidentali sente la mancanza della viva tensione al mistero, della sacralità, della tradizione, dell'opera della preghiera, della ricchezza simbolica. Esiste una particolare nostalgia dell'ortodossia anche nell'anima cattolica (quella protestante, in particolare di tendenza fondamentalista, in questo senso è un po' più corazzata), esiste una passione che non è solo per il museo religioso e le esposizioni di icone, ma per la sorgente spirituale da cui nasce l'icona, per la quale si compie l'Eucaristia, da cui cresce tutta la struttura ascetica e spiritualizzatrice della Chiesa orientale. E questo interesse ha sotto di sé un fondamento eucaristico. Se qualche anno fa avrei potuto percepire solo intuitivamente questa sete e questa ricerca reciproca fra le nostre Chiese-sorelle, ora la mia sensazione ha trovato conferma nell'esperienza del rapporto con una moltitudine di cattolici, sacerdoti e laici, non soltanto in Italia. Essere ortodosso in Occidente vuol dire portare in sé l'esperienza e l'annuncio che la divisione in confessioni su base nazionale ha fatto il suo tempo, che il mondo cerca una Chiesa universale o plerodossa, come dice Vjačeslav Ivanov, aperta al mistero di Dio e al mistero dell'uomo, dove una non può sussistere senza l'altra.

E tuttavia, se in un caso questo mistero fa di tutto per seppellirsi dietro alle mura di Zagorsk (sia in senso letterale che figurato), nell'altro spesso si desacralizza in quel culto sconfinato e addirittura fanatico dell'uomo che sotto i nostri occhi si fa religione. La tolleranza e l'interesse per l'ortodossia come oggetto da museo, di cui ho parlato, ha alle spalle un fondamento filosofico ben preciso, anche se non sempre consapevole. Lo si potrebbe esprimere con la formula con la quale Reinhold Niebuhr una volta ha cercato di definire la sostanza del protestantesimo liberale americano: “un Dio senza ira conduce un uomo senza peccato in un Regno di Dio senza giudizio, tramite un Cristo senza croce”. In questa religione senza spigoli tutto assume le forme della cultura e del folclore, e la cultura stessa porta in sé la propria salvezza e la propria forma di religiosità. In tale religiosità l'uomo talvolta si permette, senza tanti complimenti, di giudicare e decidere di cose di cui non sempre ha il diritto e la capacità di giudicare e decidere. A questo punto incomincia una fede personale, che non saprei se si possa ancora chiamare cristiana.

SENTIRE IL DRAMMA DELLA DIVISIONE

Per finire vorrei raccontarvi una storia tipica, che mi ha alquanto sorpreso. Nella scuola frequentata da mio figlio l'insegnante di religione ha trattato, come si usa dire, il tema della morte. E ha deciso di prendere come esempio la storia di un ragazzo drogato, con spiccate doti d'artista, che è vissuto nella nostra città ed è morto un paio d'anni fa di Aids. Dopo aver raccontato della sua morte, ha chiesto agli alunni di dieci-undici anni di scrivere una poesia. E tutti i bambini dal primo all'ultimo, ispirati dal suo racconto e toccati dal mistero della morte che si era un po' rivelato loro, anche se non come una cosa terribile ma familiare, hanno scritto dei versi su questo Fabio. La cosa sorprendente è che la maggioranza ha scritto delle poesie non brutte (poi sono state pubblicate e donate al padre del pittore), dimostrando che persino nell'anima di calciatori sfegatati, quali sono quasi tutti i bambini italiani, ancora albergano dei rivoli di poesia. Queste poesie sono state lette sul palcoscenico, messe in musica e dotate di coreografia. Fra l'altro tutte le poesie, in base al tema assegnato, non parlavano del Fabio che era vissuto recentemente ma di quello che vive adesso, nell'aldilà. I bambini, per lo più provenienti da normali famiglie cattoliche, ci avevano messo tutto quello che pensavano dell'aldilà, quello che gli hanno insegnato a scuola, a casa, al catechismo, e cioè che dopo la tomba c'è un paradiso fantastico, allegro, dove si sta bene, e Fabio in special modo. Qualsiasi accenno di riflessione inquietante o anche serena veniva spazzata via dalla censura scolastica. In questa visione non c'era il minimo posto né per la preghiera, né per il suffragio, e neppure per qualche dubbio sulla gloria celeste e la pace eterna preparate per tutti e per ciascuno, al punto che poteva persino nascere il desiderio di non fermarsi troppo in questa vita per correre subito dietro al defunto, cantando e ballando. A dire il vero, qualcosa che assomigliava a una preghiera si è sentito, tuttavia non era una preghiera per Fabio ma a Fabio; nella scena finale, tutti insieme (si era arrivati a una vera e propria messa in scena teatrale) i ragazzi, presisi per mano, gridavano verso il cielo: Fabio sei il nostro fiore, il nostro sole, la nostra cometa, la nostra fonte di luce, Fabio sei tu il nostro azzurro!.

In sostanza, se con la bocca dei lattanti e della povera maestra, nel nostro caso, non è affermata tutt'intera la verità, forse questa risuonerà allora per bocca del presidente della Società teologica italiana il quale, nella presentazione di un suo libro sulla Chiesa, ha esordito chiedendosi a cosa serva la Chiesa se comunque sono già tutti salvati senza eccezione. Risposta: perché esiste la via regale, ampia, mentre ci sono sentieri e viottoli d'ogni tipo, e comunque, alla fine, tutte le strade portano al cielo. Sarebbe troppo bello, ho pensato io, e la mia testarda memoria ortodossa mi ha richiamato immediatamente alcune citazioni del Vangelo, il quale non è altrettanto indulgente al riguardo e non afferma assolutamente che la via più ampia ci porta sempre dove vogliamo. Se la Chiesa viene strappata dal contesto della salvezza (che sarebbe per tutti indistintamente), allora effettivamente per quanto ancora sarà necessaria? Per contro, nelle ultime pubblicazioni ortodosse di stretta osservanza che ho portato da Mosca e tengo in biblioteca, non si fa che ribadire con accanita esultanza, con gusto direi, il concetto che la sola idea dell'apocatastasi (cioè che l'inferno e le sue pene potranno un giorno, dopo un tempo interminabile, avere fine) è chiaramente demoniaca, e che l'ecumenismo è di per sé l'eresia delle eresie, che va colpito da anatema, e che al di fuori della vera Chiesa si spalanca la geenna, dove non si può neppur pensare alla salvezza... Da una parte una crescente e diffusa insensibilità verso il “mistero dell'iniquità” che opera nel mondo e nell'uomo, e dall'altra quasi l'ossessione delle tenebre che incominciano subito, senza alcuna gradualità, oltre il cerchio magico dell'ortodossia da noi tracciato...

Essere ortodosso in Occidente vuol dire sentire il continuo richiamo di voci che non si sentono l'una l'altra; vuol dire sentire sulla pelle e nello spirito la differente temperatura spirituale e confessionale di due mondi religiosi che non confluiscono l'uno nell'altro. Vuol dire scoprire di nuovo, non solo nelle ricerche ma nel profondo del cuore, quello che si chiama “il dramma della divisione”, che non è affatto tolto ma solo leggermente anestetizzato dalle facili fraternizzazioni e dall'ecumenismo ufficiali. La drammaticità di questa divisione consiste nel fatto che gli attori stessi, nella gran maggioranza, in sostanza non sentono alcuna divisione; le loro verità, a dispetto del bisogno e della nostalgia reciproci, stanno rinchiuse nelle loro corazze protettive, e ciascuno conserva la propria ricchezza, la propria memoria, l'unica visione del mondo giusta, che è la sua. E se una di queste verità ha trattenuto fermamente in sé le parole “quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio” (Gv l6,8) sul destino di ogni singola anima che sta davanti a Dio, l'altra, almeno nelle intenzioni iniziali, si fonda sulla concezione dell'unità sostanziale, ontologica del genere umano, raccolto e redento da Cristo. E tuttavia, la differenza di misura e il contrasto nel modo di interpretare e di vivere queste verità in “Occidente” e in “Oriente” (temo non mi bastino le virgolette per sottolineare l'assoluta convenzionalità di questa distinzione geografica) confermano appunto che prima o poi questi due mondi dovranno intersecarsi come i due bracci della croce del Signore; che alla fine dei conti non potranno fare a meno di incontrarsi e di ritrovarsi nel mistero comune, nell'annuncio comune e nel calice condiviso.

Nota

1) Protagonista dell’omonimo racconto di Leskov (Levša). La citazione parafrasa comicamente dei lughi comuni della devozione ortodossa.

Search