Note sul sacerdozio femminile nell'antichità
in margine a una testimonianza di Gelasio I
di Giorgio Otranto
In un’epoca come la nostra che ha riconsiderato, profondamente rivalutandoli, il ruolo e la presenza della donna nella famiglia, nell’ambiente di lavoro e nella società, il problema dell’ammissione delle donne al sacerdozio non poteva non suscitare un rinnovato interesse; esso è diventato anzi una delle più dibattute questioni ecclesiologiche di questi ultimi quindici anni. Sono sorti agguerriti movimenti di opinione, si sono levate voci di studiosi di diverse estrazioni culturali e professionali, si è sviluppato un vivace dibattito e nel 1976 si è registrato un intervento della Sacra Congregazione per la dottrina della fede che, nella Dichiarazione Inter insigniores, ha ancora una volta ufficialmente ribadito la posizione della Chiesa cattolica, da sempre contraria all’ammissione delle donne al sacerdozio e all’episcopato (1). Dopo questa Dichiarazione si sono moltiplicate le indagini, il dibattito si è fatto ancora più serrato, ma sostanzialmente le posizioni non sono cambiate, direi anzi che si sono cristallizzate e radicalizzate.
Come sempre succede quando si tratta di dare soluzioni adeguate a questioni dottrinali e disciplinari, anche in questo caso ci si è rivolti, con diversi intendimenti e risultati, al mondo antico. E qui il Magistero ordinario ha ritrovato le motivazioni su cui si radica la sua tradizionale opposizione al conferimento del sacramento dell’Ordine alle donne: il Cristo non ha chiamato alcuna donna a far parte dei Dodici e tutta la tradizione della Chiesa si è mantenuta fedele a questo dato interpretandolo come volontà esplicita del Salvatore di conferire soltanto all’uomo il potere sacerdotale di governare, insegnare e santificare; e solo l’uomo, per la sua naturale rassomiglianza col Cristo, può esprimere sacramentalmente il ruolo del Cristo stesso nell’Eucaristia. D’altra parte, coloro che sono su posizioni antitetiche, nel richiamarsi pure alla cristianità antica, con diverse argomentazioni fanno rilevare che la posizione ufficiale della Chiesa è conseguenza di un’antropologia tutta calata nel mondo antico e difficilmente accettabile dalla sensibilità moderna un’antropologia che risente dello stato di inferiorità palese in cui la donna era tenuta nell’ambiente greco e romano e, ancor più in quello palestinese che vide nascere il cristianesimo.
Queste, sostanzialmente, sono le posizioni anche se al loro interno si possono cogliere diverse sfumature e articolazioni, che non è qui il caso di richiamare, anche perché questo contributo, ben lungi dal voler entrare nel merito della vexata quaestio, mira solamente a fornire ulteriori elementi per la ricostruzione storica di un quadro che sia il meno frammentario ed approssimativo possibile. D’altro canto, ogni volta che si è data, da una parte e dall’altra, una soluzione decisa alla questione, si è dovuto dare il massimo rilievo ad alcuni elementi e motivi trascurandone, spesso pregiudizialmente, altri.
Tra le non poche ricerche incentrate in modo specifico sull’argomento in questione vanno segnalate almeno quelle di Van der Meer (2), Gryson (3), Galot (4), i quali mettono in rilievo nella Chiesa antica la donna non ha mai esercitato il ministero sacerdotale e che la sola funzione consentitale a partire dal III secolo, nell’ambito della comunità, era il diaconato in Oriente, tranne che in Egitto; i compiti assegnati a tale ministero erano la cura delle donne inferme e l’assistenza al battesimo delle donne. L’istituzione del diaconato femminile non ha varcato i confini dell’Oriente e i tentativi fatti nel IV e V secolo per introdurlo in Occidente non ebbero praticamente successo (5). Questa conclusione è senza dubbio corretta, ma non dà conto (o lo fa solo sommariamente) di alcuni episodi e fenomeni in forza dei quali la questione dell’ammissione delle donne al sacerdozio si presenta come problema abbastanza vivo sin dai primi secoli cristiani.
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Tra questi episodi ha un valore particolare uno di cui è tramandata notizia in un’epistola di Gelasio I (492-496), che fornisce elementi finora non adeguatamente valutati dagli studiosi (6). Van der Meer (7) le dedica non più che un accenno, mentre Gryson (8) e Galot (9), pur soffermandosi un po’ più distesamente sulla testimonianza gelasiana, non ne traggono alcuna conclusione e lamentano nell’epistola la mancanza di indicazioni precise: un’affermazione, quest’ultima, che non mi trova del tutto concorde. Ma vediamo di che si tratta.
Gelasio nel 494 (10) indirizza una lunga ed interessante epistola … ad universos episcopos per Lucaniam, Brutios et Siciliam constitutos. Essa è costituita da 27 decreti in cui il vescovo di Roma affronta numerose e rilevanti questioni (11) che, ad esclusione di alcune più propriamente sacramentali, riguardano in massima parte l’organizzazione interna delle comunità, le condizioni richieste per accedere alla dignità clericale, i rapporti tra vescovo, presbitero e diacono, le ordinationes e i negotia dei clerici, la dedicazione di nuove basiliche, la disciplina del clero. Quattro dei decreti sono dedicati alla presenza delle donne nell’ambito delle comunità cristiane: il XII tratta della consacrazione delle vergini; il XIII e il XXI riguardano il divieto della velatio per le vedove; il XXVI, infine, è quello che ci interessa più da vicino in quanto affronta esplicitamente il problema del sacerdozio delle donne:
“Nihilominus impatienter audivimus, tantum divinarum rerum subiisse despectum, ut feminae sacris altaribus ministrare firmentur, cunctaque non nisi virorum famulatui deputata sexum cui non competunt, exhibere” (12).
Gelasio, dunque, dichiara di aver appreso con rammarico che il disprezzo per quello che riguardava la religione cristiana era arrivato a tal punto che le donne venivano ammesse a sacris altaribus ministrare: espressione che indica senza possibilità di dubbio lo svolgimento di un servizio liturgico presso gli altari. In tal senso il termine ministrare, corrispondente del greco diakonein, è adoperato in tutta la letteratura cristiana delle origini e trova sicura, antica attestazione negli Atti (13,2) e nell’epistola agli Ebrei (10,11) (13).
In Giuliano Pomerio, autore contemporaneo di Gelasio, ricorre la medesima espressione altari ministrare per designare lo svolgimento del servizio cultuale sacerdotale (14). Lo stesso termine (o il sostantivo minister-ministra) veniva adoperato anche in riferimento all’azione liturgica di diaconi e diaconesse. E’ qui appena il caso di ricordare la celebre lettera di Plinio il Giovane a Traiano in cui vengono menzionate due diaconesse (duae ancillae, quaeministraedicebantur) (15). Nel c. II del concilio di Tours del 461 si vieta a sacerdoti e diaconi di plebi ministrare in determinate circostanze (16).
Stabilire se l’espressione ut feminae sacris altaribus ministrare firmentur faccia riferimento al servizio liturgico di diaconesse o presbitere potrebbe essere, almeno in questo caso, di secondaria importanza, dal momento che subito dopo Gelasio aggiunge di aver anche saputo che le donne compivano tutte le funzioni che erano state assegnate solamente al ministero degli uomini e non competono al sesso femminile:cunctaque non nisivirorumfamulatui deputata sexum, cui non competunt, exhibere. Galot considera famulatui termine generale per designare il servizio del culto e su questa base, così come aveva fatto Gryson (17), rimane sostanzialmente in dubbio se si tratti di servizio diagonale o sacerdotale (18). A me pare, invece, che tutta l’espressione, abbia un suo significato preciso in margine al quale si impongono alcune considerazioni. Va rilevato innanzitutto che Gelasio in un altro locus della stessa epistola adopera ecclesiasticus famulatus come sinonimo di ministerium clericale (19). E che nel nostro caso virorum famulatus indichi non il ministerium clericale del diaconus, ma quello più comprensivo del presbyter si desume dal cuncta che qualifica la pienezza delle attribuzioni, liturgiche, giurisdizionali e magisteriali, del virorum famulatus: le funzioni esercitate dalle donne presso gli altari non possono quindi, che riferirsi all’amministrazione dei sacramenti, al servizio liturgico e all’annunzio pubblico e ufficiale del messaggio evangelico, che costituiscono praticamente i compiti del sacerdote ministeriale.
In definitiva ritengo che Gelasio, piuttosto che l’esercizio di un servizio liturgico diagonale femminile, abbia voluto stigmatizzare e condannare un abuso che gli doveva apparire di gran lunga più grave: quello di vere e proprie presbitere che svolgevano tutti i compiti tradizionalmente riservati solo agli uomini. Si comprende così non solo il tantus divinarum rerum despectus, ma anche la durezza e l’insistenza con cui Gelasio, nel prosieguo del decreto, condanna l’operato di quei vescovi che o commettono tali abusi o, non denunziandoli pubblicamente, danno a vedere di favorirli; sempre che, continua il papa con sarcasmo, si possono chiamare vescovi coloro che sminuiscono a tal punto il ministero loro affidato e non hanno alcun rispetto per le regole invalse nella Chiesa. Che cosa bisogna pensare di questi uomini che, completamente assorbiti dai loro affari, hanno procurato con diverse iniziative una grande rovina che non solo sembra travolgere loro stessi, ma anche provocare, se non rinsaviscono, un danno fatale a tutte le Chiese? Sia questi vescovi, sia gli altri che, pur sapendo, non hanno denunciato la situazione, per Gelasio, di perdere la propria dignità episcopale. Nessuna attenuante può esserci, conclude il papa, né per quanti, pur conoscendo i canoni, non li hanno fatti rispettare né per quanti, ignorandoli, non si sono preoccupati di informarsi sulla condotta da tenere (20).
Gelasio, dunque, fa riferimento alla questione del sacerdozio delle donne solo nella parte iniziale del decreto; nel prosieguo di esso si limita a denunciare con un linguaggio altisonante la gravità dell’errore, prospettando con insistenza, le conseguenze dannose che possono derivare alle Chiese da quell’abuso; e fa tutto questo senza mai entrare nel merito della questione, senza cioè enucleare eventuali motivazioni di ordine scritturistico o teologico per rifiutare l’ammissione delle donne al sacramento dell’Ordine. Fa solo riferimento a più riprese alla regula christiana, alle regulae ecclesiasticae e ai canones che alcuni vescovi avevano o violato o ignorato. Evidentemente il ripetuto richiamo alla tradizione doveva essere ritenuto dal papa sufficiente per far apparire in tutta la sua gravità la natura dell’abuso condannato.
Il riferimento insistente alle gravi responsabilità dei vescovi qui ista committunt e qui haec ausi sunt exercerepuò avere un significato preciso che è indicativo della consistenza e della ratio del fenomeno in questione. I verbi committere ed exercere postulano una partecipazione attiva e fattuale di alcuni presuli alla perpetrazione dell’abuso; e questa partecipazione non può esaurirsi in un atteggiamento di semplice assenso o di indifferenza e distacco verso il fenomeno in questione; essa deve necessariamente coinvolgere in modo diretto i vescovi nell’exercitium del loro potere. Sono convinto che con le espressioni ista committunt e haec ausi sunt exercere Gelasio intende richiamare un mandato preciso conferito da alcuni presuli alle donne per l’esercizio sacerdotale: il richiamo, trattandosi di vescovi, non può che essere alla ordinazione sacerdotale che consentiva, appunto, l’esercizio del sacramento dell’Ordine da parte di alcuni rappresentanti del sesso femminile. Non si tratterrebbe, in sostanza, di semplici abusi perpetrati da alcune donne, ma di iniziative più consistenti che vedevano coinvolti in prima persona anche i vescovi. Una conferma a tale ipotesi può vedersi nell’espressione secondo cui questi vescovi hanno procurato una grande rovina alla Chiesa con diverse iniziative (multimodis impulsionibus); una di queste, certamente la più grave, è a parer mio quella di aver conferito il sacramento dell’Ordine alle donne. D’altra parte, la differenza e l’insistenza con cui Gelasio condanna l’operato dei vescovi lasciano ragionevolmente supporre responsabilità dirette molto gravi da parte di alcuni di loro nella vicenda trattata; per altri l’accusa è più generica e si limita ad evidenziare un atteggiamento di tacito e colpevole assenso ad un comportamento che contravveniva ai canones. I canoni ai quali potrebbe voler far riferimento Gelasio sono il XIX del concilio di Nicea (21), l’XI e il XLIV del concilio di Laodicea (seconda metà del IV secolo) (22), il II del concilio di Nǐmes (394 o 396) (23) il XXV del I concilio di Orange (441) (24), che proibiscono alle donne di svolgere il servizio liturgico comunque configuratesi o di far parte del clero. E’ superfluo in questa sede analizzare tali canoni anche perché questi sono stati esaminati da Van der Meer (25), Gryson (26) e Galot (27).
Circa l’estensione del fenomeno lamentato da Gelasio va tenuto presente che il papa ne tratta, come ho già detto, in un’epistola che affronta numerose questioni di ordine disciplinare, organizzativo e dottrinale e che fu inviata a tutti i vescovi di Lucania, Bruzio e Sicilia. Con la lettera in questione, comunque, Gelasio molto probabilmente intendeva risolvere situazioni che non erano esclusive delle regioni ricordate. L’epistola,infatti, come il suo autore chiarisce in apertura, prende le mosse da una relazione che Giovanni, vescovo di Ravenna (477-494), gli aveva mandato per sollecitare il riordinamento delle Chiese di diverse regioni d’Italia, sconvolte dalla carestia e dalla guerra tra Odoacre e Teodorico (28). Lanzoni ha supposto che l’iniziativa del vescovo Giovanni dovesse essere stata concordata con la corte di Ravenna (29): in effetti a Teodorico, che si accingeva ad una difficile opera di ricostruzione politica e che doveva risolvere anche il problema della convivenza tra cattolici ed ariani, necessitava operare in una società senza urti e contrasti.
Anche se è difficile pensare che il fenomeno del sacerdozio femminile fosse capillarmente diffuso in tutte e tre le regioni o in molto altre parti d’Italia, è probabile che episodi quali quelli condannati dal papa non siano rimasti fenomeni isolati e circoscritti in un ambito ristretto. L’intervento perentorio di Gelasio, che coinvolge parecchi vescovi nella questione, prova anzi che la situazione doveva essere giunta a un punto tale da preoccupare seriamente Roma. D’altra parte, se si fosse trattato di qualche caso isolato, probabilmente il papa, non fosse ’altro che per motivi di prudenza, non avrebbe trattato in un’epistola che, considerata la rilevanza degli argomenti affrontati, doveva avere diffusione non solo in Lucania, Bruzio e Sicilia, ma praticamente anche in altre regioni che fossero per un verso o per l’altro interessate alle numerose questioni trattate nel documento o solo a qualcuna di esse. Epistole come quella in oggetto erano destinate a circolare in tutte le comunità e costituivano per la gerarchia una sorta di prontuario per poter affrontare determinati problemi interni di ordine disciplinare, organizzativo, dottrinale. E non è da escludere che Gelasio abbia inviato la medesima epistola ad altre chiese che erano interessate agli stessi problemi in essa trattati (30).
In definitiva dall’analisi dell’epistola mi pare possa desumersi che sul finire del V secolo in una vasta area dell’Italia meridionale, se non anche in altre non identificabili regioni d’Italia, alcune donne, ordinate da vescovi, esercitavano un vero e proprio sacerdozio ministeriale.
E’ difficile, allo stato attuale della ricerca, precisare la genesi di tale fenomeno. Va tenuto, comunque, presente, come è stato opportunamente sottolineato (31), che l’area entro cui esso si verific0, l’Italia meridionale, era tradizionalmente collegata con gli ambienti greci e bizantini, dove a partire dal III secolo le donne esercitarono stabilmente il diaconato; alla fine del IV secolo le diaconesse venivano annoverate tra i clerici, giacché, come questi, ricevevano l’ordinazione con l’imposizione delle mani secondo un preciso rituale, precisi obblighi e condizioni giuridiche (32). Né va dimenticato che proprio in Oriente, in Asia Minore, soprattutto in ambiente gnostico e montanista si erano registrati sin dal II secolo casi di donne con le funzioni di presbitero o di vescovo che la Chiesa aveva condannato.
Ireneo tramanda che lo gnostico valentiniano Marco si circondava di donne cui ordinava di consacrare alla sua presenza calici contenenti vino (33).
Firmiliano di Cesarea, in un’epistola a Cipriano, condanna duramente l’attività di una donna che, attorno al 235, in Asia Minore attirava un gran numero di fedeli, battezzava e celebrava l’Eucaristia secondo il rituale della Chiesa (34).
Uguale condanna esprime Epifanio di Salamina per alcune sette montaniste della Frigia che consentivano alle donne l’accesso al sacerdozio e all’episcopato (35).
Su questa base mi pare possibile ipotizzare un’influenza dell’ambiente greco e bizantino che avrebbe determinato o favorito il sorgere del fenomeno della donna-presbitera in Italia meridionale.
Naturalmente non sorprende trovare in queste regioni, soprattutto nel Bruzio e nella Sicilia, a livello di faciespassim quocumque tempore (37). culturale cristiana, elementi e motivi che riconducono, per un verso o per l’altro, al mondo bizantino ancor prima della guerra greco-gotica (535-553), basti pensare che nel 447 Leone Magno esorta i vescovi di Sicilia a non amministrare il battesimo, secondo l’usanza greca, anche nel giorno dell’Epifania, oltre che a Pasqua e Pentecoste (36). E Gelasio intende molto probabilmente ribadire proprio questo divieto quando nel X decreto dell’epistola in questione invita i vescovi di Lucania, Bruzio e Sicilia ad amministrare il battesimo solo a Pasqua e Pentecoste e non
Il fenomeno del sacerdozio delle donne in Italia meridionale andrebbe, dunque, visto nel contesto della particolare sensibilità di questa area geografica al richiamo del mondo bizantino. Sensibilità che porterà, tra VII e VIII secolo, ad una sempre più evidente ellenizzazione della Chiesa nelle regioni interessate, soprattutto in Sicilia e Bruzio (38). E se nel fenomeno del sacerdozio delle donne si può genericamente cogliere una matrice greca e bizantina, va specificato che l’episcopato di Lucania, Bruzio e Sicilia (o parte di esso), conferendo l’Ordine sacro alle donne e consentendo loro di svolgere presso gli altari cuncta non nisi virorum famulatui deputata, era andato ben al di là del modello cui probabilmente guardava.
La presenza, sul finire del V secolo, di presbitere nel Bruzio non può non richiamare un’epigrafe che riveste notevole importanza come documento storico in relazione alla questione che sto trattando: B(onae) m(emoriae) s(acrum). Leta presbitera / vixit annos XL, menses VIII, dies VIIII / quei (scil.cui) bene fecit maritus. / Precessit in pace pridie / idus Maias (39). L’epitaffio fa riferimento ad una Leta presbytera, defunta poco più che quarantenne, alla quale il marito aveva posto la tomba; esso proviene dalla catacomba di Troppa, una cittadina che ha restituito la più consistente documentazione epigrafica e monumentale del Bruzio paleocristiano (40).
Nel termine presbytera finora tutti gli studiosi, da De Rossi (41) a Crispo (42) a Ferrua (43), sulla spinta che non ha mai fatto alcuna concessione al sacerdozio femminile hanno sempre visto la moglie del presbyter. Alla luce di quanto emerso dall’epistola gelasiana mi pare si possa ragionevolmente ipotizzare che la Leta dell’epigrafe di Troppa fosse una vera e propria presbytera, una donna, cioè che svolgeva il ministero sacerdotale nella comunità cristiana di Troppa. Anche la datazione dell’epitaffio, che Ferrua fa risalire alla metà del V secolo (44), avvalora questa ipotesi. Le due notizie, dunque, quella gelasiana e quella tradita dall’epigrafe, si illuminano e si confermano a vicenda, attestando l’esistenza del sacerdozio femminile nel Bruzio tra la metà e la fine del V secolo.
Oltre che questa significativa convergenza con l’epistola gelasiana, un altro motivo mi induce a vedere in Leta una vera e propria presbitera. Se Leta fosse una uxor presbyteri dovremmo inferirne che il marito, che le ha posto la tomba, ha rinunziato a qualificarsi come presbyter per trasferire sulla moglie tale qualifica. Operazione di cui sinceramente non so vedere alcuna ragione valida di cui non si ha riscontro nella documentazione epigrafica. Stando alle testimonianze che ho potuto raccogliere, ogni volta che un presbyter dispone la tomba o provvede alla sepoltura della moglie, questa viene sempre indicata col termine coniux (45) e, in qualche caso,amatissima (46). D’altra parte, anche a livello letterario è ricorrente l’accostamento presbyter-presbytera per indicare in presbytera la moglie del presbyter (47), ma non è mai stato attestato, a quel che mi risulta, maritus (o coniux o vir) - presbytera.
Un’altra presbytera è ricordata in un’epigrafe su un sarcofago proveniente da Salona, in Dalmazia che porta la data consolare del 425 (48). D(ominis) n(ostris) Thaeodosio co(n)s(ule) XI et Valentiniano/viro nobelissimo Caes(are). Ego Thaeodo/sius emi a Fl(avia) Vitalia per(es)b(ytera) sanc(ta) matro/na auri sol(idis) III. Sub d(ie)… (49) L’epigrafe richiama il fenomeno dell’assegnazione e della vendita dei posti nei cimiteri comunitari cristiani. Tale attività a Roma, città per la quale siamo meglio informati, fu gestita inizialmente dai fossores e successivamente da praepositi e presbiteri (50). Stando all’epigrafe, Teodosio aveva acquistato per tre solidi d’oro un posto nel cimitero subdiale di Salona dalla presbytera Flavia Vitalia (51). Pure in questo caso,dunque, una presbytera è investita di un compito ufficiale che nella comunità, da una certa epoca in poi, fu proprio del presbyter (52). Anche se l’epigrafe non offre elementi sufficienti per poter dire che la presbbytera in questione svolgeva il ministero sacerdotale, sulla base della documentazione di cui attualmente disponiamo, a me pare che contratti di quel tipo si stipulassero direttamente con chi aveva un ruolo o una funzione ufficiale nell’ambito della comunità – il fossor, il praepositus, il presbyter (nel nostro caso la presbytera) – e non con la uxor presbyteri.
Proviene pure da Salona un frammento di coperchio di sarcofago, probabilmente del V-VI scolo, che reca la scritta (sace)rdotae (53). Potrebbe trattarsi, anche in questo caso, di una donna investita, come la conterranea Flavia Vitali, di funzioni sacerdotali.
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Oltre al fenomeno testimoniato dall’epistola gelasiana, la cristianità antica ha conosciuto altri casi di donne che svolgevano il servizio liturgico; questi interessano, come ho già rilevato, a partire dal II secolo, gli ambienti gnostici e montanisti, contro cui polemizzano a più riprese i Padri della Chiesa.
Agli inizi del VI secolo, in un’epoca quindi molto vicina a quella dell’epistola gelasiana, si ha notizia di un altro caso di donne che partecipavano attivamente alla liturgia. Il caso è segnalato per il 511 in Gallia dai vescovi Licinio di Tours, Melanio di Rennes ed Eustochio di Angers che indirizzarono un’epistola ai sacerdoti bretoni Lovocario e Catiherno, rimproverandoli di servirsi, durante la Messa, di donne che prendevano in mano il calice e distribuivano al popolo il sangue di Cristo. I vescovi condannano severamente l’operato dei due presbiteri e, appellandosi alla tradizione, li minacciano di escluderli dalla comunione ecclesiastica qualora non smettano di farsi assistere da quelle donne (conhospitae) (54), con le quali inoltre convivevano (55).
Dall’epistola si desume che queste conhospitae svolgevano il servizio liturgico proprio non del presbyter ma piuttosto del diaconus, cui era consentito amministrare la comunione: si tratta, in ogni caso, di attribuzioni che andavano al di là dei compiti tradizionalmente riservati in Oriente alle diaconesse.
E proviene dai dintorni di Poitiers, una zona molto vicina a quella nella quale operavano i tre vescovi, un graffito di dubbia datazione (56) che attesta lo svolgimento di un servizio della donna presso gli altari: Martia presbuteria/ferit oblata Oleari/o par(iter) et Nipote. Contrariamente a Mommsen (57) e a Diehl (58) che riferiscono presbyteria ad obblata (= oblationes presbyterales), ritengo che presbytera stia per presbytera proprio come nel canone XX del concilio di Tours (59) e nel canone XXI del concilio di Auxerre della seconda metà del VI secolo (60). Non è facile precisare la natura del servizio svolto da Marzia: questa è la uxor presbyteri che porta (ferit = fert) il pane e il vino per la celebrazione eucaristica come una semplice fedele o è una presbytera con compiti più specifici nella liturgia eucaristica? Olybrius e Nepos sono quasi sicuramente due presbyteri che officiavano nella comunità di cui faceva parte anche Marzia; ed è probabile che questa collaborasse abitualmente con loro durante la sinassi eucaristica. Il fatto che si sia voluto ricordare un’azione svolta da Marzia nell’ambito della celebrazione liturgica potrebbe significare che non ci si trova di fronte al gesto usuale dei fedeli al momento dell’offertorio, ma piuttosto di fronte ad un atto abitualmente compiuto dal diacono o da un altro membro del clero. Potrebbe trattarsi in definitiva di un servizio liturgico analogo a quello delle conhospitae che collaborano con i presbyteri Lovocato e Catiherno.
A me pare di notevole interesse questa convergenza tra documentazione letteraria e documentazione epigrafica che attestano, nella stessa zona o in zone confinanti della Gallia, una funzione particolare, e certo non abituale, della donna nell’ambito della celebrazione eucaristica. Può, beninteso, anche trattarsi di un semplice caso, ma va tenuto presente che la medesima convergenza si è rilevata anche per il Bruzio.
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Le notizie raccolte sul sacerdozio delle donne nell’antichità sono scarse e sparse. Alcune vanno ulteriormente verificate in un quadro ampio che includa anche la documentazione iconografica da cui possono venire nuovi stimoli per un ulteriore approfondimento del problema, come credo ne siano venuti da quella epigrafica.
Anche se sono attestati pochi casi di donne che svolgono le funzioni di presbyterae, la frequenza con cui deliberati conciliari e autori cristiani si soffermano, sempre polemicamente, sulla questione dell’ammissione delle donne al sacramento dell’Ordine fa pensare che i casi di donne che svolgevano le funzioni di presbytera o un altro tipo di servizio liturgico doveva essere molto di più di quelli attestati dalla documentazione letteraria ed epigrafica. Basta scorrere i saggi di Van der Meer, Gryson e Galot per rendersi conto della continuità con cui la gerarchia, i Padri e le assemblee conciliari hanno affrontato il problema dell’ammissione delle donne al sacramento dell’Ordine.
Tutto questo, a dispetto della lamentata esiguità della documentazione e contrariamente a quanto abitualmente si sostiene da parte di quelli che sono contrari al sacerdozio femminile, significa che la posizione assunta al riguardo dalla Chiesa antica – da tutta la Chiesa e non dalla sola gerarchia – non può configurarsi come una tradizione monolitica, ben definita cioè in tutti i suoi aspetti e risvolti o comunque accettata da tutti, ma piuttosto come una realtà in cammino, come una questione vivamente avvertita (61), dibattuta e qualche volta, anche se raramente, diversamente risolta. La tradizione diventa o è diventata monolitica nel momento in cui si condannano o si sono condannate tutte le soluzioni che nel passato si sono discostate da quella ufficialmente accettata e difesa dalla Chiesa cattolica. Su questo atteggiamento della Chiesa può avere influito anche il fatto che dal II secolo alcuni gruppi, condannati come eretici, ammettevano le donne al presbiterato e all’episcopato. Ma non necessariamente la presenza di una presbytera connotava la sua eterodossia o quella della Chiesa in cui viveva e svolgeva il suo ministero. Lo attesta in modo esplicito Attone, vescovo di Vercelli, vissuto tra IX e X sec., di cui sono noti l’attività riformatrice e l’impegno contro la corruzione del clero. Scrisse tra l’altro un tratto canonistico e raccolse, vita sacramentale ed espressione liturgica.
A lui si era rivolto un sacerdote di nome Ambrogio per chiedergli come si dovessero intendere i termini presbytera e diacona della canonistica antica. La sua risposta non lascia adito a dubbi. Egli comincia col rilevare che siccome nella Chiesa antica molta era la messe e pochi gli operai (Mt 9,37; Lc 10,2),anche le donne ricevevano gli Ordini sacri ad adjumentum virorum, come prova Rom 16,1 (Commendo vobis Phaebem sororem meam, quae est in ministerio Ecclesiae, quae est Cenchris); fu il concilio di Laodicea, della seconda metà del IV secolo, a proibire, per Attone, l’ordinazione presbiterale delle donne: Quod Laodicense postmodum prohibet concilium cap. 11, cum dicitus quod non oportet eas quae dicuntur presbyterae vel praesidentes in Ecclesiis ordinari (62). Molto siè scritto sul c. XI del concilio di Laodicea (peri tou mh dein tas legomenas presbutidas etoi prokaqemenas en th ekklesia kaqistasqai) (63) e sul significato del termine presbutidas, del quale si sono date diverse spiegazioni e si è sistematicamente escluso che possa indicare vere e proprie presbyterae. Ma questa esclusione è il risultato di un modo di procedere a tesi che ha fortemente condizionato non pochi studiosi. Basti leggere quello che scrive al riguardo Galot: “il canone 11 del concilio di Laodicea imbarazza i commentatori… Le incertezze riguardano il significato di ‘presbiteri’ e di ‘presidenti’, come del verbo ‘stabilire‘ o ‘ordinare‘. Se ci si dovesse fidare del titolo che ha il canone: ‘Non bisogna stabilire donne-preti nella chiesa‘ , si intenderebbe le ‘presbitidi‘ nel senso di ‘pretesse‘. Ma simile significato sembra impensabile nella chiesa cattolica, e si è cercato di identificare queste ‘presbitidi‘ sia con diaconesse superiori, sia con semplici diaconesse, sia con donne anziane, incaricate della sorveglianza delle donne nella chiesa (64). Alla luce di quanto finora osservato, perché non dare del c. XI di Laodicea l’interpretazione che sembra più ovvia? Perché non riconoscere l’interpretazione che sembra più ovvia? Perché non riconoscere, come fa Attone che esso proibisce l’ordinazione presbiterale delle donne? Lo stesso Galot ammette che si tratta di proibizione del sacerdozio femminile, anche se ne circoscrive la portata riferendola alla polemica antimontanista (65).
Ma ritorniamo al vescovo di Vercelli. Egli, dopo essersi soffermato sulla figura della diaconessa, ribadisce che nelle comunità cristiane antiche non solo gli uomini ma anche le donne venivano ordinate (ordinabantur) ed erano a capo della comunità (praeerant ecclesiis), erano chiamate presbyterae ed avevano il compito di predicare, comandare, insegnare (Hae quae presbyterae dicebantur, praedicandi, iubendi vel edocendi… officium sumpserant) (66): in questi tre termini è condensato il ruolo del sacramento dell’Ordine.
Conoscitore profondo della canonistico e delle istituzioni ecclesiastiche, il vescovo di Vercelli precisa che il termine presbytera poteva indicare nella Chiesa antica anche la moglie del presbyter;delle due accezioni egli dichiara di preferire la prima (67); ma questa affermazione va vista nel contesto della polemica che Attone di Vercelli e numerosi altri autori medievali condussero contro la cosiddetta Nicolaitica haeresis e in favore del celibato sacerdotale (68).
Questa di Attone è una testimonianza di notevole rilievo per la questione del sacerdozio femminile nell’antichità; e stranamente nessuno degli autori che si è interessato del problema, da Van der Meer, che pure fa una ricca raccolta di fonti antiche e medievali, a Gryson, a Galot ne ha fatto cenno.
Il solo Martimort, nel suo recentissimo saggio, l’ha presa in considerazione mostrandosi sorpreso per la spiegazione del termine presbytera data da Attone (69). In altri casi la stessa testimonianza è stata volutamente ignorata (70) evidentemente perché non in linea con quella che sembrava la tradizione unanime; essa avrebbe dovuto ingenerare per lo meno il dubbio, dal quale soltanto può derivare una certezza motivata, quale che sia. Ho l’impressione, invece, che nel corso dei secoli si sia operata, in parte accidentalmente in parte per motivi di prudenza o per conformismo, una decisa selezione o una preconcetta interpretazione delle già scarse notizie riguardanti l’esercizio del ministero sacerdotale da parte delle donne. Alla luce della testimonianza di Attone bisogna tentare di recuperare anche quelle testimonianze che a prima vista ci appaiono solo come schegge o frammenti di storia per ricomporre un quadro il più ampio possibile. E forse, quanto la ricerca sarà più spassionata, questo quadro potrà fornire utili punti di riferimento affinché la questione dell’ammissione delle donne all’ordine sacro venga affrontata col supporto di una più ampia base documentaria.
Note
1) La dichiarazione, firmata Paolo VI il 15 ottobre 1976, fu resa pubblica il 27 gennaio 1977 sull’Osservatore Romano; AAS 69, 1977, n. 2, pp. 98-116.
2) H. VAN der MEER, Sacerdozio della donna? Saggio di storia della teologia, Brescia 1971 (trad. it.; ed. or. in tedesco pubblicata a Basel nel 1969)
3) R. GRYSON, Il ministero della donna nella Chiesa Antica, Roma 1974 (trad. it.; ed. or. in francese pubblicata a Gembloux nel 1972).
4) J. GALOT, La donna e i ministeri nella Chiesa, Assisi 1973. Sulla questione cfr. i contributi di P.H. LAFONTAINE, Le sexe masculin, condition de l’accession aux ordres aux IV° et V° siècles: Revue de l’Université d’Ottawa 31, 1961, 137-182; Les conditions positives de l’accession aux ordres dans la première législation ecclésiastique (300-492), Ottawa 1963.
5) Mentre Van der Meer tratta solo di sfuggita il problema delle diaconesse (Sacerdozio… cit. pp. 119-122), Gryson (Il ministero… cit. passim e pp. 201-202) e Galot (La donna… cit. passim e pp. 24-46) analizzano più diffusamente questo tema.
6) Ep. 14 (In A. THIEL, Epistulae Romanorum pontificum genuinae, Hildesheim-New York 1974, rist. Ed. 1867, pp. 360-379)
7) Sacerdozio… cit. p. 128.
8) Il ministero… cit. pp. 194-195.
9) La donna… cit. pp. 86-87.
10) L’epistola è datata all’11 marzo (Ep. 14,28; Thiel p. 379).
11) Il Lanzoni, per l’importanza e la ricchezza delle questioni trattate, la definisce epistola-enciclica. (La diocesi d’Italia dalle origini al principio del secolo VII, Faenza 1927, vol. I, p. 329).
12) Ep. 14,26; Thiel 376-377.
13) Cfr. A.M.P. ELLEBRACHT, Remarks on the vocabulary of the ancient orations in the Missale Romanum, Nijmegen-Utrecht 1963,p. 104; A. BLAISE, Le vocabulaire latin des principaux thèmes liturgiques, Turnhout 1966, pp. 502-503.
14) Vita cont. 2,7,3: PL 59,452.
15) Ep. 10,96,8.
16) In Concilia Galliae A. 314-A. 506 (C. Munier): CCL 148, 144.
17) Il ministero… cit p. 195
18) La donna… cit p. 86, n. 56.
19) Ep. 14,14; Thiel 370.
20) Ep. 14,26; Thiel 377-378: Nisi quod omnium delictorum, quae singillatim perstrinximus, noxiorum reatus omnis et crimen eos respicit sacerdotes, qui vel ista committunt, vel committentes minime publicando pravis excessibus se favere significant: si tamen sacerdotum jam sint vocabulo nuncupandi, qui delegatum sibi religionis officium sic prosternere moliuntur, ut in perversa quaeque profanaque, sine ullo respectu regulae Christianae praecipitia funesta sectentur. Quumque scriptum sit: Minima qui spernit, paulatim decidit; quid est de talibus existimandum, qui immensis ac multiplicibus pravitatum molibus occupati, ingentem ruinam multimodis impulsionibus ediderunt, quae non solum ipsos videatur obruere, sed et ecclesiis universis mortiferam, si non sanentur, inferre perniciem? Nec ambigant non solum qui haec ausi sunt exercere, sed etiam qui hactenus cognita siluerunt, sub honoris proprii se jacere dispendio, si non quanta possunt celeritate festinent, ut lethalia vulnera competenti medicatione salventur. Quo enim more teneant jura pontificum, qui pontificalibus excubiis eatenus injuncta dissimulant, ut contraria domui Dei, cui praesident, potius operentur? Quantumque apud Deum possent, si non nisi convenientia procurarent, tantum quid mereantur adspiciant, quum exsecrabili studio sectantur adversa, et quasi magis haec regula sit, qua ecclesiae debeant gubernari, sic quidquid est ecclesiasticis inimicum regulis perpetratur: quum et si cognitos habuit canones unusquisque pontificum, intemerata debuerit tenere custodia, et si forsitan nesciebat, consulere fidenter oportuerit ignorantem. Quo magis excusatio nulla succurrit errantibus, quia nec sciens proposuit servare quod noverat, nec ignorans curavit nosse quod gereret.
21) Cfr. testo e discussione in R. GRYSON, Il mistero… cit. pp. 98-100.
22) Cfr. infra pp. 84-86
23) In CCL 148-50. Per la datazione di questo concilio che oscilla tra il 394 e il 396 cfr. CCL 148,49.
24) In CCL 148,49.
25) Sacerdozio… cit pp. 126-28.
26) Gryson dedica un capitolo all’analisi delle fonti canoniche greche dal IV al VI secolo (pp. 90-147) e un altro a quelle latine dello stesso periodo (pp 187-199)
27) La donna… cit. pp. 80-83 (per i canoni XI e XLIV di Laodicea).
28) Ep. 14,1; Thiel 362: … et reparandis militiae clericalis officiis, quae per diversas partes ita belli famisque consumpsit incursio, ut in multis ecclesiis, sicut fratris et coepiscopi nostri Johannis Ravennatis ecclesiae sacerdotis frequenti relatione comperimus…
29) Le diocesi… cit. vol. II, p. 754.
30) Cfr al riguardo le osservazioni di G. MINASI, Le Chiese di Calabria dal quinto al duodecimo secolo, Napoli 1896, pp.79-80.
Il decreto gelasiano sulla proibizione del sacerdozio femminile è richiamato in un documento dell’829 (cfr. inPL 97, 821-822; H. VAN der MEER, Sacerdozio… cit. p. 131).
31) R. GRYSON, Il ministero… cit. p. 195; J. GALOT, La donna… cit. p. 87.
32) La bibliografia sull’argomento è molto vasta. Oltre agli studi di Gryson (passim) e Galot (passim, spec. Pp. 22-46), cfr. quelli specifici di C. VAGAGGINI (L’ordinazione delle diaconesse nella tradizione greca e bizantina: Orientalia Christiana Periodica 4, 1974, 145-189) e G. FERRARI, Le diaconesse nella tradizione orientale: Oriente cristiano 14, 1974, pp. 28-50.
Solo in fase di ultima revisione del presente lavoro, ho potuto prendere visione del recente e documentato saggio di A. G. MARTIMORT (Les diaconesses. Essai historique, Roma 1982) che tende sostanzialmente a ridimensionare la presenza e il ruolo delle diaconesse nella Chiesa antica.
33) Adv. Haer. 1,13,2 (A. Rousseau-L. Doutreleau) SC 263,190-192 ; cfr. R. GRYSON, I misteri… cit. p. 44 ; J. GALOT, La donna… cit. pp. 67-69.
34) L’epistola è tramandata, tradotta in latino, nel corpus ciprianeo (Ep. 75,10: CSEL 3/II, 816-818); cfr. J. GALOT, La donna… cit. pp. 77-80.
35) Panarion 49,2,2-6 (K. Holl) GCS 31,242.
Per un quadro ampio delle testimonianze antiche sulle attribuzioni sacerdotali delle donne in ambiente montanista e colliridiano cfr. H. VAN der MEER, Sacerdozio… cit. pp. 66-70; R. GRYSON, I ministeri… cit. pp. 152-156; J. GALOT, La donna… cit. pp. 72-80.
36) Ep. 16,1-6: PL 54,695-702. l’uso orientale andava comunque diffondendosi anche in altre regioni dell’Occidente; cfr. M. RIGHETTI, Storia liturgica, IV, Milano 1959, pp. 91-93.
37) Ep. 14,10; Thiel 368. in caso di pericolo di vita per il battezzando, il battesimo naturalmente poteva essere amministrato in qualsiasi momento.
38) Cfr. G. GAY, l’Italia meridionale e l’impero bizantino dell’avvento di Basilio I ALLA RESA DI Bari ai Normanni (867-1071), Firenze 1917 (trad. it.) pp. 5-16; F. BURGARELLA, La Chiesa greca di Calabria in età bizantina (VI-VII secolo), in AA.VV, Testimonianze cristiane antiche ed altomedievali nella Sibaritide, Bari 1980, pp. 89-120; Q. CATAUDELLA, La cultura bizantina in Sicilia, in AA.VV, Storia della Sicilia, vol. IV, Palermo 1980, pp. 1-56.
39) CIL 10,8079; G. B. DE ROSSI in Bullettino di Archeologia cristiana 1877, p. 88, tav. VII, 4; E. DIEHL, Inscriptiones Latinae Christianae Veteres 1192 (Dublin-Zürich 1970).
40) Cfr. A. Crispo,Antichità cristiane della Calabria prebizantina: Archivio Storico per la Calabria e la Lucania 14, 1945, 127-141; 209-210; A. FERRUA, Note su Troppa paleocristiana: Archivio Storico per la Calabria e la Lucania 23, 1955, 9-29. Sul Bruzio paleocristiano fondamentali sono i contributi di F. Russo (cfr. la bibliografia in F. RUSSO, Introduzione del cristianesimo nella Sibaritide, in AA.VV., Testimonianze cristiane… cit. pp. 5-21).
Recenti scavi effettuati dalla Soprintendenza alle Antichità di Reggio Calabria hanno portato alla luce nuovi reperti, attualmente allo studio.
41) In Bullettino di Archeologia cristiana 1877, p. 88, tav. VII, 4:
42) Antichità cristiane… cit. p. 134.
43) Note su Troppa… cit. p. 11. Per Ferrua (ibidem) Leta fu probabilmente moglie del presbyter Monsens, ricordato in un altro epitaffio proveniente pure da Troppa (Diehl 1150).
44) Note su Troppa… cit. p. 25.
45) DIEHL 393.1130.1139Aa.1154.
46) 1163ab.
47) Cfr. il c. XX del concilio di Tours del 567: Nam si inventus fuerit presbiter cum sua presbiteria aut diaconus cum sua diaconissa aut subdiaconus cum sua subdiaconissa … (Concilia Galliae A. 511-A. 695 – C. DE CLERCQ – CCL 148A,184); c. XXI del concilio di Auxerre della seconda metà del VI secolo: Non licet presbytero post accepta benedictione in uno lecto cum presbytera dormire … (CCL 148A,268); GREG. M., Dial. 4,12: Qui (presbyter) ex tempore ordinis accepti presbyteram suam ut sororrem diligens... (U. MORICCA, Roma 1924, p. 243); Cod. Dipl. Long. A.724-725 (C. TROYA, Napoli 1853, vol. III, pp. 398-399); A.768 (Napoli 1855, vol. V, pp. 460-461).
48) Per la datazione cfr. A. DEGRASSI, I fasti consolari dell’impero romano dal 30 avanti Cristo al 613 dopo Cristo, Roma 1952, p. 89.
49) F. BULIĆ, Iscrizione inedita: Bullettino di Archeologia e Storia Dalmata 37, 1914, 107-111.
50) Cfr. P. TESTINI, Le catacombe e gli antichi cimiteri cristiani in Roma, Bologna 1966, pp. 221-226; J. GUYON, La vente des tombes à travers l’epigraphie de la Rome chrétienne (III-VII siècles): les rôles des fossores, mansionarii praepositi et prétres: MEFRA 86, 1974, 549-596.
51) Probabilmente Teodosio aveva acquistato da Flavia Vitalia anche il sarcofago Bulié (Iscrizione inedita …cit. p. 110) fa riferimento solo all’acquisto del sarcofago; questo naturalmente non sposta i termini del problema che riguarda le funzioni della presbytera in questione.
52) Per l’evoluzione del fenomeno della vendita dei posti nei cimiteri cristiani comunitari cfr. J. GUYNON, La vente … cit.
53) In Bullettino di Archeologia e Storia Dalmata 21, 1898, 147, n. 2428 (F. Bulić); CIL 3,12900. Una presbiterissa è attestata in un’epigrafe proveniente da Ippona (Cfr4. “L’Année épigraphique” 1953, pp. 196-197, n.107).
54) Col termine conhospita si indicava una donna che conviveva con un uomo legato alla continenza: R. GRYSON, Il ministero … cit. p. 195; J. GALOT, La donna … cit. p. 90.
55) In P. DE LABRIOLLE, Les sources de l’histoire du montanisme, Fribourg-Paris 1913, pp. 226-230 : Dominis beatissimis in Christo fratribus Lovocato et Catiherno presbyteris Licinius, Melanius et Eustochius episcopi. Viri venerabulas Sperati presbyteri relatione cognovimus, quod gestantes quasdam tabulas per diversorum civium capanas circumferre non desinatis, et missas ibidem adhibitis mulieribus in sacrificio divino, quas conhospitas nominastis, facere praesumatis; sic ut erogantibus vobis eucharistias illae vobis positis calices teneant et sanguinem Christi populo administrare praesumant.
Per l’individuazione delle diocesi dei tre vescovi cfr. R. GRYSON, Il mistero … cit. p. 195; J. GALOT, La donna cit. p. 88.
56) Quicherat lo data V o VI secolo (CIL 13,1183 in nota), a Mommsen (ibidem) sembra multo recentior.
57) CIL 13,1183.
58) Inscriptiones … cit. 1191.
59) In CCL 148A,184 (vedi in apparato ad locum).
60) In CCL 148°,268. (vedi in apparato ad locum).
61) Di avviso completamente diverso è Van Der Meer per il quale “… il problema del sacerdozio della donna fino a poco tempo fa non è mai stato acutamente sentito” (Sacerdozio … cit. p. 141).
62) Ep. 8; PL 134,114: Igitur quod vestra prudentia consulere judicavit, quid in canonibus presbyteram, quidve diaconam intelligere debeamus: videtur nobis quoniam in primitiva Ecclesia, quia secundum Dominicam vocem: Messis multa, operarii pauci videbantur, ad adjumentum virorum etiam religiosae mulieres in sancta Ecclesia cultrices ordinabantur. Quod ostendit beatus Paulus in epistola ad Romanos, cum ait: Commendo vobis Phaebem sororem meam, quae est in ministerio Ecclesiae, quae est Cenchris. Ubiintelligitur quia tunc non solum viri, sed etiam feminae praeerant Ecclesiis, magnae scilicet utilitatis causa. Nam mulieres diu paganorum ritibus assuetae, philosophicis etiam dogmatibus instructae, bene per has familiarius convertebantur, et de religionis cultu liberius edocebantur. Quod Loadicense postmodum prohibet concilium cap. 11, cum dicitur: quod non oportet eas quae dicuntur presbyterae vel praesidentes, in Ecclesiis ordinari.
63) In C. J. HEFELE-H. LECLERCQ, Historie des conciles d’après les documents originaux,Paris 1907, vol. 1/II, p. 1003.
64) J. GALOT, La donna … cit. p. 80; cfr. R. GRYSON, Il ministero … cit. pp. 105-108; A. G. MARTIMORT, Les diaconesses … cit. pp. 102-103.
65) J. GALOT, La donna cit., pp. 82-83.
66) Ep. 8; PL 134-114: Diaconas vero talium credimus fuisse ministras. Nam diaconum ministrum dicimus, a quo derivatam diaconam perspicimus. Denique legimus in concilio Chalcedonensi, cap. 15 diaconam non ordinandam ante annum quadragesimum, et hanc cum summo libramine. Talibus etiam credimus baptizandi mulieres injunctum esse officium, ut absque ulla penitus verecondia aliarum corpora ab his tractarentur … Sicut enim hae quae presbyterae dicebantur, praedicandi, jubendi vel edocendi, ita sane diaconae ministrandi vel baptizandi officium sumpserant: quod nunc jam minime expedit.
67) Ep. 8; PL 134-115: Possumus quoque presbyteras vel diaconas illas existimare, quae presbyteris vel diaconis ante ordinationem conjugio copulatae sunt … Libentius tamen, charissime doctor, secundum superiorem sensum quae esplicata sunt accipimus, donec a vobis mereamur certius informari.
Nella Chiesa antica il termine presbutera poteva indicare anche una vedova o una donna anziana.
68) Per questa polemica cfr. G. FORNASARI, Celibato sacerdotale e “autocoscienza” ecclesiale. Per la storia della “Nicolaitica haeresis” nell’Occidente medievale, Trieste 1981.
69) Les diaconesses … cit. pp. 209-210.
70) E’ il caso del Lexicon imperfectum che alla voce presbytera, rimandando all’epistola di Attone, stranamente registra solo la seconda accezione conosciuta dal vescovo di Vercelli (Latinitatis Italicae Medii Aevi inde ab a. CDLXXVI usque ad a. MXXII Lexicon imperfectum, F. ARNALDI-M, TURRIANI, Bruxelles 1951-53, p. 573). Degli altri lessici, a quel che mi risulta, solo il Glossarium di Du Cange registra l’accezione preferita da Attone.