Formazione Religiosa

Giovedì, 09 Marzo 2006 00:42

Come dire oggi il Risorto (Giampietro Brunet)

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Come dire oggi il Risorto

di Giampietro Brunet

«Poco più della metà degli italiani (54%) crede nella risurrezione di ogni uomo alla fine dei tempi»; «credenze specifiche della tradizione cristiana (come l’esistenza di un’anima immortale in ogni uomo o la risurrezione alla fine dei tempi) non risultano condivise da quote consistenti dei soggetti che pur hanno fede nel Dio del cristianesimo e credono in Gesù Cristo». Sono due flash tratti da “La religiosità in Italia” (Milano 1995, p.32s). in tale contesto, come ripresentare, dunque, l’annuncio della pasqua?

«Se Cristo non è risuscitato – scriveva S. Paolo – allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la nostra fede» (1Cor 15,14). Partendo da questa frase paolina, il vescovo di Piacenza, Luciano Monari, ha affrontato il fulcro del kerygma pasquale: «È risorto come aveva predetto...», commentando all’incirca: il testo parla chiaramente di inutilità («è vana...», cioè senza contenuto). Se Cristo non fosse risorto saremmo nel vuoto ed egli si porrebbe solo come uno tra i tanti personaggi della storia.

L’insieme della predicazione cristiana, insomma, se non fa i conti e non si fonda saldamente sulla risurrezione di Cristo, per quanto ampia e articolata essa sia (Dio-Trinità, creatore e redentore, amore di Dio per noi e comandamento dell’amore per il prossimo, compresi i nemici), sarebbe senza un proprio fondamento e, sostanzialmente, privo di consistenza.

Nella stessa lettera paolina si parla di risurrezione «il terzo giorno, secondo le Scritture». Il riferimento – ha ricordato il vescovo Monari, sulla scorta di tanti studi esegetici in merito – è un testo di Osea dove, nel contesto di una celebrazione della conversione, il popolo viene spronato al rinnovamento. Vi si legge: «Il Signore dopo due giorni ci darà la vita e il terzo giorno ci farà rialzare e noi vivremo alla sua presenza» (Os 6,2). Ma questo è troppo poco per riuscire a spiegare l’importanza fondamentale che la risurrezione riveste come nucleo centrale della nostra fede.

Nel cuore dell’annuncio cristologico

Senza entrare in questioni dettagliate, su cui i teologi e gli esegeti hanno ampiamente dibattuto, il relatore si è soffermato soprattutto su una domanda: perché Mosè, Abramo e altri personaggi biblici che appaiono in tutta la loro grandezza di «campioni della fede nel Dio vivente» hanno potuto esserlo e noi, al contrario, senza la risurrezione, avremmo una fede vuota? Certo, senza la risurrezione rimarrebbero invariati l'insegnamento etico, le beatitudini, il comandamento dell'amore e gli stessi gesti di potenza che manifestano la venuta del regno di Dio; resterebbe pure significativo l'atteggiamento di Gesù verso i nemici e davanti alla morte stessa. Ma, conclude il vescovo, in tal modo la vita di Gesù e il suo insegnamento si ridurrebbero a un capitolo della storia del pensiero etico-religioso, accanto a Buddha, Socrate Maometto.

Ma, per completezza, accanto al comportamento esemplare di Gesù, occorrerebbe ricordare anche il negativo: il tradimento di Giuda, l'ambiguità di Pilato, il defilarsi dei dodici ecc. Esito di tale modo di procedere - oggi peraltro abbastanza diffuso – sarebbe che «la storia risulterebbe un intrecciarsi di gesti buoni e cattivi, dove forse i buoni sarebbero superiori al loro contrario, ma si tratterebbe solo di una pura superiorità statistica». Cos'è, dunque, a fare la differenza? La risurrezione, appunto.

Se la prima prospettiva fa cogliere la storia umana come un intreccio di bene e di male con oscillazioni ora a favore del bene, ora a favore del negativo, «con la risurrezione di Gesù, abbiamo invece un giudizio definitivo sulla vita di Gesù e, di conseguenza, sull’intera storia dell’uomo». Ecco il crinale storico decisivo dell’annuncio: «Gesù Cristo è risorto», è il «Vivente in eterno».

Se apparentemente la morte in croce di Gesù era percepibile come fallimento, o come la fine di un brutto sogno (così traspare dal discutere tra loro dei due discepoli di Emmaus), in realtà – dice con forza il vescovo biblista - «con la risurrezione di Gesù, Dio ha dato ragione a Gesù, perchè ha firmato col sigillo della sua potenza la vita e la morte di lui».

È ciò che si trova di frequente proprio nei discorsi degli Atti degli apostoli, in particolare, quando Pietro, presso Cornelio, prende la parola e conclude: «Lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha resuscitato al terzo giorno e volle che apparisse...a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la risurrezione dai morti. E ci ha ordinato di annunziare al popolo e di attestare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio» (At 10,40-42).

La struttura della riflessione di Pietro contiene il bene e il male: il potere e l’amore si sono affrontati nel dramma della vita e della morte di Gesù. «La risposta della storia è stata a favore del potere politico e religioso ,contro la debolezza dell’amore. Ma Dio ha capovolto e ha affermato la sua volontà di salvezza dando ragione a Gesù. Insomma, il giudizio della storia è stato cassato e, concretamente, proprio all’interno della storia». La risurrezione – aggiunge il vescovo Monari, sulla scorta dell’intera testimonianza del NT – tocca la storia, e come! Qui è coinvolta la vicenda di Gesù di Nazaret, ma con un giudizio che viene da oltre la storia, sanzionandola però irreversibilmente. Certamente questo “giudizio dall’alto”W sottrae qualcosa alla storia: siamo di fronte ad un evento, tocca la storia e le cambia il corso. Anzi, con la risurrezione di Cristo Gesù, si potrebbe quasi dire che un pezzo di umanità, abita ormai stabilmente presso Dio.

Se con Qohelet si guarda la storia che “sta dai tetti in giù” si è portati a concludere che «non vi è nulla di nuovo sotto il sole»; ma se la si guarda dalla parte di questa “potenza dall’alto” che risuscita Gesù di Nazaret, allora si deve concludere che qui siamo davvero di fronte alla più grande, radicale novità mai vista.

Dal punto di vista di Dio

La risurrezione di Gesù Cristo segna dunque questo crinale definitivamente che dà al tempo la dimensione e il sapore del compimento. Non aveva, del resto, Gesù stesso – come riferimento il Vangelo di Marco – inaugurato la sua predicazione con: «Il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al Vangelo»? a segnare irrevocabilmente questo “compimento” è proprio l’evento della risurrezione: «prima di Cristo...poi di quelli che sono di Cristo», fino a che «Dio sia tutto in tutti» (1Cor 15,23).

Quel ricorrente «ma Dio l’ha risuscitato» obbliga ad assumere il punto di vista di Dio. Se, umanamente parlando, la morte in croce del figlio unigenito che Dio dona al mondo (Gv 3,16), appare tragico fallimento, se la debolezza dell’amore sembra sconfitta in modo totale, dal punto di vista di Dio no: Dio dichiara “giusta” la vita e la morte di Gesù di Nazaret e la potenza di Dio che lo risuscita sancisce per sempre la sconfitta della morte e del male.

Questo è il gioioso annuncio della pasqua che ancora oggi deve risuonare, uscendo da qualsiasi logica di “autosalvezza”, che è sempre e irrimediabilmente fuori luogo, per assumere al contrario il punto di vista stesso di Dio che dichiara con potenza giusta e vittoriosa, davanti a sè, la vita e la morte di Gesù. «È dunque tutta l’esistenza di Gesù che la risurrezione viene a confermare, mettendovi sopra il sigillo della giustificazione di Dio».

Se prima si diceva che comunque, ad es. le beatitudini, hanno e conservano un loro fascino e una loro validità, ora bisogna dire più integralmente che quello stesso insegnamento ricava dall’evento della risurrezione di Cristo una sua pregnanza ulteriore: è molto diverso – spiega ancora il vescovo Monari – leggere le beatitudini come «il bel sogno di un maestro religioso», o come «un cambiamento della storia che dipende dall’intervento diretto di Dio». Insomma, quelle stesse parole, accolte alla luce della risurrezione, ora recano il sigillo dell’intervento potente di Dio e non sono più solo culturalmente o eticamente affascinanti, ma suggellate dal suo intervento potente nella storia, che le fa uscire dalla logica del desiderio umano e accogliere come «rivelazione del volto di Dio».

Se Cristo è risorto, ciò significa che «lui povero nella storia è il Signore nel regno di Dio» (“beati i poveri”...); «lui afflitto nella storia è stato consolato»; lui «mite, non prepotente nella storia, ha conquistato la terra». E allora le beatitudini non sono più un sogno o un messaggio che auspica un cambiamento, ma esprimono e dicono la radicalità di un cambiamento avvenuto che ha mutato per sempre il volto della storia dell’umanità salvata; sono parole nelle quali Cristo ha messo se stesso e la sua vita e che ora sono rafforzate con potenza dall’alto. Inoltre, quel Gesù che ha messo se stesso in quelle parole e in quegli insegnamenti è un «Vivente». È questo che le rende parole «contemporanee a noi»: rimangono in tutto il loro significato, ma soprattutto in esse il loro autore è presente e attivo ancora oggi (cf. anche DV, SC).

Lo stesso si può dire dei miracoli-segni compiuti da Gesù: «se egli non è risorto, rimangono come splendidi segni di una primavera trascorsa o come mirabili prodigi di una guaritore...ma se egli è risorto, le sue azioni non possono essere ristrette solo al passato. Si veda la conclusione del vangelo di Matteo: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque...fate mie discepole tutte le genti”. Si veda anche la guarigione di cui si racconta negli Atti, con la spiegazione di Pietro: “Nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi sano e salvo”, il che indica come l’opera e l’azione di Gesù sia ancora efficace» (At. 4). E l’azione di Gesù è efficace perchè la persona di Gesù è viva.


Trasformati dalla potenza del Risorto

«Chi crede in me opererà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perchè io vado al Padre» (cf. Gv 14,12). Anche un testo simile parla della potenza divina del Risorto-Vivente. Gesù insomma, lungi dallo smettere di operare, continuerà a farlo attraverso i suoi; cambia solo il modo del suo operare, così come cambia il modo della sua presenza nella storia.

Tutto questo presuppone – cosa che tutto il NT si premura di esplicitare – che il Risorto è proprio lo stesso Gesù di Nazaret. La risurrezione di Gesù non è il ritorno allo stato di vita precedente, ma passaggio (pasqua) a uno stato di vita nuovo. Anzi, si può dire del Risorto ciò che Paolo dice della risurrezione in genere: Ciò che semini non prende vita se prima non muore. «Si semina corruttibile e risorge incorruttibile...si semina debole e risorge pieno di forza...si semina un corpo animale e risorge un corpo spirituale». E allora è comprensibile anche il dubbio dei testimoni di fronte alle apparizione del Risorto. Essi sono davanti a lui nella pienezza della sua potenza. La difficoltà sta appunto nel riconoscerlo come lo stesso Gesù della debolezza e della piccolezza. Ecco dunque lo stupore religioso dei discepoli sulle rive del lago di Galilea quando dicono: «É il Signore»; o di Maria di Magdala quando esclama: «Rabbunì»... è proprio lui!

«Al momento della trasfigurazione – sintetizza mons. Monari – alcuni discepoli hanno potuto vedere la gloria di Dio nell’umanità di Gesù; nelle apparizioni pasquali i discepoli devono imparare a vedere l’umanità di Gesù nella sua gloria di Vivente». È per questo che Gesù mostra ripetutamente i segni della passione («con i segni della passione vive immortale» recita la liturgia). Ed è il motivo per cui condivide i pasti con i suoi: mangiare insieme aiuta soprattutto i discepoli a sperimentare la gioia della comunione con lui come l’avevano sperimentata prima della vita trascorsa insieme.

Ecco dunque l’importanza di sottolineare la continuità tra il Risorto e il Crocefisso, imparando a leggere l’unità inscindibile del mistero pasquale. Solo così la croce cessa di apparire come un momento di oscurità o di latenza provvisoria di quella divinità che si era manifestata con i miracoli e si manifesterà appieno con la luce della pasqua di risurrezione. Significativo per cogliere questa inscindibile unità il testo dell’Apocalisse dov’è scritto: «Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e gli inferi». Andando un po’ oltre si potrebbe addirittura dire: «Proprio perchè ho fatto l’esperienza della morte, vivo della vita di Dio; perchè ho subìto la morte come uomo, ma trasformandola nell’obbedienza a Dio nell’amore per “i molti”, sono il Vivente in eterno». Da questo punto di vista la morte non è più un punto nero da dimenticare, ma l’unica condizione per vivere e per cogliere in tutta la sua ricchezza l’evento della risurrezione.

«Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo – scrive Gv 13,1 – sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, li amò sino alla fine». Ecco la Pasqua, questo passaggio che per la Mishnà è «passaggio dalla schiavitù alla libertà, dalla tristezza alla gioia, dalla morte alla vita». Sono tonalità da far risuonare nell’annuncio gioioso della pasqua. Giovanni evangelista però non ha più il riferimento allo scampato pericolo del libro dell’Esodo, ma innesta un tema nuovo: pasqua come passaggio «da questo mondo al Padre». Gesù, Verbo del Padre, ha assunto una carne umana, è entrato dentro le fibre di questo mondo, assumendone le realtà di limite e debolezza. Ma ora con la sua umanità passa da questo mondo al Padre: è il mistero della divinizzazione di tutta l’umanità portando a compimento l’incarnazione del Figlio di Dio.

Il primogenito dai morti vive per sempre in un corpo glorioso e sarà quello stesso corpo trasfigurato che ogni credente in Cristo abiterà per sempre nel momento del pieno svelamento del mistero di Dio. Mistero per molti versi incomprensibile e ineffabile. Ma realizzato e reale, per il Risorto e per tutti i credenti in lui.

(da Settimana, n. 11-12, marzo, 1997)

Letto 1580 volte Ultima modifica il Lunedì, 24 Luglio 2006 12:07
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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