Vita nello Spirito

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Un racconto. “Un uomo dell’Estremo Nord cerca una via di sfogo al proprio sentimento, non distrutto né del tutto avvelenato da decenni di vita alla Kolyma. L’uomo spedisce per via aerea un plico: non libri, fotografie o versi, ma un ramo di lance, un ramo morto della natura vivente. A Mosca mettono questo strano regalo – il ramo di un albero artico, colore marrone chiaro, secco, raffreddato dai venti della traversata aerea, avvizzito, strapazzato nel vagone postale, severo e scarno – nell’acqua. Lo mettono in un barattolo da conserva, riempito con la caustica acqua dorata e disinfettata dell’acquedotto di Mosca, un’acqua che, si direbbe, è ben contenta di far disseccare ogni cosa che vive: la morta acqua dei rubinetti di Mosca. (…) Passano tre giorni e tre notti e la padrona di casa viene svegliata da uno strano, vago odore di resina, debole, sottile, nuovo. Nella ruvida pelle legnosa si sono aperti e sono apparsi distintamente gli aghi – freschi, giovani e vitali, dal colore verde – i nuovi germogli”. (Varlam Šalamov, La resurrezione del larice)

Nei vangeli ritroviamo diversi racconti pasquali della risurrezione di Gesù. Ogni evangelista sviluppa una particolare prospettiva teologica e narrativa. Quello che qui cerchiamo di fare è di tratteggiare alcuni di questi elementi. In particolare, ci soffermiamo su alcuni segni utilizzati per parlare della risurrezione di Gesù attraverso le diverse narrazioni evangeliche.

L’evento della risurrezione non può essere descritto in se stesso. È un evento che si colloca oltre il tempo e lo spazio. I vangeli cercano di rappresentare le conseguenze di questo evento. Innanzi tutto, vengono tratteggiati gli scenari che si aprono a livello di esperienza come discepoli e discepole del Signore. In seguito, ci sarà, nelle Lettere e negli altri scritti neotestamentari, lo sviluppo teologico dell’evento-risurrezione. I vangeli contengono una variegata prospettiva di segni che ci presentano lo svelamento della risurrezione di Gesù.

Il primo segno che manifesta la risurrezione di Gesù è quello della tomba vuota. I quattro vangeli, seppure in modo differente, raccontano della scoperta da parte delle donne della tomba vuota. Esse si erano recate alla tomba di Gesù con olii aromatici per imbalsamarne il corpo, ma la trovano aperta e vuota. Tutti e quattro i vangeli riportano il segno della tomba vuota, con differenze tra le diverse narrazioni. Nel vangelo di Marco – quello più antico – è l’unico segno riportato nel testo originale (cioè il testo precedente alla redazione del “finale lungo”). Questo segno precede tutte le apparizioni di Gesù.

Il segno della tomba vuota si presta a molteplici interpretazioni. Perché la tomba è vuota? Il corpo di Gesù è stato rubato? I Vangeli stessi parlano di dicerie secondo cui il corpo di Gesù sarebbe stato trafugato dalla tomba. Sono i capi dei sacerdoti che suggeriscono ai soldati di guardia di affermare: “I suoi discepoli sono venuti di notte e l'hanno rubato, mentre noi dormivamo” (Mt 28,11-15).

L’Occidente non ama il “vuoto”, segno sempre di una mancanza, di una deficienza. E con l’espressione horror vacui (orrore del vuoto) si vuole indicare la necessità di riempire, ad esempio, la superficie di un’opera d’arte. “La natura rifugge il vuoto” (Aristotele) è una teoria che domina in gran parte della nostra cultura. Di solito la parola ed il concetto di vuoto hanno un significato negativo. Stomaco vuoto, mente vuota, vita vuota, senso di vuoto… Per fare qualche esempio. Ed anche l’idea di una tomba vuota, finisce con l’assumere un significato immediatamente negativo.

Ben diversa è invece la concezione Orientale del vuoto – che mantiene sempre un senso positivo. Qui nel suo significato più immediato esso viene ad indicare la condizione di possibilità di tutti gli eventi, di tutte le cose. Una casa sarebbe inutilizzabile senza il vuoto delle porte e delle finestre. Un vaso, un bicchiere, una bottiglia o un contenitore sarebbero sprovvisti di utilità senza il vuoto al loro interno. In questa concezione il vuoto non corrisponde con il non-esserci delle cose. Esso viene ad indicare l’origine e la condizione di possibilità della realtà. Il segno della tomba vuota si inscrive, quindi, non nella mancanza, ma nell’ordine delle possibilità.

Ma il tema della tomba vuota rimanda al qōdesh haqǒdāshīm, (“le cose sante tra le sante” - sancta sanctorum), la parte più interna del Tempio di Gerusalemme. Qui vi erano custodite le tavole della legge e l’arca dell’alleanza. Vi poteva entrare solamente il gran sacerdote una volta all’anno (nel giorno del kippur). Quando il generale Tito – figlio dell’imperatore romano Vespasiano e che alla morte del padre diventerà a sua volta imperatore – nel 70 d.C. conquista Gerusalemme dopo un lungo assedio ed una guerra durata cinque anni, egli vuole vedere cosa contiene la parte più sacra del Tempio, per la quale gli ebrei hanno combattuto così strenuamente e hanno dato la vita. Ormai circondato dalla distruzione e dalle fiamme, penetra nella cortina delimitata dalla tenda, ma rimane deluso e sconcertato: nella stanza più sacra non c’è nulla, non c’è nessun simulacro. La stanza del Dio d’Israele è vuota!

Come la presenza di Dio in mezzo al suo popolo è rappresentata da una stanza vuota così la nuova presenza del Cristo risorto in mezzo ai suoi discepoli è significata dalla tomba vuota!

Nel corso di questa narrazione alle donne viene rivelato da un messaggero (un giovane, un angelo, due uomini o due angeli, a seconda del vangelo) che Gesù è risuscitato. Bisogna tenere presente che a quei tempi esisteva una concezione restrittiva della donna. A tal proposito erano comuni detti come questi:

- una donna ha solo da imparare a servirsi del fuso;

- ciò che deve fare una donna è stare in casa;

- chiunque discorre molto con una donna, si fa del male;

- le parole della Legge vengano distrutte dal fuoco piuttosto che essere insegnate alle donne.

E nella preghiera mattutina ogni buon ebreo (maschio) lodava Dio per non essere nato pagano, donna e contadino (cioè incapace di osservare la Legge).

Tra le tante limitazioni a cui la donna era soggetta c'era anche quella relativa all'autorevolezza della sua parola. La testimonianza di una donna non aveva alcun valore giuridico. Nella concezione ebraica una testimonianza era valida se resa da almeno due testimoni che dicessero la stessa cosa (cfr. il racconto di Susanna in Daniele 13), ma i testimoni dovevano essere maschi. Nei racconti pasquali, le donne sono le prime testimoni della risurrezione di Gesù. Diventano quelle che portano il primo annuncio agli apostoli. Sono qui le apostole degli apostoli! È un paradosso. Quelle che non hanno alcun valore giuridico, la cui testimonianza non conta niente, diventano le prime messaggere della risurrezione. A loro viene fatto il primo annuncio della risurrezione e sono loro a portare il primo annuncio della risurrezione.

Abbiamo poi il segno del giardiniere (Gv 20,15). Maria Maddalena non riconosce lo sconosciuto nel giardino e lo scambia per il contadino che accudisce il campo. In realtà non si tratta di una distrazione della Maddalena. Gesù risorto è rappresentato come il giardiniere, il custode, del nuovo Eden – il giardino paradisiaco. Con l’evento della risurrezione si ha il ripristino della condizione originale. Non solo. Nella bibbia, soprattutto nei profeti, troviamo ricorrente l’immagine di Israele come vigna del Signore. “La vigna del Signore è la casa di Israele” (Is 5,7). L’immagine del contadino, ortolano che pianta e ha cura della vigna è ricorrente per descrivere il comportamento di Dio nei confronti del suo popolo. Il Cristo risorto appare alla Maddalena nelle vesti del Signore che ha cura del suo popolo. Soltanto dopo questa prima immagine il riconoscimento di Cristo si fa personale.

Un altro segno della risurrezione di Gesù lo abbiamo nel racconto dello sconosciuto che si accosta lungo la via a due discepoli confusi e delusi. Siamo di fronte ad una delle pagine più belle dei vangeli. Nel racconto dei due discepoli di Emmaus, Luca (cap. 24) mette in scena una delle manifestazioni del Gesù risorto. Conosciamo bene il racconto. Questi due discepoli avevano sperato… ma ora, sconfortati e sfiduciati, se ne ritornano a casa. La missione è finita. Tutto è ormai perduto. Nel dolore si fa loro compagno di viaggio uno sconosciuto. Ed iniziano a discutere delle Scritture. Un tratto di strada di poche miglia si fa lungo poiché essi giungono alla locanda che è già sera. Nel gesto dello spezzare il pane i due discepoli riconoscono il loro Maestro.

Nel segno del pane spezzato che rimane sulla tavola si manifesta il Signore risorto (che non è più fisicamente visibile per i due discepoli). Gesù è presente accanto ai discepoli finché resta sconosciuto, ma scompare nel momento in cui si rivela. Ancora una volta siamo di fronte ad un paradosso: la “presenza” resta sconosciuta mentre la “rivelazione” si comunica in un’“assenza”.

Ma il racconto va oltre. Accogliere uno sconosciuto lungo la via, invitarlo alla propria mensa, condividere il pane con lui, si trasforma nella possibilità di accogliere il Maestro. Questo antico racconto si rivela così essere sempre attuale. Nella parabola del giudizio finale l’evangelista Matteo esemplifica i modi nei quali i discepoli “riconoscono” (o no) il loro Maestro risorto. “Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito?” (Mt 25,37). Per i discepoli lo sconosciuto, il forestiero, l’altro, non è mai tale poiché diventa il segno della presenza del Cristo risorto.

Il vangelo di Giovanni mette in campo un altro racconto nel quale Gesù non è riconosciuto dai propri discepoli. Questo episodio si svolge sulle rive del lago di Genezaret e si parla di una pesca abbondante, miracolosa. I discepoli intenti a pescare riconoscono nello sconosciuto sulla riva il loro Maestro risorto. Ma il riconoscimento non avviene attraverso il senso della vista. Infatti, “nessuno dei discepoli osava domandargli: “Chi sei?”, perché sapevano bene che era il Signore” (Gv 21,12). Lo svelamento del risorto avviene per mezzo della fede, nel rinnovo del pasto eucaristico.

Del segno delle ferite ne abbiamo già in un testo precedente a cui rimandiamo (link: i segni delle ferite). “Gli dissero allora gli altri discepoli: “Abbiamo visto il Signore!”. Ma egli disse loro: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò” ” (Gv 20,25). Qui la fede nel risorto passa attraverso il riconoscimento della passione e della morte del Signore. Il discepolo Tommaso riconosce il suo Signore nelle ferite del corpo e della carne. Sono proprio le ferite del corpo a svelare la divinità del Cristo e a rappresentare il segno della sua risurrezione. Il Risorto si rivela a Tommaso come l’Uomo dei dolori e delle ferite.

L'angelo disse alle donne: “Voi non abbiate paura! So che cercate Gesù, il crocifisso. Non è qui. È risorto, infatti, come aveva detto; venite, guardate il luogo dove era stato deposto. Presto, andate a dire ai suoi discepoli: È risorto dai morti, ed ecco, vi precede in Galilea; là lo vedrete”” (Mt 28,5-7). Qui il segno della risurrezione è la Galilea delle genti. È là che i discepoli potranno vedere il Risorto.

La Galilea delle genti. Galilea significa propriamente “distretto delle genti”. Le genti – i gentili – erano i pagani: non appartenevano al popolo ebraico. Era un crocevia di lingue e etnie diverse. Una società meticcia, un mescolamento di culture e tradizioni. E tuttavia: “il popolo immerso nelle tenebre ha visto una grande luce; su quelli che dimoravano in terra e ombra di morte una luce si è levata” (Mt 4,16). È qui che Gesù ha iniziato il suo ministero. Ed è qui che i discepoli possono incontrare il Cristo risorto. Il vangelo di Matteo offre una nuova chiave di lettura: il Risorto di svela nella missione dei discepoli. Anzi. L’immagine trasmessa è che Cristo precede la missione dei discepoli. Egli è sempre un po’ più in là. “Non è qui”. È in Galilea. Ora.

Il segno della Galilea obbliga ad uscire da noi stessi. Dai posti dove siamo soliti vivere e che conosciamo bene. Il Risorto ci sta aspettando in un altrove che non è questo, per camminare con noi. Non è qui che dobbiamo cercare il Risorto. Egli attende, sotto una veste inattesa, proprio là ove non ce lo aspettiamo. Non in strade nuove, ma che non abbiamo ancora avuto il coraggio di percorrere...

Il segno della croce. E veniamo al segno più paradossale della risurrezione di Gesù. Lo troviamo in particolare nel vangelo di Giovanni. “E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me. Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire” (Gv 12,32-33). L’Innalzato è, nel medesimo momento, il Risorto ed il Crocifisso. Perché unico è il mistero e l’evento della passione e risurrezione di Gesù. Il momento della morte è anche il momento della risurrezione! Ed anche da risorto le ferite restano ben visibili.

La crocifissione di Gesù è un innalzamento. Egli viene esposto ben in vista per diventare per tutti salvezza e benedizione. La croce è momento di gloria poiché è gloria d’amore. Qui Dio non si rivela nella potenza, ma nella debolezza della morte. "Attrarre" (in greco elko) significa "attirare con forza". È l’attrazione di una calamita. Ma questo avviene senza violenza, bensì per mezzo di una forza interiore, affascinando. Come la croce attrae mostrandosi, così il risorto si rivela attraverso il compimento della sua morte.

Anche per il vangelo di Marco il momento della morte di Gesù è momento rivelativo: “Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: Davvero quest'uomo era Figlio di Dio!” (Mc 15,39). Tutto il vangelo di Marco è intessuto intorno a domande relative a chi fosse Gesù. Chi è costui? Perché parla in questo modo? Come può compiere prodigi? Ecc. Domande che restano a lungo sospese. Esse sono intramezzate da due professioni di fede. La prima è quella di Pietro (8,27-38). La seconda è questa del centurione pagano nel momento della morte. Dalla bocca del centurione risuona la testimonianza di fede in Gesù che nel momento della morte si rivela anche come il Risorto. Morte e risurrezione sono un unico evento di fede.

Molti sono i segni della risurrezione di Gesù. Ma tutti sono momenti della fede della comunità dei/lle discepoli/e del Signore.

Il terzo giorno…

Due che se ne vanno verso la campagna

Tre che comprano oli aromatici

Sette che si mettono a pescare durante la notte

Undici che se ne stanno rinchiusi per paura

Il dito da mettere nella ferita

Le vesti abbandonate in un angolo

Una pietra ritrovata fuori posto

Quelle che portano con sé profumi e unguenti

Altri che pensano siano soltanto vaneggiamenti

Quella che era stata liberata dai suoi mali

Quelle che tenevano il volto chinato a terra

Quelli che erano fuggiti

Quello che era nudo

Un giovane vestito d’una bianca veste

Due che corrono verso una tomba

Due che abbandonano in fretta il sepolcro

Quelle che si domandano il senso di tutto questo

Quelle che ricordano tutte le parole

Quello scambiato per un giardiniere…

 

Faustino Ferrari

 

 

Domenica delle Palme o della Passione del Signore - Anno C

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura Is 50, 4-7

Dal libro del profeta Isaia
 

Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo,
perché io sappia indirizzare
una parola allo sfiduciato.
Ogni mattina fa attento il mio orecchio
perché io ascolti come i discepoli.
Il Signore Dio mi ha aperto l'orecchio
e io non ho opposto resistenza,
non mi sono tirato indietro.
Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,
le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;
non ho sottratto la faccia
agli insulti e agli sputi.
Il Signore Dio mi assiste,
per questo non resto svergognato,
per questo rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di non restare confuso.


Salmo Responsoriale Sal 21

Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?

Si fanno beffe di me quelli che mi vedono,
storcono le labbra, scuotono il capo:
«Si rivolga al Signore; lui lo liberi,
lo porti in salvo, se davvero lo ama!».

Un branco di cani mi circonda,
mi accerchia una banda di malfattori;
hanno scavato le mie mani e i miei piedi.
Posso contare tutte le mie ossa.

Si dividono le mie vesti,
sulla mia tunica gettano la sorte.
Ma tu, Signore, non stare lontano,
mia forza, vieni presto in mio aiuto.

Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli,
ti loderò in mezzo all'assemblea.
Lodate il Signore, voi suoi fedeli,
gli dia gloria tutta la discendenza di Giacobbe,
lo tema tutta la discendenza d'Israele.

Seconda Lettura Fil 2, 6-11


Dalla  lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi

Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l'essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall'aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!»,
a gloria di Dio Padre.
 
Canto al Vangelo (Fil 2,8-9))


Lode e onore a te, Signore Gesù!

Per noi Cristo si è fatto obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome.

Lode e onore a te, Signore Gesù!

Vangelo Lc 23,1-49 (Forma breve)
 
Dal Vangelo secondo Luca


- Non trovo in quest'uomo alcun motivo di condanna
In quel tempo, tutta l'assemblea si alzò; condussero Gesù da Pilato e cominciarono ad accusarlo: «Abbiamo trovato costui che metteva in agitazione il nostro popolo, impediva di pagare tributi a Cesare e affermava di essere Cristo re». Pilato allora lo interrogò: «Sei tu il re dei Giudei?». Ed egli rispose: «Tu lo dici». Pilato disse ai capi dei sacerdoti e alla folla: «Non trovo in quest'uomo alcun motivo di condanna». Ma essi insistevano dicendo: «Costui solleva il popolo, insegnando per tutta la Giudea, dopo aver cominciato dalla Galilea, fino a qui». Udito ciò, Pilato domandò se quell'uomo era Galileo e, saputo che stava sotto l'autorità di Erode, lo rinviò a Erode, che in quei giorni si trovava anch'egli a Gerusalemme.

- Erode con i suoi soldati insulta Gesù
Vedendo Gesù, Erode si rallegrò molto. Da molto tempo infatti desiderava vederlo, per averne sentito parlare, e sperava di vedere qualche miracolo fatto da lui. Lo interrogò, facendogli molte domande, ma egli non gli rispose nulla. Erano presenti anche i capi dei sacerdoti e gli scribi, e insistevano nell'accusarlo. Allora anche Erode, con i suoi soldati, lo insultò, si fece beffe di lui, gli mise addosso una splendida veste e lo rimandò a Pilato. In quel giorno Erode e Pilato diventarono amici tra loro; prima infatti tra loro vi era stata inimicizia.

- Pilato abbandona Gesù alla loro volontà
Pilato, riuniti i capi dei sacerdoti, le autorità e il popolo, disse loro: «Mi avete portato quest'uomo come agitatore del popolo. Ecco, io l'ho esaminato davanti a voi, ma non ho trovato in quest'uomo nessuna delle colpe di cui lo accusate; e neanche Erode: infatti ce l'ha rimandato. Ecco, egli non ha fatto nulla che meriti la morte. Perciò, dopo averlo punito, lo rimetterò in libertà». Ma essi si misero a gridare tutti insieme: «Togli di mezzo costui! Rimettici in libertà Barabba!». Questi era stato messo in prigione per una rivolta, scoppiata in città, e per omicidio. Pilato parlò loro di nuovo, perché voleva rimettere in libertà Gesù. Ma essi urlavano: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!». Ed egli, per la terza volta, disse loro: «Ma che male ha fatto costui? Non ho trovato in lui nulla che meriti la morte. Dunque, lo punirò e lo rimetterò in libertà». Essi però insistevano a gran voce, chiedendo che venisse crocifisso, e le loro grida crescevano. Pilato allora decise che la loro richiesta venisse eseguita. Rimise in libertà colui che era stato messo in prigione per rivolta e omicidio, e che essi richiedevano, e consegnò Gesù al loro volere.

- Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me
Mentre lo conducevano via, fermarono un certo Simone di Cirene, che tornava dai campi, e gli misero addosso la croce, da portare dietro a Gesù. Lo seguiva una grande moltitudine di popolo e di donne, che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui. Ma Gesù, voltandosi verso di loro, disse: «Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli. Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: "Beate le sterili, i grembi che non hanno generato e i seni che non hanno allattato". Allora cominceranno a dire ai monti: "Cadete su di noi!", e alle colline: "Copriteci!". Perché, se si tratta così il legno verde, che avverrà del legno secco?».
Insieme con lui venivano condotti a morte anche altri due, che erano malfattori.

- Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno
Quando giunsero sul luogo chiamato Cranio, vi crocifissero lui e i malfattori, uno a destra e l'altro a sinistra. Gesù diceva: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno».
Poi dividendo le sue vesti, le tirarono a sorte.

- Costui è il re dei Giudei
Il popolo stava a vedere; i capi invece lo deridevano dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l'eletto». Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell'aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c'era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei».

- Oggi con me sarai nel paradiso
Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L'altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».

- Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito
Era già verso mezzogiorno e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio, perché il sole si era eclissato. Il velo del tempio si squarciò a metà. Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». Detto questo, spirò.

(Qui si genuflette e si fa una breve pausa)

Visto ciò che era accaduto, il centurione dava gloria a Dio dicendo: «Veramente quest'uomo era giusto». Così pure tutta la folla che era venuta a vedere questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornava battendosi il petto. Tutti i suoi conoscenti, e le donne che lo avevano seguito fin dalla Galilea, stavano da lontano a guardare tutto questo.

OMELIA

In questa domenica detta ‘domenica delle palme’, come si sa, si fa memoria dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme nel suo ultimo viaggio nella città santa. Alla notizia del suo arrivo, i presenti, entusiasti, stendono mantelli sul terreno sventolando e agitando i rami tagliati degli alberi, palme appunto.
L’immagine è icastica: Gesù entra trionfante a Gerusalemme, seduto sul dorso d’un asinello.
Per lui ha inizio l’ultima settimana di vita. Infatti a Gerusalemme vi rimarrà cinque giorni. Al ‘sesto giorno’ lo uccideranno. Al settimo entrerà nel buio del sepolcro, per risorgere l’ottavo giorno.
Questa cadenza temporale altro non è che la narrazione di una ‘nuova creazione’.
Si è passati dalla ‘creazione dell’uomo’ – avvenuta secondo il libro della Genesi il sesto giorno – alla sua ri-creazione compiutasi con la morte e resurrezione di Gesù, il nuovo Adamo.
Ora la domanda che s’impone è questa: in che senso, in che modo, la morte e resurrezione di Gesù ha permesso questa ricreazione dell’umanità intera?
La narrazione classica – e ufficiale – della Chiesa ci è nota: la morte di Gesù sulla croce – come Agnello di Dio, e dunque vittima sacrificale – ci ha riconciliato con Dio una volta per tutte. Questa ‘verità’ teologica ci ha plasmato fin dal catechismo, con affermazioni come queste:
_ “Tu ci hai redenti (ri-uniti con Dio, riacquistati, ricondotti alla sua amicizia…) con la tua morte e risurrezione”. (Dalla liturgia eucaristica)
_ “Dalle sue piaghe (dal suo sacrificio) siamo stati guariti” (1Pt 2, 25)
_ “Ecco l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo…” (Dalla liturgia eucaristica)
E si potrebbe continuare per pagine e pagine…
L’idea che è passata nel cristianesimo, cattolico, protestante o ortodosso che sia, è che l’evento-croce di Gesù sia di per sé salvifico. Che è la presunta morte-sacrificale di Gesù ad averci riconciliato con suo padre, un dio adirato con noi; e che quest’ira possa essere placata solo col sangue nientemeno del suo unico e amato ‘figlio’ (nella tradizione ebraica questa presunta riconciliazione avveniva almeno con la morte di capi di bestiame -un capro (espiatorio) e un agnello).
Personalmente è da tempo che ho abbandonato questo modello teologico per leggere l’evento-croce di Gesù di Nazareth.
Non posso più starci dentro, da uomo di fede e per onestà intellettuale.
La croce non è per me il progetto concepito da un dio sadico che sacrifica ciò che ha di più caro – suo figlio – per ristabilire l’amicizia con la massa dannata degli uomini e delle donne colpevoli solo d’essere gli ‘esuli figli di Eva’. La croce non può essere l’altare dove si consuma – ad opera di un sedicente dio-amore – il male più assordante della storia seppur a fin di bene! Quel medesimo dio che stando alla rivelazione biblica fermò il coltello nella mano di Abramo pronta a sacrificargli il figlio Isacco.
Ma a questo punto la domanda si fa ancora più cogente. Cos’è dunque la croce; che cosa significa la morte di Gesù sulla croce? Anzitutto credo profondamente che la croce sia la destinazione (non il destino) dell’avventura amante dell’uomo Gesù. Non è la realizzazione di un progetto sadico ma l’ultima stazione dell’amore. La croce non è stata cercata, voluta, conseguita, agognata, ma la conseguenza storica, contingente, naturale del cammino intrapreso ‘in direzione ostinata e contraria’ dell’uomo di Nazareth. Gesù ha deciso di amare senza se e senza ma, e questo l’ha portato sul patibolo infame ad opera del potere -esclusivamente – civile e temporale del suo tempo.
Credo che occorra passare dunque dalla logica redentivo-sacrificale alla logica dell’asino.
L’entrata sul dorso di un asino, a livello simbolico è infatti potentissima. Gesù vince la morte in quanto ‘asino’, ovvero attraverso una vita all’insegna delle virtù innegabili di questo incredibile animale che diventano metafora: la mansuetudine, il servizio disinteressato, la condivisione dei pesi altrui (cfr. Gal 6, 2) e una spiccata capacità di ascolto (le sue orecchie molto grandi). Gesù ha rifiutato di servirsi di un cavallo, l’animale di chi detiene il potere facendo uso della forza e della violenza.
Laddove vi è capacità di servire, si realizzerà il Regno di Dio: «Benedetto il Regno che viene», dice Marco 11, 9. Insomma, è la capacità di servire, di fare il bene che ci salva, porta compimento la nostra umanità, che ci fa fiorire!
Per questo occorre ‘slegare’ dentro di noi l’asinello (Mc 11, 2), ossia la nostra capacità di amare e di servire. Gesù è venuto proprio a tentare di sciogliere, slegare in noi questa capacità di prenderci cura dell’altro, di giocarci la vita in una modalità non mondana.
“Il Signore ne ha bisogno” di questo asino (v. 3). Egli ha bisogno del mio bene, ossia che si sciolga in me l’egoismo che mi blocca la vita, per effondere luce nel mondo facendo arretrare la tenebra del male. E stiamone certi: questo asinello il Signore ce lo rimanderà indietro subito (v. 3): l’amore che doniamo agli altri ci tornerà sempre indietro e in maniera sovrabbondante.
Il problema di fondo, è che noi amiamo il potere e la forza. Per questo preferiamo salire sul cavallo del vincitore di turno. All’asino mansueto, che si pone a servizio, preferiamo la violenza dei potenti, per ingrossare il nostro ego.
Siamo chiamati a realizzarci attraverso la via del bene e del dono, ma continuiamo a strizzare l’occhio al mondo, con la sua logica apparentemente vittoriosa, fondata sul potere, l’avere e il successo. Ma se incrociamo l’asino col cavallo rischiamo di stare al mondo come il mulo, semplicemente sterile.
Gesù entrò nella sua settimana di ‘compimento’ avendo come trono un asino, e la terminò su di un altro trono, la croce: segno, solo, dell’amore che va fino alla fine. E ora molta gente urla: “Osanna” che significa “Dio salva”. Sì, Dio salva così, con l’amore che non demorde, rinnegando il proprio io a favore dell’altro. E grida ancora: «Benedetto colui che viene…». Sì, perché l’Amore non può venire che in questa maniera, perché venisse in altro modo, con potenza e violenza, rinnegherebbe semplicemente sé stesso.

 
Paolo Scquizzato
 
Domenica, 06 Aprile 2025 09:15

I segni delle ferite (Faustino Ferrari)

Una storia. Lei è in cucina e sta preparando da mangiare per i suoi due bambini. Le sue mani impastano il pane, che metterà poi a cuocere nel forno. Il suo cuore è greve. Un muto dolore l’accompagna da giorni e giorni. Le pareti della casa sono adorne di miseria e povertà. Una povertà sempre più dura, con il marito che da troppo tempo non trova lavoro ed ora si vergogna anche solo a levare lo sguardo da terra.
La donna non s’avvede che, mentre impasta il pane, le sue lacrime scendono copiose sulle guance, andando a mescolarsi nell’impasto.
La mamma non sa dire ai figli, al momento del pranzo, cosa ci sia di particolare nel pane a renderlo così buono – gustoso come non mai.

Non siamo dei cloni. Né per quanto riguarda il nostro corpo né spiritualmente. Non siamo le copie – più o meno riuscite – di qualcun altro. “Diffidate delle persone che puzzano di perfezione, che la vita è fatta di sbagli e ferite” (Anna Magnani - attrice). E noi siamo quello che siamo grazie al nostro corpo – anche grazie alle rughe che accumuliamo e alle cicatrici impresse nella pelle e nell’anima. Grazie alle ferite subite e alle disgrazie patite. Ma anche grazie alla bellezza e alla gioia che sperimentiamo. Grazie alla felicità che c’è data di gustare in certi momenti. Grazie all’amore. Se non fossimo nati, se non ci fosse stato donato d’incarnarci nel nostro corpo, non avremmo conosciuto l’amore.

È vero. Nella vita non c’è dato di gustare solamente bei tramonti o cieli stellati, le meraviglie della natura ed il piacere d’amare e d’essere amati. Non conosciamo soltanto prestigio, riconoscimento e considerazione. Non siamo sempre circondati da stima ed apprezzamenti. La vita, lo sappiamo bene, è fatta anche d’abbandoni e di violenze subite, di torti e di conflitti, d’atti ingiusti e di risentimenti. Ci sono malattie inguaribili che minano il nostro corpo. Ci sono sofferenze che ci accompagnano. Dobbiamo fare i conti con conflitti che segnano la nostra vita. A volte sono conflitti con i familiari. Altre volte con colleghi di lavoro, con vicini di casa, con persone che conosciamo.

La televisione e gli altri mass media ci trasmettono immagini di catastrofi naturali, di guerre, di violenze. In ogni momento siamo raggiunti da cattive notizie. Notizie che ci fanno sentire ancora più fragili, più esposti agli eventi. Le conoscenze odierne ci hanno rivelato che siamo ben più fragili di quando, nel passato, ci si avvertiva consegnati alla balia d'eventi cosmici e di fenomeni naturali sconosciuti. Anzi, un tremendo potenziale distruttivo è ora consegnato alle nostre stesse mani. Basterebbe il dito premuto su di un bottone da parte di un presidente o di un generale folle ad innescare la furia distruttiva di una guerra nucleare. Questa nostra società, nella sua piena efficienza tecnologica, si mostra così contraddittoria e così vulnerabile…

Ci sentiamo, a volte, estranei al nostro stesso io, avvertiamo una perdita di senso in quello che facciamo. Abbiamo difficoltà a fare i conti con la fragilità del nostro corpo, con lo scorrere del tempo e con le occasioni mancate. Possiamo ritrovarci in ambienti che ci sono ostili e ci disprezzano – senza che ne capiamo la ragione. C’è la violenza e la brutalità che colpiscono le persone che ci sono più care. E c’è un male – gratuito ed iniquo – che s’accanisce con vittime innocenti fino a farci esclamare: “Dov’è Dio?”. Ci sono momenti in cui sembra che la speranza termini e ci sia posto soltanto per il dolore. E possiamo anche sentirci abbandonati non solo dagli uomini, ma anche da Dio…

E poi, l’esperienza dell’ospite indesiderata. Non attesa. Non voluta. E che giunge – all’improvviso o dopo lunga malattia. La morte che coglie tutti impreparati. Nel profondo del mare o nell’alto dei cieli. In terra deserta o tra le foreste. Con la peste e con l’uragano. Una tegola in testa mentre si passeggia per la via o travolti dall’auto all’uscita di scuola. Sull’asfalto della strada e nel gorgo di un torrente in piena. Tra i campi di grano, mentre si semina o si raccoglie e negli altiforni di una fonderia. Tra gli ingranaggi di una pressa o sotto le ruote di un muletto. Un ictus o un infarto al cuore. Una febbre repentina, una malattia perniciosa, una meningite…

L’immagine del cuore ferito diventa la metafora con la quale cerchiamo di esprimere i nostri insuccessi e la nostra fragilità, come anche le ferite e le cicatrici che accumuliamo nel corso dei giorni. Cose di cui nessuno di noi ne resta indenne. Avvertiamo, infatti, di avere un cuore ferito per causa d’alcune vicende della vita. Dai vari avvenimenti che hanno prodotto in noi amarezze, sconforto, dolori, sconfitte…

Quando in campo religioso e spirituale si parla di cuore, lo sappiamo bene, non bisogna semplicemente pensare all’organo racchiuso nel torace. A livello fisico è l’organo essenziale per la vita: è una pompa incessante che fa circolare il sangue nel corpo umano, perché ogni cellula riceva ossigeno e nutrimento. Il suo ritmo permea il nostro corpo, con caratteristiche proprie alla nostra personalità. Esso reagisce al nostro stato psicosomatico, accelerando o diminuendo i battiti.

Che cos’è il cuore – e cosa rappresenta – a livello simbolico? Il sentimento, l’unità, l’amore, l’unione, la carità, il legame, la sensibilità, l’umanità, la compassione, la bontà, la generosità, la pietà, la verità… Ma anche la sensualità, la passione, l’impulso, il coraggio… Senza dimenticare la sua dimensione sacrale, quale intimo luogo dell’incontro con Dio. Il cuore identifica il centro della persona. Ne diviene l'elemento rappresentativo. Si parla anche d’occhio del cuore e d’intelligenza del cuore, per indicare una comprensione spirituale più profonda. Come il sole è al centro del sistema solare, così è il cuore nel corpo umano, con le immagini del calore e della vita e nelle raffigurazioni con i raggi luminosi o con le fiamme.

Il cuore è l'organo centrale dei sensi interiori, il senso dei sensi, poiché ne è la radice. E se la radice è santa, lo saranno anche i rami” (Isacco di Ninive). Edith Stein ha scritto che “il cuore partecipa con più forza a ciò che sta accadendo nel profondo dell'anima, perché si sente il legame tra corpo e anima più chiaramente di qualsiasi altra parte”. Nel cuore, dunque, si collocano i nostri sentimenti più vivi e più profondi. È nel cuore che li percepiamo. Per Teresa d'Avila il luogo in cui dimora Dio è la settima stanza e questa stanza la si ritrova nella parte più profonda del cuore umano.

Gli dissero allora gli altri discepoli: “Abbiamo visto il Signore!”. Ma egli disse loro: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò” ” ( Giovanni 20,25). Il segno dei chiodi, il costato ferito dalla lancia. Tommaso offre la prima descrizione delle ferite di Cristo.

La quaresima, cammino verso la Pasqua, ci conduce a meditare sul mistero della passione e della morte di Cristo. Sulle sofferenze che ha subito e sulle ferite che ha patito. I vangeli descrivono alcune di queste violenze. La tradizione cristiana parla di cinque piaghe – cinque ferite. Le prime due ferite corrispondono ai punti dove i chiodi furono infissi: le mani e i piedi. La terza ferita è quella del costato, inferta dal colpo di lancia del soldato romano, per verificare che Gesù fosse effettivamente morto. La quarta ferita è rappresentata da quelle riportate sul capo dalla corona delle spine. Mentre i colpi di frusta hanno causato le ferite della quinta piaga

Nel nostro immaginario religioso l’apostolo Tommaso è identificato come il discepolo incredulo. Possiamo sprecare tutti gli aggettivi che vogliamo: è il dubbioso, lo scettico, il diffidente, l’incerto… Non gli basta l’annuncio di aver visto il Signore risorto da parte dei suoi compagni. In fondo, attraverso il veicolo di quest’immagine, è, tra i discepoli, quello che forse avvertiamo più vicino a noi. Anche noi siamo nutriti di dubbi e d’incertezze riguardo alla fede. Nel nostro cuore alberga una parte di non credente e ci riconosciamo nelle parole di Tommaso: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi…” (Gv 20, 25.). C’è un vedere a cui non basta vedere poiché deve essere pure accompagnato da un toccare.

La vista, infatti, può anche subire il traviamento dell’abbaglio. L’inganno di un singolo senso può essere maggiormente limitato se associato anche ad altri sensi e, in primo luogo, a quello maggiormente concreto: il tatto. Per coloro che sono privi di vista il tatto è, infatti, il senso che permette di compensare una parte del deficit visivo. Attraverso il toccare è possibile riconoscere il mondo circostante: le cose, gli oggetti, i volti… Ma è in ognuno di noi che esiste il bisogno di una concretezza, di una materialità, a cui non si può sfuggire. Quando nasciamo è il tatto a comunicarci l’amore e l’affetto, la cura e l’accudimento, il calore e la protezione… Sono le nostre prime esperienze – mediate dal tatto – e ci accompagnano per tutta la vita. Noi siamo anche il nostro corpo. Anche in quanto credenti.

Ma nella richiesta di toccare la carne ferita del Cristo siamo posti di fronte a ben altro che allo scetticismo di una persona nutrita dal dubbio. Perché la professione di fede di Tommaso, quel “Mio Signore e mio Dio!” (Gv 20, 28) non può più essere disgiunta dal riconoscimento della passione e della morte del Signore. Tommaso riconosce il suo Signore, ferito nel corpo e nella carne. Sono proprio le ferite del corpo a svelare la divinità del Cristo! Il Risorto si rivela a Tommaso come l’Uomo dei dolori e delle ferite.

La tentazione per un cristianesimo spiritualizzato, fatto di immagini – spesso sdolcinate e edulcorate – e dimentico di fisicità e corporeità, non ha fondamento. La grazia dei sacramenti ci viene comunicata sempre attraverso segni molto concreti: l’acqua, il vino, il pane, l’olio, l’imposizione delle mani… L’episodio vissuto dall’apostolo Tommaso ci consegna il valore di una fede estremamente tangibile. Ed anche se il discepolo non ha più bisogno di toccare le ferite del Risorto, nella sua vicenda esemplare ci viene trasmessa l’istanza originaria: il nostro comune, scandaloso bisogno di concretezza per credere. Il riconoscimento del Cristo glorioso per Tommaso passa attraverso i segni impressi nella carne del corpo. Questo racconto pasquale ci arricchisce così con un’ulteriore specificazione del mistero di una Parola che si è fatta carne. Nei segni delle ferite sta il nostro riconoscere il Risorto.

Non dobbiamo qui metterci nella prospettiva di una mistica del dolore o della sofferenza personale – che hanno avuto ampio sviluppo nella spiritualità cristiana occidentale, manifestandosi nel desiderio di tante persone devote a vivere partecipando alle sofferenze del Cristo. Nel chinarsi sulle ferite dell’anonimo viandante da parte del Samaritano della parabola (Lc 10, 29-37) ci viene mostrata la prospettiva per comprendere la dimensione della prassi cristiana. Il prendersi cura delle ferite dei fratelli e delle sorelle diviene, infatti, il segno più evidente del nostro riconoscere il Signore come il Risorto. I discepoli di tutte le generazioni, per credere non hanno più bisogno di vedere le ferite del Risorto perché è loro consegnata la cura delle ferite del prossimo che è accanto. Nel segno di queste ferite possiamo riconoscere la manifestazione divina – che è fragile poiché ci si consegna nella fragilità umana.

Una considerazione si muove dal racconto della Passione nel Vangelo di Giovanni, là ove alla testimonianza di chi ha assistito alla morte di Gesù in croce viene aggiunta quella della scrittura: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Gv 19,37). Gesù è colui che ha il cuore colpito, non solo metaforicamente, ma realmente. L’azione salvifica è comunicata attraverso lo sguardo che si volge a questo cuore trafitto, dal quale sgorgano sangue ed acqua, elementi simbolici del sacrificio dell’Agnello e della fecondità spirituale donata dallo Spirito. C’è un futuro che chiama in causa ogni generazione – anche noi – e non solo chi era presente in quel momento. Il testo greco invita a volgere lo sguardo dentro (eiς) il trafitto. Si tratta di un vedere che richiede d’entrare nell’interiorità di colui che è stato colpito dalla lancia. Si potrebbe dire: dentro il suo cuore. Siamo invitati a soggiornare nel cuore ferito di Cristo.

Padre Jean Claude Colin: “Ci disse anche di tenerci nel cuore di Nostro Signore e di trarre ogni nostra forza da questa dimora”. (Entretiens Spirituels 39,33).

Molte sono le cause che possono produrre in noi delle ferite. Ma l’esperienza di fede ci può svelare il volto amorevole di Dio come di Colui che guarisce i nostri cuori feriti. La missione del profeta Isaia testimonia questa intenzione. Dio, infatti, lo ha inviato “per fasciare quelli che hanno il cuore spezzato” (61,1). L’intera Bibbia può essere letta come una storia d’amore e di cura da parte di Dio, quale guaritore dei nostri cuori affranti. “Egli lo trovò in terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo circondò, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio” (Dt 32,10). “E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi, e non ci sarà più la morte, né cordoglio né grido né fatica, perché le cose di prima son passate” (Ap 21,4.). Tra la memoria dei giorni antichi e l’attesa del compimento delle promesse di Cristo si distendono le nostre esistenze. La consapevolezza di avere un cuore ferito si manifesta nel nostro consegnarsi a Lui, per essere risanati poiché questa nostra esperienza di Dio che ci guarisce trasforma la nostra esistenza.

Un’antica preghiera

Cristo non ha mezzi
ha soltanto il nostro aiuto
per condurre gli uomini a sé. (…)
Noi siamo l'unica Bibbia
che i popoli leggono ancora.
Siamo l'ultimo messaggio di Dio
scritto in opere e parole”
.

Dio si rivela come colui che è capace di guarire le nostre ferite, anche le più nascoste. Ma ciò avviene grazie anche a ciò che siamo in grado di mettere in campo nei confronti dei nostri fratelli e delle nostre sorelle. Attraverso la relazione, la solidarietà, la cura, la comprensione… Chi soffre si ritrova solo. Ma il messaggio evangelico sollecita la nostra sensibilità alla solidarietà con tutte le persone che sperimentano in sé angoscia e sofferenza. È un’esperienza che permette di comprendere e d’avvicinarsi all’esperienza di tanti altri. Ricordiamo le parole iniziali della Gaudium et Spes: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”.

Non c’è nulla di genuinamente umano che non trova eco nel cuore dei discepoli di Cristo. Il cuore di cui ci parlano gli autori spirituali è un cuore che si apre all’azione misericordiosa di Dio, al suo amore fecondo. Ed il segno più efficace di questa apertura si manifesta nelle opere: “Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo?” (Gc 2,14). Un cuore toccato dalla grazia (caris) divina non resta chiuso in se stesso, ma si apre, condividendo l’amore sperimentato in Dio con quello verso i fratelli e le sorelle (caritas), soprattutto i/le feriti/e dalle vicende della vita.

Meditare sulla passione di Cristo non è soltanto considerare i segni delle ferite e delle piaghe che egli ha subito. “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Gv 19,37), ricorda il vangelo. È una ferita che attraversa le nostre ferite. Questo nostro sguardo, oggi, non può restare unicamente fisso al Crocifisso. È uno sguardo che è chiamato a farsi capace di abbracciare anche i tanti altri crocifissi della storia: i tanti cuori feriti che possiamo incontrare nel nostro cammino verso la Pasqua.

Faustino Ferrari

 

 

 



Quinta domenica del Tempo di Quaresima - Anno C

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  Is 43,16-21

Dal libro del profeta Isaia
 

Così dice il Signore,
che aprì una strada nel mare
e un sentiero in mezzo ad acque possenti,
che fece uscire carri e cavalli,
esercito ed eroi a un tempo;
essi giacciono morti, mai più si rialzeranno,
si spensero come un lucignolo, sono estinti:
«Non ricordate più le cose passate,
non pensate più alle cose antiche!
Ecco, io faccio una cosa nuova:
proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?
Aprirò anche nel deserto una strada,
immetterò fiumi nella steppa.
Mi glorificheranno le bestie selvatiche,
sciacalli e struzzi,
perché avrò fornito acqua al deserto,
fiumi alla steppa,
per dissetare il mio popolo, il mio eletto.
Il popolo che io ho plasmato per me
celebrerà le mie lodi».


Salmo Responsoriale Sal 125

Grandi cose ha fatto il Signore per noi.

Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion,
ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso,
la nostra lingua di gioia.

Allora si diceva tra le genti:
«Il Signore ha fatto grandi cose per loro».
Grandi cose ha fatto il Signore per noi:
eravamo pieni di gioia.

Ristabilisci, Signore, la nostra sorte,
come i torrenti del Negheb.
Chi semina nelle lacrime
mieterà nella gioia.

Nell’andare, se ne va piangendo,
portando la semente da gettare,
ma nel tornare, viene con gioia,
portando i suoi covoni.

Seconda Lettura Fil 3,8-14


Dalla  lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi

Fratelli, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede: perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti.
Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù.
 
Canto al Vangelo (Gl 2,12-13)


Lode e onore a te, Signore Gesù!

Ritornate a me con tutto il cuore, dice il Signore,
perché io sono misericordioso e pietoso.

Lode e onore a te, Signore Gesù!

Vangelo Gv 8,1-11
 
Dal Vangelo secondo Giovanni


In quel tempo, Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro.
Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo.
Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani.
Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».

OMELIA

Siamo nel tempio di Gerusalemme, due schieramenti, da una parte gli scribi e i farisei, dall’altra ‘la misera e la misericordia’ (Agostino).
Da una parte i puri e duri, tutti dalla parte di Dio, dall’altra Gesù di Nazaret tutto dalla
parte dell’uomo. Per i primi Dio è somma giustizia. D’altra parte lo dice il testo sacro: «Se uno commette adulterio con la moglie del suo prossimo, l’adultero e l’adultera dovranno esser messi a morte» (Lv 20, 10). Dall’altra Gesù, per il quale nulla può venire prima dell’uomo, infatti dirà: il mio Dio è il Dio dei vivi e non dei morti (cfr. Mt 22, 32).
Una Legge, un testo sacro, una tradizione che in nome di Dio provoca anche solo
minimamente sofferenza all’essere vivente (ogni essere vivente) può essere solo frutto di menti malate e quindi partorito da una volontà umana e malvagia: «Invano essi mi rendono culto – dice Gesù – insegnando dottrine che sono precetti di uomini» (Mt 15, 9).
Gesù dinanzi a questa donna, «piccolo animale braccato, paralizzata da quegli uomini che l’hanno strappata dal letto dell’amante» (Françoise Dolto), sta in silenzio. Non giudica, perché l’Amore non giudica nessuno (cfr. Gv 5, 22). E, in questo quadro di morte e di rabbia, Gesù pare il solo ad essere interessato alla vita, alla storia, e al destino di questa povera donna.
Gesù invita a chiederci dinanzi a questo ‘animale braccato’ – simbolo di tutti i colpevoli della storia –: «Ma cosa ne sai di questa creatura? Cosa ne sai del suo mondo interiore, dei suoi sogni, dei suoi desideri profondi?». Merita la morte una donna costretta a sposarsi a dodici – tredici anni non per amore ma solo per soddisfare gli interessi economici della famiglia di origine? Merita la morte una donna il cui unico desiderio è la felicità e il compimento del proprio cuore?
Merita di morire dentro, chi ha fallito una relazione, chi s’è sbagliato sul proprio partner, sulla vita, sull’amore?
Gesù è solo l’incarnazione dell’Amore. E l’amore non condanna appunto, senza per
questo giustificare. Per Gesù l’essere umano è sempre più grande, ‘oltre’ ogni peccato, ogni legge, civile o ecclesiale che sia. L’alternativa è stare con la fazione dei puri e dalle mani piene di pietre, che come tutti gli integralisti di questo mondo odiano nell’altro ciò che non riescono ad accogliere di sé. Gesù è il Dio che si è messo dalla parte dell’umano sancendo la fine della Legge (cfr. Rm 10, 4), perché per lui una sola è legge che vale, quella della misericordia dato che: «Pieno compimento della Legge è l’amore» (Rm 13, 10)

 
Paolo Scquizzato
 
Quarta domenica del Tempo di Quaresima - Anno C

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  Gs 5,9-12

Dal libro di Giosuè
 

In quei giorni, il Signore disse a Giosuè: «Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto».
Gli Israeliti rimasero accampati a Gàlgala e celebrarono la Pasqua al quattordici del mese, alla sera, nelle steppe di Gerico.
Il giorno dopo la Pasqua mangiarono i prodotti della terra, àzzimi e frumento abbrustolito in quello stesso giorno.
E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato i prodotti della terra, la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna; quell’anno mangiarono i frutti della terra di Canaan.


Salmo Responsoriale Sal 33

Gustate e vedete com’è buono il Signore.

Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore:
i poveri ascoltino e si rallegrino.

Magnificate con me il Signore,
esaltiamo insieme il suo nome.
Ho cercato il Signore: mi ha risposto
e da ogni mia paura mi ha liberato.

Guardate a lui e sarete raggianti,
i vostri volti non dovranno arrossire.
Questo povero grida e il Signore lo ascolta,
lo salva da tutte le sue angosce.

Seconda Lettura 2Cor 5,17-21


Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi

Fratelli, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove.
Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione.
In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio.
Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio.
 
Canto al Vangelo (Lc 15,18)


Lode e onore a te, Signore Gesù!

Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò:
Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te.

Lode e onore a te, Signore Gesù!

Vangelo Lc 15,1-3.11-32
 
Dal Vangelo secondo Luca


In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

OMELIA

Per Gesù di Nazareth la gioia di suo Padre non dipende dal comportamento dei suoi figli, ma che questi conoscano, ovvero sperimentino, di quale stoffa è fatto il Padre. È questo il messaggio ultimo inscritto nella parabola del figlio che Gesù racconta nel vangelo di questa domenica.

Anche in Giovanni Gesù insiste sul fatto che in ultima analisi ciò che comunemente denominiamo salvezza è questione di conoscenza, ovvero di esperire la medesima natura di Dio: «Questa è la vita eterna [ossia la gioia piena, esperienza salvifica] che conoscano te [Padre]» (Gv 17, 3).

Credo in ultima analisi che questa conoscenza-esperienza della stessa natura del Mistero sia la santità. Noi col tempo siamo arrivati ad identificare la santità con un ‘migliorismo’ morale, col farcela tramite un impegno etico. Abbiamo creduto che lo scopo del cristianesimo fosse magari far felice un dio assiso da qualche parte in cielo. Abbiamo ridotto la confessione sacramentale ad un’accusa del dislivello tra ‘ciò che avrei dovuto essere e ciò che mi ritrovo a vivere’, quando il vangelo ricorda che la salvezza altro non è che perdersi nell’abbraccio di un Amore che versa su me il balsamo che guarisce le ferite del mio vagabondare aprendomi così ad un futuro di fecondità. Solo questo abbraccio produrrà vita, gioia, trasformazione interiore, mentre l’accusa continua (e frustrante) del divario tra dovere e la realtà delle nostre miserie, genera solo sensi di colpa e tristezza mortale.

Dio non nutre aspettative su di noi, perché l’amore non s’aspetta nulla dall’amato, come un genitore non dovrebbe attendersi nulla dai propri figli: «Il vero amore per i figli dev’essere a favore dei figli, svincolato da qualsiasi aspettativa nei loro confronti. Questa è una debolezza dei genitori: la si potrebbe definire il loro destino» (Etti Hillesum, Diario).

«Questo tuo fratello era morto» (v. 32) dice il Padre al fratello maggiore. Ma ora è tornato a vivere – è letteralmente risorto dice Gesù- perché ha accolto il perdersi in un abbraccio amoroso piuttosto che vivere di rimpianti.

Non avendo mai veduto cadaveri tornati in vita, credo fermamente che risorgere significhi credere anzitutto ad una postura esistenziale capace di effondere vita; potenza del perdono donato a chi ha fallito il bersaglio esistenziale col cosiddetto ‘peccato’.

Perdonare non significa infatti né amnistia né amnesia, ma dono gratuito perché l’altro possa tornare a vivere, aprendolo così a un futuro che abbia il sapore di rinascita.

Perdonare significa concedere all’altro il miracolo del ‘ricominciare’, rialzarsi dalle proprie ceneri, per poi sperimentare che i primi a volare siamo noi stessi.


 
Paolo Scquizzato
 

Dall'inno di Maria [il Magnificat] una nota di gioia penetra nella nostra vita, una nota che altrove non ci è dato di ascoltare. Essa non ci raggiunge ad un'altezza verso cui non possiamo protenderci bensì discende nel profondo in cui noi giacciamo. Essa non si presenta con vestito di festa ma nell’umiltà di una serva. È infatti la gioia nelDio che solleva gli umili e sazia gli affamati e realizza le sue speranze in un popolo abbandonato. Ascoltiamo questo inno alla gioia ma accostiamo anche ad esso tutte le nostre lamentazioni e quelle del mondo, che ogni giorno leggiamo sul giornale. Riconosciamo questo Dio, ma non dimentichiamo niente del peso che grava sulle nostre spalle. Lasciamo che questa gioia in Dio penetri nel nostro mondo, in cui il resto è spesso soltanto silenzio. Allora anche noi conosceremo la gioia, l'irresistibile gioia di questo Dio, che è più profonda dei dispiaceri e delle preoccupazioni e possiede un respiro più lungo del male che regna nel mondo.

“L'anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore”, dice Maria. E ciò la pervade con la sua forza liberatrice. Essa dimentica ciò che invece dicono gli uomini cui sono stati fatti ricchi regali. Essa non dice: Io sono contenta. Finalmente qualcuno ha pensato anche a me! No: “L'anima mia magnifica il Signore”, proclama grande colui che è grande e compie grandi cose. È come se volesse dire: Non so più chi sono e ciò che volevo. Essa è presa da un amore insperato che rende insignificanti tutti i suoi desideri. Perciò essa è letteralmente “fuori di sé” per la gioia e si dimentica, dimentica la sua fame di vita e il suo desiderio difelicità. Ciò è ben più del respiro di un essere liberato dall'indigenza. È la felicità di un essere per il quale la presenza di Dio e la visione del suo regno sono divenute più importanti dei propri interessi. È inoltre in maniera unica il compimento di un essere umano che viene reso letteralmente corpo materno del salvatore del mondo. Le convulsioni dell'autosoddisfacimento e il tormento delle autocritiche sono lontani da Maria. La sua gioia in Dio è senzapaura ma anche senza orgoglio. — “L'anima mia magnifica il Signore”.

Osserviamo ancora un istante Maria, anche se essa è tutta intesa ad allontanare da sé gli sguardi. Chi era essa prima di quest'ora? Un nessuno o un qualcuno, come noi. Una contadina di Galilea, fino a quando il Signore l'ha eletta e l'ha resa madre di Cristo. Non perché sia pura e bella essa viene amata, ma viceversa, perché è amata ed eletta da Dio essa diviene pura e bella nei suoi sentimenti. Chi sarà essa dopo quest'ora? Conosciamo un po' il suo destino: il parto in una stalla a Bethlehem e, da ultimo, le sue lacrime sotto il patibolo del figlio suo sul Golgotha. Ma tutto questo: la sua origine e la domanda: Chi sono io? — e il suo avvenire e la domanda: Che sarà di me e del mio bambino? sono qui dimenticati. Qualunque sia il passato che ci grava addosso, qualunque sia il futuro che ci attende — “l'anima mia magnifica i! Signore e il mio spirito esulta in Dio”. Prima di pensare se ciò che le viene incontro è amore o sofferenza, essa esulta in Dio; gode ch'egli sia ora presente, che egli venga e colmi le speranze degli uomini abbandonati. Al di là del bene e del male qui si annuncia una svolta nella derelizione che incombe su tutti gli uomini, e Maria ha visto ciò spontaneamente; Dio stesso viene e infrange le tenebre che avvolgono la terra e ogni vita: “Anche sopra di te si leva il Signore e la sua gloria appare sopra di te” (Is, 60,2). Nella sconosciuta ragazza di Galilea avviene qui perciò ben più che un privato lenimento della indigenza e un po' di fortuna. Qui si annuncia la svolta di tutte le cose. Il liberatore dalla colpa, dalla violenza e dall'oppressione sta per nascere. Per questo Maria esulta in Dio con tutto il suo essere. La sua gioia è pura, perché essa non vuole servirsi di Dio per godere della sua vita e del suo bambino. Essa dona la sua vita e la dona all'alba del nuovo giorno della liberazione, Che senso hanno qui ancora le nostre domande egoistiche: Dove vivo? Che sarà di me? Qui rimane soltanto una cosa: “Cancella il tuo io e sarai beato” (Lutero), poiché Dio viene ed è già vicino a te. Noi cerchiamo la nostra felicità all'esterno e corriamo affaccendati e ci affatichiamo molto per conquistarla. Ma Dio è già qui, in mezzo a noi in questo figlio di Maria, in Gesù. E con lui la liberazione e la felicità, la dilezione e l’amore ci sono divenuti molto più vicini di quanto non pensiamo. Chi ammette ciò non ha più bisogno di andare alla caccia della felicità, non ha neppure più bisogno di diventare diverso. Egli ha solo da accettarsi così come è, perché è stato accettato da Dio come e dove si trova.

La gioia di Dio, notiamo nell'inno di Maria, è tranquillità e serenità piena. Non si devono più stringere i denti, ma ci si può abbandonare ad essa che ci strappa a noi stessi e ci immette nella corrente della libertà. Per questo Maria dice qui con disinvolta apertura: “Egli ha riguardato la bassezza della sua serva”. Essa non si vergogna della sua insignificanza. Essa non ha bisogno di dar da intendere nulla a Dio e agli altri. Se Dio ha guardato la sua bassezza vuol dire che essa può addirittura gloriarsi e rallegrarvisi. Nella sua beata bassezza i figli e i figli dei figli, come è detto qui, per amore di Cristo la celebreranno e non la dimenticheranno.

Come invece noi siamo continuamente indaffarati a superare la nostra bassezza e a raggiungere un posto al sole nella vita, a dare da intendere qualcosa a noi stessi e agli altri. Ma Dio non guarda il fariseo o lo zelota che desideriamo essere, ma il povero diavolo che siamo e non vogliamo essere. Egli non ci prende sul serio là dove noi vorremmo essere rispettabili, ma ci libera là dove siamo semplicemente miserabili. Per questo la gioia nella sua liberazione è più profonda della paura che è sempre legata alle nostre immaginazioni.

In tal modo questo Dio diviene la trasvalutazione di tutti i valori del non-uomo. Il cantico di Maria dice tutto questo. Esso è sovversivo. È l'inno di una grande rivoluzione della speranza, poiché questo Dio, nel quale Maria esulta così filialmente, rende supremo ciò che è infimo. “Egli ha fatto grandi cose con il suo braccio, ha distrutto quelli che si inorgogliscono nei pensieri del loro cuore. Ha rovesciato i potenti dal loro trono ed ha esaltato gli umili. Ha colmato di beni gli affamati, ed ha rimandato vuoti i ricchi”. Questa è in realtà sovversione e forza. Questo inno risuona come la marsigliese del fronte cristiano di liberazione nelle lotte tra le potenze e gli oppressi di questo mondo. E nella Bibbia a cantare tali inni sovversivi sono sempre delle donne. Così cantò Mirjam al momento dell'esodo di Israele dall'Egitto accompagnandosi col timpano: “Celebriamo il Signore: egli si è coperto di gloria; egli ha gettato in mare cavallo e cavaliere” [Es. 15,20-21). Così cantò Anna (1Sam. 2,4): “L'arco dei potenti è spezzato, ma i deboli sono cinti dì forza”. E così qui inizia la storia di Cristo con il cantico di Maria al Dio rivoluzionario. “Dio” non è una decorazione solenne per le nostre feste. Dio è un Dio terribile e, per questo, anche magnifico. “Egli conduce fino agli inferi e riconduce indietro”. Dal deserto, dalla desolazione e dalle tenebre egli chiama in vita la sua creazione. Egli libera gli israeliti schiavi e getta in mare con i loro carri e le loro fruste gli schiavisti egiziani. Egli proclama giusto il Giobbe tentato e accusatore mentre svergogna i suoi pii amici. Egli riconduce dalla morte alla sua gloriosa libertà il Gesù maledetto dalla legge e crocifisso dal potere romano. Questo Dio pertanto arriva là dove noi uomini non vogliamo essere ma spesso vi condanniamo a vivere gli altri, là egli fa sorgere il suo regno. Per questo Gesù proclama beati i poveri e deplora il destino dei ricchi. Per questo il povero Lazzaro riposa “nel seno di Abramo” e il ricco epulone è posto nell'inferno. Per questo Gesù proclama beati i sofferenti e non coloro che infliggono sofferenza agli altri. Per questo egli rende suoi alleati coloro che hanno fame di giustizia e non coloro che violano il diritto con la forza. Chi quindi chiama per nome questo Dio parla di un “fatto che tutto sconvolge”, parla di una grande trasvalutazione di tutti i valori. Egli con Cristo vede irrompere un futuro in cui i potenti vengono gettati a terra, i ricchi vengono rimandati a mani vuote e i superbi, i furbi e i saggi vengono dispersi. Egli con Cristo vede irrompere un futuro in cui gli umili vengono esaltati e si esaltano, e gli affamati vengono colmati di beni e si rallegrano.

Jürgen Moltmann

(testo tratto da Il linguaggio della liberazione, Brescia 1973, pp. 127-127)

 

Terza domenica del Tempo di Quaresima - Anno C

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  Es 3,1-8a.13-15

Dal libro dell'Esodo
 

In quei giorni, mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb.
L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava.
Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!». E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio.
Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele».
Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”. Mi diranno: “Qual è il suo nome?”. E io che cosa risponderò loro?».
Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: “Io-Sono mi ha mandato a voi”». Dio disse ancora a Mosè: «Dirai agli Israeliti: “Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, mi ha mandato a voi”. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione».


Salmo Responsoriale Sal 102 (103)

Il Signore ha pietà del suo popolo.

Benedici il Signore, anima mia,
quanto è in me benedica il suo santo nome.
Benedici il Signore, anima mia,
non dimenticare tutti i suoi benefici.
 
Egli perdona tutte le tue colpe,
guarisce tutte le tue infermità,
salva dalla fossa la tua vita,
ti circonda di bontà e misericordia.
 
Il Signore compie cose giuste,
difende i diritti di tutti gli oppressi.
Ha fatto conoscere a Mosè le sue vie,
le sue opere ai figli d’Israele.
 
Misericordioso e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande nell’amore.
Perché quanto il cielo è alto sulla terra,
così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono.

Seconda Lettura 1Cor 10,1-6.10-12


Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi

Non voglio che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo. Ma la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto.
Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono.
Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore. Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere.
 
Canto al Vangelo (Mt 4,17)


Lode e onore a te, Signore Gesù!

Convertitevi, dice il Signore,
il regno dei cieli è vicino.

Lode e onore a te, Signore Gesù!

Vangelo Lc 13,1-9
 
Dal Vangelo secondo Luca


In quel tempo, si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo.
O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».
Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».

OMELIA

Il vangelo di oggi può essere riassunto con questa domanda: “Cosa ho fatto di male per meritarmi questo?”. L’idea di un Dio che premia i buoni e castiga i cattivi, se la portavano dentro i discepoli di Gesù e molto cristianesimo oggi.
Gesù pare mandare in frantumi l’idea di un Dio onnipotente e quindi ‘troppo umano’. Se le cose ti vanno male (o bene), il dio che hai in testa non c’entra assolutamente nulla con tutto ciò. La vita procede per la sua strada, il cosmo si muove per le sue leggi intrinseche. Insomma, la realtà, la vita non obbedisce a un dio capriccioso che comanda le cose dal proprio centro di controllo …
“Dio non fa le cose, ma fa in modo che le cose si facciano”, è probabilmente la postura mentale che dovremmo assumere da ‘credenti’ nel XXI secolo. Non un dio interventista, ma la forza che – intrinseca alla realtà – la muove perché questa, in nome solo delle proprie leggi autonome, giunga a compimento.

Non solo. Qui Gesù distrugge l’equazione peccato = castigo, e quindi la tentazione di credere che l’umanità sia divisa in buoni e cattivi, santi e peccatori, giusti e sbagliati. Il mondo è costituito solo da ‘ladroni sulla croce’ e non da uomini e donne premiati o puniti per le proprie azioni morali.
Esistesse un Dio che amasse in base alla morale delle sue creature, cesserebbe di fatto essere l’Amore, che si dà non per i meriti acquisiti (si chiamerebbe premio), ma perché non può non farlo. Come la luce non può non illuminare.
Paolo ha provato a balbettare qualcosa sull’essenza di Dio: è magnanimo, buono; non invidioso. Non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1Cor 13, 4-7). Questo è il dio di Gesù. Anche se dobbiamo pensare il Mistero impronunciabile infinitamente oltre tutto questo.
Se la quaresima ha un senso, è quello di disintossicarci da una falsa immagine di Dio. Occorre convertirci, trasformare la nostra mentalità, smetterla di sbagliarci su Dio, perché, come diceva Turoldo: «Sbagliarsi su Dio è un dramma, è la cosa peggiore che possa capitarci, perché poi ci sbagliamo sul mondo, sulla storia, sull’uomo, su noi stessi. Sbagliamo la vita».


 
Paolo Scquizzato
 
Seconda domenica del Tempo di Quaresima - Anno C

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  Gn 15,5-12.17-18

Dal libro della Genesi
 

In quei giorni, Dio condusse fuori Abram e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza». Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia.
E gli disse: «Io sono il Signore, che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questa terra». Rispose: «Signore Dio, come potrò sapere che ne avrò il possesso?». Gli disse: «Prendimi una giovenca di tre anni, una capra di tre anni, un ariete di tre anni, una tortora e un colombo».
Andò a prendere tutti questi animali, li divise in due e collocò ogni metà di fronte all’altra; non divise però gli uccelli. Gli uccelli rapaci calarono su quei cadaveri, ma Abram li scacciò.
Mentre il sole stava per tramontare, un torpore cadde su Abram, ed ecco terrore e grande oscurità lo assalirono.
Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un braciere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi. In quel giorno il Signore concluse quest’alleanza con Abram:
«Alla tua discendenza
io do questa terra,
dal fiume d’Egitto
al grande fiume, il fiume Eufrate».

 

Salmo Responsoriale Sal 26 (27)

Il Signore è mia luce e mia salvezza.

Il Signore è mia luce e mia salvezza:
di chi avrò timore?
Il Signore è difesa della mia vita:
di chi avrò paura?
 
Ascolta, Signore, la mia voce.
Io grido: abbi pietà di me, rispondimi!
Il mio cuore ripete il tuo invito:
«Cercate il mio volto!».
Il tuo volto, Signore, io cerco.
 
Non nascondermi il tuo volto,
non respingere con ira il tuo servo.
Sei tu il mio aiuto, non lasciarmi,
non abbandonarmi, Dio della mia salvezza.
 
Sono certo di contemplare la bontà del Signore
nella terra dei viventi.
Spera nel Signore, sii forte,
si rinsaldi il tuo cuore e spera nel Signore.

Seconda Lettura Fil 3,17-4,1


Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi

Fratelli, fatevi insieme miei imitatori e guardate quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi. Perché molti – ve l’ho già detto più volte e ora, con le lacrime agli occhi, ve lo ripeto – si comportano da nemici della croce di Cristo. La loro sorte finale sarà la perdizione, il ventre è il loro dio. Si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra.
La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose.
Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete in questo modo saldi nel Signore, carissimi!
 
Canto al Vangelo (Mc 9,7)


Lode e onore a te, Signore Gesù!

Dalla nube luminosa, si udì la voce del Padre:
«Questi è il mio Figlio, l'amato: ascoltatelo!».

Lode e onore a te, Signore Gesù!

Vangelo Lc 9,28b-36
 
Dal Vangelo secondo Luca


In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare.
Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme.
Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui.
Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elìa». Egli non sapeva quello che diceva.
Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!».
Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.

OMELIA

Tutto è trasformazione. Questa è la legge della vita: il seme diventa pianta, il bruco farfalla, l‘energia materia. Tutto è ‘impermanenza’, tutto muta, diviene, si trasfigura. E per questo tutto è vita.
Morte è la stasi, la consuetudine, la conservazione, l’immobilità, il vivere di sogni riguardo al passato o al futuro.
“Muori e diventa” ci ricorda Goethe. Muori al tuo piccolo io e sperimenterai il Mistero indicibile che matura in te. E dagli credito, lascialo agire, lascia che si apra in te e ti porti a compimento.
Il Vangelo di oggi ci riconcilia con i nostri fallimenti e i nostri naufragi esistenziali.
Vivere fino in fondo il dolore e il fallimento, le nostre morti quotidiane può essere premessa perché si riveli qualcosa di nuovo. Spesso è il medesimo veleno maligno che ci ha feriti a morte a rivelarsi l’antidoto migliore per la guarigione.
La cura del dolore sta nel dolore.
Gesù molte volte invita a riconoscere nel naufragio della propria vita non tanto la fine e la sconfitta, ma un’opportunità di vita nuova. Gesù è l’uomo fallito che accogliendo sino in fondo la realtà in un abbandono totale, ha sperimentato il cominciamento di una vita nuova e per sempre.
Nessuno ama naufragare, si sa, ma spesso proprio ciò si rivela come possibilità di approdare in terre sconosciute e lì ricominciare una vita nuova. Sperimentare che la propria vita va in frantumi può rivelarsi una grazia, quando a sfasciarsi sono i sogni su cui abbiamo costruito la vita, oppure i desideri e le attese che gli altri hanno riversato su di noi.
Dopo essere andati a pezzi, non si tratta di ricomporre i cocci per tornare a come s’era prima; piuttosto ad approfittare della situazione in modo che rimettendo insieme i pezzi possa nascere qualcosa d’inedito, di altro, d’inaudito, e magari di bellissimo. E che non avremmo mai potuto immaginare.
La crisi, ciascuna crisi sarà sempre dunque un atto ‘grazioso’, trasfigurazione dell’esistente e manifestazione di una bellezza collaterale inimmaginabile. Basta un atto di fiducia.
La croce ha rappresentato la frantumazione nei discepoli dell’immagine che si erano creati su Gesù, su Cristo e su Dio. Tutto difronte a quel legno è crollato. Gesù stesso ha ‘mollato la presa’: i chiodi conficcati nei polsi gli hanno permesso di aprire la mano in un abbandono totale, per poi sentirsela afferrare finalmente da un amore fedele ed essere così riportato a casa e questa volta per sempre.

 
Paolo Scquizzato
 

Una piccola storia. Colpito dalla sventura un ebreo della Polonia aveva deciso di fuggire. Si era disfatto dei suoi pochi averi, aveva preso commiato da parenti e amici e si era recato dal rabbino per riceverne l'ultima benedizione e una parola di conforto.
“Così la vostra scelta è fatta?”, chiese il buon rabbino. E dopo un poco: “E ditemi: andate lontano?”
“Lontano da dove?”, rispose l'ebreo.

Conversione? Con l’inizio della quaresima diventa un tema ricorrente l’invito alla conversione. Il gesto dell’imposizione delle ceneri è solitamente accompagnato dalle parole: “Convertiti e credi al vangelo”. Le letture bibliche esprimono il medesimo invito. Si tratta di un tema ricorrente e comune, ma che sembra, a volte, non lasciare tracce. Vale dunque la pena soffermarsi un po’ su questa parola – conversione.

Nel linguaggio corrente il termine “conversione” è inteso con tre diversi significati. Innanzitutto, viene ad indicare il passaggio da una comunità di fede a un’altra. È il cambiamento di religione. Il secondo significato fa riferimento a un cambiamento di vita di una persona (o anche di una comunità) che sceglie di abbandonare la “via dei peccatori”. Ed infine si intende un cambiamento di mentalità, un impegno di purificazione e rinnovamento della propria vita spirituale.

La storia è piena di vicende riguardanti persone o gruppi che “cambiano idea”, anche in maniera molto radicale. Ma di per sé non ci si converte ad una ideologia. Affrontiamo subito un problema non indifferente: per molti studiosi del comportamento umano – ed anche per autori che riflettono sui temi della vita spirituale – non sarebbe corretto parlare di conversione. La persona umana, infatti, sostengono costoro, tende ad essere abitudinaria e conformista. Quello che impariamo nei primissimi anni della nostra infanzia – anzi nelle primissime settimane –, ci struttura in permanenza ed influenza la nostra crescita. E così siamo segnati da ciò che apprendiamo: nel nostro modo di intendere le relazioni familiari e sociali, nei nostri gusti, nelle nostre consuetudini e abitudini. Siamo cioè soggetti che non sono protagonisti di cambiamenti radicali nella propria vita. Capaci anche di sperimentare la libertà, ma nelle consuetudini della routine. Tuttavia l’essere umano è un animale particolarmente curioso – ed è la curiosità a far muovere i nostri passi. Mentre l’immagine del cammino contiene elementi propri della nostra identità: la tensione in avanti e l’apertura al futuro.

La conversione – così come solitamente la intendiamo – comporta l’idea di un cambiamento radicale, totale, della vita. Ma ciò sembrerebbe umanamente impossibile – o quasi. E, a ben vedere, se si volesse considerare con attenzione la storia religiosa e spirituale si dovrebbe concludere che probabilmente le persone che hanno sperimentato una vera conversione siano state veramente poche. Anzi, c’è chi giunge ad affermare che forse – almeno dal punto di vista biblico – soltanto un personaggio si sia convertito – Saulo divenuto in seguito Paolo. Il racconto della conversione di Paolo lo conosciamo bene. È narrato nel libro degli Atti (9,1-19).

Alcuni biblisti, tuttavia, fanno osservare che neppure in questo episodio si possa parlare di una vera e propria conversione. Paolo viene chiamato, infatti, da Dio per svolgere un compito. Gli viene affidato l’incarico di portare il vangelo ai pagani. E Paolo accoglie nella libertà questo incarico. A ben vedere, quando Saulo parte per Damasco è già un uomo in crisi. Una crisi, di lungo corso – iniziata forse già al momento del martirio di Stefano. E la caduta da cavallo è soltanto la goccia che fa traboccare il vaso. È il momento in cui la crisi, che Saulo attraversava, inizia a risolversi.

Ho letto da qualche parte che secondo una filosofa femminista gli uomini, a differenza delle donne, non sarebbero capaci di convertirsi… Non voglio entrare nella questione. Ci si può chiedere se il periodo della quaresima sia caratterizzato da un appello per un buon proposito che, si sa, non può essere mantenuto. Si tratta soltanto di un invito formale che la liturgia propone?

Eppure nella nostra vita sperimentiamo dei cambiamenti. E questi cambiamenti avvengono quando siamo motivati da due opposte ragioni. La prima ragione è quella che ci porta a cambiare (lavoro, casa, partner, amici, ecc. ma anche associazioni, religioni…) per gli evidenti vantaggi che vediamo insiti nella nuova situazione. Si cambia lavoro perché meglio retribuito, più vicino a casa e con migliori opportunità di carriera, ad esempio. L’opposta ragione che ci porta ad attuare un cambiamento nella nostra vita è quella della disperazione: si è allora disposti a tutto pur di non continuare a prolungare la situazione di malessere e di disagio che ci ritroviamo ad attraversare.

Ma se vogliamo iniziare a comprendere cosa possa significare conversione, dobbiamo farlo alla luce del testo biblico. La tradizione ebraica ha mantenuto in maniera maggiormente fedele il significato più profondo del termine. La tradizione ebraica parla infatti di teshuvah. È l’invito a ritornare a Dio. “Laceratevi il cuore e non le vesti, ritornate al Signore vostro Dio, perché egli è misericordioso e benigno” (Gioele 2,13). Le strade umane tendono ad allontanarsi da Dio. È questo il significato più profondo dei primi capitoli di Genesi. Anzi, sono gli esseri umani a nascondersi, a sottrarsi allo sguardo di Dio. I passi – i progetti – sono volti a mettere sempre maggiore distanza tra l’essere umano e Dio. Teshuvah: ritorna verso Dio, volgi i tuoi passi verso Dio. “Esaminiamo la nostra condotta e scrutiamola, ritorniamo al Signore” (Lam 3,40). Ed i primi racconti di Genesi non fanno che presentare questa prospettiva: la persona umana vuole vivere senza fare i propri conti con Dio. Anzi, vuole superare quell’unico scoglio che lo rende limitato nel suo comprendersi: la morte. La tentazione del serpente – voi sarete simili a Dio – non fa che concretizzare il desiderio umano di vivere senza Dio.

Caino e Abele, Lamech, i vari personaggi che iniziano a popolare la terra, i giorni di Noè, la costruzione della torre di Babele… sono tutte narrazioni che presentano questo progressivo allontanamento da Dio. Finché non c’è una persona che si mette in ascolto di Dio: Abramo. Abramo è il primo a fare teshuvah – a fare ritorno a Dio. “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò” (Gen 12,1). E questo ritorno a Dio avviene in una maniera paradossale: uscendo dalla propria terra. Abramo non ha una casa da lasciare perché è nomade: si sposta con il clan familiare, con le tende e gli armenti. E la sua teshuvah si compie nel continuare il suo viaggio, nel lasciare dietro di sé i pascoli ed i pozzi che gli sono noti e abituali, per andare in cerca di nuovi.

A ben considerare, Abramo non compie chissà quale grande azione. Al pari di tanti altri nomadi anch’egli è in cerca di pascoli adatti al suo bestiame. I trasferimenti vengono fatti in base ai cicli delle stagioni – alle piogge e ai periodi di siccità. Eppure il viaggio di Abramo diventa emblematico poiché si rivela essere un ritorno nelle vie di Dio. Con Abramo il cammino di allontanamento da Dio intrapreso dal genere umano cambia direzione. Non si tratta, però, di un cammino di ritorno sui propri passi, ma verso un nuovo orizzonte. “Per fede Abramo, chiamato da Dio, (…) partì senza sapere dove andava” (Eb 11,8).

Teshuvah: il ritorno a Dio diventa il cammino su di una nuova strada. E per iniziare a camminare su di una nuova strada non servono scelte radicali. Basta deviare di poco. È noto il cosiddetto “effetto farfalla”: il batter d’ali di una farfalla in Brasile può alterare in un altro luogo del pianeta il corso del clima per sempre. Ed il noto matematico e logico inglese Alan Turing affermava che “Lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato”, potrebbe significare la differenza tra il fatto che un uomo è ucciso oppure no da un valanga un anno dopo. Possiamo così considerare che la teshuvah – il ritorno a Dio – inizia a compiersi attraverso un piccolo, piccolissimo cambiamento attuato in una vita che è caratterizzata da consuetudini e abitudini.

Gli autori del Nuovo Testamento hanno cercato di rendere il concetto di teshuvah con la parola metanoia. Il termine greco μετάνοια è composto dalla preposizione μετά (ciò che va oltre, comprende, si pone sopra) e dal verbo νοέω (percepire, pensare), e significa "cambiamento di vista" o "cambiamento di sguardo". Nell'antica Grecia, metanoia significava “assumere una condotta diversa, possibilmente migliore”. In alcuni testi del Nuovo Testamento metanoia significa andare al di là di noi e si riferisce a un movimento mediante il quale la persona umana si volge verso Dio, si apre a Dio. Le beatitudini evangeliche (Mt 5, 3-12) sono l’espressione migliore della metanoia cristiana. Anche l’inizio della predicazione di Gesù è contraddistinto dall’invito alla metanoia: “Dopo che Giovanni Battista fu consegnato, venne Gesù nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio e dicendo: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo””. (Mc 1, 14-15).

“Il tempo è compiuto”. Significa: è giunto il momento; è adesso. Mentre noi solitamente attendiamo sempre dopo… Convertirsi – seguendo questa prospettiva biblica – non consiste tanto nel compiere grandi cose, ma semplicemente nell’aggiungere quella goccia che fa traboccare l’intero vaso. È un cambiare il modo di vedere le cose. È quella piccola deviazione nel cammino della nostra vita che si rivela essere un ritorno sulle vie del Signore. Vuol dire iniziare a vedere le cose in modo diverso.

Papa Francesco insiste nell’affermare che il tempo è superiore allo spazio. Lo ha fatto in diversi documenti. Ed aggiunge che ciò che conta è avviare processi. Non sono le grandi decisioni a cambiare la storia – la storia universale come la storia personale – ma la capacità di dare avvio a piccole cose che si manifestano capaci di influenzare significativamente il futuro. “Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada” (Is, 43,19). Come il piccolo seme di senape che germoglia, dando origine ad un’intera pianta. Sembrerebbe, a prima vista, una semplice cosa, un’operazione dai facili costi. Ma non è proprio così. Sono le piccole cose che si rivelano essere le più difficili da realizzare. Provo a fare un esempio.

Leggiamo nel Vangelo che un modo per fare ritorno a Dio è quello di riconciliarsi con il fratello prima di compiere la nostra offerta (Mt 5,23-24). A volte ci capita di comprendere che le nostre relazioni familiari – o con i vicini di casa –, ad esempio, siano ingessate e in qualche modo bloccate. Magari non sono in corso conflitti evidenti, ma ci si rende conto che nelle consuetudini – che automaticamente si perpetuano – c’è qualcosa che non va. E sappiamo che basterebbe ben poco per cambiare le cose. Forse, semplicemente trovare il coraggio per parlarne insieme. Oppure, nel compiere un’azione di poco conto – un saluto, una telefonata, un invito… – ma che produrrebbe un significativo cambiamento. Ma non si riesce a fare ciò che riteniamo andrebbe fatto per migliorare le nostre relazioni. Oppure può capitare che si continui a rimandare ad un prossimo futuro… Finché giunge la morte per rendersi conto che ciò che si avrebbe voluto/dovuto fare o dire non può più essere compiuto.

C’è un altro aspetto da considerare quando parliamo di teshuvah/metanoia. Nella prospettiva biblica ciò non si compie per un buon proposito o per una risoluzione presa. Ma è nell’agire che tutto ciò si manifesta. C’è un passo molto importante che si legge nel libro del Deuteronomio: “Noi faremo e ascolteremo” (Deut 5,27). Noi siamo abituati a considerare l’ascolto precedere l’azione. La conversione si compie prima nell’azione e poi nell’ascolto – poiché l’azione manifesta che si è attuato l’ascolto. Potremmo portare molti esempi di questa diversa comprensione temporale. “I magi non si misero in cammino perché avevano visto la stella ma, videro la stella perché si erano messi in cammino”. Così scrive san Giovanni Crisostomo. E per fare un altro esempio, un simile tipo di lettura lo ritroviamo anche in san Giovanni della Croce, quando osserva a riguardo dei testimoni della risurrezione (Maria Maddalena, i discepoli, i due di Emmaus e Tommaso): essi non videro il Signore e perciò credettero, ma prima credettero e per questo poi lo videro.

Riprendiamo la figura di Abramo. Il racconto delle sue vicende inizia con queste parole: “Lascia la tua terra” (Gen 12,1). Lekh lekhà! Espressione che si può tradurre anche con “Vai a te stesso”. Vale a dire: entra in te stesso, lascia dietro di te la monotonia delle solite cose, datti il tempo sufficiente, prendi il cammino del tuo tempo… Quale significato ha per noi l’ascolto di questa voce interiore? È possibile mettersi in ascolto nella misura in cui possiamo assicurarci un po’ di intima interiorità, dandoci il tempo ed il silenzio sufficienti. A ben vedere, ci dicono gli autori spirituali, il viaggio più difficile e duro, più lungo e affascinante è quello che si compie nel nostro intimo.

E torniamo al racconto iniziale. Lontano da dove? Chiede l’ebreo in partenza. Lontano da dove – quando l’invito è di andare a se stessi, nella propria intimità? A mettersi in cammino per lasciarsi avvicinare a Dio.

Un’altra storia. Un rabbino polacco aveva sognato di trovare un tesoro sotto un ponte della città di Praga. Egli si mise subito in cammino, affrontando a piedi il lungo viaggio. Arrivato a destinazione, non poté soddisfare il desiderio di mettersi a cercare il tesoro poiché il ponte – il famoso ponte Carlo – era custodito da un numeroso drappello di guardie. Il capo delle guardie lo notò e gli chiese ragione del suo aggirarsi irresoluto. Il rabbino iniziò, allora, a raccontare del sogno fatto. Il capo delle guardie si mise a ridere: non c’era da prestare fede ai sogni. Anche lui, infatti, n’aveva fatto uno simile. Aveva sognato che nei pressi di una certa casa – che descrisse con precisione – era nascosto un tesoro. Il rabbino capì che l’uomo stava parlando proprio della sua abitazione. Ritornò a casa e, scavando secondo le indicazioni ricevute, trovò il tesoro. Forse, anche a noi capita di cercare lontano quello che invece c’è molto vicino?

È possibile convertirsi? Nella misura in cui riusciremo ad andare a noi stessi. Poiché lì, ci insegnano i maestri spirituali, in qualche angolo nascosto del nostro cuore, è presente Dio. E questo nostro tornare a Dio si compie, allora, nella discesa dell’intimo del nostro cuore. “Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19). Maria… Colei che viene indicata come la “prima in cammino”.

Faustino Ferrari

 

Prima domenica del Tempo di Quaresima - Anno C

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  Dt 26, 4-10

Dal libro del Deuteronomio
 
Mosè parlò al popolo e disse:
«Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all'altare del Signore, tuo Dio, e tu pronuncerai queste parole davanti al Signore, tuo Dio: "Mio padre era un Aramèo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall'Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi. Ci condusse in questo luogo e ci diede questa terra, dove scorrono latte e miele. Ora, ecco, io presento le primizie dei frutti del suolo che tu, Signore, mi hai dato". Le deporrai davanti al Signore, tuo Dio, e ti prostrerai davanti al Signore, tuo Dio».
 

Salmo Responsoriale Sal 90

Resta con noi, Signore, nell'ora della prova.

Chi abita al riparo dell'Altissimo
passerà la notte all'ombra dell'Onnipotente.
Io dico al Signore: «Mio rifugio e mia fortezza,
mio Dio in cui confido».

Non ti potrà colpire la sventura,
nessun colpo cadrà sulla tua tenda.
Egli per te darà ordine ai suoi angeli
di custodirti in tutte le tue vie.

Sulle mani essi ti porteranno,
perché il tuo piede non inciampi nella pietra.
Calpesterai leoni e vipere,
schiaccerai leoncelli e draghi.

«Lo libererò, perché a me si è legato,
lo porrò al sicuro, perché ha conosciuto il mio nome.
Mi invocherà e io gli darò risposta;
nell'angoscia io sarò con lui,
lo libererò e lo renderò glorioso».

Seconda Lettura Rm 10, 8-13


Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani

Fratelli, che cosa dice [Mosè]? «Vicino a te è la Parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore», cioè la parola della fede che noi predichiamo. Perché se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza.
Dice infatti la Scrittura: «Chiunque crede in lui non sarà deluso». Poiché non c'è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. Infatti: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato».
 
Canto al Vangelo (Mt 4,4)


Lode a te, o Cristo, re di eterna gloria!

Non di solo pane vivrà l'uomo,
ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio.

Lode a te, o Cristo, re di eterna gloria!

Vangelo Lc 4,1-13
 
Dal Vangelo secondo Luca


In quel tempo, Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di' a questa pietra che diventi pane». Gesù gli rispose: «Sta scritto: "Non di solo pane vivrà l'uomo"».
Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». Gesù gli rispose: «Sta scritto: "Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto"».
Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; sta scritto infatti: "Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano"; e anche: "Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra"». Gesù gli rispose: «È stato detto: "Non metterai alla prova il Signore Dio tuo"».
Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato.

OMELIA

Nell’episodio denominato delle ‘tentazioni’, a Gesù viene chiesto: ‘vuoi essere felice?’ e al contempo gli viene indicata la via per esserlo: ‘fa’ questo e lo sarai’.
Il ‘diavolo’ dovrebbe imparare che ‘la felicità è una direzione, non un luogo’ (Sydney Harris).
La felicità (Gesù preferiva parlare di beatitudine) è sempre l’effetto collaterale di un cammino sul sentiero del bene. Si può essere felici solo come conseguenza, retrogusto di un ‘modus vivendi’ buono.
Ecco perché Gesù rifiuta la ‘via direttissima’ sulla parete nord della felicità, prospettatagli dal diavolo. Troppo rischiosa. La vita è complessa, e la sua bellezza risiede proprio in questa complessità. Non si danno scorciatoie per il compimento del cuore. La strada va percorsa tutta, con le sue fatiche, le cadute, i fallimenti, i limiti accogliendo, passo dopo passo, ciò che lei, la vita, e solo lei, ha deciso per noi. Non si danno vie di fuga per la felicità, altrimenti rischieremmo di pensare che questa consista nella semplice assenza di problemi e d’ostacoli.
La felicità, o meglio la beatitudine – insomma – ci verrà incontro quando smetteremo di cercarla. Magari impegnandoci a favorire quella degli altri. Sempre nella consapevolezza che il bene dell’altro, il vivere relazioni sane, e la pace son qualcosa di affermabile solo a caro prezzo, e con tempi molto lunghi; quelli dell’amore.

 
Paolo Scquizzato
 
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