Oggi viviamo nella società del rumore: un rumore assordante, non solo esteriore, ma anche interiore, i cui effetti si riflettono negativamente sulla persona, rendendola spiritualmente vuota e superficiale (1).
A cominciare dall'influsso dei mezzi di comunicazione sociale che sono diventati lo strumento più potente di formazione e di socializzazione degli individui. Sono riusciti a sostituirsi in gran parte alla Chiesa, alla famiglia, alla scuola e ai partiti come istanza di trasmissione e formazione di cultura.
L'invasione dell'informazione soffoca gli individui e la rapidità con cui si succedono le notizie impedisce qualsiasi riflessione duratura. La persona vive nella sovrasaturazione delle informazioni, dei reportages, della pubblicità e dei réclame. La sua coscienza è afferrata da tutto e da nulla, eccitata da ogni genere di impressioni e impatti, e allo stesso tempo, indifferente a quasi tutto.
Estremamente significativo è l'impatto della televisione. Nel giro di pochi anni è diventata una gran fabbrica di consumo sociale e di alienazione collettiva. La televisione detta le idee e le convinzioni, i centri di interesse, i gusti e le attese della gente; produce immagini e lascia da parte i concetti, sviluppa il semplice atto del guardare e atrofizza la capacità di riflessione, attribuisce il primato all'insolito sul reale, allo spettacolo sulla meditazione. Sempre più essa cerca di distrarre, di influire, di accaparrarsi l'audience. Si cerca l'emozione in diretta, la novità dell'insperato, la sorpresa dello scoop, il sensazionale.
Uno dei tratti maggiormente visibili della società dei consumi è la profusione di prodotti, servizi ed esperienze. L'abbondanza favorisce la molteplicità delle scelte. La gamma di prodotti e dei modelli esposti nei centri commerciali e nei supermercati è sempre maggiore. L'ipersollecitazione, lo stimolo dei bisogni, la profusione delle possibilità costituiscono parte integrante della società moderna.
E non si tratta solo di questo. La seduzione si traduce nel processo generale che tende a regolare i consumi, i costumi, l'educazione e l'organizzazione della vita. È la nuova strategia che sembra voler regolare tutto. L'individuo non è solo sollecitato da mille stimoli. Tutto è presentato come tentazione e a portata di mano. Tutto è possibile. Basta saper sfruttare le occasioni.
Si tratta dell'impero dell'effimero. La società moderna è guidata dalla moda, non dalla religione, dalle ideologie e dagli ideali politici. È la moda il principio che organizza la vita quotidiana degli individui e i prodotti socio-culturali. Essa detta i cambiamenti dei gusti, valori, tendenze e costumi.
Dire moda vuol dire istituzionalizzazione dei consumi, seduzione dei sensi, cambiamento veloce delle forme, proliferazione di nuovi modelli, creazione su ampia scala di bisogni artificiali, organizzazione sociale dell'apparenza, generalizzazione dell'effimero. Si coltiva il gusto del nuovo e del diverso, più che del vero e del buono. Le coscienze si muovono all'insegna del superficiale e del caduco.
Viene meno la passione per le grandi cause e cresce l'entusiasmo per il passeggero. Schiavo dell'effimero, l'essere umano non conosce più niente di stabile e consistente sul quale costruire l'esistenza.
La cultura moderna diventa così una cultura della non trascendenza che vincola la persona al qui e adesso facendola vivere per l'immediato, senza bisogno di aprirsi al mistero. È una cultura del divertimento che sradica la persona da se stessa facendola vivere nella dimenticanza dei grandi problemi che ogni essere umano porta nel cuore. In contrasto con la massima agostiniana «Non uscire da te stesso; dentro di te abita la verità», l'ideale più diffuso è di vivere fuori di se stessi.
Non è facile vivere il vuoto creato dalla superficialità della società moderna. Senza vita interiore, senza uno scopo e senza un significato, l'individuo è in balia di ogni genere di impressioni passeggere, è indifeso di fronte a ciò che può aggredirlo dal di fuori o dal di dentro. È normale allora che cerchi esperienze che riempiano il vuoto che ha dentro o, almeno, che lo rendano più sopportabile. Una delle vie più facili di fuga è il rumore.
Viviamo nella civiltà del rumore. Poco alla volta il rumore si è impadronito delle strade e dei focolari, degli ambienti, delle menti e dei cuori. C'è un rumore esterno che inquina lo spazio urbano generando stress, tensione e nervosismo. Un rumore che è parte integrante della vita moderna, sempre più lontana dall'ambiente sereno della natura.
Ma c'è anche un altro rumore contro cui non si lotta, ma che anzi si cerca. La persona superficiale non sopporta il silenzio. Aborrisce il raccoglimento e la solitudine. Ciò che cerca è il rumore interiore per non ascoltare il proprio vuoto: parole, immagini, musica, chiasso. In questo modo è più facile vivere senza ascoltare nessuna voce interiore, essere occupato in qualcosa per non trovarsi con se stessi; fare rumore per non ascoltare la propria solitudine.
È significativo il fenomeno della esplosione musicale nella società moderna. L'uomo d'oggi ascolta musica dalla mattina alla sera. La musica e il ritmo sono diventati il contesto costante di non pochi. Si ascolta musica sul lavoro e al ristorante, in macchina, in autobus e in aereo, mentre si legge o si fa sport. Si vive la musica continua. È come se l'uomo d'oggi sentisse il bisogno segreto di rimanere fuori di sé, di essere trasportato, di sentirsi immerso in un ambiente stimolante e inebriante, con la coscienza piacevolmente anestetizzata.
La persona senza profondità
Niente di meglio per conoscere gli effetti devastanti di questa cultura del rumore e della superficialità che cercare di delineare, sia pur brevemente, i tratti e il profilo della persona che essa tende a produrre.
Il rumore dissolve l'interiorità; la superficialità l'annulla. L'individuo entra in un processo di disinteriorizzazione e di banalizzazione. La persona senza silenzio vive al di fuori, alla corteccia di se stesso. Tutta la sua vita si esteriorizza. Senza contatto con l'essenziale di sé, vincolato a tutto questo mondo esterno in cui è immerso, l'individuo resiste alla profondità, non è capace di addentrarsi nel proprio mondo interiore. Preferisce continuare a vivere una esistenza priva di trascendenza in cui l'importante è divertirsi, continuare a stare immerso nella schiuma delle apparenze, funzionare senza anima, vivere solo di pane, rimanere morto interiormente anziché esporsi al pericolo di vivere nella verità e pienezza. Lo diceva già a suo tempo Paolo VI: «Noi uomini moderni siamo troppo estroversi, viviamo fuori della nostra casa, e abbiamo persino perduto la chiave per potervi rientrare».
Il rumore e la superficialità impediscono di vivere in base a un nucleo interiore. La persona si disgrega, si atomizza e si dissolve. Le manca un centro unificatore. È condotta e portata da tutto ciò che, dal di fuori o al di dentro, la trascina in una direzione o nell'altra. L'esistenza si fa sempre più instabile, mutevole e fragile. È impossibile la consistenza interiore. Non ci sono mete né riferimenti basilari. La vita si trasforma in un labirinto. Occupata da mille cose, la persona si muove e agita in continuazione, ma non sa da dove viene né dove va. Frantumata in mille pezzi dal rumore, dalla supersollecitazione, dalla seduzione dei sensi, dai desideri e dalle urgenze, non trova più un filo conduttore che orienti la sua vita, una ragione profonda che sostenga e dia respiro alla sua esistenza.
È normale allora vivere orientati verso l'esterno. L'individuo senza silenzio non si appartiene, non è pienamente padrone di se stesso. Vive al di fuori. Rivolto verso l'esterno, incapace di ascoltare le ispirazioni, i desideri più nobili che sorgono nel suo intimo, si comporta come un robot programmato e guidato dall'esterno. Senza lo sforzo interiore e senza la premura per la vita dello spirito non è facile essere veramente liberi. Lo stile di vita imposto oggi dalla società dissocia le persone dall'essenziale, impedisce la loro crescita integrale e tende a costruire esseri servili e volgari, pieni di banalità e senza originalità alcuna. Molti sottoscriverebbero l'oscura descrizione di G. Hurdin: «L'uomo sta diventando incapace di volere, di essere libero, di giudicare da sé, di cambiare il proprio stile di vita. È diventato un robot disciplinato che lavora per guadagnare denaro che poi sfrutterà per delle vacanze collettive. Legge le riviste di moda, ascolta i programmi televisivi che tutti ascoltano. Impara così che cosa è, cosa vuole, come deve pensare e vivere. Il cittadino robot della società dei consumi perde la sua personalità».
L'uomo pieno di rumore e di superficialità non può conoscere direttamente se stesso. Glielo impedisce un mondo sovrapposto di immagini, rumori, occupazioni, contatti, impressioni e réclame. L'individuo non conosce la propria realtà autentica; non ha orecchio per ascoltare il proprio mondo interiore; e nemmeno lo sospetta. Il rumore crea confusione, disordine, agitazione, perdita di armonia e di equilibrio. La persona non conosce la quiete e la tranquillità. L'ansia, le premure, l'attivismo, l'irritazione si impadroniranno della sua vita. L'uomo d'oggi ha imparato tante cose ed è superinformato su quanto avviene, ma non sa la strada per conoscere se stesso.
L'uomo superficiale e immerso nel rumore non può comunicare con gli altri a partire dalla propria verità più essenziale. Rivolto verso l'esterno, vive paradossalmente chiuso nel proprio mondo, in una condizione che qualcuno ha chiamato egocentrismo estroverso, sempre più incapace di stabilire contatti vivi e amichevoli; con il cuore indurito dal rumore e dalla frivolezza, vive allora difendendo il suo piccolo benessere sempre più intoccabile, sempre più triste e annoiato. La società moderna tende a plasmare individui isolati, vuoti, riciclabili, incapaci di un vero incontro con gli altri, poiché incontrarsi è molto più che vedersi, ascoltarsi, toccarsi, sentirsi e unire i corpi. Stiamo creando una società di uomini e donne solitari che si cercano reciprocamente per fuggire dalla propria solitudine e dal proprio vuoto, ma che non cercano di incontrarsi. Molti non conosceranno mai l'esperienza di amare e di essere amati.
Sordità all’ascolto di Dio
È stato detto che il problema dell'uomo non religioso è essenzialmente un problema di rumore. Probabilmente in questa affermazione c'è molta verità. Il rumore e la superficialità non solo rendono difficile ma impediscono anche l'apertura alla trascendenza, e senza questa apertura non c'è vera fede né religione, per quanto possa sembrare.
Chi vive interiormente stordito da ogni genere di rumori e in balia a mille impressioni passeggere, senza mai fermarsi davanti all'essenziale, difficilmente incontra Dio. Come potrà percepire la sua presenza se vive fuori di sé, separato dalla propria radice, ripiegato sul suo piccolo benessere? Come ascolterà la sua voce se vive in mezzo al rumore, nella dispersione e frammentazione, in funzione dei propri gusti anziché di un progetto più nobile di vita? Come potrà, senza ascolto interiore, intuire che «l'uomo è un essere con un mistero nel cuore, più grande di lui stesso?» (H. von Balthassar).
V. Frankl parla della presenza nascosta di Dio nel cuore di tanta gente il cui rapporto con lui è rimasto come represso. Essendo immerse in una vita pragmatica e superficiale che impedisce loro di giungere con un po' di profondità nell'intimo del proprio essere, la loro apertura a Dio rimane repressa e atrofizzata. Ad esse interessa solo la soddisfazione immediata e il benessere a qualsiasi costo. Non rimane spazio per Dio.
Nella società moderna, Dio è oggi per molti non solo un Dio nascosto ma un Dio impossibile da incontrare. La loro vita trascorre ai margini del mistero. Niente è importante fuori del loro piccolo mondo. Dio è sempre più una parola senza contenuto, un'astrazione. Ciò che è veramente trascendentale per loro è riempire questa breve vita di benessere e di esperienze piacevoli. Questo è tutto. Allora, forse, rimane posto solo per un Dio diventato un articolo di consumo di cui si cerca di disporre secondo le proprie convenienze e il proprio interesse, ma non per il Dio vivo, rivelato in Gesù Cristo, che suscita adorazione, gioia e azione di grazie.
La cultura del rumore e la superficialità finisce con l'erodere perfino la fede di non pochi cristiani la cui vita trascorre senza esperienza interiore, che conoscono Dio solo per sentito dire. Uomini e donne che ascoltano parole religiose e compiono riti senza mai abbeverarsi alla fonte. Battezzati che non hanno sentito parlare dello Spirito Santo, poiché niente e nessuno li aiuta a percepire la sua presenza illuminante, amichevole, consolante nel profondo del loro cuore. Gente buona, ma in balia del clima sociale dei nostri giorni, che continua a compiere le pratiche religiose, ma non conosce il Dio vivo che rallegra l'esistenza e infonde le forze per vivere.
Oggi si continua a parlare di Dio, ma sono pochi coloro che cercano ciò che si nasconde dietro a questa parola. Si parla di Cristo, ma niente di decisivo si risveglia nei cuori. Si potrebbe persino dire che avere fede sembra dispensare dall'avventura di cercare il volto di Dio. A volte tutto si riduce a una religiosità interessata, poco cresciuta e attaccata quasi sempre a immagini e stili di vita impoveriti del passato. Nella società del rumore e della superficialità tutto è possibile: pregare senza comunicare con Dio, comunicare senza comunicare con nessuno, celebrare la liturgia senza celebrare niente. Forse è sempre stato così, ma oggi più che mai tutto favorisce il rischio di questo cristianesimo senza interiorità che Marcel Legaut ha chiamato l'epidermide della fede.
La mancanza di silenzio davanti a Dio, di ascolto interiore, la disattenzione allo Spirito stanno portando la Chiesa a una mediocrità spirituale generalizzata. Karl Rahner riteneva che il vero problema della Chiesa oggi sta nel "continuare ad andare avanti con una rassegnazione e un tedio sempre più grandi lungo i solchi abituali della mediocrità spirituale". Allora serve poco rafforzare le istituzioni, salvaguardare i riti, custodire l'ortodossia o immaginare nuove imprese evangelizzatrici. È inutile pretendere dal di fuori con l'organizzazione, il lavoro e la disciplina ciò che può nascere solo dall'azione dello Spirito nei cuori. Viviamo una mediocrità che diffondiamo in tutti con il nostro modo impoverito e superficiale di vivere il mistero cristiano. È sufficiente accennare ad alcuni segni.
Nella Chiesa c'è attività, lavoro pastorale, organizzazione, pianificazione, ma spesso si lavora con una mancanza allarmante di attenzione all'interiore, cercando un tipo di efficacia immediata e visibile, come se non esistesse il mistero e la grazia.
La riforma liturgica postconciliare ha restituito l'importanza centrale e la dignità alla celebrazione, ma non si giunge molte volte a sentire e gustare le cose internamente (Ignazio di Loyola). Si celebrano meglio i riti esterni e si pronunciano parole in una lingua comprensibile, ma a volte tutto sembra avvenire fuori delle persone. Si canta con le labbra, ma il cuore rimane assente; si ascolta la lettura biblica ma non si ascolta la voce di Dio; si risponde puntualmente a colui che presiede, ma non si innalza il cuore per la lode; si riceve la comunione, ma non si realizza una comunicazione viva col Signore.
Riempiamo la celebrazione di rumore e la svuotiamo di unzione. Abbiamo introdotto monizioni, avvisi, parole, canti, strumenti musicali, ma manca la serenità per celebrare dal di dentro. Le persone cambiano di posizione senza cambiare di atteggiamento interiore. I sacerdoti predicano e i fedeli ascoltano, ma, a volte, tutti escono di chiesa senza avere ascoltato il maestro interiore. E quasi sempre continuiamo a coltivare una preghiera piena di noi stessi e vuota di ascolto di Dio.
Silenzio contemplativo
La vita monastica è chiamata oggi a riscoprire in modo nuovo, in questa cultura del rumore e della superficialità, questo valore così essenziale e tanto suo che è il silenzio contemplativo e l'ascolto di Dio.
Non sono pochi gli uomini e le donne che cominciano a sentirsi insoddisfatti. Risulta loro difficile vivere senza uno scopo e un significato profondo. Non basta passarsela bene. Ci vuole qualcosa di più, un soffio nuovo, un'esperienza diversa che salvi dal vuoto, dalla delusione e dall'assurdo di una esistenza così superficiale. Molti sono stanchi di vivere una vita così insignificante. Chiedono qualcosa che non è la scienza né la tecnica, né la moda né il consumo, e nemmeno la dottrina o i discorsi religiosi. In modo spesso confuso e inconsapevole, cercano un'esperienza di salvezza, un incontro nuovo con la realtà più profonda della vita. Chi gli indicherà il cammino? Questa società ha bisogno di testimoni e cercatori di silenzio e di ascolto interiore. Uomini e donne che indichino con la loro vita una forma nuova di esistenza ancorata all'essenziale.
Sarebbe perciò un errore e un peccato se oggi la vita monastica si chiudesse nel suo piccolo mondo, fatto anch'esso di altri rumori e tensioni, di altre seduzioni e superficialità, e si dimenticasse di questa società che mai ha avuto bisogno come oggi di maestri e maestre di vita. Le comunità monastiche sono chiamate a essere nella società contemporanea spazi di silenzio, luoghi dove si può percepire la sapienza del raccoglimento, l'armonia dell'essenziale, la quiete dello spirito, il ritmo tranquillo. Comunità dove si vive un silenzio davanti a Dio. Solo in forza di questo silenzio potranno poi pronunciare parole, poche, profonde, giuste che invitano a una vita più piena e umana.
Ma come costruire oggi questo silenzio monastico? Come, soprattutto, coltivarlo e purificarlo dalle nuove fonti di rumore e di superficialità? Che silenzio proporre alla società contemporanea? Senza dubbio, la tradizione monastica offre elementi per un'adeguata risposta. Personalmente posso suggerire solo alcune semplici considerazioni tenendo presente la sensibilità contemporanea.
Silenzio e fascino per Dio
Il silenzio monastico non è solo silenzio esteriore. Non è insonorizzazione di uno spazio, controllo dei rumori molesti; non è nemmeno una tecnica terapeutica, una vita tranquilla, un contatto sereno con la natura. È prima di tutto silenzio da soli davanti a Dio. È un mettersi in contatto con le profondità del proprio essere, un tacere davanti all'immensità di Dio, un addentrarsi con fiducia nel suo amore insondabile, un rimanere immersi in questo mistero che non può essere né spiegato né proferito, ma solamente venerato e adorato. Il silenzio allora è un far tacere i rumori e le sollecitazioni che vengono dal di fuori, far tacere soprattutto il rumore del nostro io col suo corteggio di ambizioni, paure, forme di orgoglio e autocompiacenze, per non perdere la presenza oscura e nello stesso tempo luminosa e affascinante, ma sempre inconfondibile, amorosa e tenera di colui che esiste, sostiene e avvolge il nostro essere.
Il silenzio monastico non è un silenzio ateo. È un silenzio pieno di Dio. È un far tacere il mio essere davanti a lui per riconoscere umilmente la mia finitezza: io non sono tutto, non posso tutto, non sono la fonte né il padrone del mio essere. Tacere davanti a Dio è allora accettare di esistere in forza di questa realtà misteriosa; accogliere con fiducia questo mistero che è fondamento del mio essere; scoprire con gioia che c'è qualcosa di più, al di là di tutto, qualcosa che mi trascende ma è sempre qui, che fonda e sostiene la realtà; sapere che posso vivere di questa presenza fondante.Questo radicamento in Dio non dovrebbe forse essere il tratto più caratteristico del silenzio monastico in una società superficiale che separa tante persone da questa realtà suprema che è il fondamento del loro essere?
Ma il silenzio monastico oggi deve essere inoltre un fascino per Dio. Il silenzio di chi si sente affascinato, sedotto, attratto dal mistero di Dio. Il silenzio di chi ha scoperto che in Dio è rinchiusa quella verità a cui tanto aspira il cuore umano. Egli è l'unico che può curare questo vuoto ultimo dell'uomo, che niente e nessuno può colmare. Il monaco lo sa. Ha incontrato ciò di cui si può vivere. E non lo abbandonerà per nulla e per nessuno. Rimarrà in colui che è la fonte di tutta la vita. Questo fascino per Dio è decisivo in questa epoca di ipersollecitazione e seduzione dei sensi.
Da qui derivano altri tratti che, a mio giudizio, devono configurare oggi il silenzio monastico. In questa società di consumo delle cose e di profusione di offerte, il monaco non cerca qualcosa nel suo silenzio, cerca la presenza dell'amato. Non gli chiede nulla. Non chiede cose. Vuole lui. Stare accanto a lui. Vivere con lui. Per dirlo in certo modo e usando termini forse più seducenti oggi, si tratta di toccarlo, di sentire in noi la sua vita piena di calore, godere e soffrire la sua presenza amata, sentirlo nascosto nell'intimo del nostro essere. In questa epoca di moda piena e di continuo cambiamento, sembra che per il monaco sia arduo e costoso uscire da questo silenzio. Certamente anche il monaco sentirà la sua fragilità e la sua incapacità di rimanere in silenzio davanti a Dio. Ma anche allora il fascino si tradurrà in rimpianto, desiderio e brama di Dio, senza diluirsi in una vita di dispersione nell'effimero.
Al centro di questo silenzio e come elemento che lo impregna sta l'amore. Per esprimerlo si sono impiegate molte espressioni: fiamma viva di amore; eccitazione cieca di amore, nudo impulso del desiderio, scoperta della musica silenziosa. Quanto più forte è l'amore tanto più profondo è il silenzio e più profondo il fascino. Con questo silenzio, vissuto spesso in modo povero e vacillante, la vita monastica introduce nella cultura attuale una rottura di livello che permette di vivere un'esperienza diversa che sta al di là di altre esperienze incentrate nell'utilità, nel pragmatismo, la seduzione, le mode o il consumismo. Stando in silenzio davanti a Dio, le comunità monastiche indicano l'eterno in un mondo che vive nel cambiamento continuo e la moda; sono segno del profondo in una società sommersa nell'effimero e nel superficiale; sono testimoni dell'unico assoluto in una cultura rivolta verso il molteplice e il non trascendente. Queste comunità silenziose, rivolte verso Dio, mettono in questione, interpellano, inquietano ed evangelizzano il mondo contemporaneo.
Silenzio che guarisce la persona
Il silenzio monastico è chiamato oggi a mostrare di essere capace di ricostruire la persona e farla vivere in maniera più degna e umana. La società moderna ha bisogno di vedere che è possibile trovare un fondamento stabile e un significato ultimo all'esistenza, che è possibile guarire dal vuoto e dalla frivolezza, dalla separazione e dalla solitudine interiore. In concreto, le comunità monastiche dovrebbero mostrare che il silenzio contemplativo è fonte e cammino di approfondimento, integrazione e liberazione interiore.
Il monaco e la monaca non sono degli esseri strani o anormali. Sono semplicemente dei credenti che hanno imparato o stanno imparando ad assaporare la vita alla fonte. La vita della comunità monastica deve far vedere come si può vivere oggi alla radice dell'esistenza, come è possibile liberarsi dalla superficialità moderna vivendo a contatto con l'essenziale, come si possono utilizzare le nuove tecnologie senza cadere nell'alienazione, come servirsi delle conquiste del progresso senza rimanere schiavi delle mode, come essere bene informati senza lasciarsi pervadere dal rumore dei mezzi moderni di comunicazione, come vivere, lavorare ed essere in relazione con la vita moderna senza perdere la gioia interiore e la pace.
Ma, non dimentichiamolo, ciò che il monaco apporta non è una tecnica terapeutica in più, un metodo di relax, un cammino di autoconoscenza, una ricetta fra le tante che offre oggi il mercato. Con le sue diverse tradizioni e i diversi cammini di spiritualità contemplativa, la vita monastica mostra alla società moderna le possibilità di umanizzazione che il silenzio davanti a Dio e la docilità al suo Spirito contengono.
È lo Spirito di Dio accolto in silenzio che fa vivere nella verità, colui che insegna a gustare la vita in tutta la sua profondità, a non dissiparla in qualsiasi maniera, a non passare superficialmente davanti all'essenziale. È lo Spirito di Dio che conduce soavemente a trovare un'armonia nuova e un ritmo più santo. Questo Spirito fa crescere la nostra libertà interiore e ci apre a una comunicazione nuova e profonda con Dio, con noi stessi e il prossimo. Questo Spirito ci lavora in silenzio liberandoci dal vuoto interiore e dalla solitudine, e ci dona la capacità di dare e ricevere, di amare ed essere amati nella verità. Questo Spirito ci rigenera, ci fa rinascere ogni giorno e ci permette di cominciare sempre di nuovo nonostante la fatica, il peccato e il logorio del vivere quotidiano.
È proprio questa forza del silenzio contemplativo che trasforma e risana, che la vita monastica deve oggi testimoniare e trasmettere. Vivere in silenzio davanti a Dio vuol dire lasciare che penetri fin nel più profondo del nostro essere per cominciare, liberi dalle nostre inutili chiacchiere, dalle nostre menzogne e autogiustificazioni, a conoscerci nella luce della sua verità. Stando in silenzio davanti a lui, scopriamo la nostro piccolezza e povertà, la nostra superficialità e il nostro vuoto; sentiamo il bisogno di verità, di amore, di vita e di libertà; ci sentiamo bisognosi di perdono e di trasformazione. Stare in silenzio davanti a Dio è un pentirsi di quasi tutto e, allo stesso tempo, rendere grazie di tutto poiché davanti a Dio scopriamo anche la nostra grandezza di creature da lui infinitamente amate, trasformate e salvate dal suo amore. Chi vive in silenzio davanti a Dio scopre che "le misericordie del Signore non sono finite, non è esaurita la sua compassione; esse son rinnovate ogni mattina… Buono è il Signore con chi spera in lui, con l'anima che lo cerca. È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore" (Lam 3,22-26).
Silenzio di ascolto dell'essere umano
Chi vive in silenzio davanti a Dio scopre il mondo, la vita, le cose, l'esistenza intera con una luce nuova. Il suo sguardo si fa più profondo e amoroso. Non si ferma solo all'anedottico e al superficiale. Centrato in Dio e dimentico di se stesso, non si sente estraneo a nessuno e nessuna cosa. È capace di abbracciare interiormente con pace e amore fraterno l'universo intero. È capace di ascoltare il canto della creazione e di unirsi alla lode che da essa si innalza a Dio.
Ma, soprattutto, nel silenzio con Dio, impara ad ascoltare e amare gli uomini e le donne. In forza di questo silenzio è più facile cogliere tutto ciò che di buono, bello, degno, grande c'è nella vita umana. Ed è più facile anche ascoltare le sofferenze e il dolore di coloro che vivono e muoiono senza conoscere l'amore, l'amicizia, il focolare e il pane di ogni giorno. Il vero silenzio rende il contemplativo più sensibile alle paure, alle aspirazioni e alle speranze degli uomini. È la sua esperienza di Dio che lo porta ad amare profondamente la comunità umana.
Questo silenzio deve portare oggi i monaci e le monache ad ascoltare, a partire da Dio, la società moderna. Tacere interiormente è la prima condizione per ascoltare e amare in verità l'altro. È il silenzio davanti a Dio e a partire da Dio che deve dare ai monaci e alle monache la capacità di contemplare il mondo con amore, a guardare alla Chiesa con tenerezza e comprensione, ad aprire i loro cuori e le loro comunità all'accoglienza. Solo le persone che hanno fatto silenzio interiormente sanno accogliere; solo le persone che vivono in silenzio davanti a Dio, senza parlare a se stesse dei propri timori, egoismi e compiacenze, sanno accogliere. Solo le persone interiormente libere dalle chiacchiere, dal rumore, dalla superficialità e dalla confusione sono capaci di amare con profondità poiché sanno amare a partire da Dio.
Per questa ragione, se la comunità contemplativa vive assorbita dalle sue tensioni e dai suoi conflitti, dimentica i problemi della società; quando ascolta solo i propri interessi, cessa di ascoltare il grido di coloro che soffrono; se vive in maniera leggera e superficiale, si mette in relazione col mondo in maniera leggera e superficiale. In una parola, quando una comunità è il centro di se stessa, nella stessa misura cessa di amare Dio e di amare la comunità umana.
Le comunità contemplative dovranno far tacere i loro rumori, dimenticare i propri interessi, non dar retta ai propri giudizi e alle condanne affrettate, se vogliono ascoltare, rispettare, comprendere e amare l'uomo e la donna dei nostri giorni. Per la comunità monastica, saper ascoltare e accogliere in silenzio è una delle forme più appropriate di stare vicino al mondo e di amarlo.
Un cammino di silenzio e di ascolto
In forza di questo atteggiamento di accoglienza, la comunità monastica è chiamata oggi a proporre il cammino del silenzio e dell'ascolto. Non a partire dall'autosufficienza, ma dalla propria debolezza e vulnerabilità; non dall'isolamento, ma dalla vicinanza e dalla ricerca condivisa di una vita più degna per tutti. Proporre il silenzio in questa società significa far conoscere un progetto di vita, un orientamento, un senso e sottoporlo alla libera decisione dell'altro, il quale può accoglierlo o rifiutarlo. Questa oggi probabilmente è una delle grandi missioni del monachesimo: proporre il silenzio e l'interiorità come invito che nasce dall'amore a Dio verso ogni essere umano.
Suggerire l'interiorità
Chi ha ricevuto la grazia del silenzio deve metterla a servizio degli altri (cf 1Pt 4,10). La sua vita, la sua parola, la sua presenza deve essere un invito costante a vivere attingendo a questa fonte. La gente d'oggi, abituata a vivere esteriormente, avvezza a intrecciare relazioni superficiali e marginali, ha bisogno di conoscere l'esperienza di un incontro più profondo con testimoni che insegnino che cosa significhi pellegrinare nel profondo del cuore per incontrarsi con la propria verità.
Questa società ha bisogno di testimoni che ricordino a tutti questa verità tanto semplice quanto decisiva: qualunque sia la rotta che tiene il mondo, nessuno troverà la vita vera, l'aiuto e la salvezza al di fuori della sua povera anima malandata ma inabitata dallo Spirito di Dio. Solo qui si trova la via della rigenerazione, si apprende l'essenziale, la liberazione dalla confusione, la crescita della libertà.
È certo che dal di fuori non si può insegnare a nessuno il silenzio come non si può insegnare a credere e ad amare, ma si può orientare e attirare le persone ad addentrarsi con pace nel loro mondo interiore. Il monaco e la monaca a contatto con le persone e i gruppi che si avvicinano al monastero non dovrebbero dimenticare ciò che sant'Agostino diceva ai suoi ascoltatori: «Non pensate che si possa imparare qualcosa da un uomo. Possiamo attirare la vostra attenzione col suono della nostra voce, ma se non c'è dentro qualcuno che vi insegna, questo suono sarà inutile».
Il monaco non solo suggerisce il cammino dell'interiorità, ma invita anche a percepire la presenza di Dio che continua a offrirsi silenziosamente a ciascuno. Un Dio che non interroga né risponde con parole umane, ma che è lì, nell'intimo di ogni persona e l'invita a vivere del suo amore; chi non lo incontra nel proprio cuore, difficilmente lo troverà nella società del rumore e della superficialità. Il monaco non invita a qualsiasi tipo di raccoglimento. Invita a scoprire questo spazio interiore in cui la persona può incontrarsi con Dio e, a partire da lui, cominciare a dare un senso alla vita, un fondamento e un orizzonte nuovo. Per non pochi cristiani che si stanno allontanando dalla pratica religiosa, il silenzio e l'ascolto interiore possono essere la via più breve per aprirsi al Dio nascosto dal momento che il vero silenzio purifica, risveglia il desiderio di verità e dispone all'ascolto sincero di Dio.
Più ancora. Non sono pochi i cristiani che hanno paura del silenzio e della meditazione perché hanno paura di Dio. Nelle loro coscienze è rimasta l'immagine di un Dio che vigila, fa giustizia e condanna, che si ha paura di incontrare. Un Dio che non attira né affascina, ma che fa fuggire. La vita monastica deve mostrare chiaramente che soltanto il silenzio cristiano può essere vissuto senza tradire la propria esistenza, come un'esperienza gioiosa di amore. Come afferma W. Johnston, «la contemplazione cristiana è l'esperienza di essere amati e di amare al livello più profondo della vita psichica e dello spirito». Stare in silenzio con Dio è sapersi amati. Proprio da questo sentirsi amati deriva l'equilibrio del contemplativo e la profondità della sua esistenza: "io sono amato incondizionatamente non perché sono buono, santo e senza peccato, ma perché Dio è buono e santo". Dio accetta l'essere umano – anche quello dei nostri giorni – con le sue contraddizioni e incoerenze, il suo peccato e la sua mediocrità, il suo vuoto, la sua superficialità e incostanza. Chi si avvicina a lui con questa fede fiduciosa, si sente amato e accolto, non cade nella disistima di sé né in un senso di colpa malsano. Sono molti i cristiani che hanno bisogno di conoscere un'esperienza nuova di Dio per imparare a stare gioiosamente con lui, passando dalla paura all'amore, da un atteggiamento difensivo alla consegna di sé fiduciosa, dall'autocondanna all'accettazione del perdono.
Il monaco cristiano è chiamato, inoltre, a esercitare una funzione critica verso una certa religiosità che coltiva un'interiorizzazione di carattere fusionale, che alcuni psicanalisti non esitano a definire di struttura simbolico–materna. Si tratta di una religiosità che spersonalizza Dio, elimina l'alterità e la distanzia dalla sua realtà suprema e chiude la persona nell'individualismo, facendole confondere la dimensione psicologica con quella spirituale, l'emozione con la profondità interiore, la quiete con la comunione con Dio. La vita monastica cristiana deve proporre oggi, di fronte ad altre tradizioni ed esperienze, un silenzio che apra al Dio vivo rivelato e incarnato in Gesù Cristo. Un silenzio che non è immersione nell'abisso indeterminato della divinità o esperienza dell'energia che governa il cosmo, ma dialogo con un Dio Padre che ci offre il suo amore personale in Gesù Cristo. Perciò, il silenzio cristiano del monaco non è illuminazione della coscienza (risvegliare il Budda, scoprire l'atman), ma comunicazione fiduciosa e azione di grazie al Dio trinitario; non è relax psichico-fisico ma ascolto della Parola di Dio e della sua chiamata alla trasformazione e alla conversione evangelica.
Invito all'ascolto interiore
La vita monastica non è forse chiamata oggi, come sempre, a mettere in guardia e scuotere la Chiesa dalla sua mediocrità? Di Elia profeta che si pose davanti al monte di Jahvè e scoperse che la sua presenza non era né nel vento impetuoso, né nel terremoto, né nel fuoco ma nel sussurro di un vento leggero (1 Re 19,9-13), il Siracide dice che diventò un profeta la cui parola bruciava come fiaccola (Sir 48,1) . Non possiamo forse oggi contare su profeti che ci dicano che Dio non sta nel vento impetuoso, nella forza, nel potere sopraffattore e nell'arroganza, non sta nel terremoto, nell'agitazione, nel rumore e nelle parole, non sta nel fuoco, nella lotta, nell'ardore e nella passione, ma nel vento leggero del silenzio e dell'ascolto dello Spirito?
La Chiesa contemporanea parla molto. Parla il papa e parlano i vescovi, parlano i predicatori e i catechisti, parlano gli esegeti e i teologi. La Chiesa parla, insegna, contesta, consiglia, esorta…, ma quando e dove ascolta Dio? Quando si mette in atteggiamento umile e sincero davanti al suo unico Signore? Noi che parliamo tanto di Dio, quando e come cerchiamo veramente colui che sta dietro a questa parola? I teologi, quando parlano a partire dalla loro esperienza interiore? Quando godono e soffrono la presenza di Dio nella loro vita? Come può la gerarchia pronunciare tante volte il nome di Dio senza che nulla di decisivo avvenga nella sua vita? Come si possono scrivere e leggere tante opere di spiritualità senza che lo Spirito faccia ardere maggiormente i nostri cuori? Non stiamo forse diventando dei ciechi che pretendono di guidare altri ciechi, sordi che pretendono di far sentire la parola di Dio ad altri sordi?
Voi che avete ricevuto il carisma del silenzio contemplativo dovete interpellare la Chiesa contemporanea, dovete invitarci al silenzio e all'ascolto interiore, dovete ricordarci le parole di sant'Agostino: «Perché ti piace tanto parlare e così poco ascoltare?… Colui che insegna davvero, sta dentro; al contrario, quando tu insegni, esci da te stesso e te ne esci fuori. Ascolta prima colui che parla dentro e, dal di dentro, poi parla a chi sta fuori».
Intanto, noi che sappiamo poco di tutto questo e parliamo di ciò che ignoriamo, dovremmo ricordare con gratitudine ciò che dice Dio nel libro di Isaia: «Mi feci ricercare da chi non mi interrogava, mi feci trovare da chi non mi cercava. Dissi: "Eccomi, eccomi"» (Is 65,1-2).
José Antonio Pagola
1) Questo testo riprende, con qualche abbreviazione, in particolare nella prima parte, una relazione tenuta da José Antonio Pagola, direttore dell'Istituto di Teologia Pastorale di San Sebastián (Spagna) alla XXVIII Settimana di studi monastici, svoltasi nel santuario di Loyola dal 12 al 18 settembre 2003, con la partecipazione di circa 140 monache e monaci di tutta la penisola iberica.