Ecumene

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Il tema Maria-Chiesa va visto in questa sede con taglio nettamente liturgico: si tratta cioè di vedere come è vissuto nella liturgia.

Il quarto vangelo
e i vangeli sinottici

di Claudio Doglio – Roberto Vignolo




In quanto «vangelo»: narrazione della vicenda storica di Gesù dal battesimo alla risurrezione, rilievo dato al viaggio fondamentale a Gerusalemme, importanza a informazioni geo-topografiche, aspetto «drammatico» della vita di Gesù, discorsi d’addio in cornice storica, parole e segni come avvenimenti reali e concreti.

Le principali differenze

Anche se gli elementi comuni non mancano (alcuni racconti, logia, citazioni dell’Antico Testamento, brevi parabole, espressioni metaforiche, sentenze e proverbi), esistono pure delle grandi differenze fra Giovanni e i Sinottici. Vediamo le più rilevanti.

- Nel quadro geografico e cronologico. Il ministero di Gesù secondo Giovanni abbraccia il periodo di tre feste pasquali, quindi sembra durare circa tre anni, mentre nello schema sinottico si parla di una sola Pasqua, riducendo il racconto a un solo anno. Per i Sinottici Gesù comincia la missione in Galilea e va una volta sola a Gerusalemme. In Giovanni, invece, Gesù va continuamente avanti e indietro dalla Galilea a Gerusalemme, dove quasi tutto il racconto viene ambientato.
- Nel modo di presentare i miracoli. I gesti prodigiosi raccontati da Giovanni sono chiamati «segni» (semeia), sono in numero di sette (probabilmente simbolico) e appartengono quasi esclusivamente a questo Vangelo: 1) le nozze di Cana; 2) la guarigione del bambino dell’ufficiale; 3) la guarigione del paralitico della piscina di Betzatà); 4) la moltiplicazione dei pani; 5) il cammino sulle acque; 6) la guarigione del cieco nato; 7) la risurrezione di Lazzaro. Solamente due sono comuni con i Sinottici: la moltiplicazione dei pani ed il cammino sulle acque.
- Nel modo di presentare l’insegnamento. In Giovanni abbiamo lunghi discordi di controversie e di insegnamento, mentre i Sinottici hanno in genere antologie di brevi logia indipendenti, anche se Matteo ha raccolto il materiale in grandi discorsi, di fatto si tratta sempre di compilazioni in cui è evidente l’origine autonoma dei vari detti; invece nel quarto Vangelo si trovano molti discorsi, lunghi e organici, strutturati in modo complesso e retoricamente valido.
Vari tentativi di spiegazione

Come spiegare queste somiglianze e differenze tra Giovanni e i Sinottici? Per risolvere questo problema sono stati proposti almeno tre schemi di soluzione:

1) i Sinottici dipendono da Giovanni;

2) Giovanni dipende letterariamente dai Sinottici;

3) Giovanni deriva da una tradizione indipendente che sta alla base anche dei Sinottici.

È inimmaginabile che Giovanni abbia determinato i Sinottici proprio per questione di tempo. Rimangono quindi le altre due possibilità che prendiamo in considerazione.

Nell’antichità i Padri pensavano generalmente che Giovanni dipendesse in qualche modo dai Sinottici. Ma da tale presupposto nasce un altro problema: se Giovanni conosce i Sinottici perché ha scritto un Vangelo così diverso? Nella tradizione patristica sono già state formulate tutte le risposte possibili, riprese poi variamente anche dagli autori moderni:

- Giovanni ha scritto il suo Vangelo per completare quello che avevano detto gli altri evangelisti (ipotesi del completamento);

- Giovanni ha aggiunto molti discorsi allo scopo di evidenziare e interpretare meglio il messaggio teologico che nei Vangeli sinottici non era chiarissimo (ipotesi dell’interpretazione);

- Giovanni voleva superare l’aspetto materiale per arrivare all’annuncio spirituale (ipotesi del superamento);

- Giovanni aveva il desiderio di sostituire i Vangeli sinottici ritenendoli per qualche motivo non validi (ipotesi della sostituzione).

Oggi, tuttavia, l’opinione più sostenuta supera tutte queste varie ipotesi di rapporto coi Sinottici e preferisce sostenere che Giovanni derivi da una propria tradizione indipendente, eppure chiaramente ancorata alla predicazione apostolica più antica. Tutto ciò che è diverso si può spiegare in quanto parte dell’ambiente culturale giovanneo e appartenente all’autentica tradizione dell’apostolo. Così Giovanni utilizza uno schema narrativo proprio, mentre i Sinottici riproducono tutti uno stesso antico canovaccio narrativo.

Possiamo, in conclusione, ritenere improbabile che Giovanni dipenda letterariamente in modo diretto dai Sinottici; le concordanze si possono spiegare con la tradizione orale; ma la tradizione giovannea risulta autonoma nel suo complesso. Una certa conoscenza del contenuto della tradizione sinottica esiste, ma deriva da elementi che possiamo definire «pre-sinottici». Nel quarto Vangelo, infatti, esistono indizi di un’antica tradizione su discorsi e fatti della vita di Gesù, simile nella forma e contemporanea a quella sinottica; con la sua esposizione, però Giovanni persegue un fine suo proprio, che è la chiave migliore per spiegare il sorprendente rapporto di riflessione teologica, è necessario riconoscere che la tradizione giovannea contiene non poche informazioni complementari attendibili sotto l’aspetto storico.

Modelli a confronto: i prologhi dei Vangeli sinottici

Proponiamo, come esemplificazione, un confronto a proposito del mondo di iniziare il racconto evangelico nei Sinottici e in Giovanni.

Stimato fin dall’antichità a ragione quello più recente, il quarto Vangelo doveva conoscere i tentativi già attuati dai suoi colleghi sinottici di produrre una testimonianza scritta della storia singolare di Gesù, proprio perché non si perdesse la memoria di questo evento rivelatore e vivificante, e perché i credenti, in stragrande maggioranza tagliati fuori dalla contemporaneità storica con Gesù, disponessero delle testimonianze adeguate per conoscerlo nella sua autentica identità salvifica, e non ricercarlo a vuoto. Senza pretese di trascrivere tutto su Gesù (così 21,25, con buona pace di At 1,1!), ma pure senza complessi d’inferiorità per il proprio limite, Giovanni dichiara che

Molti altri segni fece Gesù, sotto gli occhi dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il cristo, il Figlio di Dio, e perché credendo abbiate vita nel suo nome (20,31).

Giovanni non è, quindi, il primo ad aver affrontato il dilemma di come e da dove cominciare un Vangelo. Sicché, per apprezzarne le scelte con cui aggancia il lettore per offrirgli un’adeguata chiave della persona di Gesù, converrà, quindi, confrontarci con i prologhi di Marco, Matteo e Luca.

Il prologo evangelico più antico (Mc 1,1-15)

Rispetto al più antico Vangelo di Marco, che esordiva con: «Inizio (archè) del Vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio…» (Mc 1,1), Giovanni condivide con il suo «In principio», condivide addirittura lo stesso primo sostantivo (archè).

Ma intorno a questa preziosa somiglianza verbale si accumulano non poche differenze, sia sull’idea stessa di «inizio/principio», sia sulla maniera di organizzare il prologo. Allargandosi vistosamente con un inno di ben diciotto versetti, Giovanni infatti si discosta dal più antico Vangelo di Marco che in senso diametralmente opposto preferiva piuttosto ridurre e nascondere il proprio prologo.

Cocendo il titolo iniziale (Mc 1,1) su di una citazione di compimento a propria volta direttamente assimilata al corpo del racconto: «Come è scritto nel profeta Isaia: “Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te, egli ti preparerà la strada. Voce di uno che grida nel deserto: preparate la strada del Signore, t’addrizzate i suoi sentieri”» (Mc 1,2-3; cf. Ml 3,1; Is 40,3), Marco presenta subito Giovanni il battezzatore (1,4-8) per arrivare speditamente al battesimo di Gesù di Nazareth viene a ricevere dalle sue mani (1,9-11), prima di soggiornare nel deserto ( in compagnia di fiere, Satana, e angeli: 1,12-13), sospinto dallo Spirito, e poi di predicare in Galilea (1,1-15) e chiamare i primi discepoli (1,16-20). Marco ha fretta di metterci a più diretto contatto possibile con Gesù già adulto, impegnato nella sua vita pubblica a rispondere alla propria missione.

Mc 1,1-15 parte davvero di scatto, con un’accelerazione in medias res, che in un attimo ci immette nel vivo della storia, avviata con la solidarietà di Gesù al battesimo predicato da Giovanni. Come gli altri penitenti immerso anche lui nel Giordano per mano del suo precursore, misteriosamente partecipe di questo richiamo (kerigma) alla conversione, egli fa di questo evento ben più di un semplice spunto iniziale, assumendolo come un «principio», una sorta di «nucleo originario» anticipatamente comprensivo del suo Vangelo, la quintessenza sia della sua stessa predicazione, come pure come di quella post-pasquale (ecclesiale) su di lui.

Di fronte al battesimo di Giovanni (1,1-8) e a Gesù che, risalendone, ottiene pieno riconoscimento dal Padre (1,9-11.13), il lettore subisce un impatto di sconcertante rivelazione e inaudita profondità salvifica. Sapendo egli già chi sia Gesù (1,1), e conoscendo pure la promessa di Giovanni circa la venuta di uno più forte, a immergere nello Spirito (1,7-8), egli si vede invece arrivare un Gesù imprevedibile sottomesso al battesimo di penitenza, in corrispondenza con il quale riceve la teofania celeste, con lo Spirito e la voce del Padre («Tu sei il mio figlio prediletto: in te mi sono compiaciuto!»: 1,9-11).

Ma proprio a questo punto, ecco le sue cognizioni e predisposizioni sottoposte a uno sconvolgente effetto sorpresa: se infatti Gesù è «più forte» del Battista, perché mai si sottopone al suo battesimo, come gli altri peccatori? Sovente spacciato per un vivace racconto di gusto popolare ( il che è parzialmente vero), e perciò ingenuo ( questo invece è solo un pregiudizio esso stesso ingenuo), quello di Marco è in realtà un imponente racconto kerigmatico, perfino difficile da recepire col suo impatto mozzafiato che intreccia gli eventi compiendo ogni preventiva attesa con le spiazzanti sorprese di misteriose rivelazioni, la cui trafila corre sull’intera narrazione, e culmina nell’annuncio di Pasqua (16,1-8).

Da dove far cominciare la storia di Gesù?

Pur nella sua potenza kerigmatica il prologo marciano, però, non ha evidentemente soddisfatto gli altri tre suoi colleghi evangelisti. Matteo, Luca e Giovanni optano infatti in senso diametralmente opposto rispetto a Marco, tanto per forma quanto per contenuto. E così, se dal punto di vista letterario, invece di un prologo «nascosto», ne elaborano uno di proporzioni vistosamente accentuate; dal punto di vista contenutistico retrocedono invece con la memoria ben oltre il battesimo di Gesù adulto al Giordano, cercando radici più antiche della sua storia, in ordine a una sua identificazione più chiara tramite l’esplicitazione della sua misteriosa origine.

Ancorché fattore irrinunciabile al Vangelo (menzionato già nelle più sintetiche formulazioni kerigmatiche di At 10,37; 11,16; 13,24-25; 19,3-4), il battesimo di Giovanni non si impose come indiscutibile punto di partenza storico-narrativo della storia di Gesù, in quanto rispetto alla sua identità quell’inizio/principio ne offriva un’immagine di difficile decifrazione e perfino equivocabile (almeno fuori dalla stretta cerchia di Marco). Confrontando il più antico incipit marciano con quelli degli altri Vangeli viene da concludere ragionevolmente che nel cristianesimo primitivo dovette prodursi un intenso ripensamento critico circa la maniera di raccontare la storia di Gesù proprio relativamente all’ identificazione del suo inizio/principio. Per render ragione della sua identità, da dove far cominciare la storia di Gesù?

A questa semplice domanda, quanto impegnativa domanda Mc 1,1-15 rispondeva con la teofania prodottasi al battesimo di Gesù, riconoscendovi la manifestazione della sua relazione filiale a Dio, relazione unica, garantita dai cieli squarciati, dalla discesa dello Spirito dalla voce celeste. Irriducibile a semplice investitura (o vocazione) profetico-messianica di Gesù, quella relazione (al momento nota solo a lui, e coincidente col cosiddetto «segreto messianico» destinato a un drammatico svelamento), rimanda ben oltre la circostanza del Giordano, e presuppone, dal punto di vista di Marco, una cristologia se si vuole grezza, ma nient’affatto «bassa.

Sta di fatto comunque, che, raccontata così, quella sua immersione al Giordano generò qualche imbarazzo per le comunità primitive, poiché si prestava a un duplice equivoco: sia quello di un Gesù palesemente inferiore al profeta suo precursore (il dialogo di Mt 3,14-15 cercherà di scioglierlo), sia quello di un Gesù che solo all’uscita dalle acque sarebbe appunto diventato Figlio di Dio, senza esserlo precedentemente, secondo la riduttiva interpretazione nota come adozionista ed ebionita, che i successivi Vangeli, ciascuno a suo modo, si premurano di controbattere.

Un nuovo inizio, secondo Matteo e Luca

Comprendiamo allora la tendenza di Matteo, Luca (e Giovanni) a spostare all’indietro l’origine di Gesù, retrocedendo anche cronologicamente fino a un altro evento in cui far brillare la consistenza della sua relazione a Dio con inequivoca trasparenza. Questo appunto ci inducono a pensare i cosiddetti Vangeli dell’infanzia (Mt 1-2; Lc 1-2), nonché lo stesso prologo giovanneo.

Così dall’età adulta di Gesù Matteo e Luca si spingono indietro, fino alla sua preannunciata nascita e concepimento verginale da Maria a opera di Spirito Santo, per rimarcare com’egli non aspetti certo il battesimo al Giordano per diventare Figlio di Dio, dimostrando di esserlo fin dal suo stesso concepimento.

Ecco allora il prologo matteano ( per limitarci a Mt 1,1-17) intitolato «il libro della genealogia di Gesù Cristo, figli di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1,1), e successivamente articolato in una genealogia discendente (1,2-17) ispirata alla tradizione sacerdotale e cronistica. Questo molto ampio prologo genealogico, esplicitamente storico-salvifico (che interfaccia un uditorio giudiaco-cristiano, ma universalistico, con tanto di pagani annessi), si connette bene all’origine e nascita singolari di Gesù ( 1,18ss), conferendo alla sua successiva storia uno sfondo di robustissimo spessore. Fissandone gli inizi da lontano (Davide, Abramo) e dall’alto (Figlio di Dio), Gesù viene situato al singolare incrocio tra promessa orizzontale e pura grazia verticale, tra la discendenza abramitica e diretta potenza pneumatica (1,19ss). Significativa chiave d’interpretazione dell’identità di Gesù è la distorsione finale dell’abituale formula genealogica dove, a differenza degli altri generati, tutti collegati in linea maschile («Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe…») compare Maria, su cui non interviene un uomo: « Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale fu generato Gesù, chiamato il Cristo»: 1,16), bensì lo Spirito («Ciò che fu generato in lei, viene da Spirito Santo»: 1,22).

Per illustrare l’origine di Gesù, anche Luca inserisce una genealogia, ma solo dopo il battesimo (Lc 3,21-22.23-38), e riagganciando Gesù indietro fino ad Adamo e a Dio stesso («Figlio di Adamo, figlio di Dio»). Inoltre, ispirato alle convenzioni degli storiografi antichi, e rivolto a un uditorio di raffinata cultura ellenistica, apre con un breve proemio storico-letterario ( Lc 1,1-4), dove si mantiene piuttosto riservato sul contenuto salvifico-cristologico della sua opera. D’altronde Luca rompe subito ogni reticenza con il suo ben arrangiamento dittico tra Giovanni Battista e Gesù, confrontati in chiave tipologica e secondo il genere delle vite parallele ( che sarà prediletto da Plutarco), a partire dall’annuncio della loro missione pubblica (Lc 3-4), per entrambi portatrice di rivelazione profetica. Il concetto di archè è invece da lui riferito all’inizio della vita pubblica di Gesù (Lc 3,23) come pure all’inizio della missione ecclesiale (At 11,15).

Il prologo giovanneo

Da parte sua Giovanni apre invece con un prologo innico, di stampo sapienzale (Gv 1,1-18). Contando sul potere maggiorato di quel linguaggio poetico, laudativo (e canoro) cui Israele affida le proprie migliori espressioni di fede nel suo Dio, Giovanni più d’ogni altro elabora le potenzialità di un prologo ben spiccandolo rispetto al corpo successivo del racconto, ma anche mantenendo narrativamente e contenutisticamente omogeneo al successivo sviluppo, senza mortificare quest’ultimo. Se infatti per Gv 1,1-18 parliamo d’un prologo innico, un vero e proprio prologo narrativo sarà riconoscibile nella prima sezione del Vangelo (1,19-2,12), comprendente la testimonianza del Battista (1,19-34), la sequela/ricerca dei primi discepoli (1,35-51), fino alle stesse nozze di Cana (2,1-12). Qui all’inizio dei segni di Gesù, coincidente con la prima manifestazione della sua gloria, determinante la prima fede dei discepoli come gruppo (2,11), fissa una bella inclusione sull’idea di inizio (1,1; 2,11), chiudendo così la prima unità letteraria maggiore, magnifica ouverture del quarto Vangelo, comprensiva d’un prologo poetico e di uno narrativo, insieme formanti un unico intenso preludio della storia di Gesù.

In tal senso prologo poetico e successivo racconto giovanneo stanno tra di loro in un rapporto così descrivibile:

Non è solo il Prologo che ha bisogno del Vangelo, ma è anche il vangelo che ha bisogno del Prologo, perché, fin dall’inizio, si veda chiaramente di chi si tratta quando è in questione Gesù. Il genere del Vangelo, in quanto racconto della storia di Gesù. Il genere del Vangelo, in quanto racconto della storia di Gesù, si caratterizza per un punto di partenza preciso e per una fine precisa. Spesso si è fatto notare che il Vangelo di Giovanni radicalizza la questione del punto di partenza rispetto agli altri Vangeli. Non comincia con la comparsa del Battista (Marco), né con il racconto della nascita di Gesù (Luca), né con una specie di genealogia (Matteo), ma situa l’inizio nell’inizio primordiale, prima ancora della creazione, cioè in Dio stesso. La questione del punto di partenza della storia di Gesù è la questione della sua origine. Ora, la questione della sua origine è nello stesso tempo la questione della sua identità. La questione dibattuta nel Vangelo - da dove questo Gesù trae origine? (cf. 7,27-28; 8,14; 9,29.30; 19,9) – è l’equivalente della questione: chi è questo Gesù? Il mistero dell’origine di Gesù, che è quello della persona stessa di Gesù, è svelato nel Prologo.

(da Parole di vita, 6)

Venerdì, 18 Gennaio 2008 23:41

In principio (Roberto Vignolo)

In principio

di Roberto Vignolo

«Principio» (archè), «indica sempre un primato di tempo, o di luogo, o di grado» (G. DELLING). Usato con massima pregnanza nominale diventata addirittura un titolo divino (Ap 3,14), magari in opposizione polare con télos: «Io sono il poncio e la fine» (Ap 21,6; 22,13). Può significare inizio o origine, ovvero quintessenza, prototipo. Magari questi due sensi sono simultanei, come in Gv 2,11, dove il vino di Cana è definito come archè ton deméion, cioè il primo ma anche il prototipo di tutti i segni poi operati da Gesù.

Nella tradizione giovannea si distinguono formule simili costruite con lo stesso sostantivo, ma con preposizioni diverse, e tuttavia differenziate nella loro costruzione, come pure di portata assai diversa. Così più frequenti ( anche nell’ambito del linguaggio ordinario) sono le formule «da principio» (con ap’ archês: 8,44; 15,27; 1Gv 1,1; 2,7.13-14.24; 3,8.11; 2Gv 5-6; e con ex archês : 6,64; 16,4). Più rara invece quella in testa al prologo del Vangelo: «In principio» (en archè: 1,1-2), che riprende Pr 8,23 (LXX), dove la Sapienza proclama: «Dall’eternità fui fondata, fin dal principio (en archè), prima dell’origine della terra» (cf. Sir 24,9; 4Esd 6,1-6).

Diversamente da «in principio», che rimanda al rapporto più originario possibile oltre la storia stessa, tra Gesù Logos/Figlio e il Padre (di cui si è già detto nel testo), «da principio» (ex archês), fa invece riferimento all’avvio dell’esperienza discepolare tra Gesù e i suoi, alla loro primitiva elezione e sequela. A sua volta, «da principio ap’ archês » fa pure riferimento a un evento intrastorico, che in 8,44 indica il principio della storia della salvezza, guastato dall’invidia del diavolo omicida e bugiardo, pregiudizialmente nemico alla verità di Gesù.

Invece 1Gv 1,1-4 indica l’esperienza della originaria manifestazione (phaneròo per ben 2x al v. 2) di Gesù Logos vivificante ai primi testimoni suoi destinatari e in seguito tradenti aisuccessivi credenti. In 1Gv 2,7-8 si riferisce al comandamento dell’amore reciproco, «antico» in quanto ricevuto dai credenti fin dal primo momento della loro esperienza di fede, e tuttavia «nuovo» in quanto verità e luce dissipante le tenebre. Insomma, il principio della fede cristiana coincide nel suo oggetto con il «principio» assoluto del cristianesimo: sia oggettivamente (nella storia), sia soggettivamente (nell’accoglienza dei cristiani), ed è riconducibile al Cristo verità dei e nei credenti (cf. DE LA POTTERIE, Studi di cristologia giovannea, 237).

(da Parole di Vita, 6)

Venerdì, 18 Gennaio 2008 23:28

16. L'esilio (Rinaldo Fabris)

Nonostante il trauma dello sradicamento dalla propria terra e i disagi del trasferimento attraverso il deserto, la vita in terra di esilio non è di tipo schiavistico.

Lezione Sedicesima

L’ESISTENZA CRISTIANA NEL MONDO

 



Introduzione

1. Mentre l.a figura umano-divina di Gesù si dileguava tra le nubi del cielo nell'ascensione, gli angeli ammoniscono gli apostoli a girare gli occhi verso la terra: «Perché state a guardare il cielo?». E indicano loro l'ultimo appuntamento della storia: la seconda venuta di Gesù: «Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto in cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l'avete visto andare in cielo» (At. 1,11).

La storia che va dalla Pentecoste alla seconda venuta dev'essere coperta dall’attività della Chiesa e del cristiano per fermentare con l'evangelo: «l’andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura» (Mt. 28,16-20 e parr.). La nostra storia è il tempo del regno, il terreno in cui Dio prepara e compie la salvezza.

Il contenuto del decreto

Donazione di sé
per la vitalità della Chiesa

di Paolo Molinari

La regola del Concilio nell’affrontare il tema della vita religiosa è stata la novità nella continuità, con un rinnovamento e conseguente adattamento ai tempi. Anche per le società apostoliche il nucleo centrale resta la risposta alla chiamata che Dio fa a persone disposte a lasciare tutto: una forma di totale appartenenza a Dio per il bene altrui.

Papa Benedetto XVI, nel discorso del 22 dicembre 2005 che aveva per tema "Una giusta ermeneutica per leggere e recepire il Concilio come grande forza di rinnovamento della Chiesa" (1) affermò: «È proprio in questo [...] che consiste la natura della vera riforma. In questo processo di novità nella continuità dovevamo imparare a capire più concretamente di prima che le decisioni della Chiesa riguardanti cose contingenti [...] dovevano necessariamente essere esse stesse contingenti [...].In tali decisioni, solo i principi esprimono l’aspetto duraturo».

Tale frase pone nella sua giusta luce e permette di apprezzare l’importanza della saggia azione compiuta nei riguardi del decreto Perfectae caritatis da un considerevole numero di Padri conciliari, i quali ottennero non solo che il titolo del documento fosse radicalmente cambiato (2),ma riuscirono anche a fare sì che poi venissero in esso enunciati i principi fondamentali e duraturi di quella forma di vita che inconcusse pertinet alla vita della Chiesa (LG 44).

Il Concilio, con espressioni biblico-teologiche di grande valore, nel Proemio ha deliberatamente messo in luce e descritto la fecondità dell’azione esercitata dallo Spirito in seno alla Chiesa e dalla quale proviene la presenza in essa dei religiosi. È infatti lo Spirito che, in quanto anima del Corpo di Cristo, con la sua azione vivificatrice fa sì che molti uomini e donne si sentano spinti a offrirsi totalmente al Signore per vivere in unione a Cristo Gesù e seguire lui che, vergine e povero (cf Mt 8,20; Lc 9,57), ha redento e santificato gli uomini con la sua obbedienza spinta fino alla morte di croce (cf Fil 2,8).

Tali persone, animate dalla carità che lo Spirito infonde nei loro cuori (cf Rm 5,5), sempre più vivono per Cristo e per il suo Corpo che è la Chiesa (cf Col 1,24), e quanto più fervorosamente si uniscono a Cristo con una donazione di sé che abbraccia tutta la vita, tanto più viene arricchita la vitalità della Chiesa e il suo apostolato diviene vigorosamente fecondo (cf PC 1).

Fin dalle prime battute un considerevole gruppo di Padri ottenne che nel primo numero del Perfectae caritatis venisse esplicitamente dichiarato che «per disegno divino si sviluppò una meravigliosa varietà di comunità religiose [...] per mezzo della quale si manifesta la multiforme sapienza di Dio»(3).

Principi duraturi

Alla luce di questa breve premessa possiamo allora proficuamente porre in rilievo i punti del documento conciliare che, avvalendoci dei termini usati da Benedetto XVI, sono i principi che esprimono l’aspetto duraturo della vita religiosa.

1 Già nel Proemio, trattando della fecondità dell’azione esercitata dallo Spirito Santo nella Chiesa e della grande varietà di doni che da esso vengono elargiti, si parla esplicitamente «di coloro che, chiamati da Dio alla prassi dei consigli evangelici [...], si donano in modo speciale al Signore». È stato con ciò introdotto il concetto della "chiamata" facendo un diretto riferimento a colui che ne è l’autore: Dio.

Il decreto ha quindi posto in chiara luce la dimensione teologale della vocazione perché è Dio stesso che ne prende e detiene l’iniziativa: è un’azione che Dio compie nel più profondo dell’essere umano, un’azione plasmatrice, con cui egli conferisce un orientamento vitale, e con ciò la capacità interiore di collaborare liberamente e lasciarsi plasmare in modo da essere conformi a Cristo (cf Rm 8,29).

2 Nel trattare esplicitamente di coloro che «sono chiamati da Dio alla pratica dei consigli evangelici e ne fanno fedelmente professione» (PC 1), il documento parlando degli elementi comuni a tutte le forme di vita religiosa ha volutamente esplicitato in che cosa essa consiste e qual è la sua vera natura. Il Concilio ha fatto ricorso a una serie di espressioni neo-testamentarie: «Lasciando ogni cosa per amore di Cristo (cf Mc 10,28), lo seguano (cf Mt 19,21) come l’unica cosa necessaria (cf Lc 10,42) ascoltandone le parole (cf Lc 10,39) e pieni di sollecitudine per le cose sue (cf 1Cor 7,32)» (PC 5). Il Concilio ha così offerto una descrizione esistenziale e ben precisa della vera vita religiosa come risposta, data per amore, all’invito che Cristo offre ad alcuni di "essere con lui" (cf Mc 3,13 e 14).

3 Da questa descrizione, che evidenzia il rapporto personale e affettivo con Cristo e la donazione totale di sé alla sua persona per condividerne la vita, il modo di pensare, di agire e amare, si capisce agevolmente il perché del primato della vita spirituale e dello spirito di orazione nella vita del religioso (cf PC 6).

La preghiera non è la conseguenza dell’accettazione di una "regola", bensì l’espressione di una necessità vitale, frutto dell’amore personale per Cristo: in virtù di questo chi si dona a lui sente interiormente il bisogno di essere costantemente a contatto con lui e di approfondire l’intesa che esiste ed è la guida della condotta e del modo di vivere. Non per nulla era stata inserita l’espressione: «Animati dalla carità che lo Spirito Santo diffonde nei loro cuori (cf Rm 5,5)» (PC 1).

4 La presentazione della vita religiosa in termini di «donazione di sé a Cristo per seguirlo», e ciò in virtù di un vincolo di amore che unisce a lui, conduce ad avere una visione unificante dei tre voti religiosi.

Come già era avvenuto nella stesura del testo della Lumen gentium, nella quale il Concilio si era distanziato dall’ordine in cui si soleva presentare i consigli evangelici, così anche nel Perfectae caritatis è stata sistematicamente messa in primo piano la verginità consacrata. Questo è stato compiuto non solo perché il consiglio evangelico della verginità è quello più chiaramente attestato nel Nuovo Testamento, ma anche perché più degli altri mette in luce il valore primordiale e costitutivo della vita consacrata: una opzione fondamentale per il Signore fatta in risposta a un suo invito e quindi un legame di amore unitivo con la persona di Gesù Cristo.

Questo infatti la differenzia nel modo più chiaro da tutti gli altri stati e forme di vita esistenti nella Chiesa. Non per nulla proprio la verginità consacrata esige e postula una forma di carità particolare, cioè la totale donazione di sé a Dio con l’amore "del cuore indiviso(4).

Visione unificante dei voti

5 Proprio il fatto di aver invertito l’ordine dei consigli evangelici offre in modo profondo e vitale una visione dell’unità intrinseca che vige fra essi in virtù appunto della perfecta caritas. Coloro che tramite la verginità consacrata sono intimamente uniti a Cristo, in virtù della dinamica di questo amore, che è di per sé stesso unitivo, sono portati a condividere i suoi atteggiamenti, aspirazioni e preoccupazioni: essi condividono quindi la sua povertà e obbedienza e sono per ciò stesso associati alla sua opera salvifica.

Infatti Cristo, il Verbo di Dio incarnatosi per redimere l’umanità, per compiere la missione salvifica ha scelto per sé una vita di povertà estrema e di obbedienza assoluta e totale al Padre. Si tratta di una povertà che non riguarda solo i beni materiali ed esteriori, bensì di una disposizione interiore molto più profonda: cioè vivere sapendo di non appartenere a sé stessi perché totalmente "suoi", ossia proprietà di Dio. Ciò vuol dire vivere in completa dipendenza da lui con una disponibilità integrale a compiere tutto ciò che vuole e come vuole (PC 12; 13; 14).

Da tale visione unificante dei voti religiosi risulta evidente che, per mezzo di essi, i religiosi si uniscono a Cristo e quindi, insieme con lui, offrono l’olocausto di sé stessi per la redenzione di molti (PC 14).

Come era stato espresso nel Proemio, è dunque evidente che quanto più fervorosamente essi si uniscono a Cristo con la donazione di sé che abbraccia tutta la vita, tanto più si arricchisce la vitalità della Chiesa e il suo apostolato diviene vigorosamente fecondo: sono stati così posti in chiara luce il valore ecclesiologico e la portata apostolica che la consacrazione religiosa ha di per sé stessa.

Questo è importante perché si applica anche ai membri degli istituti religiosi integralmente dediti alla contemplazione e il Concilio ha deliberatamente voluto evidenziarlo (vedasi PC 7): infatti non è l’attività esteriore che ha un valore salvifico di per sé stessa, bensì la donazione totale di sé a Dio e l’assoluta dipendenza da lui vissuta con Cristo per redimere coloro che non riconoscono che la vita è loro costantemente infusa dal Signore e, ritenendosi autosufficienti, fanno di sé stessi il centro di tutto, sfruttano gli altri sopprimendo i loro diritti.

6 Si noti però che affermando con inequivocabile chiarezza che la finalità della verginità consiste nel fatto che le persone ad essa chiamate si donino a Dio solo "con cuore indiviso" in unione a Cristo Gesù, il Concilio non ha per nulla voluto dare adito all’errata opinione che chi vive nella sacra verginità diventa estraneo o inutile alla città terrestre (cf LG 46). Al contrario, se già nella Lumen gentium il Concilio aveva precisato che la perfetta continenza per il Regno dei cieli è uno «stimolo della carità e speciale sorgente di spirituale fecondità nel mondo» (LG 42), in Perfectae caritatis ha insegnato che «la castità osservata "per il Regno dei cieli" [...] rende libero in maniera speciale il cuore dell’uomo, così da accenderlo sempre più di carità verso Dio e verso tutti gli uomini» (PC 12).

Infatti con la donazione di sé fatta a Dio per vivere in unione a Cristo Gesù, i religiosi, conformandosi a lui, non potranno non vivere dei rapporti con gli esseri umani come egli li ha vissuti. Questi poi non furono solo di compassione e pietà, ma anche di profonda e vera amicizia, perché la nota tipica di questa è proprio di escludere la possessività e volere invece il bene dell’altro.

Perciò, per spiegare l’amore del cuore indiviso, si deve prendere grande cura di specificare che la mediazione offerta dalle creature che viene esclusa dalla verginità si riferisce esclusivamente a quel tipo di mediazione che viene vissuta nell’amore coniugale, che è di natura sua rapporto unitivo fra due esseri umani, i quali si donano e ricevono l’un l’altro, appartenendosi mutuamente nell’amore.

In tale contesto è di fondamentale importanza annotare che l’amore umano non si limita ed esaurisce in quello tipico del matrimonio: basta pensare (per non riferirci che a una sola altra forma di amore) all’affetto caldo di comprensione, vicinanza e sostegno esistente tra fratelli, tra un fratello e una sorella; rifacendoci poi ai vangeli, è doveroso considerare il legame di amicizia esistente fra Cristo, la Vergine, e alcune persone che gli erano particolarmente care.

È proprio l’amore verginale che, unendo in modo particolarmente intimo a Cristo chi vive nella sacra verginità, spinge a condividere fino in fondo la sua ansia di spendersi per gli uomini, di volere loro bene, e perciò di farsi vicino ad essi con autentico calore umano, proprio come ha fatto Gesù.

Chi è che “consacra”?

7 Il processo di risposta dato dalle persone umane all’iniziativa divina, con cui il Signore le invitava a vivere secondo i consigli evangelici, e il progressivo e crescente rapporto affettivo con nostro Signore Gesù Cristo, che fa sentire il desiderio di vivere in unione con lui condividendone la missione, gradualmente conducono chi è stato chiamato da Dio a sperimentare l’interiore e ardente bisogno di fare l’offerta di sé al Signore e di appartenergli totalmente. Questo è stato nettamente espresso nel Proemio: «Qui ad praxim consiliorum evangelicorum a Deo vocantur [...], Domino se peculiariter devovent, Christum sequentes, qui virgo et pauper (cf Mt 8,20; Lc 9,58) per oboedientiam usque ad mortem Crucis (cf Fil 2,8) homines redemit et sanctificavit» (PC 1).

Di questa realtà si parla anche più avanti raccomandando a tutti i membri di ogni istituto di “ricordarsi anzitutto di aver risposto alla divina chiamata con la professione dei consigli evangelici” e con ciò di aver fatto sì che “tutta la loro vita è stata posta al servizio di Dio (PC5). La risposta data dall’essere umano all’azione di Dio è stata quindi chiaramente espressa con i due termini latini “se peculiariter devovent” (PC 1) e “totam vitam suam eius famulatui mancipaverunt” (PC 5).

Linguisticamente parlando se devovere si traduce e significa "offrire sé stesso", "dedicarsi", "fare l’oblazione di sé"; vitam mancipare vuol dire "cedere formalmente in possesso la vita", "far prendere la vita". Questi verbi esprimono dunque l’atteggiamento dell’essere umano che, chiamato da Dio, fa a lui l’oblazione di sé.

Tali termini molto significativi purtroppo sono stati spesso tradotti in modo gravemente errato, sia grammaticalmente che teologicamente, e questo nel modo seguente: se devovent in "si consacrano", vitam mancipaverunt in "hanno consacrato la loro vita", come se fosse la persona a consacrare sé stessa, mentre invece è solo Dio che può consacrare(5).

Secondo il decreto, quando il religioso/la religiosa compie l’offerta totale di sé e mette con ciò la propria esistenza a completa disposizione di Dio, allora viene da lui consacrato/a; questa presa di possesso da parte di Dio crea un nuovo legame sacro fra Dio e il religioso che approfondisce quello del battesimo.

Si tratta di un’alleanza personale ulteriore con cui l’essere umano, in risposta a un invito amorosamente rivoltogli dal Signore, per amore si dona consapevolmente a lui «summe dilecto» per vivere solo per lui («soli Deo vivant», «totam enim vitam suam eius famulatui mancipaverunt», PC 5). Conseguentemente a questa offerta totale di sé fatta dall’essere umano, Dio "lo fa suo" in modo speciale, mette su di lui/lei il suo sigillo, come lo sposo, al donarsi a lui della sposa, mette sul dito di lei l’anello, segno di un’appartenenza speciale al marito.

L’analogia è quanto mai opportuna, infatti con la professione dei tre consigli il religioso dimostra e pubblicamente dichiara di aver preferito e anteposto il Signore Dio a un altro essere umano, come avrebbe potuto fare donandosi all’altro nel matrimonio: questo è il vero e profondo significato del termine "professione", che deriva dal verbo "profiteri", ossia "dichiararsi pubblicamente per qualcuno”.

Come autorevole conferma di quanto or ora detto, facciamo presente che la Commissione dottrinale-teologica del Concilio responsabile della redazione del testo del capitolo VI della costituzione dogmatica sulla Chiesa che tratta dei religiosi, al n. 44 aveva già posto chiaramente in luce la complementarità fra l’attività dell’essere umano e quella di Dio. A proposito della prima si era detto che "obbligandosi" all’osservanza dei consigli evangelici, il religioso «si dà, si cede formalmente in possesso a Dio»; a proposito della seconda - e cioè dell’attività di Dio - è stato detto che è solo a seguito della totale donazione di sé fatta dalla persona che questa «viene consacrata più intimamente al servizio di Dio»: è allora Dio che la prende in suo possesso, la fa più profondamente sua consacrandola al suo servizio.

Proprio a tale proposito la Commissione teologica, allo scopo di eliminare ogni malinteso in materia della consacrazione religiosa, ha rilasciato una dichiarazione ufficiale dicendo che il termine consecratur deve essere inteso «sub forma passiva, subintelligendo a Deo»(6).

La comunità

8 Una volta confermati e riproposti in chiave scritturistica i principi che esprimono l’aspetto duraturo della vita religiosa, è ben agevole comprendere come le persone che sotto l’influsso della grazia di Dio hanno accolto la sua chiamata a tale forma di vita, essendosi date interamente a lui ed essendo state da lui "consacrate" in modo speciale al suo servizio, condividano dal più profondo del loro essere questo spirito di appartenenza a Dio. È proprio questo ciò che fa sì che esse siano in comunione fra loro, si intendano mutuamente, si sostentino a vicenda, collaborino fra loro e costituiscano così una comunità.

Di tale vincolo di amore mutuo fa parte quel tratto particolare della grazia della vocazione data da Dio in virtù del quale le singole persone, chiamate da lui a seguire Cristo per condividerne la missione, hanno sperimentato una particolare attrazione verso questo o quell’aspetto della missione e dell’attività di Cristo Nostro Signore che «passò facendo del bene» (At 10,38).

Questa ulteriore qualifica della vocazione si ricollega al carisma particolare concesso da Dio a quegli uomini e donne (fondatori e fondatrici) che «dietro l’impulso dello Spirito Santo» «condussero, ciascuno a loro modo, una vita consacrata a Dio», «cosicché per disegno divino si sviluppò una meravigliosa varietà di comunità religiose che molto ha contribuito a far sì che la Chiesa non solo sia ben attrezzata per ogni opera buona (cf 2Tim 3,17) e preparata all’opera di servizio per l’edificazione del Corpo di Cristo (cf Ef 4,12)» (PC 1).

Rinnovamento-adattamento

Tenendo presente questi punti con cui abbiamo cercato di porre in chiara luce l’esposizione che il decreto Perfectae caritatis ha voluto offrire a proposito della natura stessa della vita religiosa, si può agevolmente capire perché – come abbiamo detto all’inizio – un considerevole numero di Padri conciliari (in primo luogo fra essi i superiori generali degli ordini religiosi e, insieme a loro, molti dei vescovi religiosi) avevano insistito e anche ottenuto che invece di parlare del solo adattamento della vita religiosa alle mutate circostanze dei tempi, venisse data la dovuta priorità al rinnovamento di essa.

Quando la vita religiosa è intesa come una forma di totale appartenenza a Dio e quindi un vivere in unione a Cristo per il bene altrui, è evidente che – in virtù della sua stessa natura – per vivere con rinnovato vigore ciò che essa è, deve adattarsi alle necessità dei tempi e quindi abbandonare quelle modalità esteriori e quelle opere che non sono più attuali (PC 3 e 20).

A quarant’anni dal Perfectae caritatis ritengo che là dove ci si è attenuti a quei "principi che esprimono l’aspetto duraturo" si è favorito un autentico rinnovamento e che questo ha portato con sé quel doveroso «adattamento alle odierne condizioni fisiche e psichiche dei religiosi» richiesto dal Concilio (PC 3), infatti, come Benedetto XVI si è espresso, «le decisioni riguardanti cose contingenti dovevano necessariamente essere esse stesse contingenti».

(da Vita Pastorale, aprile 2006)

Note

(1)L’Osservatore Romano, “Discorso di Sua Santità Benedetto XVI alla curia romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi”, 22 dicembre 2005, pp. 4-6.

(2) Quando lo schema del decreto sulla vita religiosa fu messo in discussione il 10,11 e 12 novembre 1964, si assistette a un massiccio e considerevole numero di interventi: in particolare, monsignor Pacifico Perantoni ofm,che parlò a nome di 369 Padri; monsignor James Caroll, a nome di 433 Padri; Monsignor Victor Sartre sj, a nome di 265; padre Anastasio del SS. Rosario ocd, a nome di 181.

(3) Il gruppo dei Padri conciliari aveva fortemente e congiuntamente reagito per contrapporsi all’opinione di alcuni vescovi che cercavano di far dichiarare dal Concilio che nella Chiesa esistono due stati di origine divina, e cioè la gerarchia e il laicato. In modo particolare si deve far menzione di un “esposto”, sottoscritto da ben 679 Padri, che fu condiviso dallo stesso Paolo VI e da lui trasmesso alla Commissione dottrinale-teologica del Concilio. Questo intervento era di tale peso e valore che la Commissione dovette riformulare il testo antecedentemente preparato che esprimeva l’opinione errata nel senso predetto, e sostituirlo con la seguente frase: “Lo stato dunque, che è costituito dalla professione dei consigli evangelici, pur non riguardando la struttura gerarchica della Chiesa, appartiene tuttavia in modo inconcusso (irremovibile) alla sua vita e alla sua santità” (LG 44). Per una dettagliata esposizione della storia di quel periodo del Concilio vedasi: “Il Capitolo VI “De Religiosis” della Costituzione dogmatica sulla Chiesa. Genesi e contenuto dottrinale alla luce dei documenti ufficiali, a cura di Molinari P. e Gumpel P., Quaderni di Vita Consacrata 9. Editrice Ancora 1985, Milano; edizione inglese, Roma 1987.

(4) In merito rinvio al libro sopra indicato alla nota 3, in specire le pp. 152-180.

(5) Su tutta questa materia mi permetto di fare riferimento a due articoli da me pubblicati nella rivista Vita Consacrata: “Divino obsequio intimius consecratur”, maggio 1972, pp. 401-432.

(6) S. Oecum. Conc. Vaticanum II, Schema Const. Dogm. De Ecclesia. Modi a PP. Conciliaribis propositi a Commis. Doctrinali esaminati, V, caput VI De religiosis, Typ. Pol. Vatic., 1964, p. 7, ad 2

Religioni e pace. Nello spirito di Assisi

EBRAISMO

Più vicini a Dio, più luce ci sarà

di Rabbino David Sciunnach


DOMANDA

Dio è unico, le religioni sono tante, cosa sono ed a cosa servono?
La diversità fa anche la qualità, esistono tante vie per arrivare a Dio quante sono le persone.
Le religioni sono aspetti della realtà umana, tradizioni che Dio ha dato. Un racconto descrive le relazioni fra gli uomini, significativo anche per le religioni: «Se tutti stanno sulla tolda della nave non c’è problema; non è così se qualcuno viene lasciato senz’acqua da bere nella stiva. Per liberarsi non si preoccuperà di forare lo scafo, facendo affondare anche chi, sul ponte, si sente sicuro e vuole proteggere i propri privilegi».

L’ebraismo ha così tanti precetti, positivi e negativi, rivolti a Dio e al prossimo, che essere ebrei non è solamente una concezione religiosa, bensì un modo di vivere molto difficile. Suo fondamento è la Torah, già in sé un paradosso. È particolare, perché vi è scritta la storia del popolo ebraico, da Abramo fino alla morte di Mosè, e contiene i precetti; ma è universale, perché riguarda tutte le creature del mondo. Se Dio avesse voluto dare la bibbia solo a Israele, l’avrebbe iniziata con la sua storia e non con la creazione! Noè non era ebreo, eppure è scritto che un uomo giusto era nella sua generazione. Non è necessario essere ebrei per essere giusti e degni di entrare in paradiso vicino a Dio benedetto, ma bisogna essere persone rette.

I comandamenti che Dio ha dato all’umanità fondano la morale del mondo in cui ci riconosciamo. La morale ebraica viene dalla Torah, perciò è divina e immutabile. Dio sa dove l’uomo sbaglia, perché l’ha fatto lui, perciò gli ha posto degli argini. Esiste però anche la morale del mondo contemporaneo che cambia con le esigenze delle generazioni e dei popoli. Se fossimo veramente religiosi, cioè capaci di percepire la santità di Dio in ogni azione e creatura vicino a noi, il nostro rapporto con Dio e col prossimo sarebbe totalmente diverso. La pace sarebbe una conseguenza scontata.

Si guardano spesso i punti in comune tra le varie religioni, ed è davvero importante. Ma bisogna anche guardare le differenze, conoscendole si abbattono i pregiudizi. Sono la paura e la non conoscenza che ci fanno fare cose non giuste; quindi bisogna ampliare la conoscenza: è fondamentale.

A Milano abbiamo appena fondato il Forum delle religioni. Un traguardo enorme, con tutti i rappresentanti delle religioni: cristiani, ebrei, musulmani, buddisti, scintoisti. Ma è solo l’inizio di una reciproca conoscenza, da estendere alla base e non limitare ai vertici.

Il popolo di Israele è chiamato a essere popolo «eletto». Traduzione imprecisa. La radice della parola ebraica vuol dire «capace»... di distinguersi dagli altri popoli per l’osservanza dei precetti divini della Torah ed essere d’esempio.

Però siamo esseri umani e sbagliamo. In Israele si dice: la vita non è un pic-nic! Sarebbe bello se lo fosse, invece è spesso sofferenza. Che fa crescere e capire certe cose. Ci rendiamo conto dell’importanza di un bene o di una persona solo quando le perdiamo.

È così anche per la pace: dovremmo apprezzarla di più quando l’abbiamo, quando viviamo in un momento di pace. La pace biblica è una pace «completa». In ebraico le parole saluto, essere completi e Gerusalemme hanno la stessa radice, quindi c’è un legame fra di esse. Quando si incontra qualcuno in Israele il saluto, shalom, è augurio di poter essere completo, di non avere nessuna mancanza.

Tra gli esseri umani, quando due persone fanno pace, uno dei due ci rimette sempre. Nella bibbia non è così: nello shalom biblico entrambe sono complete e soddisfatte. Quindi l’augurio che bisogna farsi è quello di arrivare veramente a questo.

Riuscirci dipende da noi. Dio ha creato il mondo e poi ce l’ha dato, con le qualità per fare o distruggere. Il problema è che siamo sulla terra solo di passaggio, ma spesso ce ne dimentichiamo, pensando di essere eterni. Anche per chi vive a lungo la vita vola in un batter d’occhio. Non sta a noi finire il lavoro, sta a noi iniziarlo!

Il Talmud dice che chi salva una vita salva un mondo intero. È importante il contributo individuale: se accendiamo una luce, ciascuno ne accenderà altre e più vicini a Dio saremo, più luce ci sarà!

(da MC, gennaio 2007)

* Rabbino David Sciunnach, nato a Roma, si è trasferito in Israele, dove ha frequentato la scuola rabbinica. Nel 2000 è arrivato a Milano dove opera presso l’Ufficio rabbinico. Attualmente è assistente per il Tribunale rabbinico e per l’Assemblea Rabbinica Italiana. Ha pubblicato articoli e testi di preghiere ed è assistente dell’attuale rabbino capo di Milano, Arbib.


Il sentiero di Isaia

di Don Paolo Farinella *

Negli anni ‘50, Giorgio La Pira (sindaco di Firenze tra gli anni ‘60 e ‘70) girava il mondo avvertendo che tutte le guerre erano vecchi arnesi, perché il terzo millennio sarebbe stato il millennio dei bambini, dei monaci, dei poeti, dei poveri, degli artigiani... Lo diceva a tutti i potenti dell’epoca e proponeva la profezia del «sentiero di Isaia» (Is. 2,2-5). In essa Israele, per diritto e per grazia, ha il ruolo di guida dei popoli verso il monte del Signore: perché tutti imparino la Torah e disimparino l’arte della guerra, convertendosi a relazioni di pace.

In realtà tutto sembra andare al contrario. La guerra contro il terrorismo lo alimenta e ingrassa. Le elezioni, che avrebbero dovuto condurre i palestinesi alla democrazia, portano un estremista a esserne il capo. Si vuole la pace in Medio Oriente e Hamas ha nei suoi programmi la distruzione dello stato d’Israele che, per difendersi dagli attacchi, finisce per costruire un muro. Crescono violenza, illegalità e ingiustizia. La paura domina i giorni e le notti. Ma è solo la polvere che copre la superficie. Scendendo a un livello più intimo ci accorgeremo che i «segni dei tempi», i tempi di Dio che parla e ci chiede di essere segno visibile della sua immagine e somiglianza nel mondo, sono nell’ordine della profezia. Per capire come coglierli occorre intendersi sul significato delle parole che usiamo.

Il termine oggi più abusato e malinteso è «religione». La religione nasce dalla paura del limite umano, della morte: sentimento profondamente umano, che accomuna tutte le religioni. La divinità è percepita contemporaneamente come causa del proprio limite e come meta del proprio desiderio.

Spazi (templi/chiese) e tempi (sacrifici/liturgie) sacri sono il pedaggio che l’uomo paga in cambio della protezione divina. L’uomo religioso crede in un Dio, reale o immaginario, con cui viene a patti, pur di avere protezione, assistenza, sicurezza, garanzia. La forza della religione risiede nella tradizione, per sua natura ripetitiva, immobile, immodificabile e per questo rassicurante.

Fede è il contrario di religione. Nasce da un incontro personale e fisico con qualcuno con cui si instaura un rapporto di conoscenza e di sentimenti, che diventano comunione e scambio di vita. Non espressione di paura, ma atto di amore, la fede non è legata al tempo e allo spazio; quindi non ha bisogno di liturgie o di tradizioni e può essere vissuta ovunque, perché si fonda sull’esperienza personale. L’orizzonte dell’incontro non è più il cielo da scalare, ma la terra/umanità.

In questo senso ebraismo e cristianesimo si differenziano da ogni altra religione, perché presuppongono una fede in un Dio incarnato nella storia d’Israele e nella carne del Figlio di Maria.

Infatti, sul Monte Sinai Israele riceve non la legge, ma la Torah, cioè la persona stessa di Dio, che non si esaurisce nelle norme. Israele non riceve semplicemente una rivelazione, ma dialoga con Dio e la sua unicità consiste nell’identificazione del popolo con la propria religione. Risposero gli ebrei a una sola voce: «Tutto quanto il Signore ha detto noi faremo e ubbidiremo». In questo sta la grandezza di Israele: si fida ciecamente di Dio; ed è questo Dio che deve annunciare al mondo, se questo mondo deve salvare.

Nel giorno dello Yom Kippur (giorno dell’espiazione), il sommo sacerdote entrava nel santo dei santi del tempio di Gerusalemme con gli abiti sacerdotali della solennità: sulla fronte portava la vite d’oro, simbolo dell’unità del popolo d’Israele; sul petto teneva l’efod, una stoffa rigida a forma di rettangolo su cui brillavano 12 pietre preziose, simbolo delle 12 tribù d'Israele; sulle spalle un mantello nel cui orlo inferiore erano cuciti 72 campanelli, simbolo dei popoli che abitavano la terra.

La liturgia nel tempio di Gerusalemme aveva queste tre caratteristiche: richiamava l’unità (vite d’oro), esprimeva la diversità (efod) e assumeva l’universalità, includendo anche i popoli pagani (campanelli). È tempo di riprendere questi temi e viverli nel nostro oggi.

(da MC, gennaio 2007)

* Paolo Farinella, biblista, giornalista e scrittore, ha esperienza dei rapporti fra le tre grandi religioni monoteiste e della realtà socio-politica nella quale sono inserite per aver vissuto a Gerusalemme dal 1998 al 2003.




Riflessione, a più voci, sull'ecumenismo

Una riforma della Chiesa, che la adegui a ciò che il Signore le chiede oggi, esige che essa tenga conto di quelli che sono i "segni dei tempi" e cioè del fatto che, essendo essa pienamente inserita nella storia dell’uomo, i mutamenti che avvengono nella società la toccano nella viva carne e profondamente. Lo Spirito condurrà la Chiesa all’unità, ma già fin d’ora è auspicabile un dialogo serio, portato avanti con coraggio e determinazione.
1. La riforma della Chiesa:
una necessità costante

di Giovanni Cereti *

Con il concilio Vaticano II l’appello alla riforma è tornato a risuonare nella Chiesa cattolica in stretto collegamento con l’invito a impegnarsi per la riconciliazione dei cristiani.
Il Concilio stesso ha operato una grande riforma nella teologia e nella prassi ecclesiale, ma non possiamo nasconderci che ci sono ancora ambiti non rivisitati.

La coscienza della necessità di rinnovamento e di riforma nella comunità cristiana è stata viva sin dalle origini. Quando sorgevano nuove necessità, gli apostoli stessi vi sapevano provvedere (cf At 6,1).

Gli interventi dei responsabili delle comunità, così come le deliberazioni dei concili, determinarono sempre dei cambiamenti e delle riforme, che intendevano rispondere alle nuove esigenze e alle nuove situazioni. Se l’accento veniva posto per lo più sulla conversione e sul rinnovamento personale, che ha trovato la sua espressione più alta nel monachesimo, non è mai mancato nella Chiesa neppure il richiamo alle riforme e ai rinnovamenti comunitari, invocati per esempio da tanti movimenti popolari nel corso di tutto il Medioevo.

Un più esplicito appello alla riforma della Chiesa è risuonato poi più volte nella prima metà del secondo millennio, e di esso si sono fatti portavoce anche grandi uomini spirituali, più tardi venerati come santi nella Chiesa cattolica. Questo appello raggiunse anche i responsabili della Chiesa, ma naufragò nel contrasto fra i sostenitori dell’autorità del Papa ed i sostenitori di quella del Concilio, oltre che in una inadeguata concezione della riforma da realizzare, in quanto si guardava più a tornare a un passato idealizzato che a una nuova incarnazione del Vangelo nel mondo contemporaneo.

Il tempo del sospetto

Dopo gli eventi del XVI secolo e della Riforma protestante, lo stesso appello a una riforma divenne sospetto per secoli nella Chiesa cattolica. Soltanto con il concilio Vaticano II esso è tornato a risuonare, in stretto collegamento con l’invito a impegnarsi per la riconciliazione dei cristiani, a partire dalla convinzione che le divisioni esistenti sono state in larga misura la conseguenza non solo delle inadeguatezze, dei ritardi, dei difetti o dei peccati dei cristiani, e in particolare dei ministri della Chiesa, ma anche di insufficienze pastorali e culturali non imputabili a nessuno ma egualmente esiziali per l’unità.

Qualora la comunità cristiana avesse saputo operare a tempo debito i rinnovamenti richiesti dalle circostanze, molte dolorose separazioni non avrebbero avuto luogo. La riconciliazione delle Chiese esige pertanto che esse tornino a riavvicinarsi fra di loro, confrontandosi insieme con il Vangelo e con i segni dei tempi, e operando ovunque quelle riforme e quei rinnovamenti che si rivelassero necessari sulla base di questo confronto.

Agli inizi del XX secolo la Chiesa cattolica venne fecondata da molti movimenti di rinnovamento, i quali contribuirono fortemente al riavvicinamento fra i cristiani, come ricorda il secondo paragrafo di Unitatis redintegratio 6, dove si parla dei movimenti biblico, patristico, liturgico, teologico, che avevano posto le basi di un nuovo approccio alla fede cristiana, consentendo un ritorno alla Bibbia e alla tradizione più antica, un approfondimento delle vicende storiche e quindi una migliore conoscenza degli avvenimenti che hanno portato alle separazioni, oltre che dei condizionamenti culturali e storici che hanno accompagnato le formulazioni teologiche confessionali.

Oltre a questi movimenti, che operarono soprattutto sul piano della ricerca e dello studio, possono essere ricordati i rinnovamenti attuati sul piano pastorale, con un maggiore impegno del laicato, che lo portò progressivamente a prendere coscienza della dignità del suo battesimo e del suo essere Chiesa, determinando così una nuova valorizzazione del sacerdozio universale del popolo di Dio; l’elaborazione di una dottrina sociale della Chiesa, che non è stata senza paralleli con l’analogo cammino dei movimenti del "cristianesimo sociale" e di "Vita e Azione"; e l’impegno missionario risvegliato soprattutto con i pontificati di Benedetto XV e di Pio XI, che puntarono sulla creazione di un clero e di un episcopato "indigeni" e che consentirono alle giovani Chiese di Africa e di Asia di acquistare in pieno la propria dignità.

Fedeltà al Vangelo

È proprio in questa prospettiva di rinnovamento e di riforma che deve essere letta la decisione di far entrare la Chiesa cattolica nel movimento tendente alla realizzazione della piena comunione fra i cristiani. Il movimento verso l’unità e il movimento per la riforma e il rinnovamento ecclesiale vanno di pari passo, in quanto entrambi consistono nella ricerca di una maggiore fedeltà al Vangelo e alla propria vocazione, che sono comuni a tutti i battezzati e a tutte le Chiese, al di là delle attuali separazioni. Il Concilio lo ha affermato esplicitamente: «Siccome ogni rinnovamento della Chiesa consiste essenzialmente nell’accresciuta fedeltà alla sua vocazione, esso è senza dubbio la ragione del movimento verso l’unità. La Chiesa pellegrinante è chiamata da Cristo a questa continua riforma di cui essa stessa, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno» (UR 6).

Non è superfluo sottolineare il fatto che in questo passo il Concilio afferma, riprendendo quasi alla lettera un’affermazione di Lutero («Ecclesia indiget reformatione»), che di rinnovamento la Chiesa ha sempre bisogno («perpetuo indiget»), e che l’impegno per la riforma è un dovere («ut oportet»), a cui è chiamata da Cristo.

Questa necessità può derivare da una situazione di peccato che si è determinata nella comunità cristiana, il che impone un atteggiamento di penitenza, ma forse la ragione di fondo che rende la riforma indispensabile dobbiamo trovarla proprio nella condizione peregrinante della Chiesa, nella sua stessa condizione ontologica, per la quale l’elemento divino in essa può diventare visibile e concreto solo in forme umane, storicamente e culturalmente determinate, incarnate nelle diverse epoche storiche. La resistenza al cambiamento negli elementi umani della Chiesa è il frutto di una mentalità "monofisita", che anche in essa sa scorgere solo la dimensione divina e considera quindi tutto irreformabile.

Si può anche ricordare che il Concilio utilizza nel passo appena citato l’aggettivo perennis e l’avverbio perpetuo, per rimarcare a due riprese che la necessità della riforma non viene mai meno, facendo in qualche modo proprio anche il principio delle Chiese riformate: «Ecclesia reformata semper reformanda». Per quante riforme siano già state realizzate nel corso della storia e anche nelle epoche più recenti, la Chiesa non solo ha bisogno di riforma, ma questa è talmente collegata alla sua condizione peregrinante, che non può mai considerarsi conclusa.

Una riforma della Chiesa, che la adegui a quello che il Signore chiede a lei oggi, esige che essa tenga conto di quelli che abbiamo definiti i "segni dei tempi", e cioè del fatto che, essendo la Chiesa pienamente inserita nella storia dell’uomo, i cambiamenti che avvengono in essa toccano profondamente la Chiesa. Ci si può domandare se ciò non costituisca un invito ad abbandonare il linguaggio che ha ereditato da una cultura medioevale, statica, rurale, prescientifica, il linguaggio di una società paternalista e fortemente gerarchizzata, il linguaggio di una cultura europea, per cercare di comprendere e parlare il linguaggio degli uomini ai quali essa è inviata.

Una nuova inculturazione del cristianesimo esige che esso sappia incarnarsi in tutte le culture del mondo; e in tutte le culture intese non solo in senso geografico, ma anche quelle culture contemporanee che tengono conto dei dati delle scienze naturali, delle scienze storiche, delle stesse scienze umane. E tutto questo, non per un superficiale adattamento al mondo e alle sue mode, ma per discernere e accogliere lo Spirito Santo che opera nel mondo.

I rinnovamenti decisi dal Concilio cominciarono a essere tradotti in atto in una serie di disposizioni, provenienti per lo più dalla Santa Sede, nel corso degli anni Sessanta e nei primi anni Settanta, che svilupparono anche nuove istanze sinodali ai diversi livelli della vita della Chiesa, e ciò nonostante le difficoltà e le resistenze che un tale rinnovamento incontrava al suo interno.

La strada è ancora lunga

Altri rinnovamenti tuttavia attendono di essere realizzati nella vita quotidiana delle Chiese attraverso la disponibilità alla riforma, l’apertura al cambiamento, l’impegno nel rinnovamento della vita concreta delle comunità locali, l’ascolto delle richieste che ci possono provenire da altri cristiani che ci aiutano a comprendere quante cose si rivelano discutibili alla luce del Vangelo.

Il pensiero corre a tante devozioni popolari, all’uso di titoli onorifici, a ricchezze non necessarie; ma anche a quei rinnovamenti nella celebrazione dell’eucaristia e nel culto dell’eucaristia al di fuori della celebrazione, richiesti dal Vaticano II e dalle riforme postconciliari, o a tutto quello che riguarda i rapporti fra l’episcopato e il primato del vescovo di Roma, o infine alla situazione della donna nella Chiesa. Tutto quello che viene fatto per il rinnovamento teologico e pastorale è al servizio non soltanto di una vita ecclesiale sempre più piena e più fedele al Vangelo, ma anche del riavvicinamento fra le Chiese. Il cristiano sa che il suo impegno porterà a tempo debito i suoi frutti, perché ha fiducia nello Spirito, che guida la Chiesa nella storia e che ha suscitato in essa il desiderio dell’unione (cf UR 1).

L’incessante rinnovamento, al quale la Chiesa è chiamata da Cristo (cf UR 6) per poter restare degna sposa del suo Signore (cf LG 9), si può realizzare grazie all’opera dello Spirito Santo, che incessantemente fa nuove tutte le cose. È lo Spirito che con i suoi doni rende atti i fedeli ad assumere opere e compiti per il rinnovamento e la crescita della Chiesa (cf LG 12), e che «con la forza del Vangelo fa ringiovanire la Chiesa, continuamente la rinnova e la conduce alla perfetta unione col suo Sposo» (LG 4), in una fedeltà al passato, al depositum fidei, e nello stesso tempo anche al futuro, dal quale il Signore ci chiama, in una perenne attenzione al Vangelo e ai segni dei tempi.

È lo stesso Spirito che condurrà la Chiesa all’unità (cf UR 24), suscitando forse un incontenibile movimento nel popolo cristiano, analogo a quello che è riuscito a travolgere situazioni che apparivano sclerotizzate e immodificabili.

«Tra le tentazioni e le tribolazioni del cammino la Chiesa è sostenuta dalla forza della grazia di Dio [...], affinché per l’umana debolezza non venga meno alla perfetta fedeltà, ma permanga degna sposa del suo Signore, e non cessi, sotto l’azione dello Spirito Santo, di rinnovare sé stessa, finché attraverso la croce giunga alla luce che non conosce tramonto» (LG 9).


* docente presso l’Istituto di studi ecumenici, Venezia, e la Pontificia facoltà teologica Marianum, Roma

(da Vita Pastorale, dicembre 2005)

Bibliografia

Cereti G., Riforma della Chiesa e Unità dei cristiani nell’insegnamento del concilio Vaticano II, Il Segno 1985, Verona; Cereti G., Molte chiese cristiane, un’unica Chiesa di Cristo, Queriniana 1992, Brescia; Congar Y. M., Vraie et fausse réforme dans l’Eglise, Cerf 1952, Paris (tr. it., Vera e falsa riforma nella chiesa, Jaca Book 1968, Milano); Dizionario del Movimento Ecumenico, Dehoniane 1994 (1992), Bologna; Von Allmen J.J., Prophétisme sacramentel. Neuf études pour le renouveau et l’unité de l’église, Delachaux et Niestlé 1964, Neuchatel.

La teologia e la pastorale riflettono

di Bruno Secondin

Entriamo ora nella presentazione di alcune elaborazioni cristologiche più recenti, e in certo senso ancora aperte a sviluppi sia di necessaria maturazione, sia di perfezionamento e di consolidamento. Quelle che stiamo per presentare non esauriscono certo la gamma delle opzioni metodologiche riscontrabili, né le variazioni in atto in particolare nelle cristologie del terzo mondo.

Notiamo soprattutto che la forma «narrativa» della cristologia, come di tutta la teologia, sta sviluppando una felice sintesi fra culto e «imitatio Christi», tra linguaggio primario della fede e risposta ad una presenza esperimentata e contestualizzata in maniera nuova e medita.

L’interazione fra pietà o vissuto spirituale popolare e riflessione accademica o teologia sapiente è complicata. Ma non v’è dubbio che oggi si tende a prendere in seria considerazione l’esperienza religiosa, anche comunitaria, per «costruire» un discorso su Cristo che non sia puramente speculativo e astratto, ma sia la tematizzazione «organica» dell’incontro con Cristo, centro e senso plenario dell’esistenza, dei singoli e delle comunità.


TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE

In questo tempo si parla molto della «teologia della liberazione», quando si vuole parlare della teologia latino-americana. Ma non si può negare che l’elaborazione teologica dell’America Latina non si riduce alla sola corrente della liberazione. Ci sono di fatto molteplici forme di discorso teologico, e quindi molteplici forme di ricerca cristologica: sia tradizionali che innovative.

1. ALCUNI PRESUPPOSTI TEOLOGICI

Per capire il perché del radicamento storico sociale di tutta l’elaborazione teologica latino-americana, si deve fare attenzione alla situazione di violenza istituzionalizzata e allo stato di oppressione/repressione che provocano nei credenti una risposta legata alla fede. Impegnarsi per l’uomo oppresso è considerato pertanto un vero initium fidei.

Inoltre bisogna fare attenzione a due connotazioni di partenza:

- Esiste un’«unica . storia», dalla creazione all’escatologia, e quindi qualsiasi impegno a favore dell’uomo si colloca - anche se inconsapevolmente - nei disegni di Dio per la salvezza del mondo;

- Verità è ciò che fa l’uomo, cioè ciò che lo realizza in pienezza. Allora il «processo di liberazione che sta fermentando tutto il continente si presenta come un locus ermeneutico1.

Questo è un modo nuovo di fare teologia. Ma notiamo bene che questo non vuol dire che la liberazione pratica si identifica col contenuto della fede. Quando si dice fede come prassi politica: si vuoI dire che la fede oggi in America Latina può essere percepita all’interno di una prassi liberante, vi si mescola, ma non vi è esaurita. E la teologia della liberazione è il momento della chiarificazione teorica e critica alla luce della Parola e delle scienze umane di quello che avviene. Quindi la finalità della teologia della liberazione è: «rilettura del messaggio evangelico partendo dalla prassi di liberazione» (G. Gutierrez).

Per questo possiamo dire che per capire la teologia della liberazione e la sua cristologia, bisogna porsi anzitutto nell’ambito di un’«esperienza spirituale» molto forte. Più che una «teoria pensata ed elaborata», essa è anzitutto una corrente di spiritualità (di vita nello Spirito), che trova nell’«elaborazione teologica rigorosa una tematizzazione solida e interpretativa. «Il nostro metodo è la nostra spiritualità» (G. Gutierrez).

Tanto è vero che G. Gutierrez dedicava già un paragrafo della sua opera più famosa alla «spiritualità della liberazione»2. Anche il suo libro recente Bere al proprio pozzo, è dedicato all’itinerario spirituale del suo popolo peruano.

L. Boff parla di «contemplativus in liberatione» e Sobrino di «santità politica», come «liberazione con spirito, in quanto si tratta di unificare spirito e pratica, spiritualità e impegno». Il suo ultimo libro sulla spiritualità è particolarmente ricco per questo nostro discorso3.

In sostanza possiamo dire che l’apporto cristologico prevale: specialmente il Gesù della storia, la sua esperienza tra gli uomini, le sue azioni e reazioni di fronte ai vari messianismi e alle varie manipolazioni del potere, specie se fatte in nome di Dio. Non escludendo il momento escatologico o trascendente dell’evento Cristo, ma piuttosto concentrandosi su quest’altro punto. Possiamo dire che si tratta dell’evidenziazione del «momento prassiologico del messaggio di Cristo» (L. Boff).

2. ALCUNE CARATTERTSTICHE COMUNI A TUTT I TEOLOGI

1. Critica sistematica e di fondo alla teologia europea (cioè la teologia accademica classica). E’ accusata di essere portatrice dell’ideologia della classe dominante, di essere evasiva e intimistica, segnata da rassegnazione e manipolazione. Inoltre la si accusa di procedere per categorie universalissime e concetti astratti, privi di rapporto organico con la realtà concreta e con la fatica storica di trovare nella prassi la luce della fede.

2. Occorre porsi nell’ottica degli oppressi, cioè dal punto di vista dell’emarginazione e della dipendenza: questa prospettiva assunta sul serio, provocherà uno specifico linguaggio e una specifica sensibilità, un senso di servizio storico e di liberazione. Quindi una cristologia neutrale viene considerata impossibile e improponibile, almeno attualmente.

3. Occorre tener. conto della grande ricchezza della «cristologia popolare», contenuta nella «religiosità popolare». Che però va stimata, apprezzata, ma anche aiutata a purificarsi e a reinterpretarsi, dando giusto rilievo alle esigenze del momento storico che viviamo e che impone con urgenza uno sforzo per la giustizia, la libertà e la speranza.

4. Secondo L. Boff bisogna tener in conto le quattro seguenti priorità ermeneutiche: primato dell’elemento antropologico su quello ecclesiale; primato dell’utopico sul puro fattuale; primato del sociale sul personale; primato dell’ortoprassi sull’ortodossia.

L. BOFF, J. SOBRINO, G. GUTIERREZ

Non possiamo presentare la molteplicità dei teologi e degli scrittori spirituali dell’America Latina. Anche se la cosa non sarebbe inutile. Ma ci limitiamo ad alcuni veloci accenni al pensiero di tre fra di essi, che ci sembrano significativi.

L. Boff: (1938- ), francescano brasiliano, autore di molte opere. Sul nostro tema dopo il Gesù Cristo liberatore, considerato in fondo «tradizionale» Boff è andato elaborando vari «frammenti», ma non ancora una «cristologia sistematica».

In sostanza egli rifiuta un’impostazione neutrale della cristologia: «Il nostro interesse si colloca nell’orizzonte della teologia della liberazione, della prigionia e della resistenza». Perciò privilegia il Gesù storico sul Gesù della fede: per il significato maggiore che quello può avere in senso «liberatorio» per l’America Latina.

Fra i titoli cristologici ereditati, che egli accetta e stima, il teologo francescano preferisce però quello di «liberatore». Infatti:

— La prassi di Gesù è una liberazione in marcia: è il regno di Dio che viene avanti e si fa esperienza di libertà;

— La conversione che Gesù richiede da coloro che lo ascoltano: è anzitutto la creazione di nuove maniere di rapportarsi reciprocamente, nuovi rapporti liberi e liberanti;

— La morte di Gesù: è il prezzo da pagare per la liberazione che fa fatica ad imporsi, ed anzi trova difficoltà e conflittualità;

— La risurrezione è irruzione anticipata della liberazione definitiva.

Da qui prende senso l’annuncio dell’insperato, della realizzazione di una parabola di riconciliazione, attraverso un processo di liberazione nel quale si paga un prezzo. La croce di Gesù e di tutti coloro che la riesperimentano è partecipazione alla grande «passio mundi». L’utopia non sta al di fuori, ma nel più profondo e oltre l’umano.

J. Sobrino (1933-) gesuita basco-salvadoregno4.Egli parte dalla rilevazione che la situazione storica in cui Gesù si è trovato, ha storicamente tante somiglianze con quella attuale dell’America Latina. E’ una situazione di peccato che si ripete. Perciò suggerisce una concentrazione cristologica: è in particolare nell’orizzonte dell’utopia del Regno che si può capire tutto il messaggio di Gesù. Il Regno fa irruzione nell’umano in e per Gesù:

«Impareremo a vedere cosa sia stato realmente il Regno per Gesù non solo da quanto si può ricavare dalla sua nozione di Regno, ma dalla stessa vita di Gesù a servizio del Regno»5

Per cui il discorso sul Regno parte da Gesù «storico» e si illumina con Cristo, specialmente con la sua risurrezione, che si rivela il vero paradigma della liberazione.

Gran parte del discorso di Sobrino è lo sviluppo di una cristologia incentrata sul Gesù della storia, sul suo impegno al servizio del «regno di Dio», sulla sua «fede» e sull’importanza della sua «via»: cioè la sequela (seguimiento), una parola chiave per Sobrino, ed elemento insostituibile per conoscere Cristo.

«I concetti possono e debbono presentare genericamente la verità di Cristo, ma perché tale verità generica divenga verità reale è necessaria la mediazione di qualcosa che non è pura conoscenza; occorre la realtà totale della vita, che include la prassi dell’amore e della speranza, in base alle quali, dal di dentro, il generico si concretizza. Questa totalità che non si riduce alla mera conoscenza, noi la chiamiamo sequela»

Ma hanno rilievo anche la preghiera di Gesù e l’esperienza della risurrezione.

La «sequela» è criterio della confessione cristologica reale e fondamento per una comprensione di Cristo da dentro: il «sacrificium vitae» è la consumazione del «sacrificium intellectus» che è l’atto di fede.

Pertanto la cristologia della liberazione - per usare un’espressione cara a Sobrino - non pretende di essere tutta la cristologia, con le sue questioni dogmatiche e storiche. Ma senza dubbio essa rappresenta una nuova riflessione ermeneutica creativa.

G. Gutierrez (1928-), teologo peruano, conosciuto specialmente per la sua Teologia de la Liberaciòn. La cristologia è stata sviluppata meno da Gutierrez rispetto ai due teologi precedenti. Possiamo notare che nella Teologia della liberazione la cristologia appare qua e là: per es. «Cristo e la piena liberazione», «Cristo liberatore». Ne La forza storica dei poveri ci sono sviluppi maggiori, specialmente su questi punti: «Cristo verità del Padre», «Cristo povero», i «Cristi flagellati delle Indie».

Nell’opera Bere al proprio pozzo, il discorso cristologico è centrale. Per lui la spiritualità cristiana è caratterizzata da tre punti cardine:

- Un incontro con il Signore, inteso come esperienza spirituale fontale;

- Una vita secondo lo Spirito (non in senso spiritualistico), come un vivere in accordo con i grandi valori del Regno: la vita, l’amore, la pace, la giustizia;

- Un’«avventura collettiva mossa dallo Spirito»secondo il paradigma dell’Esodo biblico.

E questo perché in America Latina «la spiritualità è un’avventura comunitaria. Quasi passi di un popolo che fa il suo proprio cammino nella sequela di Gesù attraverso la solitudine e le minacce del deserto. Questa esperienza spirituale è il pozzo al quale dobbiamo bere. O, forse, oggi, in America Latina, è il nostro calice, promessa di risurrezione».

Anche nell’ultima opera — Parlare di Dio a partire dalla sofferenza dell’innocente, che è in sostanza una riflessione sull’avventura spirituale di Giobbe — il richiamo a Cristo è evidenziato. Colpisce nella parte conclusiva l’applicazione della riflessione europea dopo gli orrori dei lager — di fronte al trauma dell’olocausto ci si è chiesti: «come parlare di Dio dopo Auschwitz?» — alla peculiare situazione peruana.

Egli si domanda: «come fare teologia dopo Ayacucho?». Cioè come

«trovare un linguaggio su Dio in mezzo alla fame di pane di milioni di esseri umani, all’umiliazione di razze considerate inferiori, alla discriminazione della donna, in particolare quella dei settori poveri, all’ingiustizia sociale elevata a sistema, alla persistente e alta mortalità infantile, ai “desaparecidos”, ai privati di libertà, alle sofferenze di popoli che lottano per il loro diritto alla vita, agli esiliati e rifugiati, al terrorismo di vario segno, alle fosse comuni piene di cadaveri di Ayacucho....

In conclusione, secondo un’analisi complessiva che ne traccia J. Sobrino, la figura di Cristo in America Latina è stata riscoperta, non a partire dalla riflessione teologica, ma fondamentalmente dalla «rilettura» del Vangelo a partire dal «mondo dei poveri». Le note caratteristiche di questa figura sono: la vicinanza, la liberazione, la contemporaneità, l’annuncio di gioia.

Va notato che una trattazione completa della «cristologia» nella teologia della liberazione, esigerebbe molta più informazione. Sia per le varie «teologie della liberazione» che si stanno sviluppando in altre parti del mondo. Si pensi all’area caraibica, alla teologia nera degli USA, alla teologia della liberazione in Sud Africa, in Filippine, India, Asia.

Per quanto riguarda invece la «reazione» europea a questa «teologia»si può constatare che il dialogo va crescendo e non mancano riflessioni serie sui cambiamenti che in Europa dovrebbero essere fatti non solo sul piano della prassi (apparteniamo alle potenze che opprimono), ma anche nel campo della teologia. Per accogliere come partner questi interlocutori, e non trattarli con sospetto o con aria di sufficienza.

Note

1) L. B0FF, Salvezza in Gesù Cristo e processo di liberazione, in «Concilium» 10(1974), p. 99.

2) GUTIERREZ, Teologia della liberazione pp. 202-207 1981.

3) J. SOBRINO, Tracce per una nuova spiritualità, Borla, Roma 1987 (titolo originale: Liberaciòn con espìritu..., SaI Terrae, Santander 1985). E’ di fatto una raccolta di articoli.

4) Fra le sue opere, la già citata Cristologia; di valore particolare Gesù in America Latina, pp. 11-89: Jesùs de Nazareth, in C. FLORJSTAN - J. TAMAYO (ed.), Conceptos fundamentales de Pastoral, Cristiandad, Madrid 1983, pp. 480-513; Tracce per una nuova spiritualità, Borla, Roma 1987. Su di lui: J. MARTORELL, Jon Sobrino: un proyecto de cristologia, in «Teologia Espiritual» 30(1986), pp. 261-283; e uno studio più recente con bibliografia aggiornata J. A. GUERRERO, Jesucristo, salvador y liberador (La cristologia de Jon Sobrino), in «Naturaleza y Gracia», 34 (1987), pp. 27-96.

5) Cristologia, p. 350.

CRISTOLOGIA AFRICANA

Accanto alla giovane ma già suggestiva riflessione cristologica latino-americana, dobbiamo riconoscere anche un interessante sviluppo della cristologia africana. Senza dubbio si tratta di una situazione ancor meno sviluppata di quella dell’America Latina, perché possiamo riconoscere facilmente la lunghezza del suo cammino: che non va oltre i due decenni. Ma va rilevato anche che proprio la specificità singolare dell’ambiente e della cultura africana – così differenti da quelli europei o di prolungata influenza europea - rende queste ricerche di «cammini nuovi» e di «linguaggi inculturati» dell’unico Vangelo di Cristo, un settore quanto mai interessante.

Bisognerebbe ricordare che l’Africa - più precisamente l’Africa mediterranea - nei primi secoli cristiani aveva già dato alcuni fra i più grandi teologi antichi: Tertulliano e Cipriano, Agostino e Origene il grande maestro della scuola di Alessandria, il monachesimo primitivo che ha in Pacomio il padre della «koinonia», ecc. Ma poi le invasioni, sia dei popoli barbari venuti dal nord Europa che degli arabi con l’islam, sradicarono ogni cosa. Oggi nel nord Africa la religione cristiana stenta a sopravvivere, in situazioni di quasi totale islamismo di stato. Mentre nell’Africa subsahariana e giù fino al Sudafrica l’attività di conquista coloniale del secolo scorso ha portato, assieme ai vari conquistatori europei, anche le forme religiose di costoro. Moltissime nazioni africane celebrano proprio in questi anni il primo centenario dell’arrivo dei primi missionari (europei).

Negli anni sessanta è iniziata la grande epoca della decolonizzazione: che di fatto ha destrutturato l’equilibrio vitale delle società africane, instaurando un’economia di sfruttamento nel solo interesse delle multinazionali. Nel contesto internazionale l’Africa rimane un continente circuito dalle potenze straniere, che le impongono vincoli d’ogni specie, saccheggiandone le ricchezze. Oggi l’Africa è «un continente che non si appartiene».

L’elaborazione di una specifica cristologia africana si deve vedere allora in questo contesto: di enorme miseria materiale, di dipendenza culturale ancora impressionante, di patrimonio etno-culturale di grande qualità e di lunghissima data. E’ infatti in questa ricchezza di elementi religiosi tradizionali, e insieme di una «Africa strangolata», che si può capire la forma originale di parlare di Cristo e di cercare un linguaggio che parli dalla vita e nella vita.

Nell’Africa del sud, il tema abituale dei teologi neri, come Sebalo Ntwasa e Basil Moore, è quello della distruzione del «Cristo bianco», rappresentante della razza bianca oppressora e dei suoi missionari venuti dall’Europa. Si legge nel manifesto di Hammanskraal:

«La teologia nera è una teologia del futuro dell’uomo nero alla luce del Cristo liberatore. Conseguentemente, noi respingiamo l’interpretazione deformata del messaggio cristiano imposta al popolo nero dalle chiese dominate dai bianchi».

Nelle altre nazioni e etnie africane si seguono a preferenza altre piste, soprattutto si usano altri «nomi» per capire e vivere il mistero di Cristo. Un libro prezioso è apparso di recente, anche in italiano - Cristologia africana6  - che raccoglie i molteplici frammenti della riflessione e della letteratura, delle credenze e dei simboli, dei «nomi» e delle «immagini» che si riscontrano nell’Africa subsahariana, in particolare di lingua francese.

Uno dei punti nevralgici dell’opera è quello di come poter chiamare, ossia «dare un nome» a Cristo, in maniera che diventi «familiare», accolto nella «casa culturale» dell’africano. Infatti è di interesse peculiare per gli africani trovare un nome africano per Gesù Cristo: tale cioè che permetta una migliore e più inculturata conoscenza del mistero stesso di Cristo. Nel libro si parla ampiamente dei titoli: capo, antenato o figlio maggiore, maestro di iniziazione, guaritore, e molti altri. E viene mostrato, per ognuno, quale possibilità v’è di essere in «relazione» con i contenuti del mistero», ma anche con il linguaggio esperienziale religioso delle etnie.

imposto dal movimento stesso dell’incarnazione, la divinità professata del Verbo incarnato non deve cadere nella pura e semplice assimilazione, ma diviene esercizio di esplorazione nella fede e di fedeltà alla fecondità inesauribile del mistero. E questo si chiama oggi inculturazione . forse la categoria che è più conforme all’elaborazione teologica e culturale della tradizione greco-latina. Mentre nel secondo caso - ché è appunto più prossimo all’universo religioso delle grandi religioni asiatiche (come abbiamo visto) e alla concezione religiosa tradizionale africana - si pone l’accento sul valore «cristologico» delle tradizioni religiose. In quanto Cristo viene ad essere il vertice il ricapitolatore della lunga catena di «grandi uomini» che hanno mantenuto vivo lo «spirito» del primo, l’originario progenitore della tribù, della etnia .

Non è sottovalutata neppure la dimensione «escatologica» del Cristo: come liberatore futuro e pienezza di vita nel secolo che viene. Essa è presente sia nel titolo di maestro di iniziazione, sia in quello di guaritore, sia in quello di liberatore. Ma rimane ancora da sviluppare con ulteriori apporti questa prospettiva, che è senza dubbio essenziale per una fedeltà al «mistero cristiano» nella sua completezza.

Note

6) Cristologia africana, Paoline, Cinisello Balsamo 1987. Un breve saggio anche in MOLONEY, African Christology, in «Theological Studies» 48(1987), pp. 505- 516.

CRISTOLOGIE «NUOVE»

Non vogliamo qui entrare nella valutazione critica di tutte le nuove cristologie, anche se il titolo sembra affermarlo. Piuttosto vogliamo dire qualcosa di alcune «nuove cristologie» - come quelle di Schillebeeckx, Hulsbosch, Schoonenberg, Küng, Duquoc - di cui però non abbiamo parlato, per non dilungarci troppo. Proponiamo una linea di valutazione, in generale.

Esse in buona parte si assomigliano per il tentativo di una valutazione critica di Calcedonia, e quindi tentano di riformulare in categorie nuove il suo insegnamento dogmatico, senza rinnegarlo. Loro affermazione è che bisogna «andare avanti da Calcedonia»: e in fondo oggi la cosa non fa molto problema. Dipende come si va avanti. In generale si constata che nella loro proposta di formulazione nuova e più adeguata della fede ci sono dei vantaggi e dei limiti.

1. Pericoli. Anzitutto vi è quello di un’interpretazione riduttiva del mistero. In quanto l’affermazione Cristo uomo-Dio sembra riduzione del mistero al dato antropologico. Non si vede bene espressa la preesistenza della persona divina. I vocaboli/categorie culturali che vengono impiegati sembrano non riuscire ad esprimere veramente il mistero, che va espresso e rispettato.

2. Vantaggi. Questi consistono nel richiamo ai dati «economici» (pro me) e non solo ontologici (in se). VuoI dire che ci è possibile così riflettere sul mistero di Cristo in modo da poter capire le leggi fondamentali su cui si costruisce il rapporto religioso Dio-uomo e su cui si struttura la storia della salvezza.

C’è poi il vantaggio di mettere in risalto che dire «Dio si è fatto uomo» vuol dire mostrare un evento che riguarda non solo la sfera umana, ma anche quella divina, un divenire presente cioè anche in Dio: ciò comporta uno sforzo per illustrare bene i significati. Altro vantaggio è anche quello di sollecitare ad una religione che si ponga nel mondo nella linea dell’incarnazione, cioè in pratica nella linea della promozione umana, in tutte le sue forme.

Altro vantaggio sta nella possibilità di leggere l’impegno di Dio come progressivo impegno di salvezza, anche dopo la venuta di Cristo. La diffusione del messaggio evangelico è progressiva e più intensa applicazione dell’economia dell’incarnazione nei vari momenti del progresso storico (culturale, politico, sociale...).

3. Si noti bene che questa economia non va dalla comunità a Dio, ma da Dio alla comunità. La storia si realizza quando l’uomo accetta Dio nella sua storia. Il cristianesimo non è una sociologia religiosa che diviene religione, ma una religione che sa suscitare aspetti socio-politici. Né si può mancare di evidenziare che il Dio con noi si manifesta nella gratuità, nella non-imposizione. E quindi risalta la prevalenza del servizio sull’autoaffermazione.

Idee molto simili si possono trovare anche in documenti «ufficiosi» ma di grande valore teologico, come il testo Questioni riguardanti la cristologia, della Commissione teologica internazionale.

SINTESI

Ci avviamo ora ad una valutazione complessiva e conclusiva dell’attuale stagione di studi e di riflessioni cristologici. Si tratta di alcune sottolineature generali che ci sembrano emergere con evidenza, in una sintesi finale7.

1. PROSPETTIVE GENERALI

Sono quelle che in fondo costituiscono alcuni dei più accentuati orientamenti nuovi .

1. Riconoscimento della storicità. Il pensiero storico attuale porta all’affermazione della «storicità» di tutte le proposizioni di fede e dei vari volti di Cristo. Non si può isolarli dal legame con l’ambiente storico culturale di ieri e di oggi. Il processo di ellenizzazione, di cui molto ci si lamenta, in effetti non è stato fatto senza una certa creatività; tuttavia fu un processo di inculturazione e quindi anche di «limitazione». Occorre rendersi conto dei condizionamenti storici, delle categorie mentali che ieri erano più statiche e oggi sono più dinamiche e funzionali.

Lo sviluppo del pensiero storico ha perciò liberato la cristologia anzitutto dalla sua stasi e creato giustamente la necessità di un rinnovamento costante e diciamo pure di un rinnovamento coraggioso. Occorre introdurre categorie dinamiche-funzionali anche nell’esistenza concreta del Verbo fatto uomo (sul suo sviluppo e il suo divenire se stesso).

Essere e storia sono strettamente collegati, non basta ribadire i dati di Calcedonia: Calcedonia deve essere punto di partenza, non mai eliminabile (come ha detto Rahner). Ma occorre anche assumere prospettive nuove sull’essere persona e sui condizionamenti che si verificano nel diventare realmente e totalmente persona.

2. L’interesse per il Nuovo Testamento. Il ripensamento della cristologia porta a riallacciarsi all’annuncio originario del Nuovo Testamento, ma anche ai legami con l’Antico Testamento e la letteratura detta «intertestamentaria». Con la conseguenza che l’immagine emergente dal Nuovo Testamento nei testi più antichi (es. i Vangeli) non corrisponde in tutto all’immagine neotestamentaria più tardiva: il Gesù prepasquale e il Cristo postpasquale sembrano a prima vista due entità ben diverse e non conciliabili. Per questo fin dall’epoca dell’illuminismo - di fronte alle accuse della «ricerca sulla vita di Gesù» (Leben-Jesu-Forschung) - si cerca di superare l’abisso profondo fra Cristo postpasquale e Gesù storico. La stagione ampia di questa «ricerca» non ha condotto veramente a dimostrare la storicità della fede posteriore in Cristo anche prima della proclamazione del dogma cristologico. In tutto si trova la mano della comunità postpasquale e della sua fede. E di conseguenza nel passato prossimo si negava che si potesse arrivare davvero al Gesù della storia tale e quale era stato: colpa degli strati, dei miti, delle teologie.

Solo in un secondo momento si troverà la via per arrivare al Gesù storico con sicurezza. Un geniale artefice del superamento delle difficoltà è stato E. Käsemann con le sue ricerche sul Gesù storico seguendo i cosiddetti metodi della differenza, dell’autorità, della disuguaglianza/somiglianza, ecc. Come dice Schilson: la cristologia posteriore può quindi intendersi come legittima spiegazione di un’esigenza contenuta nel Gesù terreno, esigenza che oltrepassa i limiti ordinari. Inoltre il «Gesù storico» resta necessariamente povero rispetto al «Gesù terreno». In altre parole la vita reale di Gesù era sicuramente più varia e più ricca di contenuto di quanto si può dimostrare storicamente accertato e accertabile.

3. Responsabilità pubblica della fede. L’annuncio di Cristo deve provocare l’uomo ad una risposta, attirano ad una nuova possibilità di vita e di esistenza (Bultmann). Ma deve anche avere un significato a livello comunitario: un peso sociale di critica e di incoraggiamento. Questo fa nascere la così detta «ermeneutica politica», che si sviluppa particolarmente in cristologia: mostrando la portata sociale del messaggio cristiano per l’epoca attuale.

Ciò porta a parlare: di soteriologia in chiave comunitaria e non solo individuale, della chiesa come istituzione critica fondata sulla «memoria passionis», dell’annuncio come di una memoria pericolosa per l’epoca attuale. In sostanza si ha l’accoglienza delle istanze migliori della teologia politica, della speranza, della liberazione.

Però tutte le cristologie che rivalutano la prassi messianica del Gesù storico corrono anche il rischio di fare di esso un nuovo mito e di sorvolare quelle implicanze della fede biblica in Cristo che raggiungono una maggiore profondità, e non sono esplicabili del tutto «prassiologicamente».

2. COMPITI

Si tratta di impegni evidenti per un rinnovamento della cristologia, secondo le attese contemporanee8.

1. Cristologia come storia (o anche «cristologia narrativa»). Questo vuole dire: mettere in risalto che la cristologia non può essere deducibile dai bisogni dell’uomo o della comunità, ma piuttosto essa si richiama, come narrazione, ad una storia realmente accaduta, in cui persona e causa sono intimamente legate e si identificano. Per cui nel Cristo terreno e glorificato abbiamo un’unica storia, un’unica vicenda, un unico itinerario. Cristologia dal basso e cristologia dall’alto sono superate.

La risurrezione e la gloria sono completamento e superamento della vita e dell’opera di Gesù terrestre. E la professione di fede postpasquale rende esplicito ciò che nascostamente già affiorava nella vita terrena: cioè la venuta del regno di amore di Dio. La conseguenza che Kasper suggerisce è di considerare l’incarnazione di Dio in Gesù Cristo non come evento momentaneo, ma come avvenimento che si è compiuto una volta per sempre, e che tuttavia riserva ancora in sé una storia, che trova la sua pienezza nella morte/risurrezione di Gesù. Ciò esige essere meno rigidi della scolastica e parlare di un itinerario di Gesù, di uno sviluppo nella conoscenza della volontà del Padre, di un cammino nella sua fede: lui è «autore e perfezionatore della fede» (Eb 12,2).

2. Orizzonte universale. Ci vuole una cristologia in relazione coi problemi fondamentali, tali non solo dell’anima singola, ma di tutta l’umanità. Quindi non una dottrina adatta «per me» e basta; ma una dottrina sensibile alla dimensione storico-dinamica dell’ordine della realtà globale che riempia l’esistenza dell’uomo che ormai è attaccato non solo alla memoria ma anche alla speranza e al progetto (ha imparato il futuro).

La dimensione escatologica così forte nel kerigma di Cristo e nella comunità primitiva è andata presto perduta nella cristologia cresciuta in ambito ellenistico, che si preoccupava del senso e dell’unità del cosmo e non dei «due gradi» (secondo la carne e secondo lo Spirito: cf. Rm 1,3s). Con un’immagine di Dio immutabile e metafisicamente spiegato, incompatibile con la sofferenza, la tensione escatologica sparisce. L’unica aspirazione finirà per essere l’immortalità e l’impassibilità. Doti che si sottolineano maggiormente in Dio.

Dice Kasper:

«Come allora vi fu una legittima ellenizzazione della fede, così oggi che ci troviamo alla fine di una storia cristiana in cui è prevalso l’elemento occidentale-europeo e all’inizio di una storia mondiale, può aver luogo una legittima disellenizzazione del cristianesimo».9

Si deve passare da una visione prevalentemente statica ad una visione più storico-dinamica dell’ordine della realtà globale, ad una crescente coscienza della solidarietà, dell’interdipendenza, dell’«uomo» nel senso di uomini al plurale. Insomma una cristologia che sappia dire qualcosa al processo di solidarietà universale, di planetarizzazione dell’esistenza, di «mondialità» dell’etica.

La storia di Gesù deve diventare una ripresa del tema speranza, una concezione aperta dell’essere, essere-in-relazione, della persona come «divenire» progettuale. L’essere in sé, proprio della metafisica fa fatica a dare spiegazioni in una cultura dove si enfatizza l’essere-per-l’altro, e al Dio «motore immobile» si preferisce il dinamismo del «Dio-con-noi».

3. Dimensione pneumatologica. È la cosa forse più difficile da sviluppare bene. Secondo la Scrittura, Gesù è il Cristo in quanto è l’«unto» di Spirito santo. Per cui una cristologia corretta è quella che valorizza questo rapporto in maniera non debole. Gesù è colui che porta in sé la potenza di Dio che è lo Spirito, all’opera nell’antica alleanza e ancor più evidente e vivo nella nuova. Per cui diviene egli stesso «Spirito vivificante» (1Cor 15,45). Questo non consente tuttavia di cadere nell’eccesso opposto, vale a dire di fare della cristologia una funzione della pneumatologia (sarebbe adozionismo).

Possiamo anche dire che Gesù è la meta escatologica cui tende l’opera dello Spirito nel mondo. In lui Dio è già «tutto in ogni cosa» (1Cor 15,28). Ma il ruolo dello Spirito rimane ancora uno «spazio aperto»: egli è colui che tiene aperte le possibilità a nuovi sviluppi, è la continua novità, è promessa, caparra, «guida» (Gv 16,13) verso «verità inedite».

Una fedeltà allo Spirito «improvvisatore» favorirebbe un approfondimento non puramente statico della verità e un confronto più accogliente verso i problemi del tempo: espressi nei «segni dei tempi», ma anche nell’emergere dell’attenzione per i «semina Verbi» presenti nelle tradizioni religiose dei popoli.

Note

7) Per quanto riguarda questo paragrafo ci serviamo del saggio scritto da A. Schilson in A. SCHILSON--W.KASPER, Cristologie, oggi, Paideia, Brescia 1979, pp. 13-30.

8) Teniamo presente qui il contributo di Kasper, in SCHILSON-KASPER, Cristologie, pp. 143-162.

9) SCHILSON-KASPER, Cristologie, p. 152.

3. CONCLUSIONE

Abbiamo presentato evidentemente solo una parte di quello che è il panorama della teologia attuale, nel campo della cristologia. Ci sarebbe da aggiungere molto di più, in campi «teologici» affini. Per es. il notevole ritorno al «cristocentrismo» nella teologia morale, che di conseguenza influenza notevolmente la spiritualità, essendo questa molto spesso collegata alla struttura di quella.

Ci sarebbe poi ancora da dire qualcosa sulla concentrazione cristologica acculturata e biblicamente molto più seria che ha oggi la vita consacrata. Anche questo influisce direttamente sul recupero «cristocentrico» della spiritualità.

Due sono le accentuazioni «cristologiche» che maggiormente sì evidenziano negli ultimi tempi per la vita consacrata. Vivere come Cristo: la vita consacrata è continuazione/attuazione della vita di Cristo. Vivere come discepoli, alla sequela di Cristo, secondo le esigenze evangeliche. In entrambi i casi la meta finale è la «conformazione» a Cristo, espressa anche con la terminologia della «consacrazione» (che è eminentemente cristologica).

In America Latina nella «chiamata alla sequela radicale di Cristo» (Puebla 742-757) appaiono come imprescindibili queste dimensioni: la lotta per la giustizia, l’opzione evangelica preferenziale per i poveri, la collaborazione con le aspirazioni di liberazione del popolo oppresso. Esse sono le linee guida delle molteplici esperienze di «vita religiosa inserita».

Ci rimane ora ancora da esplorare che cosa la pastorale popolare, l’insegnamento conciliare e i frequenti discorsi e pronunciamenti pontifici hanno messo in evidenza nel campo della cristologia. Nel capitolo che seguirà intendiamo dedicarci a questa esplorazione, che completa la nostra panoramica e ci mostra da altri punti di osservazione la ricchezza dell’attuale stagione ecclesiale


La pace fugge dal campo dei vincitori

di Raimon Panikkar




Intervista al filosofo,
chimico, teologo, figlio di madre spagnola e padre indiano. E' un misto
di varie culture e spiritualità. Una figura
agile ed elegante; il corpo lungo e sottile avvolto in una tunica
bianca. Il suo volto è abbronzato, ricco di un sorriso aperto e
immediatamente comunicativo.


Può darci una definizione di pace e guerra oggi?
“La nostra cultura tecnocratica, che attraverso il culto
dell’accelerazione ha trasgredito i ritmi naturali della natura e della
mente, ha prodotto una società che, oltre a non avere la pace, ne rende
difficile e urgente la realizzazione ai nostri giorni. Ciò non
significa che i tempi passati non avessero i loro problemi, dai quali
possiamo anche trarre lezione. Pace non vuole dire mantenere uno status
quo rivelatosi ingiusto. Non sto proponendo la guerra contro, ma
l’emancipazione dallo status quo e la sua trasformazione in un fluxus
quo, un muoversi verso un’armonia cosmica sempre nuova. Troppo spesso i
discorsi sulla pace tendono a diventare sogni idilliaci di un paradiso
ideale”.

I diversi nomi della pace
Lei parla di pace esterna e di pace interna e che è impossibile vivere senza entrambe. Può spiegarci il suo pensiero?
“È sconvolgente e pericoloso vivere in situazioni di guerra o di
conflitto di qualsiasi tipo. Il mondo è pieno di ingiustizie
istituzionalizzate e non, che distruggono la pace.
Dall’ultimo
conflitto mondiale, più di mille persone al giorno cadono vittime della
guerra, milioni sono i profughi nel mondo, i bambini che vivono
abbandonati sulla strada e la gente che muore di fame. Non dovremmo
minimizzare il dolore umano, ma se vi è pace interiore esiste ancora
qualche possibilità di sopravvivenza. Senza pace interiore la persona
si disgrega. Crimine, droga e molte altre piaghe individuali e sociali
derivano dalla mancanza di pace interiore. La pace è più che un’essenza
di conflitti armati. Se non c’è pace dentro di noi non vi può essere
nemmeno pace attorno a noi. La mancanza di pace interiore origina
competizioni che sfociano in sconfitte che innescano vendette di ogni
tipo dichiarate o meno. D’altra parte, non è possibile godere in
pienezza la pace interiore se il nostro ambiente umano ed ecologico
subisce violenza e ingiustizia. Viceversa, senza pace esteriore, la
pace interiore è solo apparente o superficiale o uno stato
esclusivamente psicologico di isolamento artificiale dal resto della
realtà”.

Lei afferma dunque che nessuna spiritualità autentica
può propugnare la fuga dal mondo reale e nessun saggio si può chiudere
nel proprio egoismo o nella proprio autosufficienza...

“Certo
occorre camminare nell’unità. La pace interiore produce la pace
esteriore e questa nutre la pace interiore. Analogamente, il disordine
interiore produce lotta esteriore e questa genera a sua volta la
degradazione interiore. La relazione è tuttavia sui generis. Non
abbiamo visto talvolta persone dotate di una misteriosa, affascinante
serenità in situazioni ingiuste e catastrofiche? Ma al contempo, non
siamo forse stati testimoni di depressioni inesplicabili in condizioni
di vita esternamente ottimali? Tutto l’universo è coinvolto nella
stessa avventura. La filosofia della vita intesa come “la sapienza
dell’amore” propria della vita stessa ci aiuta a superare la dicotomia
fra interiorità ed esteriorità e ci consente di godere della pace
interiore in mezzo a sofferenze esterne e di impegnarci ad alleviare le
ingiustizie senza perdere la nostra gioia interiore”.

La pace un dono, non una conquista
Lei dunque è favorevole alla lotta per la pace...
“Non si combatte per la pace; si combatte per i propri diritti o,
eventualmente, per la giustizia, ma mai per la pace. È una
contraddizione. I regimi che vengono imposti non rappresentano la pace
per chi li subisce, siano essi bambini, stranieri, poveri, famiglie o
nazioni. Noi accettiamo la pace come un dono, ma il dono della pace non
è un giocattolo. È una spinta, una aspirazione. La pace non è una
condizione pre-confezionata. Cristo voleva che noi ricevessimo la sua
pace, non voleva imporcela, né tantomeno voleva che noi la imponessimo
agli altri. La natura della pace è grazia, è dono. Noi scopriamo la
pace: è una scoperta, non una conquista. È frutto di una rivelazione:
possiamo sperimentarla come la rivelazione dell’amore, di Dio, della
bellezza della realtà, dell’esistenza della provvidenza, di un
significato nascosto, dell’armonia dell’essere o della bontà della
creazione, della speranza, della giustizia, o anche dell’amore puro di
chi ama…
La pace deve essere continuamente nutrita e persino
creata. Per raggiungerla non esiste ricetta né programma pre-costituito
possibile né tantomeno un ritorno allo stato primitivo, una volta che
l’innocenza è stata perduta. La pace la si ricrea ogni volta. È dono è
dovere”.

La vittoria non conduce alla pace
Nella sua relazione (...) lei ha affermato che la vittoria non conduce mai alla pace. Una provocazione?
"Ne sono testimoni gli ottomila e più trattati di pace (di cui siamo a
conoscenza) stipulati nel corso dei millenni della storia umana.
Nessuna vittoria ha mai portato una vera pace. Non si può ribattere
attribuendo la colpa di ciò alla natura umana, perché la maggior parte
delle guerre sono state fatte, e giustificate, come correzioni di
trattati di pace precedenti. Gli sconfitti, se non proprio i loro
figli, prima o poi emergeranno ed esigeranno ciò che era stato loro
negato. Nemmeno la repressione del male porterà a risultati permanenti.
La pace fugge dal campo dei vincitori, direi parafrasando Simone Weil.
La pace non è il ripristino di un ordine sovvertito: è costantemente un
nuovo ordine. È un fatto storico che la vittoria conduce alla vittoria,
non alla pace. Conosciamo bene gli effetti collaterali deleteri di
“vittorie” prolungate. Nonostante tutte le nostre distinzioni, la
vittoria è sempre quella di un popolo su un altro popolo o di una
persona su un’altra persona, e un popolo o un essere umano non è mai un
malvagio assoluto. A livello teorico non si può quindi dire che la
vittoria sia stata riportata sulle forze del male o gli errori o le
aberrazioni. Forse vorremmo solo distruggere il male, ma eliminiamo il
malfattore, vorremmo punire il crimine, ma puniamo il criminale”.

Disarmo militare e disarmo culturale

La guerra oggi la si combatte prima sui media poi sui campi di battaglia.

“Certo, dobbiamo disarmare le nostre rispettive culture insieme con (e
a volte anche prima) l’eliminazione delle armi. Le nostre culture sono
spesso bellicose, trattano gli altri come nemici, come barbari,
selvaggi, primitivi, pagani, non credenti, intolleranti e così via.
Inoltre in molte culture la ragione stessa è usata come arma: per
vincere e convincere.v Disarmo culturale non è solo una frase ad
effetto, ma, nella nostra attuale situazione, un requisito
indispensabile per garantire la pace e giungere a un disarmo duraturo.
Dobbiamo dire innanzitutto che non è puro caso se la civiltà
occidentale ha sviluppato oggi un arsenale di armi così terribile sia
per qualità che per quantità. È un qualcosa che inerente a questa
cultura che ha portato a una simile situazione: competitività, ricerca
di soluzioni “migliori” che non tengono conto della possibilità di
affrontare le cause e risolvere il problema alla base, e tutto ciò a
discapito delle arti, dei mestieri, della soggettività, noncuranza del
mondo dei sentimenti, senso di superiorità, universalità e così via. Un
esempio di questo atteggiamento è palese nel fatto che i discorsi dei
politici e degli intellettuali si concentrano esclusivamente sulla
riduzione degli armamenti trascurando questi temi più fondamentali. Il
disarmo culturale tuttavia è rischioso e difficile quanto quello
militare. Si diventa vulnerabili. È risaputo che la riduzione degli
armamenti è un problema fondamentalmente culturale. Il passaggio
dall’agricoltura, come modo di vita, all’agribusiness, come mezzo di
guadagno, potrebbe essere preso ad esempio di quanto vogliamo dire.
Disarmo culturale non significa voler ritornare alla vita primitiva, ma
presuppone una critica della cultura non solo alla luce di ciò che non
è andato bene in quella occidentale, ma anche nella prospettiva di un
approccio interculturale genuino”.

Religioni e pace

Le religione sono una via privilegiata verso la pace?

“La gente era disposta a lottare per la propria salvezza, prova ne sia
che molte delle guerre del mondo sono state guerre di religione.

Siamo testimoni oggi di una trasformazione della nozione stessa di
religione per cui si può affermare che le religioni sono modi diversi
di avvicinare e di acquisire quella pace che al giorno d’oggi è forse
uno dei pochi simboli universali. Summa nostrae religionis pax est et
unanimitas
(l’essenza della nostra religione è la pace e la concordia),
scrisse Erasmo in una lettera del 1522”.

Search