Ecumene

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

La misericordia e il sacrificio
di Giovanni Vannucci

Le parole: "Voglio la misericordia, non il sacrificio" (Mt 9,13) segnano un importante passo in avanti della coscienza umana, di cui purtroppo pochissimi, anche dopo duemila anni, si sono resi conto: il passaggio dalla religione del Padre a quella del Figlio. Il Padre sentito come il Sovrano assoluto, il Giudice inappellabile, che promuove i buoni e, demonizza i peccatori. La coscienza bisognosa di sacrifici espiatori, di capri sui quali riversare i peccati propri e quelli comunitari, la coscienza solare, creatrice e apportatrice di vita. L'albero da frutto dona con trasporto i suoi frutti, e la sua gioia aumenta con l'accrescersi dell'abbondanza dei frutti; non demonizza gli animali e gli uomini che ne mangiano, il suo compito è di sostentare le creature che abbisognano dei suoi doni. Così il seguace della religione del Figlio vive per distribuire la misericordia, non per innalzare altari su cui immolare delle vittime.

L'esperienza cristiana è nel faticoso e laborioso cammino che va dalla religione del Padre, del Rigore, del Giudizio irreformabile, alla religione del Figlio, che non giudica, non condanna, non colpevolizza nessuna creatura, ma con mano generosa distribuisce amore e misericordia, non spenge la fiammella che fumiga, non spezza la canna incrinata. Mosè aveva dichiarato che l'uomo è l'immagine di Dio nel creato, Cristo ci dice che il Figlio e i figli dell'uomo son chiamati a spogliarsi dal timore e dal tremore dei servi, e dischiudersi alla gioia vitale di sentirsi figli di Dio. Il volto del Padre che Gesù ci rivela riunisce armoniosamente il Rigore e la Misericordia, il rigore inteso non nel senso di una instaurazione di processi e di tribunali per eliminare il male, ma come l'intransigente ricerca di aprirsi all'infinita misericordia divina.

L'uomo che consapevolmente vive la sua missione di immagine di Dio, comincia a muoversi verso il raggiungimento della perfezione divina: "Siate perfetti e misericordiosi come il Padre vostro che è nei cieli" (Mt 5,48). "Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui cui il Figlio ha voluto rivelarlo" (Mt 11,27), cioè colui che ha raggiunto la coscienza propria della religione del Figlio. Gesù si manifesta non come il Re dalla tremenda maestà, come la nostra mente avida di potere e impaurita ama rappresentarselo, ma come l'umile e il mansueto. È Gesù mansueto e umile? Se mansuetudine e umiltà dovessero significare servilismo e vigliaccheria, certo Gesù non lo é. Il mondo, in genere, intende così l'umiltà e la mansuetudine. Per Gesù la mansuetudine è uno stato spontaneo di misericordia, per cui si è incapaci di serbar rancore per cosa alcuna, o di scandalizzarsi ipocritamente di qualche cosa. La mansuetudine è per Gesù la natura del leone, non quella dell'agnello; è mansueto colui che ha in sé la capacità di non poterlo essere: il libero, non lo schiavo; il forte, non il debole; l'audace e non il pavido; Gesù in questo senso è mansueto. Ogni volta che s'incontrerà nel peccatore avvilito e disprezzato, Egli lo rialzerà.

Cosa significa l'umiltà per Gesù? L'umiltà è per Lui la coscienza dei propri limiti; è l'offerta di se stessi perché la volontà divina sia fatta nell'uomo e attraverso l'uomo; è la serena dedizione al servizio umano, sempre grande, sempre nobile, comunque sia esercitato. "Chi di voi vuole essere il primo sia l'ultimo e il servo di tutti" (Mc 10,44). L'umiltà non è che il riconoscimento della propria posizione di creatura di fronte al Creatore e alle altre creature. Di creatura, non di giudice o sacrificatore, e la misericordia è il traboccamento di riconoscenza di quanto Dio e la vita ci hanno dato.

(Da: Giovanni Vannucci, Il Risveglio della coscienza, già Edizioni Cens, ora Servitium Città aperta edizioni srl / Associazione Emmaus via Conte Ruggero, 73 - 94018 Troina (En) tel. 0935.653530 - Fax 0935.650234; e-mail: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.; internet: www.servitium.it)


Come Paolo abbandonò
la legge di Mosè
di Jérôme Murphy O’Connor *


Il modo in cui Paolo concepiva la Legge di Mosè non era senza contraddizioni e il suo atteggiamento nei confronti di questa è cambiato a più riprese. Si possono distinguere nell’evoluzione del pensiero almeno quattro periodi al termine dei quali egli abbandonò la Legge di Mosè: la giovinezza a Tarso; il soggiorno a Gerusalemme da fariseo; i primi anni da missionario cristiano quando rappresentava Antiochia e infine l’ultima parte della sua vita, dopo la rottura con Antiochia.

Studi recenti hanno mostrato che Paolo era un maestro della retorica classica. Rifiutava di ricorrere a queste competenze nella sua predicazione per ragioni di principio: «perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio» (1 Cor 2,5). Argomenti logici non potrebbero in realtà per lui costituire il fondamento della fede, ancorato nell’esperienza personale della grazia divina. Ma quando Paolo si accora, come in 2 Corinzi 10-13, la sua padronanza prudente si espande e le sue competenze appaiono alla luce del giorno: egli allora imita perfettamente le convenzioni della retorica! È chiaro che Paolo era un letterato. Non è impossibile che abbia seguito lunghi studi a Gerusalemme, ma più probabilmente li ha completati nella celebre scuola di Tarso. Paolo era dunque un ebreo che viveva in due universi distinti, appartenendo sia alla comunità ebraica, sia alla città pagana. Adolescente, il suo atteggiamento di fronte alla Legge era forse ambiguo. Alcuni elementi della Legge, in particolare le prescrizioni alimentari, avevano lo scopo di rendere difficile, se non impossibile, lo scambio con i Gentili, cioè con i pagani. In questa prospettiva, egli considerava forse la Legge come un peso. I suoi genitori erano prigionieri di guerra giunti dalla Galilea a Tarso, che avevano acquisito cittadinanza romana dopo essere stati emancipati dal loro status di schiavi. Questa situazione ha potuto rafforzare il loro impegno di obbedienza alla Legge per resistere all'assimilazione. L'osservanza conferiva loro un profondo senso di identità: essi facevano parte del popolo di Dio.

A Gerusalemme, una scrupolosa conoscenza dei comandamenti della Torà

L'impegno di Paolo di fronte alla Legge divenne più profondo e personale quando si unì ai farisei a Gerusalemme (Fil 3,5). I farisei superavano tutti gli altri ebrei nella conoscenza scrupolosa dei comandamenti (At 22,3; 26,5; G. Flavio, Antichità 17,41; Guerra 1,110; Vita 191 A), la sola via per loro della perfetta obbedienza. Paolo si adattò perfettamente al suo nuovo ambiente. «Superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com'ero nel sostenere le tradizioni dei padri» (Gal 1,14). Il tono di questa dichiarazione riflette la sufficienza di un vincente. Paolo aveva imbrigliato la sua feroce energia a favore di uno studio intenso della Legge, scritta e orale, ed eccelleva nel grado e qualità della sua osservanza. Certo, in teoria, l’elezione della grazia rimaneva preponderante, ma, in pratica, l'attenzione era tutta puntata su un’osservanza meticolosa di ciò che i farisei consideravano l'esatta interpretazione della Legge. Durante questo periodo, che durò più di dieci anni, Paolo era dunque un legalista ad oltranza. Nulla indica che egli abbia potuto in quel tempo sentirsi tormentato da qualche impossibilità a osservare la Legge.

L'incontro con i Gentili

La terza tappa della relazione di Paolo con la Legge si colloca tra la sua conversione e la sua discussione con Pietro ad Antiochia. Le parole seguenti traducono bene il suo atteggiamento durante questi vent'anni (circa 33-52 d.C.): «Mi sono fatto Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei. […] Con coloro che non hanno legge sono diventato come uno che è senza legge […] per guadagnare coloro che sono senza legge» (1Cor 9,20-21). In compagnia degli ebrei, egli osservava le usanze ebraiche, come ad esempio le prescrizioni alimentari: ma tra i Gentili ignorava queste prescrizioni e mangiava liberamente come i Gentili. In altre parole, la Legge perdeva importanza. Paolo non si sentiva più legato dalle proibizioni che essa imponeva.

In che modo? Tutto ciò che si sa, è che la conversione ha convinto Paolo ad essere l'apostolo presso i Gentili di una missione liberata dalla Legge. Se essi non avevano bisogno di osservare la Legge per essere salvi, la Legge non costituiva un passaggio essenziale sulla via della salvezza. Accettando questa libertà, Paolo facilitò i contatti con i Gentili che egli voleva accostare a Cristo.

Ormai, la Legge aveva perduto per Paolo la sua importanza in termini di salvezza, ma continuava a riconoscervi un quadro di riferimento per l'identità ebraica. Perché, dopo tutto, gli ebrei formavano un popolo. Per questo permetteva agli ebrei convertiti delle sue diverse comunità di circoncidere i loro figli e di conservare le loro prescrizioni alimentari. Agli occhi di Paolo, si trattava in tal caso di costumanze puramente etniche, senza alcun valore religioso. Non vi era dunque alcun motivo per i Gentili di osservarle. Il fatto che due gruppi così diversi siano accostati nel seno di una medesima Chiesa richiedeva naturalmente molto tatto per garantire alla comunità un'unità effettiva. Condividendo un pasto con degli ebrei, i Gentili dovevano sottomettersi alle prescrizioni kasher; analogamente, quando erano invitati dai Gentili, gli ebrei dovevano affidarsi ai Gentili per quanto riguarda i pasti kasher serviti. Se Paolo sottolineò che la maggior parte delle concessioni spettava ai Gentili, non vi vide probabilmente che un'espressione della carità. I cristiani dovevano amare il prossimo, la norma essendo il sacrificio che Dio aveva fatto della sua persona (2Cor 5,15).

La questione di Antiochia

L'incidente di Antiochia mise fine a questa tolleranza e segnò l'inizio della quarta e ultima fase dell'atteggiamento di Paolo di fronte alla Legge. Giacomo era d'accordo con Paolo sul fatto che i Gentili non avessero bisogno di essere circoncisi (Gal 2,6): riconosceva che non era il momento di diluire l'identità ebraica circoncidendo i Gentili che non mostravano alcun interesse verso il giudaismo. L'antisemitismo guadagnava terreno ed era importante che ogni vero ebreo fosse solidale. Ed ogni abbandono di elementi dell'identità ebraica era in quel momento sentito come un tradimento... È il motivo per cui Giacomo insistette perché i giudeo-cristiani di Antiochia mostrassero un'osservanza molto più stretta verso la Legge ebraica (Gal 2,12). Questa posizione era gravida di conseguenze per i Gentili di Antiochia. Per mantenere l'unità della comunità, avrebbero dovuto veramente diventare ebrei. Avrebbero perduto allora la libertà del vangelo, garantita dall'Assemblea degli Apostoli e degli Anziani di Gerusalemme (Gal 2,10). Qui Paolo si vide obbligato a riconoscere che non si poteva più accettare il significato della Legge all'interno della comunità cristiana. Se si accordava il minimo diritto di cittadinanza alla Legge, ne sarebbe risultato inevitabilmente un formalismo che, in modo inesorabile, avrebbe allontanato sempre più Cristo dalla vita dei credenti. La sua esperienza personale di fariseo gli permetteva di comprendere fino a che punto la richiesta di un'osservanza perfetta poteva prevalere su ogni altra considerazione. Per la prima volta, Paolo vide nella Legge una pericolosa rivale per il Cristo. Da qui la sua trasformazione in «antinomico» (oppositore della Legge) radicale (Gal 5,1-12). Luca ha perfettamente ragione quando fa dire a Giacomo: «Tu [Paolo] vai insegnando a tutti i Giudei sparsi fra i pagani che abbandonino [la legge di] Mosè, dicendo di non circoncidere più i loro figli e di non seguire più le nostre consuetudini» (At 21,21).

Questa illuminazione portava Paolo a rimettere in discussione il valore della Legge di Mosè. Nella pratica della vita ebraica, questa Legge non era «la legge di Dio» che per il suo nome (Rm 7,22). In realtà, essa era «la legge del Peccato» (Rm 7,23 e 25). Paolo voleva dire così che il Peccato, cioè un falso sistema di valori sociali, si era impadronito e controllava la Legge. Un esempio ne era l'esagerata importanza attribuita alla Legge: se si pretendeva che fosse osservata da Dio stesso, che potevano allora offrire gli ebrei se non un'obbedienza totale e cieca («La giornata ha dodici ore; durante le prime tre, l'Onnipotente, benedetto sia il suo nome, si dedica alla Torà», B. Aboda Zara 3b)? La «pratica della Legge» (Gal 2,16), cioè i gesti richiesti dalla Legge, prevaleva su tutto. Ma, invece di guadagnare il favore di Dio, tutto ciò che si richiamava alla pratica della Legge incorreva in una maledizione (Gal 3,10).

L'antitesi della «Legge del Peccato» è la «Legge di Cristo» (Gal 6,2), la Legge come è assunta da Cristo Tutti questi molteplici precetti della «Legge del Peccato» (Gal 5,3) si trovano ridotti, nella Legge di Cristo, ad un solo comandamento che «enuncia» (logos e non entolê): «Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso» (Gal 5,14, citazione da Lv 19,18). Ma che cos'è il vero amore? Per Paolo si tratta dello stesso amore di cui Cristo avevo dato l'esempio sacrificando se stesso per la salvezza di ognuno: «Il Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). La Legge è diventata il Cristo nel senso in cui è lui che articola, nel suo agire, la domanda fondamentale dell'amore. I comandamenti della Legge sono divenuti caduchi. Ne deriva che «Cristo è il termine della Legge» (Rm 10,4). Non è più la Legge che parla in nome di Dio, ma soltanto Cristo. Seguire Cristo obbliga ad un impegno totale che i precetti discrezionali della Legge, anche seguiti uno ad uno, non saprebbero mai chiedere.

L'opposizione di Paolo alla Legge andava ben oltre la semplice affermazione che essa era al gli fuori degli obiettivi dei cristiani. Ai suoi occhi, nessun precetto che obbligasse, qualunque fosse, non aveva spazio nella comunità cristiana. Paolo non richiama mai l'obbedienza alla legge, ai comandamenti o anche alla volontà di Dio. Egli cita due comandamenti di Cristo, uno che proibisce il divorzio (1Cor 7,10) e l'altra che obbliga i sacerdoti ad accettare un sostegno materiale della comunità (1Conr 9,14). Ora, egli ammette un divorzio (1Cor 7,15) ed insistette per guadagnarsi la vita con le sue mani (1Cor 9,15-18). Si sentiva libero di fare esattamente l'opposto di quello che domandava Gesù, rivelando in questo modo che i credenti non dovevano prendere alla lettera ciò che aveva l’apparenza di un comandamento. Se Paolo rifiutava di accordare alla Legge e ai comandamenti di Cristo una autorità coercitiva, non avrebbe potuto dare una forza coercitiva alle sue personali direttive. Egli scriveva a Filemone: «Pur avendo in Cristo piena libertà di comandarti ciò che devi fare, preferisco pregarti in nome della carità» (Fm 8-9). Perché Paolo «prega» invece di «comandare»? Risponde: «Non ho voluto far nulla senza il tuo parere, perché il bene che farai non sapesse di costrizione, ma fosse spontaneo» (14; cf 2Cor 9,7). L'opposizione tra costrizione e libertà è assoluta. Una stessa azione non può essere allo stesso tempo volontaria e obbligata.

Paolo non dà dunque mai un precetto imperativo in materia morale. Se gli capita di scivolare in un tono imperioso, si corregge subito: «Non lo dico come un ordine» (1Cor 7,6; 2Cor 8,8). Lt stia tecnica consiste nello spiegare ai suoi convertiti quello che egli farebbe in una data situazione e poi a lasciarli trovare da soli una risposta autentica sotto la direzione dello Spirito Santo. Se la Legge è il Cristo (Gal 6,2), Paolo, in ultima analisi, può soltanto dire: «Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1).

* Scuola biblica e archeologica di Gerusalemme

(da Il mondo della Bibbia n. 53)

Riflessioni su alleanza e missione
Consultazione tra ebrei e cattolici negli Stati Uniti

 


Prefazione

Per più di vent’anni, capi delle comunità ebraica e cattolica negli Stati Uniti si sono incontrati semestralmente per discutere un’ampia gamma di temi riguardanti i rapporti ebraico-cattolici. Al presente, i partecipanti a queste consultazioni sono delegati del Comitato dei vescovi per gli affari ecumenici e interreligiosi della Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti (BCEIA) e delegati del Consiglio nazionale delle sinagoghe (NCS). Il Consiglio nazionale delle sinagoghe rappresenta la Conferenza centrale dei rabbini americani, l’Assemblea rabbinica dell’ebraismo conservatore, l’Unione delle congregazioni ebraiche americane e la Sinagoga unita dell’ebraismo conservatore. La consultazione è co-presieduta dal card. William Keeler, moderatore per i rapporti ebraico-cattolici, dal rabbino Joel Zaiman, dell’Assemblea rabbinica dell’ebraismo conservatore, e dal rabbino Michael Signer dell’Unione delle congregazioni ebraiche americane. I colloqui hanno prodotto in primo luogo dichiarazioni pubbliche su questioni come i bambini e l’ambiente e gli atti di odio religioso.

Nella riunione tenutasi il 13 marzo 2002 a New York, la consultazione del Comitato per gli affari ecumenici e interreligiosi e del Consiglio nazionale delle sinagoghe ha preso in esame il modo in cui le tradizioni ebraica e cattolica intendono oggi i temi dell’alleanza e della missione. Ciascuna delegazione ha preparato delle riflessioni che sono state discusse e definite dalla consultazione come dichiarazioni dello stato attuale della questione in ciascuna comunità. La consultazione si è proposta di rendere pubbliche le sue considerazioni al fine di incoraggiare una riflessione seria su questi temi da parte degli ebrei e dei cattolici negli Stati Uniti. Dopo il tempo necessario per rifinire le dichiarazioni iniziali, le distinte riflessioni dei cattolici e degli ebrei sui temi dell’alleanza e della missione vengono presentate qui di seguito.

Le riflessioni dei cattolici romani descrivono il crescente rispetto per la tradizione ebraica a partire dal concilio Vaticano II. Un apprezzamento sempre più profondo da parte dei cattolici dell’alleanza eterna tra Dio e il popolo ebraico, insieme al riconoscimento di una missione che Dio ha affidato agli ebrei di rendere testimonianza dell’amore fedele di Dio, portano alla conclusione che le campagne volte a convertire gli ebrei al cristianesimo non sono più accettabili dal punto di vista teologico nella Chiesa cattolica.

Le riflessioni ebraiche descrivono la missione degli ebrei e il perfezionamento del mondo. Questa missione presenta tre aspetti. In primo luogo ci sono gli obblighi che nascono come effetto dell’elezione d’amore del popolo ebraico a un’alleanza con Dio. In secondo luogo c’è una missione di testimonianza della potenza redentrice di Dio nel mondo. Infine, il popolo ebraico ha una missione che è diretta a tutti gli esseri umani. Le riflessioni ebraiche si concludono sollecitando ebrei e cristiani a formulare un programma comune per migliorare il mondo.

La consultazione esprime preoccupazione per la perdurante ignoranza e le reciproche caricature che predominano tuttora in molti segmenti delle comunità ebraica e cattolica. È speranza della consultazione che queste riflessioni siano lette e discusse come parte del processo in atto della crescente comprensione reciproca.

La consultazione inoltre riafferma il proprio impegno a continuare ad approfondire il nostro dialogo e a promuovere l’amicizia tra la comunità ebraica e quella cattolica negli Stati Uniti.

 


Riflessioni dei cattolici

I doni portati dallo Spirito Santo nella Chiesa attraverso la dichiarazione Nostra aetatedel concilio Vaticano II continuano a manifestarsi. I decenni seguiti alla sua proclamazione nel 1965 hanno visto un progressivo avvicinamento tra la Chiesa cattolica e il popolo ebraico. Anche se continuano a verificarsi controversie e incomprensioni, c’è stato nondimeno un graduale approfondimento della comprensione reciproca e del fine comune.

La Nostra aetateha ispirato anche una serie di istruzioni magisteriali, che comprendono tre documenti, preparati dalla Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo: Orientamenti e suggerimenti per l’applicazione della Dichiarazione conciliare Nostra aetate, n. 4 (1974); Sussidi per una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica (1985); e Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah(1998). Il papa Giovanni Paolo II ha pronunciato molti discorsi e si è impegnato in varie azioni importanti che hanno promosso l’amicizia tra cattolici ed ebrei. Numerose dichiarazioni riguardanti i rapporti ebraico-cattolici sono state scritte dalle conferenze nazionali dei vescovi cattolici di tutto il mondo. Negli Stati Uniti, la Conferenza dei vescovi cattolici e le sue commissioni hanno pubblicato molti documenti sul tema, tra i quali: Orientamenti per i rapporti ebraico-cattolici (1967, 1985); Orientamenti per la valutazione delle drammatizzazioni della Passione (1988); La misericordia di Dio dura per sempre: sussidi per la presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione cattolica (1988); e, più recentemente, Insegnamento cattolico sulla Shoah: attuare Noi ricordiamo della Santa Sede (2001).

Un esame di queste dichiarazioni cattoliche negli ultimi decenni mostra che esse sono andate progressivamente considerando un numero sempre maggiore di aspetti del complesso rapporto tra ebrei e cattolici, unitamente al loro influsso sulla pratica della fede cattolica. Questo lavoro ispirato da Nostra aetate ha implicato un dialogo interreligioso, iniziative educative in collaborazione e ricerche teologiche e storiche congiunte di cattolici ed ebrei. E questo continuerà nel nuovo secolo.

Al momento presente, in questo processo di rinnovamento, i temi dell’alleanza e della missione sono balzati in primo piano. La Nostra aetate iniziò questa riflessione citando Romani 11,28-29 e descrivendo così gli ebrei: "in grazia dei padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui chiamata sono senza pentimento".(1) Giovanni Paolo II ha esplicitamente insegnato che gli ebrei sono "il popolo di Dio dell’antica alleanza, mai revocata da Dio", (2) "l’attuale popolo dell’alleanza conclusa con Mosè", (3) e i "partner in un’alleanza di amore eterno che non fu mai revocata".(4)

Il riconoscimento cattolico, successivo a Nostra aetate, della permanenza del rapporto di alleanza del popolo ebraico con Dio ha portato a una considerazione positiva nuova per la tradizione ebraica post-biblica o rabbinica, che è senza precedenti nella storia cristiana. Gli Orientamenti del Vaticano del 1974 insistevano sul fatto che i cristiani devono cercare di apprendere "le caratteristiche essenziali con le quali gli ebrei stessi si definiscono alla luce della loro attuale realtà religiosa".(5) I Sussididel Vaticano del 1985 esaltavano l’ebraismo post-biblico perché portava "in tutto il mondo la testimonianza, spesso eroica, della sua fedeltà all’unico Dio e (permetteva) di "esaltarlo di fronte a tutti i viventi" (Tb 13,4)".(6) I Sussidi continuavano col sottolineare come Giovanni Paolo II esortasse i cristiani a ricordare come "questo permanere di Israele si accompagni a un’ininterrotta creatività spirituale, nel periodo rabbinico, nel Medioevo, e nel tempo moderno, a partire da un patrimonio che ci fu a lungo comune, tanto che "la fede e la vita religiosa del popolo ebraico così come sono professate e vissute ancora oggi (possono) aiutare a comprendere meglio alcuni aspetti della vita della Chiesa" (Giovanni Paolo II, 6 marzo 1982)". (7) Questo tema è stato ripreso in dichiarazioni dei vescovi cattolici degli Stati Uniti, come La misericordia di Dio dura per sempre (God’s Mercy Endures Forever) che consigliava ai predicatori di "[essere] liberi di attingere alle fonti ebraiche (rabbiniche, medievali e moderne) nell’esporre il significato delle Scritture ebraiche e degli scritti apostolici". (8)

La "creatività spirituale" dell’ebraismo post-biblico continuò in terre in cui gli ebrei costituivano un’esigua minoranza. Questo si verificò nell’Europa cristiana, anche se, come il card. Edward Idris Cassidy ha rilevato, "dall’epoca dell’imperatore Costantino, il mondo cristiano ha emarginato e discriminato gli ebrei. La storia riferisce di espulsioni e di conversioni forzate. Le testimonianze scritte (libri, pubblicazioni varie, hanno diffuso idee preconcette sugli ebrei, e, in ogni epoca, hanno perpetuato nei loro confronti l’accusa di deicidio". (9) Questa sintesi storica accresce l’importanza dell’insegnamento dei Sussididel Vaticano del 1985 secondo cui "il permanere di Israele (laddove tanti antichi popoli sono scomparsi senza lasciare traccia) è un fatto storico e segno da interpretare nel piano di Dio". (10)

La conoscenza della storia della vita degli ebrei nel cristianesimo, inoltre, induce a leggere testi biblici come At 5,33-39 con occhi nuovi. In questo passo il fariseo Gamaliele dichiara che solo le imprese di origine divina possono durare. Se i cristiani di oggi ritengono che questo principio del Nuovo Testamento sia valido, allora esso deve logicamente valere anche per l’ebraismo post-biblico. Anche l’ebraismo rabbinico, che si sviluppò dopo la distruzione del tempio, deve essere "di Dio".

Oltre a queste considerazioni teologiche e storiche, nei decenni che seguirono alla pubblicazione di Nostra aetate, molti cattolici hanno avuto la benedizione di sperimentare personalmente la ricca vita religiosa dell’ebraismo e i doni di santità dati da Dio al popolo ebraico.

 
La missione della Chiesa: l’evangelizzazione

Queste riflessioni sull’eterna alleanza del popolo ebraico con Dio e queste esperienza di essa suscitano delle domande sul compito dei cristiani di rendere testimonianza dei doni di salvezza che la Chiesa riceve attraverso la "nuova alleanza" in Gesù Cristo. Il concilio Vaticano II sintetizzò la missione della Chiesa come segue: "La Chiesa nel dare aiuto al mondo, come nel ricevere molto da esso, a questo soltanto mira: che venga il regno di Dio e si realizzi la salvezza dell’intera umanità. Tutto ciò che di bene il popolo di Dio può offrire all’umana famiglia, nel tempo del suo pellegrinaggio terreno, scaturisce dal fatto che la Chiesa è l’"universale sacramento della salvezza", che svela e insieme realizza il mistero dell’amore di Dio verso l’uomo". (11)

Questa missione della Chiesa può essere sintetizzato in una sola parola: evangelizzazione. Papa Paolo VI ha offerto la definizione classica: "Evangelizzare, per la Chiesa, è portare la buona novella in tutti gli strati dell’umanità e, col suo influsso, trasformare dal di dentro, rendere nuova l’umanità stessa". (12) L’evangelizzazione si riferisce a una realtà complessa che a volte viene fraintesa perché la si riduce solo alla ricerca di nuovi candidati al battesimo. È la prosecuzione da parte della Chiesa della missione di Gesù Cristo, il quale incarnò la vita del regno di Dio. Come papa Giovanni Paolo II ha spiegato, "il Regno riguarda tutti: le persone, la società, il mondo intero. Lavorare per il Regno vuol dire riconoscere e favorire il dinamismo divino, che è presente nella storia umana e la trasforma. Costruire il Regno vuol dire lavorare per la liberazione dal male in tutte le sue forme. In sintesi, il Regno di Dio è la manifestazione e l’attuazione del suo disegno di salvezza in tutta la sua pienezza". (13)

Bisognerebbe sottolineare che l’evangelizzazione, l’opera della Chiesa per il regno di Dio, non può essere disgiunta dalla sua fede in Gesù Cristo, nel quale i cristiani credono che il Regno "si è fatto presente e si è compiuto". (14) L’evangelizzazione comprende le attività di presenza e di testimonianza della Chiesa; l’impegno nello sviluppo sociale e nella liberazione degli uomini; il culto cristiano, la preghiera e la contemplazione; il dialogo interreligioso; l’annuncio e la catechesi. (15)

Quest’ultima attività dell’annunzio e della catechesi – l’"invito a un impegno di fede in Gesù Cristo, un invito a entrare mediante il battesimo nella comunità dei credenti che è la Chiesa" (16) – talvolta si pensa che sia sinonimo di "evangelizzazione". Tuttavia, questa è un’interpretazione molto ristretta e in realtà è solo uno tra i molti aspetti della "missione evangelizzatrice" della Chiesa al servizio del regno di Dio. In tal modo, i cattolici che partecipano al dialogo interreligioso, una condivisione reciprocamente arricchente di doni, priva di qualsiasi intenzione di invitare il partner del dialogo al battesimo, nondimeno rendono testimonianza della loro propria fede nel regno di Dio incarnato in Cristo. Questa è una forma di evangelizzazione, un modo di partecipare alla missione della Chiesa.

 
L’evangelizzazione e il popolo ebraico

Il cristianesimo ha un rapporto assolutamente unico con l’ebraismo perché "le nostre due comunità religiose sono connesse e strettamente legate al livello stesso delle loro rispettive identità religiose". (17)

"Nella storia della salvezza è evidente la nostra speciale relazione con il popolo ebraico. Del popolo ebraico fa parte Gesù, che diede inizio alla sua Chiesa all’interno della nazione giudaica. Gran parte della sacra Scrittura, che noi cristiani leggiamo come parola di Dio, costituisce un patrimonio spirituale comune con gli ebrei. Va, pertanto, evitato ogni atteggiamento negativo nei loro confronti, poiché "per benedire il mondo è necessario che gli ebrei e i cristiani siano prima benedizione gli uni per gli altri". (18)

Sulla scia della Nostra aetate, c’è stato un apprezzamento sempre più profondo da parte dei cattolici di molti aspetti del nostro straordinario rapporto spirituale con gli ebrei. Specificamente, la Chiesa cattolica è giunta a riconoscere che la sua missione di preparare all’avvento del regno di Dio è una missione che essa ha in comune con il popolo ebraico, anche se gli ebrei non concepiscono questo compito cristologicamente, come invece fa la Chiesa. Pertanto, i Sussidi del Vaticano del 1985 osservavano: "Attenti allo stesso Dio che ha parlato, tesi all’ascolto di questa medesima parola, dobbiamo rendere testimonianza di una stessa memoria e di una comune speranza in colui che è il Signore della storia. Sarebbe parimenti necessario che assumessimo la nostra responsabilità di preparare il mondo alla venuta del messia, operando insieme per la giustizia sociale, per il rispetto dei diritti della persona umana e delle nazioni. Per la riconciliazione sociale e internazionale. Noi, ebrei e cristiani, siamo sollecitati a questo dal precetto dell’amore per il prossimo, da una comune speranza del regno di Dio e dalla grande eredità dei profeti". (19)

Se la Chiesa, quindi, ha in comune con il popolo ebraico una missione centrale e determinante, quali sono le implicazioni per l’annuncio cristiano della buona notizia di Gesù Cristo? I cristiani dovrebbero invitare gli ebrei al battesimo? Si tratta di una questione complessa non solo nei termini dell’auto-definizione teologica cristiana, ma anche a causa della storia dei cristiani, che hanno battezzato gli ebrei con la costrizione.

In uno studio degno di nota e ancora attualissimo presentato al VI incontro del Comitato internazionale di collegamento cattolico-ebraico a Venezia, venticinque anni fa, il prof. Tommaso Federici esaminava le implicazioni messianologiche della Nostra aetate. Egli sosteneva, fondandosi su basi storiche e teologiche, che nella Chiesa non dovrebbero esistere organizzazioni di alcun genere destinate alla conversione degli ebrei. Questo principio è stato de facto, durante gli anni successivi, messo in pratica nella Chiesa cattolica.

Più recentemente, il card. Walter Kasper, presidente della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, ha spiegato questa pratica. In una dichiarazione ufficiale presentata in un primo tempo al XVII incontro del Comitato internazionale di collegamento cattolico-ebraico nel maggio 2001, e successivamente ripetuta in quello stesso anno a Gerusalemme, il card. Kasper ha parlato di "missione" in un senso stretto per indicare l’"annuncio" o l’invito al battesimo e alla catechesi. Egli ha dimostrato perché non è appropriato rivolgere simili iniziative agli ebrei: "Il termine missione, nel suo significato proprio, si riferisce alla conversione dai falsi dei e idoli al vero e unico Dio, che si è rivelato nella storia della salvezza al suo popolo eletto. Pertanto, il termine missione, nel suo senso stretto, non può essere usato riguardo agli ebrei, i quali credono nel vero e unico Dio. Di conseguenza, e questo è caratteristico, esiste un dialogo, mentre non può esistere alcuna organizzazione missionaria cattolica per gli ebrei.

Come abbiamo detto in precedenza, il dialogo non è mera informazione oggettiva; il dialogo coinvolge l’intera persona. Così nel dialogo gli ebrei, da un lato, rendono testimonianza della loro fede, di ciò che li ha sostenuti nei periodi oscuri della loro storia e della loro vita, e i cristiani, dall’altro, manifestano la speranza che essi hanno in Gesù Cristo. In tal modo, entrambi sono ben lungi da qualsiasi genere di proselitismo, ma entrambi possono imparare gli uni dagli altri e arricchirsi reciprocamente. Noi entrambi desideriamo condividere le nostre più profonde preoccupazioni per un mondo, spesso disorientato, che ha bisogno di tale testimonianza e che la ricerca". (20)

Dal punto di vista della Chiesa cattolica, l’ebraismo è una religione che scaturisce dalla rivelazione divina. Come ha osservato il card. Kasper, "la grazia di Dio, che è la grazia di Gesù Cristo secondo la nostra fede, è a disposizione di tutti. Pertanto, la Chiesa crede che l’ebraismo, ossia la risposta di fede del popolo ebraico all’irrevocabile alleanza di Dio, è salvifica per essi, perché Dio è fedele alle sue promesse". (21)

Questa dichiarazione sull’alleanza salvifica di Dio è del tutto peculiare dell’ebraismo. Anche se la Chiesa cattolica rispetta tutte le tradizioni religiose e, per mezzo del dialogo con esse, è capace di discernere le opere dello Spirito Santo, e anche se noi crediamo che l’infinita grazia di Dio è certamente a disposizione dei credenti di altre fedi, è solamente dell’alleanza di Israele che la Chiesa può parlare con la certezza della testimonianza biblica. Infatti, le Scritture di Israele fanno parte del nostro proprio canone biblico e hanno un "valore proprio e perpetuo (... che) non è stato obliterato dall’ulteriore interpretazione del Nuovo Testamento". (22)

Secondo il magistero cattolico romano, sia la Chiesa sia il popolo ebraico tengono fede all’alleanza con Dio. Entrambi, quindi, abbiamo delle missioni davanti a Dio da intraprendere nel mondo. La Chiesa crede che la missione del popolo ebraico non sia limitata al suo ruolo storico come il popolo nel quale Gesù fu generato "secondo la carne" (Rm 9,5) e dal quale provennero gli apostoli della Chiesa. Come il card. Joseph Ratzinger recentemente ha scritto: "la provvidenza di Dio…ha ovviamente affidato a Israele una missione particolare in questo "tempo dei gentili"". (23) Tuttavia, solo il popolo ebraico stesso può esprimere con chiarezza la propria missione "alla luce della loro attuale realtà religiosa". (24)

Nondimeno, la Chiesa percepisce che la missione del popolo ebraico ad gentes(alle nazioni) continua. Questa è una missione che persegue anche la Chiesa nel proprio modo peculiare, secondo la sua comprensione dell’alleanza. Il comando del Gesù risorto in Mt 28,19 di fare discepoli "di tutte le nazioni" (greci = ethne, termine affine all’ebraico goyim, cioè le nazioni diverse da Israele) significa che la Chiesa deve rendere testimonianza nel mondo alla buona notizia di Cristo, così da preparare il mondo alla pienezza del regno di Dio. Tuttavia, questa missione evangelizzatrice non include più il desiderio di assorbire la fede ebraica nel cristianesimo, mettendo in tal modo fine alla testimonianza di Dio peculiare degli ebrei nella storia umana.

Pertanto, anche se la Chiesa cattolica considera l’atto salvifico di Cristo come centrale nel processo della salvezza di tutti gli uomini, riconosce anche che gli ebrei hanno già un rapporto di alleanza salvifica con Dio. La Chiesa cattolica deve sempre evangelizzare e renderà sempre testimonianza della propria fede nella presenza del regno di Dio in Gesù Cristo, agli ebrei e a tutti gli altri uomini. In tal modo, la Chiesa cattolica rispetta pienamente i principi della libertà religiosa e della libertà di coscienza, così che sinceri individui convertiti di qualunque tradizione o popolo, compreso il popolo ebraico, saranno accolti con gioia.

Tuttavia, essa oggi riconosce che anche gli ebrei sono chiamati da Dio a preparare il mondo per il regno di Dio. La loro testimonianza del regno, che non ebbe origine con l’esperienza che la Chiesa fece di Cristo crocifisso e risorto, non deve essere limitata dal tentativo di convertire il popolo ebraico al cristianesimo. La peculiare testimonianza ebraica deve essere sostenuta se cattolici ed ebrei devono veramente essere, come papa Giovanni Paolo II ha inteso, "una benedizione reciproca". (25) Questo è in accordo con la promessa di Dio espressa nel Nuovo Testamento che gli ebrei sono chiamati a "servirlo senza timore, in santità e giustizia al suo cospetto, per tutti i nostri giorni" (Lc 1,74-75).

Con il popolo ebraico, la Chiesa cattolica, nelle parole della Nostra aetate, "attende il giorno che solo Dio conosce in cui tutti i popoli acclameranno il Signore con una sola voce e "lo serviranno appoggiandosi spalla a spalla" (Sof 3,9; cf. Is 66,23; Sal 65,4; Rm 11,11-32)". (26)

 


Riflessioni degli ebrei

La missione degli ebrei
e il perfezionamento del mondo

Nell’incessante tentativo di dare significato alla vita, le comunità, proprio come gli individui, cercano di definire la loro missione nel mondo. È certamente lo stesso anche per gli ebrei.

La missione degli ebrei è in realtà una triplice missione che è radicata nella Scrittura ed è sviluppata in fonti ebraiche successive. C’è in primo luogo la missione dell’alleanza: l’impulso perennemente formativo alla vita ebraica che deriva dall’alleanza tra Dio e gli ebrei. Secondo: la missione della testimonianza, per cui gli ebrei considerano se stessi (e spesso sono considerati dagli altri) come i perenni testimoni dell’esistenza di Dio e della sua potenza redentrice nel mondo. E terzo: la missione dell’umanità, una missione che comprende la storia biblica degli ebrei come contenente un messaggio destinato non solo agli ebrei. Ciò presuppone un messaggio e una missione rivolti a tutti gli esseri umani.

 

La missione dell’alleanza

Gli ebrei sono i discendenti di Abramo, Isacco e Giacobbe, l’incarnazione fisica dell’alleanza di Dio con questi avi.

Abramo non solo intraprese un viaggio verso la terra di Canaan dopo essere stato chiamato da Dio, ma, all’età di novantanove anni, Dio gli appare e gli dice: "Cammina davanti a me e sii integro. Porrò la mia alleanza tra me e te e ti renderò numeroso molto, molto". (27)(28) L’alleanza coinvolge la terra di Canaan che è "in possesso perenne". (29) C’è un simbolo fisico dell’alleanza: la circoncisione di tutti i maschi nell’ottavo giorno di vita. L’alleanza è descritta come "perenne, per essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te".

L’alleanza è sia fisica sia spirituale. Gli ebrei sono un popolo fisico. L’alleanza è un’alleanza della carne. La terra è un luogo fisico. Ma è anche un’alleanza dello spirito perché è connessa col "camminare nelle sue vie".

Gli ebrei sono un popolo chiamato all’esistenza da Dio mediante un’elezione d’amore. Perché Dio avrebbe fatto questo? La Torah ci narra la storia di un Dio unico al quale, così diverso dal Dio di Aristotele, non bastava contemplare se stesso. È un grande mistero, ma Dio, che è essenzialmente al di là della nostra comprensione, volle chiamare il mondo all’esistenza. Egli diede alle sue creature un solo comandamento, di non mangiare un certo frutto del giardino di Eden. E che cosa fecero esse naturalmente? Mangiarono il frutto.

E così Dio, che aveva deciso di rendere partecipi le sue creature del suo ineffabile essere, venne rinnegato. Di lì a poco la terra divenne corrotta davanti a Dio. E così egli ricominciò da capo, distruggendo la creazione, rimescolando insieme nel caos le acque primordiali e lasciando solo Noè e la sua famiglia. Tuttavia, anche questo non funzionò, perché non appena essi uscirono dall’Arca, Noè si ubriacò e si denudò. E così via, sempre più in basso, fino a che la Torah inizia la storia che "funziona", cioè il cuore della saga biblica: la storia di Abramo e della sua discendenza, gli ebrei.

L’alleanza non è semplicemente una promessa o un’esortazione generica alla perfezione. Quando il popolo di Israele era divenuto una grande comunità e subiva la schiavitù del faraone, questo popolo fu salvato dall’Egitto con prodigi straordinari. Gli ebrei giungono al Sinai e l’alleanza riceve il suo contenuto sostanziale: le leggi e gli statuti che vengono consegnati qui e successivamente nella tenda del convegno.

"Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me. Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa". (30)

Per gli ebrei non si tratta di una lusinga divina, ma dell’onere di un obbligo divino. E questa, allora, è la definizione teologica degli ebrei: un popolo fisico chiamato a vivere in una relazione speciale con Dio. Questa relazione ha un contenuto specifico. Ci sono riconoscimenti per l’osservanza del patto, castighi per il suo tradimento.

Questa visione degli ebrei non è fatta su misura per corrispondere alle normali definizioni sociologiche di una nazione, di una comunità o di un popolo. Può anche darsi che la maggior parte degli ebrei si senta a disagio con questa sociologia teologica. La gente di solito è più soddisfatta quando si descrivono gli ebrei o come un gruppo etnico o come una comunità di fede svincolata da un popolo. Ma questa non è la nozione degli ebrei offerta dalla Bibbia e dalla letteratura ebraica posteriore. Gli ebrei sono, nel bene e nel male, nella ricchezza e nella povertà, i partner di Dio in una storia d’amore talvolta burrascosa, altre volte idilliaca, in un matrimonio d’amore che vincola insieme Dio e il popolo di Israele per sempre e che conferisce il significato più profondo possibile all’esistenza ebraica.

La conseguenza pratica di tutto questo è che la prima missione degli ebrei è verso gli ebrei. Ciò significa che la comunità ebraica è decisa a preservare la propria identità. Dal momento che non sempre ciòavviene in maniera spontanea, questo è il motivo per cui gli ebrei parlano continuamente gli uni con gli altri delle forze istituzionali e della capacità che la comunità ha di educare i suoi figli. Si instilla l’orrore per i matrimoni misti. Si spiega la passione per lo studio della Torah. La posta in gioco è alta per la vita degli ebrei e, per non allontanarsi da Dio, la comunità ebraica spende moltissime energie per cercare di continuare ad essere la comunità dell’alleanza.

 

La missione della testimonianza

Isaia parla di un ruolo che gli ebrei hanno, e che li oltrepassa. "Voi siete i miei testimoni – oracolo del Signore – miei servi, che io mi sono scelto". (31) Gli ebrei sono i suoi testimoni del fatto che c’è un Dio nel mondo, che è il suo creatore, del fatto che egli è uno solo e che gli idoli non hanno alcun potere – "Davanti a me si piegherà ogni ginocchio, per me giurerà ogni lingua" – (32) e che la potenza di Dio è una potenza redentrice, la più terribile che gli esseri umani possano concepire.

In che modo si manifesta la potenza di Dio? Nella vita delle nazioni, che comprende la caduta e la rinascita della nazione di Israele. Ed è ben noto attraverso la Torah e i libri profetici che le sofferenze di Israele sono intese come una testimonianza dell’alleanza di Dio con Israele.

Quello che non è compreso, per lo meno non abbastanza bene, è che Dio vuole che le nazioni vedano la redenzione di Israele e ne siano impressionate. Questo, per esempio, è ciò che Dio vuole che il faraone e il popolo d’Egitto vedano. Evidentemente non basta semplicemente liberare il popolo d’Israele dalla schiavitù. La salvezza deve essere pubblica, accompagnata da molti segni e prodigi. Infatti, essa è destinata a mostrare alla grande nazione d’Egitto la potenza, la gloria e la sollecitudine del Dio di Israele nel liberare gli schiavi.

È anche in questo senso che il profeta Isaia parla degli ebrei come di una "luce delle nazioni". "È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti di Israele. Ma io ti renderò luce delle nazioni perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra". (33) Le nazioni guarderanno e vedranno la salvezza del popolo di Israele e ne saranno stupite. E quindi impareranno, se non l’hanno imparato prima, che il Signore, Dio di Israele, ristabilisce il suo popolo nella sua terra.

Il messaggero di gioia a Sion grida: "Ogni valle sia colmata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in pianura". (34) Questa non è l’espressione retorica di una qualche manifestazione mistica di Dio che trasforma la natura. Sono immagini ardite che parlano della creazione di una via straordinaria per ricondurre il popolo esiliato nella sua terra.

Anche se spendiamo molto tempo a pensare ai nostri peccati, non è la sofferenza che costituisce il messaggio di Dio. Il messaggio di Dio è la potenza del pentimento e la potenza del suo amore come si è manifestato nella redenzione di Israele. Una delle grandi esigenze della teologia, quindi, è quella di staccarsi dal messaggio della sofferenza. Il grande messaggio di Dio è la potenza della redenzione. La grande speranza degli ebrei è la loro redenzione e la ricostruzione del loro stato nazionale. La testimonianza che deve scaturire è la testimonianza di Dio che redime il suo popolo.

 

La missione dell’umanità

Il messaggio della Bibbia è un messaggio e una visione non solo per Israele ma per tutta l’umanità. Isaia parla per due volte degli ebrei come "luce delle nazioni" e sinora abbiamo fatto riferimento alla sua affermazione che troviamo nel capitolo 49. Che cos’altro il profeta vuol dire quando parla degli ebrei come "un popolo dell’alleanza e una luce delle nazioni"? Il commentatore medievale David Kimhi vede la luce che si irraggia da Israele come la luce della Torah che si irraggia da Sion. Poiché il messaggio della Torah è la pace, la luce che si irradia esprime un messaggio della benedizione di pace che dovrebbe regnare nel mondo intero. (35) La visione messianica è: "Annunzierà la pace alle genti". (36) Pertanto, Isaia nota che in quel tempo "egli sarà giudice fra le genti e sarà arbitro fra molti popoli. Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci". (37)

È un errore essere come Giona e pensare che Dio si interessi solo agli ebrei. Quando a Giona viene chiesto di andare a Ninive, una grande città pagana, Giona oppone un rifiuto al comando di Dio di dire ai cittadini di Ninive di pentirsi. Egli impara solo attraverso la sofferenza che la parola di Dio è rivolta anche agli abitanti di Ninive. Alla fine egli si reca in quella città, e i suoi abitanti bandiscono un digiuno. Tutti, grandi e piccoli, vestono il sacco, persino il re. E non solo digiunarono, ma, la Bibbia dice, essi "si erano convertiti dalla loro condotta malvagia". (38)

Avremmo potuto pensare che Giona fosse entusiasta del suo successo; egli in realtà è indispettito – e probabilmente ci sono due ragioni di questo –. Primo: egli credeva che il peccato sarebbe stato punito e che la misericordia di Dio non avrebbe allontanato questo castigo. E secondo: chi erano gli abitanti di Ninive? Che diritto avevano di aspettarsi l’intimo interesse e l’amore misericordioso di Dio?

Giona lasciò la città e sostò a oriente di essa, facendosi un riparo di frasche e sedendovisi all’ombra. E il Signore fece crescere una pianta di ricino al di sopra di lui, per fare ombra sulla sua testa. Giona era felicissimo! Finché Dio all’alba del giorno dopo non mandò un verme che rose il ricino facendolo seccare. E poi Dio fece soffiare un afoso vento d’oriente, e il sole colpì la testa di Giona a tal punto che si sentì venir meno. Ed egli voleva morire.

Allora Dio disse a Giona: "Ti sembra giusto essere così sdegnato per una pianta di ricino?… Tu ti dai pena per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita: e io non dovrei avere pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?". (39)

Il Dio della Bibbia è il Dio del mondo. I suoi disegni sono disegni per tutta l’umanità. Il suo amore è un amore che si estende a ogni creatura.

Dell’uomo sofferente della Scrittura, Giobbe, non si dice né si lascia pensare in alcun modo che sia ebreo. (40) C’è da meravigliarsi? La sofferenza dell’umanità non è limitata a un popolo particolare. L’alleanza potrebbe rendere la questione particolarmente problematica per gli ebrei, (41) ma tutti noi veniamo in contatto con il problema del giusto che soffre. Giobbe è un essere umano universale. L’appello che Dio rivolge di mezzo al turbine è l’appello che attraverso il mondo che Dio rivolge ai giusti che cercano di comprendere il senso del loro destino.

Il Dio che ha amato Abramo – "Ma tu, Israele mio servo, tu Giacobbe, che ho scelto, discendente di Abramo mio amico" (42) – ama tutti gli uomini. Perché egli è il creatore del mondo. Adamo ed Eva sono le sue prime creature e furono creati molto tempo prima dei primi ebrei. Furono creati "a immagine di Dio", come lo sono tutti i loro figli, per l’eternità. Solo le creature umane sono fatte a immagine di Dio.

Dio creò il mondo con un solo essere originario, dice il Talmud, per insegnare che chi distrugge anche un solo uomo, è come se avesse distrutto il mondo intero. (43) E colui che salva anche un solo uomo è come se avesse salvato il mondo intero. E il Talmud insegna il concetto di pace nel mondo, così che nessuno possa dire: mio padre è più grande di tuo padre. (44) "Non siete voi forse per me come gli etiopi, israeliti? Parola del Signore. Non io ho fatto uscire Israele dal paese d’Egitto, i filistei da Caftór e gli aramei da Kir?". (45) Tutti sono il popolo di Dio.

Quando Abramo pone a Dio il problema della giustizia e della misericordia divine, sostiene le parti degli abitanti di Sodoma, uomini malvagi. Abramo formula la sua sfida a Dio in questi termini: Dio sta agendo con giustizia? (46) L’innocente non dovrebbe soffrire. E questa sfida non è il frutto di una qualche speciale relazione che deriva dall’alleanza che Dio ha stipulato con gli ebrei. Piuttosto, la Bibbia presuppone che ci siano una giustizia e una misericordia divine che prevalgono nel mondo intero. Misericordia e giustizia regnano perché il Dio della creazione è il Dio della misericordia e della giustizia nel mondo.

Quando Amos chiede che "scorra come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne", (47) è perché c’è un Dio del mondo intero che lo chiama alla giustizia. Quando Isaia chiede in maniera retorica quale sia il senso del digiuno religioso, risponde che Dio vuole che gli uomini "sciolgano le catene inique, tolgano i legami del giogo, rimandino liberi gli oppressi e spezzino ogni giogo. Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire chi è nudo senza distogliere gli occhi dalla tua gente?". (48)

L’ebraismo assume che tutti gli uomini sono obbligati a osservare una legge universale. Questa legge, che viene chiamata dei sette comandamenti di Noè, è applicabile a tutti gli uomini. Questi comandamenti sono: 1) l’istituzione di tribunali così che nella società regni la giustizia, 2) il divieto di blasfemia, 3) di idolatria, 4) d’incesto, 5) di spargimento di sangue, 6) di furto e 7) di mangiare la carne di un animale vivo. (49)

Indipendentemente dal fatto dell’alleanza, Maimonide e i pensatori posteriori chiariscono tutti che "i pii di tutte le nazioni del mondo hanno un posto nel mondo futuro". (50)
Pertanto, nell’ebraismo, il valore assoluto degli esseri umani, il loro essere stati creati "a immagine di Dio", così come l’interesse assoluto di Dio per la giustizia e la misericordia stanno alla base di una comunità universale di tutto il creato, una comunità in cui ogni uomo è chiamato a rispondere all’amore di Dio amando gli altri esseri umani, fondando strutture sociali che permettano di praticare al massimo grado la giustizia e la misericordia, e impegnandosi incessantemente nello sforzo pio di portare la guarigione al mondo corrotto.

Una delle preghiere centrali dell’ebraismo recita così: "Noi speriamo in Te, o Signore nostro Dio, per contemplare presto la bellezza della tua potenza, per far sì che gli idoli siano eliminati dalla terra e i falsi dei siano distrutti, per rendere perfetto il mondo trasformandolo nel regno dell’Onnipotente, dove tutti gli uomini invocheranno il tuo nome, dove tutti i malvagi della terra si volgeranno a te".

L’taken olam b’malkhut Shaddai, rendere perfetto il mondo trasformandolo nel Regno dell’Onnipotente. Tikun ha-olam, il perfezionamento o la restaurazione del mondo, è una missione comune degli ebrei e di tutta l’umanità. Anche se gli ebrei ritengono di vivere in un mondo che è ancora irredento, Dio vuole che le sue creature partecipino alla restaurazione del mondo.

 


Cristiani ed ebrei

Dopo aver esaminato la triplice nozione di "missione" nell’ebraismo classico, vi sono alcune conclusioni pratiche che ne conseguono, conclusioni che suggeriscono anche un programma comune per cristiani ed ebrei.

Dovrebbe risultare ovvio che qualsiasi missione dei cristiani rivolta agli ebrei è in diretto conflitto con la nozione ebraica che l’alleanza stessa è quella missione. Nello stesso tempo, è importante sottolineare che, nonostante l’alleanza, non c’è bisogno che le nazioni del mondo abbraccino l’ebraismo. Anche se vi sono verità teologiche come la fede nell’unicità di Dio, e virtù sociali pratiche che portano alla creazione di una buona società e che è possibile e necessario che l’umanità nel suo complesso tenti di cogliere ed esercitare, esse nondimeno non richiedono l’ebraismo al fine di redimere l’individuo o la società. I pii di tutte le nazioni del mondo hanno un posto nel mondo futuro.

Altrettanto importante, tuttavia, è l’idea che il mondo ha bisogno di essere reso perfetto. Anche se i cristiani e gli ebrei intendono la speranza messianica implicata in questo perfezionamento in maniera del tutto diversa, tuttavia, sia che aspettiamo il messia – come credono gli ebrei – o la seconda venuta del messia – come credono i cristiani – abbiamo in comune la fede che viviamo in un mondo irredento e che anela alla restaurazione.

Perché non formulare un programma comune? Perché non unire insieme le nostre forze spirituali per affermare ed agire secondo i valori che abbiamo in comune e che portano alla restaurazione del mondo irredento? Noi abbiamo lavorato insieme nel passato per promuovere la causa della giustizia sociale. Abbiamo marciato insieme per i diritti civili; abbiamo sostenuto la causa degli operai e dei braccianti, abbiamo presentato al nostro governo petizioni perché rispondesse ai bisogni dei poveri e dei senzatetto, e abbiamo sollecitato il nostro capo di stato a perseguire il disarmo nucleare. Queste non sono che alcune delle questioni che noi, ebrei e cristiani, abbiamo affrontato congiuntamente.

Per delineare quello che potremmo ancora fare insieme, esaminiamo alcuni dei modi concreti con cui l’ebraismo classico si ispira alle idee teologiche e le trasforma in modi di vivere. E, se queste fossero lastre di una strada sulla quale poter camminare insieme, allora saremo capaci di costruire una via maestra, un itinerario che abbiamo in comune verso la restaurazione dell’umanità e il perfezionamento del mondo.

 

Alcune riflessioni talmudiche
sulla restaurazione del mondo

Anche se l’interesse dei profeti per i bisognosi è ben noto, bisognerebbe sottolineare che è nel Talmud che i dettagli specifici dell’agire retto sono esposti in modo tale da diventare le pietre angolari della vita.

La tzedakah(carità) e le azioni di misericordia hanno un peso equivalente a tutti i comandamenti della Torah. L’obbligo della carità è diretto ai poveri, le azioni di misericordia sono dirette ai poveri e ai ricchi. La carità è diretta ai vivi, le azioni di misericordia sono compiute per i vivi e per i morti. La carità usa il denaro di una persona, le azioni di misericordia utilizzano il denaro di una persona ma anche il suo essere. (51)

Già in periodo talmudico, le istituzioni caritative per dare assistenza ai poveri costituivano una parte consolidata ed essenziale della vita della comunità. Quando, per esempio, la Mishnah insegna che un ebreo deve celebrare il seder pasquale con quattro coppe di vino, (52) osserva che l’assistenza pubblica (tamhui) deve fornire quel vino per i poveri. I poveri devono celebrare e percepire la dignità di essere persone libere – e questa è responsabilità della comunità. (53) Tuttavia, per quanto le istituzioni caritative rappresentino una parte centrale della vita della comunità, Maimonide dichiara che la forma più alta di carità è dare a uno la possibilità di guadagnarsi da vivere da sé. (54)

L’ampia sezione del Talmud che tratta del diritto civile e penale, Nezikin o Danni, specifica o difende il compenso del lavoratore. (55) Essa dà forma concreta alle proibizioni della Torah contro il prestito a interesse (56) ed estende le leggi che lo vietano per comprendere molti tipi di transazioni economiche che sembrano essere "prestito a interesse", anche quando non solo sono. Tutto questo è fatto al fine di creare un’economia in cui le persone siano incoraggiate ad aiutarsi economicamente a vicenda, come espressione della loro comune appartenenza alla stessa comunità, piuttosto che come un modo di far soldi. Vengono creati strumenti finanziari che mettano le persone sprovviste di mezzi di diventare soci di altri piuttosto che richiedenti denaro in prestito – un altro modo per proteggere la dignità dell’uomo e per incoraggiare lo sviluppo di una società dove questa dignità si manifesta nella vita quotidiana. (57)

Gli atti di misericordia che sono richiesti e che sono sviluppati in dettaglio dalla legge comprendono gli obblighi di visitare gli ammalati e di consolare gli afflitti. Agli ebrei è richiesto di riscattare i prigionieri e di provvedere alle loro mogli, di seppellire i morti e di accogliere il prossimo alla propria mensa. (58) Il Talmud descrive dettagliatamente l’obbligo degli ebrei di mostrare rispetto agli anziani. "Alzarsi in piedi" e mostrare speciali segni di rispetto agli anziani sono risposte ai problemi fisici dell’invecchiamento. (59) Quando il senso di dignità di una persona diminuisce, alla comunità viene chiesto di rinforzare la dignità individuale. (60)

Naturalmente la legge ebraica è diretta agli ebrei e la sua preoccupazione primaria è incoraggiare l’espressione di amore ai membri della comunità. Essa si occupa non di sentimenti ma, principalmente, di azioni. Ma è importante osservare che molte di queste azioni sono obbligatorie nei confronti di tutti. Così il Talmud dice: "Bisogna provvedere ai bisogni del gentile povero insieme a quelli dell’ebreo povero. Bisogna visitare l’ammalato gentile come si visita l’ammalato ebreo. Bisogna prendersi cura della sepoltura di un gentile, proprio come bisogna prendersi cura della sepoltura di un ebreo. [Questi obblighi sono universali] perché queste sono le vie della pace". (61)

Le vie della Torah alla pace manifestano una risposta pratica alla sacra creazione dell’umanità a immagine di Dio. Esse aiutano a perfezionare il mondo e a trasformarlo nel regno dell’Onnipotente.

L’umanità non ha forse bisogno di un cammino comune che ricerchi le vie della pace? L’umanità non ha forse bisogno di una visione comune della natura sacra della nostra esistenza umana, che noi possiamo insegnare ai nostri figli e che possiamo promuovere nelle nostre comunità al fine di perseguire le vie della pace? L’umanità non ha forse bisogno di un impegno dei suoi capi religiosi, all’interno di ciascuna fede e al di là di ciascuna fede, a darsi la mano e creare vincoli che ispireranno e guideranno l’umanità verso la realizzazione della sua sacra promessa? Per gli ebrei e i cristiani che hanno ascoltato la chiamata di Dio a essere una benedizione e una luce per il mondo, la sfida e la missione sono chiare.

Questa dovrebbe essere veramente la nostra sfida – e questo è il vero significato della missione che noi tutti abbiamo bisogno di condividere.

Note

(1) Concilio Vaticano II, dich. Nostra aetate, n. 4; EV 1/864.

(2) Giovanni Paolo II, "Discorso alla comunità ebraica di Mainz, Germania occidentale", 17.11.1980.

(3) Ivi.

(4) Giovanni Paolo II, "Discorso ai leader ebrei di Miami", 11.9.1987.

(5) Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, Orientamenti e suggerimenti per l’applicazione della dichiarazione conciliare Nostra aetate, n. 4, 1.12.1974, Prologo; EV 5/774.

(6) Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, Sussidi per una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica, 24.6.1985, VI, 25; EV 9/1655.

(7) Ivi; EV 9/1656.

 (8) National conference of catholic bishops, God’s Mercy Endures Forever, 1988, n. 31 i).

(9) E.I. Cassidy, "Riflessioni sulla Dichiarazione del Vaticano sulla Shoah", 15.5.1998; Regno-doc. 19,1998,643.

(10) Sussidi per una corretta presentazione degli ebrei, VI, 25; EV 9/1656.

(11) Concilio Vaticano II, cost. past. Gaudium et spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, n. 45, che cita la Dei Verbum, n. 15; EV 1/1463.

(12) Paolo VI, Evangelii nuntiandi, 8.12.1975, n. 18; EV 5/1610.

(13) Giovanni Paolo II, lett. enc. Redemptoris missio (RMi), 1990, n. 15; EV 12/581.

(14) RMi 18; EV 12/585.

(15) Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso e Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, istruzione Dialogo e annuncio, 19.5.1991, n. 2; EV 13/288 . Si notino questi commenti simili di papa Giovanni Paolo II: "La missione è una realtà unitaria ma complessa, e si esplica in vari modi, tra cui alcuni sono di particolare importanza nella presente condizione della Chiesa e del mondo"; RMi 41; EV 12/631. Il papa continua col citare questi vari modi: testimonianza (nn. 42-43), annunzio (nn. 44-47), formazione di Chiese locali (nn.48-49), attività ecumenica (n. 50), inculturazione (n. 52-54), dialogo interreligioso (nn. 55-57), promozione dello sviluppo e liberazione dall’oppressione (nn. 58-59).

(16) Dialogo e annuncio, n. 10; EV 13/300.

(17) Giovanni Paolo II, Discorso ai rappresentanti delle organizzazioni ebraiche, 12.3.1979.

(18) Giovanni Paolo II, esort. ap. postsin. Ecclesia in America, 22.1.1999, n. 50; citando Id., Discorso in occasione del 50° anniversario della rivolta del ghetto di Varsavia, 6.4.1993; EV 18/126.

(19) Sussidi per una corretta presentazione degli ebrei, n. 11; EV9/1635. All’udienza generale del 6 dicembre 2000, Giovanni Paolo II parlò dell’amicizia tra tutti gli uomini religiosi: "Tutti coloro che cercano Dio con cuore sincero, inclusi coloro che non conoscono Cristo e la sua Chiesa, contribuiscono sotto l’influenza della grazia all’edificazione del suo regno: Catholic News Service, 6.12.2000.

 (20) W. Kasper, "Dominus Iesus", discorso pronunciato al XVII incontro del Comitato internazionale di collegamento cattolico-ebraico, New York, 1.5.2001.

 (21) Ivi.

(22) Orientamenti e suggerimenti, II; EV 5/779.

(23) J. Ratzinger, Israele, la Chiesa e genti, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 104. Il "tempo dei gentili" richiama il termine che Lc 21,24 usa per indicare l’epoca successiva alla distruzione del secondo tempio.

(24) Orientamenti e suggerimenti, Prologo; EV 5/774.

Un commento su Mt 22,15-22
Dio o Cesare?
 Il dovere della disobbedienza civile
di
François Vaillant



Se c'è una frase di Gesù citata per diritto e per rovescio nel corso dei secoli è la celeberrima: «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio». Il più delle volte è stata interpretata come l'esistenza di una separazione fra due poteri: quello temporale e quello spirituale. «Date a Cesare quel che è di Cesare» dovrebbe implicate per ognuno l'obbedienza allo Stato, mentre «date a Dio ciò che è di Dio» dovrebbe consistere nella pratica religiosa senza alcuna interferenza che possa turbare l'integrità fra questi due poteri. Le parole di Gesù a proposito del tributo a Cesare assumono un significato completamente diverso se si ha l'onestà di non estrapolarle dal contesto in cui vennero pronunciate.

Siamo a Gerusalemme il lunedì successivo alla domenica delle Palme, Gesù ha appena scacciato i mercanti dal Tempio; … i farisei vanno e vengono in compagnia degli erodiani per tendere una nuova trappola al profeta di Galilea. Lo scopo dei farisei è sempre lo stesso: far cadere Gesù screditandolo agli occhi della folla. I partigiani della dinastia di Erode hanno come principale preoccupazione quella di adulare Cesare per poter vivere a loro agio in Palestina. I farisei superano qui la loro ripulsa nei confronti degli erodiani, il cui peccato di impurità è grande, perché sono dei collaboratori dell'occupante romano. Ma i farisei hanno un vantaggio immenso compromettendosi con questa gente una volta ogni tanto, perché se Gesù dicesse che non si deve pagare il tributo a Cesare, gli erodiani sarebbero nella posizione ideale per testimoniare davanti alle autorità romane sull'ostilità di Gesù nei confronti dell'imperatore. Se Gesù dice che bisogna pagare il tributo a Cesare i farisei sono ancora una volta vincenti, perché agli occhi del popolo Gesù apparirebbe come uno che accetta l'occupazione straniera e perderebbe ipso facto tutto il suo credito popolare. E ancora una volta la trappola tesa a Gesù sembra perfetta.

I farisei pongono a Gesù la seguente domanda: «Dicci il tuo parere. È lecito o no pagare il tributo a Cesare?» …. Gesù va dritto allo scopo per stabilire la verità: chiede di vedere il denaro del tributo, un fariseo si mette una mano in tasca e ne trae un denaro e presenta a Gesù questa moneta tenendola sul palmo della mano; Gesù la guarda senza toccarla … «Di chi è questa effigie e l’iscrizione?» chiede loro. «Di Cesare» rispondono in coro! Il denaro mostrato a Gesù reca l'effigie di Cesare con la seguente iscrizione: «Figlio del divino Augusto, pontefice massimo». Chi porta con sé questa moneta coopera di fatto al culto pagano reso al divino Cesare. …… Gesù non dice affatto ai farisei di pagare l'imposta, ma soltanto di rendere la moneta idolatra al legittimo proprietario. L'imposta è un contributo che si versa allo stato, non la restituzione di qualcosa … Gesù non prende posizione sul tributo da pagare o meno all'occupante romano; egli ordina soltanto ai farisei di smetterla di collaborare al culto del divino Cesare e il cessare questa collaborazione passa attraverso la restituzione di ciò che gli appartiene, vale a dire la sua moneta.

Avremmo torto se oggi interpretassimo quel «date a Cesare quel che è di Cesare» come un incitamento a pagare tutte le tasse, poiché aggiungendo nella medesima frase «date a Dio ciò che è di Dio» Gesù ci ordina di vivere compiendo azioni che onorano Dio. Poiché non è possibile onorare Dio compiendo degli atti che lo disonorano - a meno di essere ipocriti come gli scribi e i farisei -, il Vangelo costringe i cristiani a rompere certi legami con il mondo, e ciò vale soprattutto per il potere delle armi. I primi cristiani l'avevano capito perfettamente perché scelsero di essere obiettori di coscienza verso il servizio militare confermando in pieno la profezia di Isaia: «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci: un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra» (Is 2, 4).

Ieri come oggi il Vangelo invita gli uomini di buona volontà a non collaborare con lo stato quando questo ordina di compiere atti contrari alle esigenze morali del Regno di Dio. Se alcuni teologi hanno abusato della frase «date a Cesare quel che è di Cesare» per obbligare la gente ad obbedire allo stato in qualunque circostanza, non si può fare a meno di constatare che essi citavano una frase di Gesù in modo parziale, senza tener conto né del contesto «né dei limiti che l'autentico bene comune fissa per l'esercizio di qualsiasi autorità, né del dovere di disobbedienza che può rendersi necessario in alcuni casi per motivi di coscienza». Citiamo qui una frase di P. Grelot che ha scritto pagine fondamentali sulla questione del tributo a Cesare.

(…) Se lo stato chiede ai cristiani di obbedire a leggi che, in coscienza, essi giudichino ingiuste in quanto contrarie all'etica nonviolenta del Vangelo, devono disobbedire a tali leggi. Come potrebbero infatti continuare ad onorare il Dio vivente se altrove accettassero di fare il male che viene loro richiesto? Non è certo perché l'espressione «disobbedienza civile» viene associata a Gandhi che si può pensare che tale concetto sia assente nel Vangelo. Al contrario, proprio come strategia di lotta la disobbedienza civile è ben presente. Quando non è possibile obbedire contemporaneamente alle istituzioni umane e a Dio, «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5, 29).

(tratto da François Vaillant, La Nonviolenza nel Vangelo, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1994, pp. 46-49)

Martedì, 06 Settembre 2005 23:11

La meditazione cristiana (Lorena Bartoli)

Il 15 ottobre 1989, la Congre gazione per la Dottrina della Fede pubblicava un documento intitolato "Alcuni aspetti della meditazio ne cristiana" in cui venivano of ferte delle linee guida per una cor retta impostazione di "una giusta via della preghiera" .

Guerra e pace nell'Ebraismo
di Roberto Della Rocca
rabbino capo di Venezia

Guerra e pace sono da sempre temi che assillano l’ebraismo.

Basta dare un’occhiata alla Bibbia per convincersi che di tanto in tanto ed anche con troppa frequenza siamo stati coinvolti in qualche guerra.

Lo stesso ingresso del nostro popolo nella Terra di Israele con Giosuè è stato contrassegnato da grandi e continue battaglie.

In verità le testimonianze bibliche della storia ebraica vedono come eccezionali i periodi di pace. Spesso la Bibbia ci racconta che la "terra è stata in pace per quarant’anni" (Giudici, 3:11, 5:31) oppure per ottant’anni (3:30) e questi intermezzi tra guerre furono evidentemente degni di essere registrati.

Quello che è vero per il popolo ebraico al tempo dei regni, è del resto vero per tutta l’umanità: ovunque la pace è sempre stata una parentesi fra molte guerre.

Tuttavia le norme ebraiche relative alla guerra presentano molte restrizioni e riserve. Nella sua opera "Mishnè Torah" nel trattato relativo all’istituto monarchico. Maimonide dedica diversi capitoli alle norme da osservare in guerra e alla guerra stessa. In sostanza Maimonide raccomanda che una guerra deve avere una sua giustificazione morale che però non può essere una giustificazione arbitraria ma deve essere sancita da una decisione del Sinedrio e non demandata alla esclusiva volontà del re; inoltre devono essere prese strettissime misure atte ad assicurare un trattamento umano al nemico anche allo scopo di preservare la stessa umanità e moralità ebraica.

Ed ancora secondo Maimonide non si deve muovere guerra contro alcuno al mondo prima che venga fatta un’offerta di pace conformemente a quanto è detto nel Deutoronomio (20:10): "Quando ti avvicinerai ad una città per combattere contro di essa, prima le rivolgerai un appello di pace".

Aggiunge Maimonide che quando si cinge una città d’assedio per conquistarla non si dovrà circondarla da tutti o da quattro lati ma solo in tre direzioni, lasciando la possibilità alla popolazione assediata di fuggire e, per chi lo desidera di salvarsi la vita … non si dovranno abbattere gli alberi da frutta nell’area adiacente, né si priverà la popolazione dei flussi d’acqua come è detto "non distruggere alcun albero" (Deuteronomio 20:19) e ciò si applica non solo per un assedio ma in ogni circostanza.

Secondo Maimonide il divieto include non solo gli alberi ma non si potranno rompere gli utensili, gli abiti, non si potrà gli edifici, chiudere i pozzi o distruggere il cibo (Hilchòt Melachim 6:7-10).

Queste norme, che vanno sotto il nome di "bal tashchìt", vietano appunto le distruzioni indiscriminate gli sprechi di risorse e l’inquinamento esse mostrano l’orientamento delle leggi ebraiche finalizzate ad evitare che la guerra ci svilisca e che quando siamo coinvolti nella violenza perdiamo la nostra umanità infliggendo ad altri forme di brutalità che nemmeno la guerra può giustificare.

Altra importante norma ebraica è quella che non bisogna mai godere della sconfitta dei nostri nemici. Nella celebrazione di Pesach quando ricordiamo la vittoria sui crudeli oppressori egiziani, in tutti i nostri canti non vi è una sola parola di gioia per la distruzione del nemico. Al contrario negli ultimi sei giorni della festività recitiamo solo metà Hallel (Salmi, 113-118) perché il Signore disse agli angeli: "… Le mie creature stanno annegando nel Mar Rosso e voi intonate canti di lode?"

Gli egiziani ci perseguitarono, essi furono nemici mortali eppure anche le loro vite erano preziose vite umane. Per quanto odioso sia un nemico, non si ha mai il diritto di gioire per la sua caduta. "Non gioire quando il tuo nemico cade" (Proverbi, 24:17). Per la stessa ragione quando nel Seder di Pesach enumeriamo le dieci piaghe inflitte agli egiziani, versiamo una goccia di vino fuori dai nostri bicchieri per mitigare la nostra allegria con la triste constatazione che la nostra liberazione è costata la sofferenza da altri esseri umani.

Il nostro bicchiere di felicità non può essere stracolmo, se la nostra libertà ha comportato una tragedia per altri, siano essi pure nostri acerrimi nemici.

Quindi la guerra non è mai stata vista come prima o desiderabile soluzione ai conflitti umani. A David, re di Israele, Dio non consentì la costruzione del Tempio, rimandata al figlio Salomone: "… Tu non costruirai il Mio Tempio, una Casa per il Mio Nome poiché tu sei un uomo di guerra e hai sparso sangue…" (Cronache, 22:8; 28:3). Le guerre condotte da David furono certo guerre giuste ma per quanto giusta sia una guerra chiunque vi sia rimasto coinvolto non è qualificato per costruire un tempio a Dio, poiché il Tempio è simbolo di pace.

La pace è il supremo ideale ebraico: nella visione profetica il centro focale di tutte le nostre speranze messianiche risiede nella pace universale.

In ebraico si dice "shalom". La parola si rifà alla radice "shalem" che dà l’idea di completezza e di interezza. Non vi è completezza in n mondo lacerato dalla guerra e dall’intolleranza.

Per la pace, dicono i Maestri (Trattato Derech Eretz Zutà cap. 9) si può anche mentire e secondo Rabban Shimon ben Gamliel, il mondo si regge su tre cose: la verità, il giudizio e la pace (Trattato di Avòt, 1:18). La verità e il giudizio sono i requisiti essenziali e la più sicura salvaguardia per il mantenimento della pace. La massima sopraccitata di Rabban Shimon ben Gamliel viene così commentata nel talmud: "…Le tre cose in realtà sono una sola: se il giudizio è eseguito, la verità è rivendicata e ne risulta la pace…".

Nessuna benedizione può essere tale se non vi è la pace che la completi e la attui pienamente.

Nella tradizione ebraica dunque la pace è un punto centrale dell’esistenza umana; ogni sforzo deve essere teso al suo raggiungimento, nulla va tralasciato per scongiurare la guerra. La guerra è il male più grande che può toccare l’uomo perché lo sminuisce e lo disumanizza, cancellando la sua componente divina. Ogni ebreo al termine della Amidà, parte principale delle tre preghiere quotidiane, recita la formula: "… Concedi una pace buona su di noi…". La pace non è tale se solamente tacciono i cannoni, perché sia completa dovrà essere buona. Se tacciono i cannoni è già un gran successo, ma è solo il punto di partenza verso la buona pace, che sarà prima di tutto rispetto per ogni persona.

Sempre presente dunque è nella mente dell’ebreo il concetto di pace come bene supremo, dono di Dio, emanazione diretta dell’Eterno tanto che la parola "shalom" pace è divenuta il saluto abituale dell’ebreo quale espressione di buon augurio, conformemente a quella massima rabbinica che cita: "… Sii tu il primo a porgere lo shalom a qualsiasi persona… " (Trattato di Avòt, 4:15).

Tratto dal sito www.morasha.it


Martedì, 06 Settembre 2005 22:37

Come si è formata la Bibbia? (Gaetano Castello)

Come si è formata la Bibbia?
di Gaetano Castello

Grazie al crescente interesse per la Bibbia, sviluppatosi tra i cattolici soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II è ormai comunemente noto che essa si presenta, dal punto di vista letterario, più come una biblioteca che come un unico libro. Ciò è vero dal punto di vista storico e letterario senza nulla togliere all’unità della Sacra Scrittura come Parola di Dio, al principio unificante, che i credenti riconoscono nell’Inspirazione divina.

E in realtà i 73 libri che compongono la Bibbia, dalla Genesi fino all’Apocalisse, dalla creazione alla fine del tempo, sono stati composti in epoche molto diverse gli uni dagli altri, lungo un arco storico che copre oltre un millennio (dal X sec. a.C. al II d.C.).

La storia salvifica, prima ancora di essere scritta in libri, costituì la vita stessa del popolo di Israele prima, della chiesa poi. In Israele i fatti accaduti venivano raccontati all’interno della famiglia, del clan. Le regole di culto e i ricordi storici ad esse collegati venivano tramandati nel contesto del tempio, soprattutto da parte dei sacerdoti. Le gesta di eroi popolari, dei grandi condottieri, dei re, venivano ricostruite epicamente e trasmesse in forma orale. È quanto implicitamente afferma la Dei Verbum:

«nel suo grande amore Dio, progettando e preparando con sollecitudine la salvezza di tutto il genere umano, si scelse con singolare disegno un popolo... egli si rivelò con parole ed azione al popolo, che s’era acquistato, come l’unico Dio vero e vivo, così che Israele sperimentasse quali fossero le vie divine con gli uomini e, parlando Dio per bocca dei profeti, le comprendesse con sempre maggiore profondità e chiarezza e le facesse conoscere con maggiore ampiezza fra le genti (...). l’economia della salvezza preannunziata, narrata e spiegata dai sacri autori, si trova come vera parola di Dio nei libri dell’Antico Testamento...» (n.14).

Un lungo processo formativo

La formazione della prima parte della Bibbia, il Pentateuco, è stata lungamente indagata da quando si è abbandonata la semplice idea che suo unico autore fosse Mosè, il grande profeta e legislatore di Israele sotto la cui guida il popolo fu liberato dalla schiavitù egiziana. Probabilmente Mosè mise per iscritto, come è verosimile nel mondo dell’Oriente antico, la legge del Sinai, alla quale Israele si obbligava attraverso il patto, l’Alleanza. Ma la stesura del Pentateuco, così come ci è giunto, fu molto più laboriosa.

Sul processo di formazione scritta del Pentateuco il parere degli autori è tutt’altro che concorde. Il grande contributo offerto dalla teoria cosiddetta di Graf-Wellhausen è variamente discusso ai nostri giorni. Secondo i due studiosi, che alla fine del secolo scorso svilupparono idee in parte già elaborate prima di loro, il Pentateuco è frutto di un grande sforzo redazionale attraverso cui vennero fusi insieme documenti scritti sulla storia delle origini, sui patriarchi e sull’esodo dall’Egitto. Il lavoro finale venne compiuto dal cosiddetto autore «Sacerdotale», uno o più autorevoli personaggi appartenenti alla cerchia dei sacerdoti esiliati in Babilonia alla metà del VI secolo a.C.. Il «Sacerdotale» fu autore di una storia delle origini di Israele e del mondo che integrò con analoghi sforzi teologici compiuti già da altri israeliti. Raccolse così quanto gli mettevano a disposizione altri documenti composti molto tempo prima; il cosiddetto «Deuteronomista», l'«Elohista» e prima ancoralo «Jahvista».

Senza entrare nei dettagli di questa teoria, bisogna dire che la proposta appariva convincente per la capacità di chiarire molti di quei dubbi che avevano da sempre accompagnato la lettura e lo studio del Pentateuco: perché due racconti della creazione (Gn 2 e 3), perché ripetizioni ed incoerenze nel racconto del Diluvio (Gn 6-8), ripetizioni ed incongruenze nelle storie patriarcali (Gn 12-36)? C'è da dire che proprio a partire da queste domande la ricerca biblica mosse i suoi primi passi verso lo studio della formazione della Bibbia. Ciò spiega il consenso quasi universale che la teoria, a cui si è fatto cenno, trovò tra gli studiosi della Sacra Scrittura.

Lo sforzo è continuato e tutt'ora si cerca di correggere o integrare la teoria Graf-Wellhausen con nuove e più soddisfacenti prospettive.

Analoghe osservazioni vennero fatte, naturalmente, anche sugli altri libri biblici. Già da tempo si parla, ad esempio, di un primo, secondo e terzo Isaia, indicando sommariamente il fatto che il libro del grande profeta è in realtà frutto di almeno tre diverse composizioni risalenti la prima al profeta stesso, VIII sec. a.C. (capp. 1-39), la seconda dell'epoca esilica, VI sec. a.C. (capp. 40-55), la terza dell' epoca post-esilica, VI - V sec. a.C. (capp. 56-66).

E, d'altra parte, è facile intuire che tutti i libri profetici nacquero come risultato di uno sforzo compositivo più o meno lungo e complesso. I profeti infatti ebbero il compito di parlare a Israele, non di scrivere per Israele. Così pure per le riflessioni sulla vita, il dolore, la gioia, la morte, argomenti della lunga e continua riflessione sapienziale di cui libri come Giobbe, Proverbi, Sapienza, sono il risultato finale.

La formazione dei Vangeli

Non meno interessante è la storia della formazione del Nuovo Testamento avvenuta certamente in tempi più brevi ma non senza del periodi di elaborazione e di rimaneggiamento degli scritti.

Limitando le nostre brevi osservazioni ai Vangeli, è stata soprattutto la cosiddetta scuola della «storia delle forme» nata in Germania all'inizio del nostro secolo, a studiare il lavoro di composizione letteraria che dovette precedere l'ultima redazione dei Vangeli, quella che consegnò alla storia e alla fede i nostri testi attuali. Le osservazioni fatte da alcuni studiosi più attenti al ruolo che ebbero nella composizione le personalità proprie dei singoli evangelisti (storia della redazione) e da altri sul ruolo che ebbero le tradizioni orali che precedettero le stesure scritteci permettono oggi di considerare i diversi aspetti di quel processo compositivo.

Subito dopo la morte/risurrezione di Gesù, i discepoli, illuminati dal grande evento della Risurrezione che permetteva loro una rilettura teologica dei fatti e delle parole del Maestro, trasmisero in più forme e diversi contesti le parole, i gesti miracolosi, le storie legate alla sua vita. Ciò avveniva regolarmente nelle prime liturgie battesimali, in cui si richiamavano specifiche espressioni del Maestro, nonché racconti come il battesimo di Gesù, per chiarire il senso del sacramento. Così pure la celebrazione della Cena Eucaristica.

Le riunioni venivano accompagnate con inni e confessioni di fede in Gesù Messia e Figlio di Dio.

L' annuncio cristiano all'esterno (kérygma) avveniva attraverso la proposta essenziale della fede, espressioni concise sulla passione-morte-risurrezione di Gesù, il Messia atteso. La catechesi per la preparazione al Battesimo e per la vita della comunità riprendeva episodi illuminanti della vita di Gesù, letti, naturalmente, a partire dalla comprensione più profonda dei fatti all'indomani della Risurrezione. Tutto ciò costituiva la vita stessa della comunità cristiana, la sua prassi liturgica e catechetica. Furono questi elementi a costituire, nella loro forma orale e nelle prime stesure per iscritto, il materiale di partenza a disposizione degli evangelisti.

Il primo racconto esteso sulla vicenda di Gesù fu quello della passione-morte-risurrezione, come approfondimento teologico dell'annuncio kerygmatico della fede, tanto più necessario quanto più scandaloso appariva a giudei e pagani la notizia di un Messia, Figlio di Dio crocifisso. Se Marco partì da questi elementi primitivi per scrivere il suo Vangelo, il primo, Matteo e Luca poterono utilizzare la composizione marciana e le altre fonti a loro disposizione, tra cui una fonte in cui vennero raccolti i «detti» di Gesù.

Ad un simile processo di formazione accenna,. pur senza entrare nelle problematiche scientifiche, il Concilio Vaticano Il al n. 19 della Dei Verbum:

«... Gli apostoli poi, dopo l'ascensione del Signore, trasmisero ai loro ascoltatori ciò che egli aveva detto e fatto, con quella completa intelligenza di cui essi, ammaestrati dagli eventi gloriosi di Cristo e illuminati dalla luce dello Spirito di verità, godevano. Egli autori sacri scrissero i quattro vangeli, scegliendo alcune cose tra le molte tramandate a voce o già per iscritto, redigendo una sintesi delle altre o spiegandole con riguardo alla situazione delle chiese, conservando infine il carattere di predicazione, sempre però in modo tale da riferire su Gesù cose vere e sincere. Essi, infatti, attingendo sia dalla propria memoria e dai propri ricordi sia dalla testimonianza di coloro che "fin dal principio furono testimoni oculari e ministri della parola", scrissero con l'intenzione di farci conoscere la "verità" (cf Lc 1,2-4 ) degli insegnamenti sui quali siamo stati istruiti».

Anche per i Vangeli dunque, benché in un tempo molto più breve (dal 30 al 90 d.C;), il processo formativo è articolato.

Gli scritti che noi oggi abbiamo a disposizione, per l'Antico come per il Nuovo Testamento, sono perciò frutto di un lavoro che ha coinvolto uomini e generazioni impegnati in un cammino di fede in cui seppero distinguere tra gli avvenimenti della storia e le vicende della loro vita, la voce stessa di Dio. La rivelazione di Dio in «parole e gesti» coinvolse non primariamente degli scrittori, ma la vita e la storia di Israele, come quella dei discepoli di Gesù. La fissazione della rivelazione in libri scritti attraversò dunque un processo di formazione lungo e articolato, finalizzato, nella volontà divina, a conservare nel tempo l'efficacia della sua Parola.

Tutto ciò lungi dal diminuire il carattere della Bibbia come Parola di Dio, fa riflettere sul «come» Dio entra in rapporto con l'uomo: non al di sopra della storia umana ma nei fatti e nelle situazioni della vita. Non consegnando all'uomo un «Libro Sacro» da lui confezionato; ma imprimendo un movimento che da fatti e parole giungerà a cristallizzarsi nella Sacra Scrittura, «luogo» privilegiato della divina rivelazione. Una conseguenza ulteriore, su cui rifletteremo in un approfondimento successivo, è il rapporto originario tra Sacra Scrittura e Tradizione che va considerato a partire dalla formazione stessa della Bibbia.

Martedì, 06 Settembre 2005 22:28

Siamo corpi (Faustino Ferrari)

Dio per comunicare il suo amore per noi si è fatto carne.

Il dodicesimo gradino si ha quando il monaco non solo nel cuore, ma anche con lo stesso atteggiamento del corpo, manifesta sempre l’umiltà a chi lo vede.

Mercoledì, 31 Agosto 2005 21:29

5. Quadro dei libri biblici (Rinaldo Fabris)

La raccolta dei libri che attualmente formano la Bibbia ebraica e cristiana - Antico e Nuovo Testamento - si possono distribuire in grandi blocchi sulla base di alcuni criteri di carattere storico-cronologico, letterario e teologico.

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