Religioso Marista
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Magdi Allam condanna un certo "pacifismo irresponsabile", che, sotto la nobile parola "pace", propone un disarmo unilaterale di fronte alle manovre di propaganda e di conquista tipiche di questi movimenti islamici militanti ed estremisti.
La comparsa del monoteismo
in Israele
prima dell'esilio
di Andrè Lemaire
La religione dell’antico Israele era veramente monoteista fin dalle sue origini? Come si è passati da una secolare monolatria all’affermazione dell’incomparabilità del Dio d’Israele e della sua assoluta esclusività? La storia del monoteismo biblico non è una storia lineare. È la storia di tradizioni e influenze diverse, patriarcali, cananee, e un lungo processo di maturazione religiosa si ricompose in uno stupefacente lavoro di memoria e di scrittura. La monarchia e il rapporto con le altre nazioni, l’esilio babilonese, la cancellazione di qualsiasi rappresentazione divina hanno contribuito all’elaborazione dell’espressione monoteista di una fede originale.
Fede in un solo Dio, in un Dio unico, il monoteismo è considerato come uno dei fondamenti della tradizione giudeo-cristiana, che si radica nella storia dell'antico Israele. In realtà, i dizionari offrono spesso come esempio concreto di monoteismo il «monoteismo ebraico», citando talora i primi Comandamenti del Decalogo:
Io sono il Signore, tuo Dio...
Non avrai altri déi...
Non ti farai idolo né immagine alcuna.
Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai...
(Es 20,2-4; Dt 5,6-9);
o anche lo Šema' Israel:
Ascolta, Israele:
il Signore è il nostro Dio,
il Signore è uno solo (Dt 6,4).
La religione dell'antico Israele era veramente monoteista sin dalle origini? Certi passi antichi della Bibbia sembrano indicare di no, dato che ammettono l’esistenza di altri dèi. Da un lato, certe tradizioni patriarcali attestano una certa pluralità di nomi di divinità (teonimi): El ‘Elyon (Gn 14,18-22; cf Nm 24,16; Dt 32,8…), El Roy (Gn 16,13-14), El Šadday (Gn 21,33: 28,3; 35,11... cf Nm 24,16...), El ‘Olam (Gn 21,33), El Betel (Gn 31,13), Pah)ad (Gn 31,42), Ba’al Berit (Gdc 8,33; 9,4), EI Berit (Gdc 9,46)…
D'altra parte, parecchi testi antichi presentano Yahwè, il dio d’Israele, come facente parte di un consesso di dèi, di un «pantheon», che presuppone l'esistenza di altri dèi, dunque di un certo politeismo. Così:
Dio si alza nell'assemblea divina,
giudica in mezzo agli dei (Sal 82,1).
I cieli cantano le tue meraviglie.
Signore, la tua fedeltà nell'assemblea dei santi.
Chi sulle nubi è uguale al Signore,
chi è simile al Signore tra gli angeli di Dio?
Dio è tremendo nell'assemblea dei santi,
grande e terribile tra quanti lo circondano...
(Sal 89,6-8; cf anche Gb 1,6; 2,1; 38,7).
La monolatria dell'antica religione di Israele
Monoteista o politeista? La religione dell'antico Israele non si lascia imprigionare in questa alternativa perché essa non è in origine il frutto di una riflessione filosofica, di una concezione teorica del mondo divino, ma una religione pratica che si manifesta, in particolare, nel culto e nella morale. Nel contesto generale del politeismo dell'antico Vicino Oriente, la Bibbia pone l'accento sull'unicità e l'esclusivismo della divinità nazionale del popolo d'Israele, che non doveva rendere culto a nessun altro dio. È quello che viene definito monolatria, che afferma un legame particolare ed esclusivo tra il popolo ed una sola divinità. La monolatria dell'antica religione d'Israele suppone implicitamente anche una certa concezione politeista del mondo divino e si precisa un poco alla luce di un testo poetico antico del Deuteronomio (32,8) dove si afferma che Yahwè è il Dio d'Israele, ma si riconosce che le altre nazioni hanno altri dèi:
Quando l'Altissimo (Elyon) divideva i popoli,
quando disperdeva i figli dell'uomo,
egli stabili i confini delle genti
secondo il numero dei figli degli dèi.
Un tema simile è svolto in Mic 4,5:
Tutti gli altri popoli camminino pure
ognuno nel nome del suo dio,
noi cammineremo nel nome del Signore Dio nostro,
in eterno, sempre.
Secondo questa concezione, ogni popolo ha il suo proprio dio, la sua propria divinità nazionale. In realtà, secondo la tradizione biblica, Yahwè è chiaramente il dio mentre Israele è il popolo di Yahwè. Questo legame particolare ed esclusivo è splendidamente espresso dalle immagini dell'alleanza tra Yahwè e Israele. Ritorna nell'aggettivo «geloso» attribuito a Yahwè e il suo carattere esclusivo è sottolineato dalle numerose proibizioni imposte a Israele di «servire» divinità straniere. Il carattere monolatrico della religione dell'antico Israele risale probabilmente alle origini dello Yahwismo e all'uscita dall'Egitto. Secondo le più antiche tradizioni bibliche è Mosè, al quale Yahwè si manifesta, che la impone come unica divinità dei clan che lasciano l'Egitto, a cui rendere culto (Es 3,18; 5,1-3). Si ritrova in seguito questo carattere monolatrico chiaramente espresso dalle diverse tradizioni bibliche a proposito dell'alleanza di Sichem secondo le quali nuovi clan, legati probabilmente alla tradizione patriarcale dei «figli di Giacobbe», si sono riuniti ai «figli d'Israele», rinunciando alle loro divinità precedenti e scegliendo Yahwè come l'unica divinità della nuova confederazione israelita (Gs 24; ef Gn 35,2-5; Gs 8,30-35...). Verso la fine del II millennio, all'epoca di Davide, questa concezione religiosa si impose anche alla popolazione del nuovo regno di Giuda: Davide era un fervente yahwista che aveva assunto al suo servizio e protetto Abiatar, il discendente dei sacerdoti del santuario yahwista di Silo legato alla tradizione mosaica (cf I Sam 22,20-23).
Oltre alla persistenza di tradizioni religiose cananee, lo yahwismo monolatrico dell'epoca monarchica si scontrò più volte con forti influenze straniere. Così, sotto il regno di Acab (874-853 circa), il carattere esclusivo del culto di Yahwè in Israele fu particolarmente minacciato dalla diffusione del culto di Ba'al introdotto dalla moglie di Acab: Gezabele. figlia del re di Sidone (I Re 16,31-32). La dura reazione del profeta Elia si manifesta nello scontro del monte Carmelo: il popolo deve, di nuovo, scegliere il proprio Dio: Yahwè o Ba'al (2 Re 18,21). Il culto esclusivo ufficiale dì Yahwè sarà finalmente ristabilito in seguito al colpo di stato di Ieu nell'841 che eliminò Ba'al da Israele (2 Re 10,27). Nell'835, mettendo fine alla reggenza di Atalia, il colpo di stato del sacerdote Yehoyada ottenne lo stesso risultato a Gerusalemme. Si noterà che, in quest’epoca, una religione monolatrica abbastanza similare era apparentemente praticata da certi vicini di Israele, in particolare nel regno di Moab: Kamoš era riconosciuto come il dio di Moab (I Re 11,33) e Moab come il popolo di Kamoš (Nm 21,29; Ger 48,46). Secondo la stele di Meša, re di Moab (nel IX sec. a.C.), appartenere a Kamoš e appartenere a Moab è tutt'uno (linea 12) e l'espansione del territorio moabita si traduce nella sistetitatica distruzione dei santuari yahwisti, sostituiti da Santuari dedicati a Kamoš: essendo queste religioni entrambe monolatriche, il culto di Yahwè, citato più volte sulla stele, non può sussistere nel regno di Moab! L’importanza del culto di Kamoš è confermata dalle numerose citazioni di questo nome nell'onomastica moabita, attestata essenzialmente da sigilli o stampigliature.
La difficile affermazione di un'unica divinità
Nel secolo VII e in particolare durante il regno di Manasse (699-645 circa), la dominazione politica assiro-aramaica si manifesta attraverso la diffusione del culto degli astri, ben attestato grazie allo studio dei sigilli di quest’epoca e della Bibbia: il re Manasse in persona si prostrò davanti a tutta la milizia del cielo e la servì... Costruì altari a tutta la milizia del cielo nei due cortili del tempio (2 Re 21,3.5), Nonostante questo, con la decadenza del dominio assiro, in riforma di Giosia reagì con vigore contro l'espansione di questi culti e destituì i sacerdoti... che offrivano incenso a Ba’al, al sole e alla luna, alle stelle e a tutta la milizia del cielo (2 Re 23,5; cf Dt 4,19).
Così, la monolatria della religione israelita fu più volte messa in pericolo dalle influenze esterne legate all'evolversi del contesto internazionale. Il pericolo poteva venire anche da Israele stesso: due tendenze, legate allo sviluppo dei santuari tradizionali yahwisti. minacciarono il carattere esclusivo e unico del culto di Yahwè all'interno stesso del popolo d'Israele: l'eccessiva sacralizzazione di certi aspetti dei santuari tradizionali e la diversità stessa di questi santuari.
Le tradizioni israelitiche più antiche descrivono i santuari israeliti come costituiti fondamentalmente da un altare, da una stele e da un albero sacro. Le leggende patriarcali di fondazione di questi santuari mettono bene in luce questi tre aspetti: mentre Giacobbe alza una pietra come stele a Betel (Gn 28,19-22), Abramo piantò un tamerice in Bersabea (Gn 21,33) dove Isacco costruì in seguito un altare (Gn 26,25). Per riprendere l'esempio dell'alleanza in Sichem, il testo precisa, nella parte finale, che poi Giosuè... prese una grande pietra e la rizzò là, sotto il terebinto (cf Gn 12,6; 35,4; Gdc 9,6.36) che è nel santuario del Signore (Gs 24,26).
In modo abbastanza ovvio la stele e l'albero sacro si sono trovati a partecipare della potenza divina di Yahwè, ad essere tanto sacralizzati da diventare quasi di sostanza divina. Questo è ben dimostrato dalle iscrizioni paleoebraiche della prima metà dell'VIII sec. a.C. in cui l'ašerah, cioè l'albero sacro del santuario, è citata accanto a Yahwè nelle formule di benedizione:
Io vi benedico per mezzo di Yahwé di Samaria e attraverso la sua Ašerah (Kuntillet 'Ajrud, Pithos 1);
Io vi benedico per mezzo di Yahwé di Teman e la sua Ašerah (Pithos 2);
Sia benedetto Uriyahu attraverso Yahwè e la sua Ašerah (Khirbet el Qom 3).
Queste formule indicano che l'albero sacro (Ašerah) dei santuari yahwisti stava diventando, per gli Israeliti, una potenza sacra indipendente, di sostanza divina, uguale e rivale di Yahwè. Questa evoluzione provocò presto una vivace reazione da parte dei profeti (Am 3,14; Os 3,4; 4,12; 10,1-2; Mic 5,12-13) che sfociò nelle riforme religiose di Ezechia (2 Re 18,4) e di Giosia (2 Re 23,6), codificate nel Deuteronomio (16,21);
Non pianterai alcun palo sacro (Ašerah),
di qualunque specie di legno,
accanto all'altare del Signore tuo Dio,
che tu hai costruito;
non erigerai alcuna stele [masseba]
che il Signore tuo Dio ha in odio.
Le formule di benedizione di Kuntillet 'Ajrud che citano «Yahwè di Samaria» e «Yahwè di Teman» rivelano un'altra evoluzione che rischiava di portare ad una pluralità divina all'interno stesso di Israele: il legame della persona di Yahwè con i suoi diversi santuari e la sottolineatura di caratteri divini particolari in ciascuno di questi, col rischio di mettere a poco a poco in ombra il fatto che si trattava pur sempre della stessa persona divina. È un fenomeno abbastanza simile a quello che avviene nella tradizione cattolica nel culto della vergine Maria con i diversi appellativi «Madonna di Chartres», «Madonna di Lourdes», «Madonna di Fatima»… che, nella religiosità popolare, hanno talora la tendenza a diventare altrettante personalità distinte. Come per l'eccessiva importanza attribuita agli alberi sacri, questa evoluzione della religiosità popolare comportò una vivace reazione dei profeti che criticava l'eccessiva rivalutazione dei santuari locali (cf, per esempio, Am 4,4; 5,5) e portarono alla soppressione ufficiale di questi santuari al momento delle riforme di Ezechia (2 Re 18,4.22)e di Giosia (2 Re 23,8.15), soppressione nuovamente riaffermata nel Deuteronomio (12,2-5). Probabilmente è il proprio questa opposizione al culto yahwista dei diversi santuari che spiega l'insistenza del Deuteronomio sull'unicità della divinità nazionale: Yahwè è uno solo (6,4).
Il rifiuto delle immagini
Il ricordo di queste tendenze, di queste lotte e di queste riforme mostra con chiarezza che la monolatria dell’antico Israele non fu un’acquisizione antica, più o meno dimenticata, ma un principio ben vivo che porta, in un contesto del vicino Oriente spesso politeista, a una certa purificazione del concetto del Dio d'Israele. Questo approfondimento del concerto della divinità fu anche fortemente segnato da un altro aspetto dello yahwismo che sembra risalire alle sue origini: il suo aniconismo, cioè la proibizione, espressa nel Decalogo, di rappresentare la divinità nazionale con un'immagine o una rappresentazione scultorea. La ricerca contemporanea ha rivelato che questa caratteristica va collocata probabilmente in origine nel più generale contesto del culto delle stele, ben attestato nel culto semitico occidentale. Tuttavia, paradossalmente, nell'antico Israele, questo aniconismo fu teorizzato e sistematicizzato, conducendo alla fine persino al rifiuto del culto delle stele (Dt 16,21). Quest'ultimo aspetto della monolatria israelita ha potuto rivestire un ruolo importante nell'approfondimento verso la concezione di un Dio unico, universale trascendente. In realtà l'aniconismo ha, almeno in parte, alimentato la polemica contro gli dèi stranieri. Ciò appare già nel racconto della sosta dell'arca di Yahwè nel tempio di Dagon ad Ašdod (I Sam 5,2-5): la statua di Dagon è dapprima trovata in terra davanti all’arca, poi senza la testa e le mani. Attraverso questo racconto, Dagon non è solo messo in discussione in quanto dio straniero, inferiore a Yahwè. ma anche perché è rappresentato da una statua la cui mutilazione rivela l'impotenza.
L'impotenza degli dèi stranieri è spesso sottolineata dai profeti: sul monte Carmelo, Ba'al non è contestato solo perché è un dio straniero, fenicio, ma anche a causa della sua impotenza, come sottolinea Elia alludendo alla sua mitologia:
... egli è un dio! Forse è soprappensiero
oppure indaffarato o in viaggio;
caso mai fosse addormentato... (1 Re 18,27).
Analogamente, una critica implicita dell'impotenza degli dèi stranieri è posta in bocca a Rabšaqeh, un inviato di Sennacherib presso Ezechia: Forse gli dèi delle nazioni hanno liberato ognuno il proprio paese dalla mano del re d'Assiria? Dove sono gli dèi di Amat e di Arpad? Dove sono gli dèi di Sefarvaim, di Ena e di Ivva?... Quali, mai, fra tutti gli dèi di quelle nazioni, hanno liberato il loro paese dalla mia mano? Potrà forse il Signore liberare Gerusalemme dalla mia mano? (2 Re 18,33-35; cf 19,12-13).
Al contrario, la tradizione biblica sottolinea la potenza di Yahwè, capace di opporsi agli attacchi dei nemici (cf oltre, sotto Ezechia), o di usarli come strumento per punire Israele (Is 10,5-19). La potenza di Yahwè non si arresta dunque ai confini dell’antico Israele: Yahwè può esercitare la sua potenza anche sugli stranieri, e persino su re stranieri. È già in parte la storia della guarigione del generale arameo Naaman (IX sec.) che riconosce la straordinaria potenza del Dio d'Israele:
Ebbene, ora so che non c'è Dio su tutta la terra se non in Israele... Almeno sia concesso al mo servo di caricare qui tanta terra quanta ne portano due muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore... (2 Re 5, 15- 17). Si vede qui sorgere una tendenza verso l'espressione di un monoteismo universalistico.
Certi passaggi biblici del Deuteronomio (4,35.39; 32,39), della storia deuteronomista (2 Sam 7,22: 22,32) e di Geremia (2,11; 16,19-21) si spingono oltre in questa direzione, criticando le altre divinità ed affermando esplicitamente che Yahwè è il solo Dio, che domina l'universo. Tuttavia, con la maggior parte dei commentatori, si nota che tutti i passaggi sembrano appartenere ad uno strato redazionale tardivo, probabilmente esilico. Ricordiamo, ad esempio, Ger 2,11:
Ha mai un popolo cambiato dèi?
Eppure quelli non sono dèi!
in cui la sottolineatura che gli dèi delle altre nazioni non sono veramente dèi sembra una glossa aggiunta al testo originario.
In realtà, le prime chiare affermazioni del monoteismo israelita sembrano quelle del Deutero-Isaia, che risalgono probabilmente alla fine dell'Esilio, al 550-539 circa:
Prima di me non fu formato alcun dio,
né dopo ce ne sarà (Is 43,10-11).
Io sono il primo e io l'ultimo;
fuori di me non vi sono dèi (Is 44,6-8; cf 45,5-7.18.21-22).
Come l'autore di questi testi ha potuto operare il salto dalla secolare monolatria dell'antico Israele alla chiara affermazione del monoteismo? Se si presta fede al resto degli scritti di questo profeta dell'Esilio (cf in particolare Is 44,9-20; 45,20; 46,6-7...), questo sviluppo teologico si afferma a partire da una riflessione sull'impotenza degli altri dèi, specialmente di quelli rappresentati da immagini o statue. In realtà, posto a confronto con un contesto in cui le divinità dei signori dell'Impero neobabilonese erano rappresentati abitualmente da statue, il profeta le rifiuta d'istinto, partendo dalla tradizione aniconica israelitica.
Così, la riflessione sull'unicità di Yahwè è maturata nel corso di parecchi secoli e i profeti hanno dovuto all’inizio combattere per difendere il carattere monolatrico della religione israelita contro diversi influssi esterni e alcune tendenze della religione popolare. Anche se si scorgono alcuni annunci precedenti, è soprattutto l'approfondimento della tradizione aniconica nel contesto storico dell'Esilio babilonese che sembra aver reso possibile il passaggio dalla religione monolatrica delle origini mosaiche, che proclamava Yahwè come l'unico Dio d'Israele, ma che poco si curava dello statuto degli dèi di altri paesi, alla chiara affermazione del monoteismo ebraico secondo il quale Yahwè è il solo vero Dio, Signore dell’universo.
* Direttore del Dipartimento alla École Pratique des Hautes Études, sezione scienze storiche e filologiche
(da Il mondo della Bibbia n. 47)
L’etica è qualcosa di vissuto e non soltanto frutto di una deduzione di principi. Non si può attuare eticamente costruendo sillogismi e traendone conseguenze. L’etica è una spinta personale, che viene più dal cuore che dalla mente.
Il “genere letterario” è un modo specifico di parlare di una esperienza o di raccontare un evento che corrisponde alla mentalità, agli usi e costumi di una determinata epoca e cultura.
Dal primato dello "Spirito"
alla perfezione della carità
di Cipriano Carini, osb
Un documento che non si applica tanto alle opere dei consacrati, ma piuttosto alla loro vita spirituale. È un ritorno al Monachesimo.
Richiede quindi una conversione interiore ben più difficile che una preparazione professionale allo svolgere determinate attività.
A mio parere mette in evidenza due principi molto semplici, ma riassuntivi di tutta la teologia e spiritualità della vita consacrata.
1. Il primato dello "Spirito"
Già nei documenti precedenti ci era stato richiesto di tornare al Vangelo (PC 2), poiché «i religiosi sanno di essere coinvolti in un quotidiano cammino di conversione verso il regno di Dio, che li rende, nella Chiesa e di fronte al mondo, segno capace di attirare, provocando a profonde revisioni di vita e di valori. È questo, senza dubbio, il più atteso e fecondo impegno al quale essi sono chiamati, anche nei campi in cui la comunità cristiana opera per la promozione umana (Promozione umana 18).
E i Lineamenta insistono; basta rileggere il n. 11 che elenca i valori essenziali della nostra vita e richiede come impegno spirituale: la rinuncia al mondo e la scelta radicale di Dio solo, il senso cristocentrico della consacrazione, la dimensione pasquale della consacrazione, la dedicazione totale al servizio del Signore, l'unità di vita nella contemplazione e nell'azione. Aspetti che vengono ripresi più avanti (n. 26.29.44) con proposte molto luminose per superare le ambiguità e le sfide della società moderna, presentando con la nostra vita la libertà vera, l'amore vero, la preghiera vera, la donna vera. «Si deve affermare con realismo la necessità della presenza dei consacrati nella società stessa, come cittadini in questo mondo eppure pellegrini verso la patria. Con i loro carismi e servizi vogliono rendere operante il Vangelo delle beatitudini e delle opere di misericordia», cori attenzione ai giovani, ai poveri, alla cultura, all'umanità intera.
Una presenza che ha le opere, ma al di sotto ha una mentalità evangelica, un'adesione totale a Cristo; non siamo dei professionisti ma degli afferrati da Cristo.
Per questo non si insiste tanto sulle opere da svolgere, bensì sulla vita spirituale da coltivare, esercitandoci nel primato della carità, rinnovandoci quotidianamente alle sorgenti genuine della spiritualità cristiana, nell'assidua lettura, meditazione, contemplazione ed esperienza vissuta della parola di Dio, in un impegno di continua conversione, guardando a Maria come al modello esemplare (cf n. 12).
La consacrazione e la professione pubblica dei voti di castità, povertà e obbedienza, esigono un adeguato stile di vita, autentico nelle sue motivazioni soprannaturali, vero nelle sue esigenze ascetiche, ricco nei diversi aspetti complementari, vissuto all'interno della comunità in una doverosa comunione ed emulazione (cf n. 31b)-
Nient'altro che il primo comandamento preso sul serio.
2. La perfezione della carità
Da qualche decina di anni la richiesta ai religiosi di essere "esperti in comunione" viene ripetuta, anche se in modo diverso, in tutti i documenti ecclesiali.
È un sottofondo costante anche dei Lineamenta che, direttamente o indirettamente, richiamano il titolo del documento conciliare Perfectae caritatis. Siamo quelli che tendono alla perfezione della carità tra gli uomini, sia nei riguardi dell'apertura che questa richiede, sia nella qualità di un dono gratuito che deve avere, e non solo all'interno delle comunità. religiose, ma anche nell'inserimento nella vita della Chiesa, nella storia dell'umanità.
Il primato della carità (n. 12a) parte dalla vita interna degli istituti con «la valorizzazione delle persone più che delle strutture, l'attenzione ai bisogni dei singoli membri della comunità, il senso dell'impegno personale e della corresponsabilità, la comunione reciproca fatta di relazioni interpersonali più mature, semplici, autentiche» (cf n. 266).
Ma la comunione si apre alla vita ecclesiale, anzi all'umanità intera (cf n. 43). «Non si può infatti scegliere Cristo, senza scegliere tutto quello che è suo, la Chiesa e il Regno» (n. 11d). Perfino «i monasteri sono invitati ad offrire, pur conservando la fedeltà al proprio spirito, opportuni aiuti per la preghiera e la vita spirituale agli uomini e alle donne del nostro tempo, specialmente mediante un'appropriata partecipazione alla preghiera liturgica» (n. 20). I richiami sono continui e pressanti. «Una maggiore ecclesialità della vita consacrata, [...] con lo sviluppo di nuovi rapporti di comunione e collaborazione con i chierici e i laici» sembra essere la richiesta più grande che ci viene fatta (n. 26e); «con l'emergere della teologia della Chiesa locale, con la consapevolezza dell'appartenenza della vita consacrata al mistero della Chiesa universale, che si rende presente nella Chiesa locale, sta maturando un nuovo rapporto di presenza e di comunione dei membri, ottenendo una maggiore partecipazione e coscienza di appartenenza alla famiglia diocesana, un inserimento più attivo e specifico nella pastorale» (n. 27a). «Il rinnovamento della vita consacrata si attua con un'intensificazione della comunione e del servizio ecclesiale, secondo il proprio carisma e le nuove necessità della Chiesa e del mondo» (n. 31d).
È un leit motiv che raggiunge nei nn. 38-40 la sua manifestazione più esigente.
Comunione anche con l'umanità, a servizio della promozione dell'uomo, con nuova sensibilità sociale verso gli oppressi e gli emarginati (n. 27d), per andare incontro alle vecchie e nuove povertà (n. 29g), con degli ambiti di lavoro preferenziali (cf n. 44).
È il secondo comandamento che viene messo in risalto.
Non vengono prese in considerazione quindi le attività in se stesse, le opere degli istituti, nemmeno quelle derivanti dalla vita sacerdotale, bensì lo spirito che deve permeare la vita dei consacrati.
Le opere le possono svolgere normalmente anche gli altri: sacerdoti diocesani, laici; lo spirito invece deve essere proprio dei consacrati. Possono fare qualsiasi opera, ma il loro fare sarà fruttuoso se proverrà dallo Spirito.
A mio avviso viene fatta la scelta giusta più esigente e interiore; una scelta che tocca l'anima della consacrazione, più che le derivazioni esterne, le opere che ne derivano.
Alcuni desideri personali nei riguardi dei Lineamenta sono i seguenti:
1. Mettere maggiormente in evidenza l'aspetto profetico della vita consacrata, non solo come segno della vita futura, ma anche nella sua libertà di continuare il profetismo nella Chiesa; lasciamogli la libertà sufficiente di poter dire pane al pane e vino al vino. Sono stati i profeti che hanno annunciato la Parola alla politica e alla gerarchia ecclesiastica. Non tentiamo di ridurre tutto ai numeri del Codice canonico; non possiamo imbrigliare lo Spirito. Libertà profetica non solo per "rinnovare" (nn. 26d.31c), ma anche per creare ex novo (nn. 18f.24).
2. Mettere maggiormente in evidenza (e lavorare perché diventi vita vissuta) tutto quello che unisce piuttosto che quello che divide i vari istituti di vita consacrata; ogni istituto ha un carisma, ma nell’insieme tutti partecipano al carisma della vita consacrata, alla scelta radicale di Dio.
3. Veramente ogni istituto ha un carisma? Mi sembra che occorrerebbe svolgere un’attività di ecumenismo all’interno della vita consacrata: questo porterebbe ad avvicinare (e forse ad unire) molte famiglie religiose, con minor dispendio di energie, persone, economia nello svolgere gli stessi servizi all’umanità; la crisi di vocazioni vuole forse portarci a questo? Se fossimo uniti potremmo rispondere meglio alle necessità, ai problemi, alle urgenze della storia.
Al momento attuale mi sembra che ci sia da aspettarsi dall’assemblea CEI e dal Sinodo dei vescovi una crescita di equilibrio tra difesa del carisma della vita consacrata e un suo inserimento armonico nella vita della Chiesa comunione.
Una forte affermazione del "servizio petrino", senza menzionare esplicitamente la possibilità del cambiamento delle sue "forme di esercizio" attraverso una effettiva "collegialità episcopale": è il filo conduttore di alcuni recenti discorsi del papa, di particolare importanza ecumenica, dato che avevano come sfondo i rapporti con la Chiesa ortodossa russa e con il patriarcato di Costantinopoli.
L'insopprimibile aspirazione alla "grande fede" tipica di ogni uomo non si è spenta. Oggi come ieri, Cristo universale vive nel cuore degli uomini...
Ecumenismo
e rinascita spirituale
di Luca Maria Negro
Quarant'anni fa nasceva il Gruppo misto di lavoro (Gml) tra la Chiesa cattolica e il Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec). Per celebrare questo anniversario, così come i quarant'anni del decreto sull'ecumenismo del concilio Vaticano II (Unitatis redintegratio), il Cec e il Pontificio Consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani hanno organizzato una consultazione a Ginevra dal 17 al 19 novembre. Tema dell'incontro sarà una riflessione sul contributo del Gml al rinnovamento dell'ecumenismo nel XXI secolo. La consultazione si aprirà con un evento pubblico al Centro ecumenico di Ginevra (presenti fra gli altri il cardinal Walter Kasper e il moderatore del Comitato Centrale del Cec, il Catholicos Aram I), per poi proseguire all'istituto ecumenico di Bossey (Ginevra), dove si svolse la prima riunione dei Gml, nel maggio 1965.
Il Gruppo misto di lavoro è un forum consultivo che ha il compito di avviare, di valutare e di sostenere la collaborazione fra Cec e Chiesa cattolica, rispondendo del suo lavoro alle rispettive autorità, che sono l'Assemblea e il Comitato centrale del Cec e il pontificio consiglio per l'unità.
Il Gml ha appena pubblicato il suo ottavo rapporto. Si tratta di un utile strumento non solo per conoscere il Gruppo e le sue attività, ma anche per «sentire il polso» del movimento ecumenico ed in particolare per osservare l'impegno cattolico negli organismi ecumenici. In un momento di apparente stagnazione è incoraggiante scoprire la miriade di iniziative ecumeniche in cui la Chiesa cattolica è impegnata. Per esempio, anche se formalmente non fanno parte del Cec, i cattolici sono ufficialmente rappresentati in tutte le aree dl attività programmatica del Consiglio ecumenico: dalla Commissione teologica «Fede e Costituzione», ai programmi relativi a missione ed evangelizzazione, formazione ecumenica, dialogo interreligioso.
Anche se molto del lavoro teologico è passato a «Fede e Costituzione», il Gml continua a produrre propri studi su temi specifici. Tre documenti sono stati pubblicati nel corso dell'attuale mandato (1999-2005). Il primo studio riguarda le implicazioni ecclesiologiche ed ecumeniche del battesimo comune. Il secondo affronta la natura e gli obiettivi del movimento ecumenico, soffermandosi in particolare sulle recenti difficoltà (il risorgere dei confessionalismi, la difficoltà nella ricezione dei dialoghi teologici). Il terzo studio, intitolato «ispirati dalla stessa visione», riguarda la partecipazione cattolica nei consigli nazionali e regionali di Chiese. Vale la pena di notare che la Chiesa cattolica è membro di tre Consigli regionali (Conferenza delle Chiese dei Caraibi, Consiglio delle Chiese del Medio Oriente e Conferenza delle Chiese del Pacifico) e di ben 70 Consigli nazionalI di Chiese. L'Italia, purtroppo, non fa ancora parte di questa lista...
Infine, è interessante soffermarsi sulla raccomandazioni che l'attuale Gml, alla conclusione del proprio mandato, formula per il futuro. Il Gruppo individua tre aree che richiedono una speciale attenzione per il lavoro comune di Chiesa cattolica e Cec. La prima area riguarda la necessità di tornare alle «radici spirituali» dell'ecumenismo. La seconda area critica è quella della formazione ecumenica per laici e clero, visto che «una nuova generazione di cristiani a volte non è cosciente di come stessero le cose e di come siano cambiate» negli ultimi decenni. La terza area è quella delle difficoltà che, in misura crescente, le Chiese incontrano nel dare una testimonianza comune nel campo dell'etica personale e sociale. Il Gml si riferisce a temi quali la bioetica, i diritti umani, civili e religiosi, la pace e la giustizia sociale, la «guarigione delle memorie», la sessualità umana e la riproduzione. L'area dell'etica sembra dunque essere la più problematica. Per superare l'attuale impasse, il Gml propone di sviluppare una «esplorazione congiunta dei fondamenti filosofici e teologici della antropologia cristiana». Ma forse - è il mio commento - sarà proprio la prima raccomandazione del Gml, cioè lo sviluppo di un «ecumenismo spirituale» che valorizzi la ricchezza di ciascuno, a consentirci di superare questa e altre difficoltà del cammino ecumenico.
Dio si manifesta, con il suo Spirito, come colui che è in comunione profonda con l'intera creazione e soprattutto con la persona umana. Lo Spirito di Dio fa sì che Dio non stia fuori del raggio della sofferenza umana.
Apartheid brasiliano:
il colore fa la differenza
di Marcelo Barros
Un osservatore attento della realtà brasiliana non può fare a meno di notare come negli ultimi anni sia venuto crescendo nel Paese il numero di gruppi e comunità negre che prendono sempre più coscienza dei valori della cultura di cui sono portatori. Ciò che ancora deve forse trovare una risposta soddisfacente e generalizzata e l’esigenza di una decisa coesione di intenti e di azione, al fine di ridare spazio, visibilità e significatività a tale presenza, nel contesto di una popolazione, nella sua grande maggioranza negra o mulatta. Quello che infatti a tutt’oggi, sfortunatamente e paradossalmente, la nostra storia anche più recente ci porta a rilevare è che siamo un popolo razzista. La democrazia razziale e l’uguaglianza di condizioni tra le persone di razza e origine diverse sono obiettivi ancora lontano dal considerarsi conseguiti.
Giocando con le statistiche
Durante il 20 Forum Globale sullo Sviluppo Umano, che si è svolto a Rio de Janeiro nel settembre dello scorso anno, l’economista Marcelo Paixào ha presentato i seguenti dati: “Se l’Indice di Sviluppo Umano (IDH) del Brasile tenesse conto solo dei dati della popolazione bianca, il paese occuperebbe il 480 posto nella graduatoria di 174 paesi elaborata dall’ ONU. Questo significa che, essendo attualmente al 74 posto, il Paese salirebbe di 26 livelli nella lista ONU, se i negri godessero delle stesse condizioni di vita dei bianchi. Per converso, se si analizzassero solo le informazioni su reddito, istruzione e speranza di vita alla nascita di negri e meticci, l’IDH nazionale cadrebbe alla 108 posizione”. La nostra popolazione negra e meticcia vive in condizioni peggiori di quella dell’Africa del Sud, paese che solo recentemente è uscito dal regime, condannato internazionalmente, dell’apartheid.
Ultimo paese a liberare gli schiavi nelle tre Americhe, la società brasiliana si porta appresso fino ad oggi i pesante retaggio dell’antico regime di sfruttamento razziale. Liberi, ma senza diritti, gli ex-schiavi formavano, già all’inizio del XX secolo, la grande massa dei brasiliani esclusi. Si diceva che in Brasile non c’era razzismo, solo per il fatto che i negri non erano considerate neanche persone. Oggi, nonostante qualche piccolo progresso, la situazione è ancora largamente insoddisfacente.
I dati forniti dal censimento del 2000 dimostrano una volta di più che negri e meticci
costituiscono la grande massa delle vittime dell’ingiustizia in questo regime di disuguaglianze sociali. In Brasile, i discendenti degli africani sono tra coloro che risultano aver la minore possibilità di accesso agli studi, mentre rappresentano statisticamente la maggior parte dei disoccupati, degli involontari ospiti dei penitenziari e dei senza tetto. Inoltre, nel mondo professionale, a parità di mansioni con i lavoratori di altre razze, sono coloro che percepiscono i salari inferiori.
Chi libera chi?
Ricordo che quando ero giovane e cominciavo a lavorare con la Pastorale della Terra, fui invitato una sera a cena da un’amica francese e da sua madre, una signora finissima, ma molto semplice e discreta. Il pasto prevedeva verdure, un pane delizioso e alcuni formaggi il cui profumo e sapore non mi attiravano più di tanto. Ad un certo punto, nel bel mezzo della conversazione, l’anziana signora mi chiese a bruciapelo: “Domani è il 13 maggio. Che cosa pensa della principessa Isabella e del suo gesto di firmare la legge che aboli la schiavitù in Brasile?”
Senza esitare, risposi che la principessa l’aveva deciso più per risolvere una crisi di governo che per una qualche preoccupazione circa le condizioni dei negri e per una sua volontà di liberarli. La signora mi disse allora: “La principessa era mia zia
Ebbi tempo di riprendermi dalla sorpresa e dalla vergogna di aver commesso un’indelicatezza, quando lei aggiunse: “Sono d’accordo con lei. La liberazione dei piccoli non viene mai da re o regine. Nella migliore delle ipotesi questi possono essere alleati, ma solo il povero può liberare il povero”.
Da allora sono passati molti anni, ma nelle orecchie mi risuona ancora la voce di quella signora francese, più lucida e aperta a una lettura critica della realtà di molti libri di Storia della nostra scuola.
Oggi, nei campi come nelle città, la schiavitù continua. Non è necessario chiedersi il colore della pelle dei bambini che, a migliaia, sono ancora schiavizzati nelle carbonaie del Minas Gerais o del Mato Grosso, per constatare che in questo Brasile dell’ “imperatore Fernando Il” (Henrique Cardoso) non è entrata in vigore neanche la “Lei do Ventre Livre” (1).
Se anche Dio è bianco
Sul piano della fede e della spiritualità, ci sono ancora molti cristiani che riservano lo spazio delle rivelazioni di Dio alle formulazioni che di esse sono state date in contesto bianco e occidentale, come se anche Dio fosse razzista. Si alimenta un immaginario religioso in cui Dio è bianco, Gesù ha gli occhi azzurri e il diavolo è un negro, con corna e coda di animale. Alcuni gruppi ecclesiali predicano che la cultura negra é in se stessa sottosviluppata e idolatrica e accusano le religioni giunte qui dall’Africa di essere culti demoniaci.
Eppure, la verità è che oggi, con l’eccezione delle Chiese ortodosse orientali, tutte le altre Chiese hanno la maggioranza dei loro fedeli nel sud del mondo, in primo luogo in Africa e in America Latina. Ma i leader di queste chiese e le loro espressioni teologiche e pratiche sono assolutamente occidentali e bianche.
Le Chiese saldino il loro debito
Più specificamente, le Chiese cristiane hanno un debito pesante con le culture e le religioni afro-brasiliane. Con l’eccezione di alcune voci profetiche, la Chiesa nel suo insieme, fu connivente con il crimine rappresentato dal sistema schiavista e, in diversa misura, beneficiò di questa istituzione perversa, arrivando ad elaborare argomenti teologici che intendevano giustificarla.
Ciò nonostante, le comunità negre riuscirono a resistere, rafforzarono le loro espressioni culturali e religiose ed oggi sono in grado di offrirci una profonda spiritualità comunitaria, legata alla madre terra e alla natura, incentrata nella gioia di vivere (axé) e nella dignità di tutti i figli e le figlie di Dio.
Al di là delle religioni autonome, come il Candomblé, molti gruppi negri, che hanno ereditato la fede cristiana, la vivono e la esprimono originalmente, a partire dalla loro propria cultura. Fa parte della vittoria sul razzismo essere capaci di esprimere la fede, come brasiliani e meticci che siamo, e rispettare le diverse manifestazioni culturali e religiose degli altri come genuine ricerche di Dio e “rivelazione” del suo Spirito. Sant’Agostino diceva che nessuno cercherebbe Dio se Egli non l’avesse già attirato a sé. Uno sguardo davvero spirituale è capace di vedere la presenza di Dio in tutti i cammini. Il mio amato maestro, Dom Hélder Càmara diceva: “Le mie vie, le mie strade non hanno margini, non hanno inizio né fine” (2).
In questo inizio di terzo millennio è necessario che le Chiese saldino il loro debito con queste culture e religioni, convertendosi dall’arroganza con cui, in passato, le discriminarono e impegnandosi a valorizzarle, come esse meritano. Potranno essere, cosi, più profondamente vere le parole cantate dalle nostre comunità: “Arriverà, si, arriverà, un nuovo giorno, un nuovo cielo, una nuova terra, un nuovo mare. E in questo giorno, gli oppressi, ad una sola voce, canteranno libertà”.
1) Letteralmente “Legge del Ventre Libero” Si tratta della legge approvata il 28/9/1871, in forza della quale venivano dichiarati liberi i figli degli schiavi nati a partire da quella data.
2) dom Hélder Camara, Mil razoes para viver, Rio de Janeiro, Civilizaçao Brasileira, 1978.