Esperienze Formative

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Spiritualità benedettina e cistercense

Annotazioni antropologiche sul desiderio
a servizio della formazione monastica (1)

di Dom Bernardo Olivera, abate o.c.s.o
Abate Generale dell’Ordine Cistercense della Stretta Osservanza


INTRODUZIONE

Ancora una volta vorrei dare un contributo antropologico nel contesto della nostra formazione monastica. L’uscita di una mezza dozzina di giovani monaci adulti negli ultimi due anni mi ha tatto pensare. In quasi tutti i casi, c’è stato un paio di dati in comune: la scoperta dell’amore umano incarnato in una donna concreta e la relativizzazione totale di tutto ciò che era stato vissuto precedentemente. Sembra che la scoperta dell’amore umano abbia fatto diventare irreale la ricerca monastica di Dio.

Ovviamente, non si tratta ora di mettere in discussione la vocazione di questi giovani; si tratta, piuttosto, di interrogarci sulla formazione che abbiamo offerto loro. Alcune domande pertinenti potrebbero essere le seguenti: su quali basi umane è stato costruito il grattacielo spirituale? Che tipo di antropologia stava alla base, era il presupposto del processo formativo? Siamo convinti che la grazia edifica sulla natura? Favoriamo forse delle dicotomie, pur affermando il contrario? Perché le giovani monache non fanno esperienze simili? Forse le donne sono più realiste, anche se noi, uomini, siamo più carnali? Reprimiamo la dimensione istintiva per privilegiare quella razionale? Diamo gran valore a ciò che è spirituale a detrimento di ciò che è corporale? Continuiamo a leggere come allegorie i testi biblici sull’amore, svuotandoli del loro spessore umano? Coltiviamo il senso di appartenenza alla comunità? E si potrebbe continuare così, con altri interrogativi analoghi.

Non è mia intenzione rispondere direttamente alle questioni che ho appena suggerito. Tuttavia, i paragrafi che seguono offriranno qualche abbozzo di risposta, Il tema che tratteremo può essere formulato con queste parole: «Annotazioni antropologiche sul desiderio a servizio della formazione monastica». Tratterò quindi il tema in una forma parziale ed incompleta (si tratta si semplici «annotazioni») e il mio approccio sarà principalmente antropologico, pur senza dimenticare che l’antropologia cristiana trova il suo significato proprio e completo nell’ambito della teologia.

Il seguente testo del Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica mi è servito da ispirazione e sarà utile come punto di partenza:

Dio stesso, creando l’uomo a propria immagine, ha iscritto nel suo cuore il desiderio di vederlo, Anche se tale desiderio è spesso ignorato, Dio non cessa di attirare l’uomo a sé, perché viva e trovi in Lui quel/a pienezza di verità e di felicità che cerca senza posa. Per natura e per vocazione, l’uomo è pertanto un essere religioso, capace di entrare in comunione con Dio, Questo intimo e vitale legame con Dio conferisce all’uomo la sua fondamentale dignità (cap. I,2).

Questo testo del magistero pone il desiderio in stretta relazione con l’immagine di Dio nella creatura umana; il desiderio fontale o strutturale spinge la creatura alla ricerca della pienezza del Creatore e fa di lui un essere religioso e degno.

Non è necessario dire che questo testo del Catechismo affonda le sue radici nella tradizione agostiniana. Effettivamente, come non ricordare queste celebri parole del Santo dì Ippona: «Ci hai creati per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te» (5. Agostino, Confessioni 1,1.1). La Regola di Benedetto e gli scritti di San Gregorio Magno furono gli strumenti principali attraverso i quali, nel corso del Medio Evo, venne trasmessa la spiritualità agostiniana ai monasteri d’Occidente. Questa è la linfa che nutre e dà vigore alla nostra tradizione cistercense, Bernardo di Chiaravalle trova qui il fondamento della sua dottrina spirituale.

Il tema del desiderio occupa un posto centrale nell’antropologia cistercense. Il linguaggio mistico dei nostri Padri esprime e manifesta l’esperienza del desiderium. Cinque termini fondamentali si riferiscono ad essa: desiderium, affectus, amor, caritas, contemplatio, nuptiae. Inoltre, Bernardo utilizza diversi sinonimi nei suoi Sermoni sul Cantico dei Cantici, ad esempio: suspirare (sospirare, 59,4), appetire (desiderare, 47,5), sitire (avere sete, 7,2), sospendere (essere sospeso, 172), clamitare (chiedere a grande voce, 74,7), se afflictare (affliggersi, 31,5), inhiare (anelare, essere a bocca aperta per l’avidità, come un uccellino che aspetta il cibo da sua madre 28,13), deficere (venir meno, 28,13), fIere (piangere, 58,11). Tutto ci dimostra l’importanza del tema e costituisce un altro motivo per riflettere su di esso nell’oggi in cui viviamo.

Inizieremo consultando la rivelazione biblica, per indicare il posto centrale che occupa i[ desiderio nell’antropologia ebraico-cristiana. Considereremo quindi l’etimologia del termine, i suoi paradossi e l’onnipresenza del desiderio nell’esperienza umana, in modo speciale nella sessualità, nella religione, nella psicologia e nelle culture. Concluderemo con alcune riflessioni sulla relazione del desiderio con la virtù teologale della speranza. Ad ogni punto, cercherò di trarre delle conclusioni e di sottolineare alcuni aspetti in rapporto alla formazione monastica.

1. Desiderio e immagine e somiglianza

Nell’antropologia biblica, troviamo un termine che riveste una importanza fondamentale per capire l’esperienza umana del desiderio. Questo sostantivo appare fin dalle prime pagine della Bibbia: Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne una nefesh vivente (Gen 2,7).

Una semplice consultazione dei dizionari e degli studi di teologia biblica dell’Antico Testamento dimostra che nefesh ricorre circa 754 volte nella Sacra Scrittura, con un’amplia gamma di significati: alito, soffio, anima, vita, gola, appetito, desiderio, essere vivo, vita, persona. Per quanto ci interessa, basterà dire che può indicare:

- Un organo fisico-corporeo che permette di respirare o inghiottire: la gola, il collo (Is 51,23; Sal 69,2; Pr 3,22; 25,25), la bocca (Is 5,14; Pr 28, 25), e perfino lo stomaco (Is 29,8; Pr 6,30; Sal 107,9).

- La funzione fisiologica relazionata con tali organi: la respirazione (Gen 35,18; Lam 2,12; Gb 11,12), la sete (Sal 78,18; Pr 16,26), la voglia di cibo (Dt 23,25; Pr 12:10; Sal 106,15).

- In senso traslato, la tensione della brama o del desiderio (1Sam 20,4; Pr 19,2; Sal105,22).

Questo vuol dire che nefesh può essere utilizzato anche per designare l’uomo vivente come essere di desiderio, strutturato verso la relazione con l’altro/Altro per la realizzazione di se stesso. In questo senso potremmo tradurre liberamente il testo di Gen 27 nel modo seguente: e l’uomo divenne un desiderante vivo. Quando l’amata del Cantico parla dell’amato come dell’amore della mia anima, è come se dicesse: colui che è desiderato dai miei desideri! (Cf 1,7; 3,1-4; cf. è,6; 6,12). Leggiamo anche nel Salmo 130,6: la mia anima (la mia nefesh) è protesa verso il Signore come le sentinelle verso il mattino. In altre parole: la struttura della mia persona in quanto essere di desiderio è orientata verso Dio, come la sentinella che attende l’aurora (Cf Sal 42,2.6.12; 43,5).

Come abbiamo appena visto, il termine nefesh viene tradotto a volte anche con anima, vita o anche con un pronome personale; difatti, quando è utilizzato in relazione con i sentimenti, indica globalmente il centro vitale della persona: il suo sentire, il suo reagire ed anche il suo decidere (Gdc 18;25; 2 Sam 5,8; 17,8; Is 19,10; 38,15; Pr 11,25; 14,10; Ger 42,21; ecc.).

Questa dottrina biblica è stata assunta da S. Agostino, che afferma: il desiderio è il seno del cuore (Confessioni, 10,8). Alcuni filosofi moderni si pongono nella stessa ottica, uno di essi non esiterà ad affermare: il desiderio è l’essenza dell’uomo (Spinoza, Etica, IV, 18).

A partire da questo desiderio fontale e strutturale, noi, esseri umani, viviamo desiderando e moltiplicando desideri, I nostri desideri risvegliano tutta una costellazione di sentimenti: viviamo desiderando e sentendo. Questa realtà così fondamentale del nostro vivere umano deve occupare un posto privilegiato nei nostri programmi di formazione monastica. Il monastero sarà una scuola di carità nella misura in cui saprà educare i desideri e ordinare gli affetti.

2. Etimologia e significato

Un essere umano si comporta come tale quando funziona in forma «desiderante», affettiva, volitiva, cosciente ed intelligente. Cioè, il desiderio, l’affettività, la volontà, la coscienza e l’intelligenza sono le funzioni psichiche fondamentali del comportamento di un essere umano, uomo o donna. Il desiderio è una struttura di base, prima di differenziarsi in desideri diversi. Questo desiderio fontale soggiace alla nostra affettività e alla nostra volontà, Ma che cosa ci insegna l’etimologia del sostantivo desiderio rispetto all’esperienza indicata dallo stesso termine? Tra le diverse possibili etimologie, mi soffermo sulla seguente. La parola «desiderio» deriva dal latino: de-siderare, che si compone di una particella privativa (de) e di un derivato verbale (da sidus-eris: stella), da qui si ottiene: sentire la mancanza di una stella.

La cultura cinese c’i insegna anch’essa qualche cosa di interessante a questo proposito. Il termine «speranza» (wang, in mandarino) si scrive con un ideogramma composto da due parti. Nella parte inferiore, un uomo in piedi su una piattaforma, guarda verso l’alto; nella parte superiore: la luna crescente. Questo vuoi dire che la speranza viene rappresentata mediante un essere umano che attende e desidera che giunga la luna piena. Questo stesso ideogramma, in giapponese, è usato in riferimento al desiderio (nozomi) e alla tensione del desiderio (nozomu).

Quando dunque parliamo di desiderio, ci esprimiamo metaforicamente e ci riferiamo al movimento verso qualche cosa o verso qualcuno assente, che si mostra ed è percepito come buono ed attraente. Più in particolare, il desiderio implica un sentimento di assenza, di ricerca di ciò che è assente, un trattenere l’assente reso presente e un nuovo sentimento di assenza per l’insoddisfazione di quanto che si trattiene nel presente. Bernardo di Chiaravalle descrive concisamente questa esperienza del desiderio: tutti gli esseri dotati di ragione, per tendenza naturale, sempre aspirano a ciò che loro sembra migliore, e non sono soddisfatti se manca loro qualche cosa che considerano migliore (Dil, 18).

Da quanto abbiamo detto finora si può dedurre una lezione importante per il processo di maturazione personale. Solamente quando riconosciamo la nostra «carenza» strutturale possono emergere il mondo e gli altri in quanto diversi e con tuffo il loro potenziale di significato e di missione da compiere.

L’accettazione della mancanza e dell’assenza, con la solitudine esistenziale che ne consegue e che ci caratterizza come esseri umani, è un requisito imprescindibile per stabilire relazioni con gli altri. Difatti, solo quando riconosciamo di essere persone carenti può emergere l’altro in quanto altro e divenire compagno. Per nessuno, noi siamo tutto, e nessuno può essere tutto per noi. Questa è una condizione perché possano esserci: la coppia, l’amicizia, la fraternità, la comunità e la solidarietà. Ma sempre ci sarà una distanza, una separazione e una differenza costitutive. Tutto è presenza e assenza, anche nella comunione più intima.

Quando il nostro desiderio è stato configurato e delimitato dalla separazione, dalla differenza e dall’assenza, si potrà evitare questa triplice tentazione:

- La fusione con l’altro/a che finisce con distruggere l’amore: un rischio abbastanza comune nel processo della formazione monastica iniziale.

- La cosificazione dell’altro/a a servizio di sé: un rischio possibile per i superiori/re carenti di una sufficiente maturità umana.

- L’autoeliminazione a servizio di quello si suppone sia il desiderio dell’altro: un rischio di non poche giovani in formazione, che cercano di compiacere alle loro formatrici.

3. Paradossi e dimensioni

Il desiderio è una realtà paradossale e onnipresente nella nostra vita umana. Ci pone in movimento e in ricerca a partire da una mancanza e da una insoddisfazione. Desiderare è riconoscersi incompleti, in uno stato di carenza ed in presenza di qualche cosa di assente il cui possesso appare come una soddisfazione o un piacere. Da qui deriva una conseguenza importante: ogni desiderio risveglia dei sentimenti; sotto la riattivazione dell’affettività soggiace il desiderio.

3.1. Paradossi

Qualcuno ha affermato che, a causa del desiderio, viviamo un certo disagio o ansia e, di conseguenza, questa esperienza di disagio sta alla base di ogni attività umana. Ma qualcun altro ha risposto: se non abbiamo qualcosa da desiderare, saremo felicemente dei disgraziati. Molti paradossi del desiderio sono diventati sentenze o massime popolari, ad esempio:

- Non pretendere che le cose siano come vorresti, desidera che siano come sono.

- Se tu potessi soddisfare la metà dei tuoi desideri, raddoppieresti le tue inquietudini.

- Quanto più desideri tanto più senti la mancanza.

- È più stimolante un desiderio impaziente che essere saziati di piacere.

- Una felicità difficile da raggiungere, la si gode il doppio.

- Il desiderio diminuisce quando abbondano le occasioni e le facili soddisfazioni.

- Il molto diventa poco quando si desidera un po’ di più.

Ci angustiamo di fronte alla possibilità dell’insuccesso: possiamo fallire e non raggiungere quello che vorremmo. Ma può succedere il contrario. Tuttavia, tra il nostro desiderio e la sua realizzazione si dà una grande distanza: le nostre realizzazioni sono di solito corte, in confronto alle nostre speranze. Nulla ci colma pienamente, la sazietà è fugace, il desiderio ci lascia al di qua di quello che desideriamo, il desiderio ci lascia sempre affamati: un milione di baci non spegne il desiderio di baciare! Il desiderio sembra saziarsi soltanto di infinito e di eternità.

Se il fine del desiderio fosse [lasciarci in] una penosa insaziabilità, il mondo e noi, creature umane, saremmo un assurdo e un senza senso. Per questo è necessario non dimenticare mai che il desiderio ci permette di vivere e ci trasforma in esseri di speranza. L’attesa e la speranza sono esperienze vissute, radicalmente umane: se sono proteso nella speranza, sono vivo. In definitiva, il desiderio ci espone non solo all’angustia ma anche e soprattutto alla speranza.

Il desiderio invita a uscire da se stessi, pone in contatto con gli altri, mette in relazione. È esperienza di incompiutezza e di limite, ma anche possibilità di essere più e meglio. Mettendoci in rapporto con gli altri, il desiderio permette a noi di porci come soggetto: Io sguardo dell’altro risveglia il mio proprio sguardo. Fare attenzione ai nostri desideri ci permette di conoscere noi stessi per dire chi siamo. Abbiamo qui un compito fondamentale nel processo di formazione, soprattutto nella tappa iniziale: verifica che cosa e chi desideri, e saprai chi sei.

È vero che il desiderio ci mette in movimento e alla ricerca di qualcosa o di qualcuno di cui avvertiamo la mancanza: crea una tensione verso qualcosa di più. Ma questo «di più», in ultima istanza, lo possiamo ricevere soltanto come dono e regalo. Per questo, il desiderio è anche spazio, apertura, accoglienza del dono e, soprattutto, accoglienza di colui che dona.

È anche vero che, tra i paradossi del desiderio, bisogna segnalare la sua ambiguità: può essere buono o cattivo; il desiderio può deviare, Il verbo desiderare (hamad) viene utilizzato in Gen 2,9 in senso positivo: Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi (lett. desiderabili) alla vista e buoni da mangiare. Ma nel capitolo successivo lo stesso verbo è usato in riferimento al desiderio da cui nasce il peccato: Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito (lett. desiderabile) agli occhi ... (Gen 3,6). Tuttavia, nel Cantico dei Cantici troviamo un riferimento a questa situazione, ma prima del peccato, quando la sessualità ancora era fonte di piacere, di gioia e di felicità in Dio: Come un melo tra gli alberi del bosco, il mio diletto fra i giovani. Alla sua ombra, cui anelavo, mi siedo e dolce è il suo frutto al mio palata (Ct 2,3).

L’apostolo Paolo denuncia senza ambagi l’ambivalenza del desiderio: Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne; la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste (Gal 5,16-17).

Ogni persona, uomo o donna, che abbia deciso di seguire Cristo sotto la mozione dello Spirito, dovrà vivere concretamente un’ascesi del desiderio per orientarlo verso il bene ed evitare il male. Si tratta di un’ ascesi che ha un’importanza primaria negli anni di formazione iniziale, ma che assume un’importanza permanente e continua, in tutto il corso della vita.

3.2. Dimensioni

Il desiderio fontale e strutturante del nostro essere umano genera tutta una gamma di molteplici aspirazioni, brame, aneliti, ansie, appetiti, voglie, ambizioni, passioni, capricci... che nella vita di ciascuno di noi progressivamente vanno prendendo forma con il passare del tempo. Tutto questo dà origine a una tipografia del desiderio estremamente varia, in stretta relazione con le vicende (gratificazioni, fantasie, relazioni) della propria biografia personale.

Ma può accadere, e di fatto succede, che gli obiettivi autentici del desiderio siano repressi e, di conseguenza, ignorati; i sogni sono una via che facilita l’emergere dei desideri ignorati. Quanto più grande è l’ambito dei desideri repressi ed esclusi, tanto meno autentica diviene la vita: non si sa più quello che si vuole! Si confonde il volere con le velleità e il capriccio con il desiderio. E in questo modo si possono imboccare strade completamente sbagliate e si può finire col trovarsi in qualsiasi genere di vocazioni frustrate.

Analogamente, l’ignoranza e l’incompatibilità dei nostri desideri può paralizzare la nostra vita o dare origine a un conflitto insopportabile, fra gli uni e gli altri. Probabilmente, questa è una delle cause più frequenti delle nostre «nevrosi» temporanee o permanenti. D’altra parte, la dispersione dei desideri o il loro non avere oggetto concreto è di solito causa di ansia e di disagio diffuso.

La radicalità della struttura del desiderio e la varietà infinita di oggetti che sembrano soddisfarlo fa sì che il desiderio sia presente in quasi tutte le dimensioni della nostra vita. È importante che vi sia chiarezza, per poter scegliere e rinunciare, mettere ordine e vivere in modo integrato, in armonia. Vediamo sinteticamente come si manifesta il desiderio in alcune dimensioni dell’esistenza umana.

- Dimensione biologica: brama, attrazione ed unione sessuale.

- Dimensione affettiva: tenerezza, affezione, innamoramento, romanticismo. 

- Dimensione ludica: humor, scherzo, sport.

- Dimensione pragmatica: laboriosità, capacità di servizio.

- Dimensione interpersonale: paternità, maternità, fraternità, amicizia, socievolezza. 

- Dimensione gerarchica: autorità, politica.

- Dimensione possessiva: proprietà, commercio.

- Dimensione intellettuale: ricerca, informazione, scoperte.

- Dimensione estetica: bellezza, arte.

- Dimensione altruistica: gratuità, beneficenza, sacrificio.

- Dimensione religiosa: assoluto, infinito, al di là, Dio.

Il desiderio è quindi una struttura fondamentale dell’essere umano in relazione con una carenza e/o assenza. Il desiderio, come abbiamo appena visto, si apre su un’ampia gamma di dimensioni e di esperienze interdipendenti, alcune delle quali sono più comuni di altre; tra queste, le due seguenti:

- Prima di tutto, il desiderio è presente nell’ambito del nostro mondo sessuale ed affettivo. Qui trova la sua origine e il maggior campo di sviluppo. La sessualità è la dimensione della vita dove più grande è la promessa di giungere a un’unione che rompa i limiti della differenza, dell’assenza e della distanza. L’affettività, ovviamente, alimenta e dà vita a molti tipi di relazioni interpersonali, come la paternità e la maternità, la fraternità e l’amicizia.

- Ma forse, è l’ambito religioso quello che offre la possibilità di colmare le aspirazioni e gli aneliti più profondi. Di fatto, il desiderio trova nella religione: amore, protezione, sopravvivenza, trascendenza, trasformazione. I monaci e le monache, in tulle le grandi religioni, sono persone che vivono un desiderio irresistibile di Dio, Dio è per loro attrattiva e fascino più grande di qualsiasi altra cosa; su questa base, può poggiare una vocazione monastica cristiana ed evangelica.

4. Desiderio, sessualità e religione

Abbiamo già fatto riferimento all’origine ultima del desiderio umano: il fatto di essere creati a immagine di Dio. La psicologia del profondo indica anche l’origine esistenziale del desiderio: il fatto di nascere separandoci da nostra madre. A partire da questa duplice origine, il desiderio tende verso un duplice fine: la pienezza nella comunione beatificante con Dio (fine divino) e la complementarità nell’unione gradevole e gioiosa con l’altro/a (fine interpersonale).

Il desiderio spirituale, il cui fine è la comunione con Dio, si potrebbe chiamare: anelito beatificante. E il desiderio corporale-affettivo, il cui fine è relazione interpersonale, eterosessuale o no, si potrebbe definire: appetito sessuale ed eros personale. Per cui potremmo dire che: il sesso è desiderio biologico, l’eros è desiderio personalizzato, e l’anelito spirituale è desiderio divinizzato.

Ora, l’appetito sessuale saziato è causa di piacere, l’eros interpersonale produce gioia, ma da solo l’anelito beatificante apre ad una felicità incommensurabile.

La tabella seguente permette di sintetizzare in modo più chiaro le affermazioni fatte fin qui:

Due dimensioni fondamentali del desiderio umano

Religiosa

Corporale-affettiva

Origine

Creazione a immagine e somiglianza del Creatore

Separazione dal seno materno al momento della nascita

Nome

Anelito beatificante

Appetito sessuale (sesso)

Eros personale (affettività)

Fine

Comunione con Dio

Unione complementare con l’altro/a

Effetto

Felicità

Piacere (sessuale)

Gioia (affettiva)

4.1. Desiderio e sessualità

L’eros personale e l’appetito sessuale hanno qualcosa in comune: sono due forze che ci permettono di uscire da noi stessi e di sradicare l’egoismo occulto nel nostro essere. Ciononostante, l’eros ed il sesso sono realtà diverse. È importante che sia ben chiaro ciò che li differenzia:

- Il sesso produce tensione e distensione corporea, l’eros personalizza e dà senso, illuminando e guidando questa esperienza. L’eros favorisce l’intimità tra le persone, mentre il sesso solo rende possibile la relazione tra i corpi.

- Il sesso senza eros termina nel proprio corpo, mentre l’eros, anche senza sesso, è orientato verso l’altro/a.

- L’atto sessuale è il simbolo più potente della relazione tra due persone di relazione e l’eros è l’intimità nella relazione.

- L’eros va molto più in là del sesso; se il sesso è soglia, l’eros è traversata.

L’eros in quanto desiderio di comunione, pienezza e gioia interpersonale con una persona amata permette di sentirsi appagati e di donare pienezza. L’eros, così considerato, è attraente e terribile: attraente, per la sua promessa di pienezza; terribile, perché chiede di abbassare i controlli o lasciare da parte ogni controllo. L’intimità affettiva risveglia l’eros, e questo è attraente; allo stesso tempo, l’intimità a cui invita l’eros chiede di abbassare sempre di più i controlli, e questo è causa di timore di paura. Molte volte, i celibi e le vergini che hanno scelto di essere tali, non sanno dove tracciare la frontiera per essere fedeli alle loro scelte. L’eros, nella relazione tra un uomo e una donna segue di solito la dinamica seguente:

- sentimento piacevole per il fatto di stare insieme;

- impulso a creare intimità accorciando la distanza che separa; 

- tacere per «entrare in contatto» e sentire; 

- la gioia, lasciata al suo proprio impulso, può correre alla ricerca del piacere.

La rinuncia e l’autocontrollo che implica la scelta della verginità e del celibato non devono costituire un impedimento perché noi, uomini e donne, sappiamo vivere e trascorrere un momento gradevole insieme. Chi non sa vivere con gratitudine questi momenti sani e cordiali, di solito compensa con fantasie ciò di cui si priva o reprime.

La cultura occidentale, invadente nei confronti delle altre culture, ha asservito l’eros al dominio del sesso. È vero che non siamo più sotto la tirannia della rivoluzione sessuale della fine degli anni ‘60; in quel frangente si è passati dal piacere proibito al piacere obbligatorio; il sesso divenne coercizione e si stabilì la dittatura dell’orgasmo imposto, imprescindibile e obbligatorio. Nella maggior parte delle nostre società si vive tuttavia una sessualità che si è svincolata dalle norme e, molte volte, si riduce a un gioco, a discapito delle persone. I nostri giovani, uomini e donne, provengono da questa società e da questa cultura.

D’altra parte, certe spiritualità sublimi e certi «soprannaturalismi» privi di appoggio sulla natura hanno prodotto lo stesso effetto della rivoluzione sessuale secolare: la morte deIl’eros, cioè del desiderio interpersonale. Difatti, noi, donne e uomini pii, cercando di soggiogare la carne finiamo con l’uccidere la carne e l’affezione, l’appetito e l’eros...

Forse sarà necessario proclamare e programmare un’altra rivoluzione, per restituire all’eros interpersonale tutto il suo fascino e tutta la sua apertura verso l’assoluto e il trascendente. La «rivoluzione erotica» non è una rivendicazione dell’erotismo in quanto maschera delle pulsioni genitali, ma una promozione dell’eros per umanizzare e sublimare il nostro sesso.

4.2. Desiderio e religione

noto che la religione è fonte di soddisfazione per le aspirazioni più fondamentali delle creature umane. Il linguaggio divino è il linguaggio dei sentimenti profondi, che stanno alla radice dei desideri di base del cuore umano. È qui dove si situa l’origine della conversione, della fede, della giustizia e dell’amore. La Scrittura ci offre numerosi esempi: Mi hai sedotto, Signore, ed io mi sono lasciato sedurre (Ger 20,7); Tu mi scruti e mi conosci (Sal138); Non ardeva forse il nostro cuore..? (Lo 24,32). Attraverso questo linguaggio, Dio seduce i nostri cuori per aprirli a Gesù Cristo e alla sua Buona Novella. La seduzione di Dio è liberatrice ed esige una nostra libera risposta.

In questo contesto, possiamo chiederci: il desiderio-anelito di Dio poggia sul fondamento del desiderio-appetito sessuale? In altre parole: esiste un continuum (senza soluzione di continuità) tra la dimensione biologica del desiderio e la sua dimensione religiosa?

Molti psicologi non esitano a dare una risposta affermativa alla domanda che abbiamo appena formulato. Alcuni teologi avrebbero dei dubbi: tra la natura e la grazia si dà un salto qualitativo. Altri teologi, senza negare la gratuità della grazia divina, affermano l’esistenza di una continuità tra la persona umana, corpo-anima a immagine di Dio, e l’unione con Dio. Essi affermano, con i teologi medioevali: l’essere umano è capax Dei!, la grazia non distrugge la natura, ma la suppone e la perfeziona).

Per San Bernardo, non esiste nell’essere umano un «desiderio specifico» che lo orienti verso Dio. È l’unica forza umana del desiderio che, a partire dall’appetito biologico orientato dal libero arbitrio, spinge a cercare e a trovare Dio. Nei Sermoni sul Cantico dei Cantici, la simbologia erotico- sessuale si riferisce al desiderio dell’anima santa, che è alla ricerca di Dio e dell’unione con lui. La brama e l’eros sono a servizio della carità.

Sia come sia, al di là del dibattito teologico, resta chiaro che senza il desiderio-eros personale la ricerca di Dio diventa qualcosa di artificiale, mentale, inconsistente, vuoto, e crolla come un castello di carte di fronte alla presenza e alla relazione concreta con qualcuno che colpisce il nostro cuore e mobilita la nostra corporeità. lo sono del parere che, al riguardo, noi uomini siamo più vulnerabili delle donne, nella misura in cui siamo più teorici e propensi all’astrazione.

Abbiamo già indicato fin dall’inizio che il desiderio di Dio è costitutivo della natura umana. In tutti gli esseri umani si dà una capacità innata di Dio, esiste un orientamento verso di lui che precede la scelta morale. È in questo senso che la creatura umana è stata creata a immagine di Dio.

Alcuni autori medievali, soprattutto i cistercensi, si distanziano alquanto dalla tradizione agostiniana in un punto molto concreto, pratico. La dottrina agostiniana sembra tracciare una frontiera netta tra l’«uomo esteriore» e l’«uomo interiore», fra la carne (sessualità) e lo spirito: la prima è causa di perdizione così come il secondo è causa di salvezza. Questa spiritualità può in tal modo risultare dualista e con fondamento insufficiente nello spessore corporeo dell’essere umano.

Molti Padri spostano la frontiera e fanno guadagnare terreno alla carne. L’eros e l’affezione spontanea, che si radicano nel sesso, sono chiamati a svolgere un ruolo importante nella ricerca di Dio. Ascoltiamo Guglielmo di San Thierry nel suo Commento al Cantico dei Cantici:

«Di conseguenza, nel momento in cui consegna agli uomini il cantico dell’amore spirituale, lo Spirito Sacro riveste la sua relazione spirituale e divina [con gli esseri umani], con immagini esterne desunte dall’amore carnale, perché soltanto l’amore comprende pienamente le cose divine. L’amore carnale, però, è chiamato a unirsi a quello spirituale e a trasformarsi in lui, poiché solo l’amore capterà rapidamente ciò che gli è simile. E come è impossibile che il vero amore, avido di verità, possa dilungarsi o soffermarsi per molto tempo sulle immagini, rapidamente passerà per questa via conosciuta alla realtà che prima aveva evocato attraverso delle immagini. Quindi l’uomo, pur essendo un uomo spirituale, in ragione della dimensione corporale della sua natura, abbraccerà le delizie dell’amore carnale, e, una volta assunte grazie allo Spirito Santo, le porrà a servizio dell’amore spirituale. Per questo, appare qui una donna che, senza nessun pudore, emerge con impeto da un luogo sconosciuto e, senza dire chi è, né da dove viene, né a chi si dirige, esclama: “Che mi baci con il bacio della sua bocca!”» (Esp Cant 24).

Guglielmo si pone in quella grande corrente spirituale che propone la ricerca del volto del Signore a partire da ciò che noi siamo in forza della creazione, per poter giungere ad essere per la grazia ciò che possiamo essere.

Sono cosciente che questa dottrina / pratica può avere i suoi rischi ed essere motivo di timore. Le frontiere sono meno chiare e il mondo interiore è più complesso. Restano alcuni interrogativi: fin dove si può scendere per potersi appoggiare con piede sicuro su se stessi e risalire con sicurezza e potenza verso il mondo dello spirito?

Il problema fondamentale, sia per i medievali sia per noi, sta in questo: come trasformare l’eros in carità. Probabilmente, la soluzione di questo problema è diversa per gli uomini e per le donne. Le donne potrebbero erotizzare indebitamente l’amore di carità, noi potremmo ridurlo a dimensione fisica o non saper cosa fare delle risonanze carnali che si potrebbero avere di tanto in tanto.

La trasformazione delI’eros interpersonale in anelito spirituale non è facile, ma è possibile. Questo implica, innanzi tutto, assumere consapevolmente e pacatamente la propria sessualità a partire dalla pulsione fisica. Quindi, concentrare l’esperienza nell’eros inteso come desiderio di pienezza, comunione interpersonale e gioia in questa comunione. Da ultimo, lasciare che l’eros trascenda ogni adesione definitiva con qualsiasi creatura, perché diventi anelito di unione e beatitudine in Dio.

L’alternanza di assenza e presenza, di consolazione e desolazione gioca un ruolo molto importante nella purificazione dell’eros e nella sua trasformazione in anelito di Dio.

In questo contesto, dovremmo localizzare e potenziare nella nostra formazione la devozione cistercense all’umanità di Gesù, la contemplazione dei «misteri» di Cristo prima della Pasqua, che conduce alla ricerca e alla comunione con la sua persona divina e gloriosa. Di più, sarebbe necessario attualizzare la spiritualità sponsale, intesa come «dono reciproco in comunione feconda», una spiritualità che presenta indubbiamente delle ricchezze, benché non sia esente da difficoltà che si possono sanare con una corretta pedagogia. Quanto più sani, pieni e felici noi saremo se queste parole dell’asceta Giovanni Climaco fossero realtà nelle nostre vite: Felice l’uomo il cui amore per Dio è come l’eros dell’innamorato per la sua amata! (Scala, 30,5).

Desiderio e psicologia umanista

La psicologia contemporanea di approccio umanistico parla del «potenziale umano». Con queste parole, ci informa che l’essere umano possiede un capitale naturale per crescere e raggiungere un modo dì essere e di vivere pienamente personale. In questo contesto, si colloca la dottrina sui bisogni o le tendenze umane, una dottrina che completeremo con la realtà antropologica del desiderio.

Un bisogno ha questa particolare caratteristica: ci chiude nel presente e in noi stessi; il desiderio, invece, ci apre e ci lancia verso il futuro e verso gli altri, I bisogni si possono soddisfare facilmente: una volta raggiunto l’oggetto adeguato, si elimina la tensione suscitata nell’organismo (l’acqua appaga la mia sete). Ma nessun oggetto presente può soddisfare completamente il desiderio, perché in ultima istanza, il desiderio rimanda a un passato e a un futuro, a cui nessun presente può dare una risposta compiuta ed esaustiva.

Ora, tanto i bisogni di quanto i desideri sono «tendenze» tese verso la soddisfazione, per uscire da uno stato carenza o privazione fisica, psichica o spirituale. È facile constatare che questa tendenza verso la soddisfazione gioca un ruolo di primaria importanza in qualsiasi teoria o pratica sulla motivazione umana.

Cerchiamo di sintetizzare e classificare queste tendenze (bisogni e desideri) in tre gruppi:

- biologico: aria-respirazione, acqua-sete, cibo-alimentazione, sonno-riposo, sesso-accoppiamento-riproduzione, casa- abitazione-vestito... 

- psicologico: sicurezza-protezione, amore-appartenenza, stima di sé, stima degli altri, convivenza-associazione... 

- spirituale: bellezza, bontà, verità, giustizia, ordine, pienezza, significato, libertà, perfezione, religione, spiritualità, mistica...

È facile constatare che le tendenze cosiddette biologiche sono più dei bisogni che dei desideri; mentre le tendenze psicologiche e spirituali sono dell’ordine del desiderio.

Queste tendenze — bisogni e desideri — non sono presenti tutti contemporaneamente, né con la medesima urgenza. Esiste una certa gerarchia degli stessi. In generale, ognuno dei diversi livelli si fa sentire nella misura in cui il livello precedente è stato soddisfatto. È evidente che la situazione concreta di una società e o di un gruppo può facilitare o impedire la soddisfazione dei bisogni, moltiplicarli o confondere i bisogni con i desideri.

L’esperienza insegna che molto difficilmente si accede alla soddisfazione dei desideri spirituali quando si soffre di una grave carenza per quanto riguarda i bisogni biologici o i desideri psicologici. Chi soffre di sonno, a fatica si potrà dedicare con efficacia alla ricerca del significato della Parola di Dio. Allo stesso modo: una insufficiente stima di sé condiziona la libertà e l’apprezzamento della bontà della vita.

Quanto abbiamo appena detto ha un’incidenza pratica nell’ambito della formazione monastica. Nella maggior parte dei nostri monasteri, i bisogni biologici dei membri sono coperti. Ma non sono sicuro di poter affermare la stessa,cosa per quanto riguarda i desideri psicologici, che frequentemente servono da supporto per i desideri spirituali. Sarebbe anche il caso di chiederci se le nostre comunità sono esperte nell’arte di sviluppare desideri spirituali aperti all’esperienza mistica di comunione con Dio e se tutto è ordinato a questo fine.

6. Desiderio e cultura capitalista

Le grandi culture umane si sono poste e si pongono in modo diverso di fronte al desiderio. La cultura orientale tende verso la liberazione del desiderio; certe correnti buddiste considerano che coloro che si liberano del desiderio si liberano dall’«io» e giungono a una libertà piena; uno dei nomi del nirvana è, appunto, «annichilamento della sete» (tanhakkhaya); estirpata la sete del desiderio, cessa ogni sventura e sofferenza.

La cultura greca classica insegnerà a controllare i desideri; Aristotele elogia Platone perché afferma che l’educazione consiste nell’insegnare a desiderare ciò che è desiderabile. Ritroviamo la stessa dottrina in S. Tommaso d’Aquino, quando commenta il Padre nostro nella Somma Teologica: La preghiera è una interprete del nostro desiderio davanti a Dio; domanderemo correttamente solo ciò che correttamente possiamo desiderare. E nella preghiera del Padre nostro non solo si chiedono tutte le cose che si possono desiderare correttamente, ma anche nell’ordine in cui si devono desiderare; in questo modo non è soltanto una regola per le nostre petizioni, ma anche una norma di tutti i nostri sentimenti (informativa totius nostri affectus) (II-II, 83:9).

La cultura medievale occidentale, impregnata di cristianesimo, come abbiamo visto, ha posto il desiderio a servizio della ricerca di Dio. Si può persino pensare che alcuni dei commentari al Cantico dei Cantici fossero uno strumento pedagogico in funzione della trasformazione del desiderio. Invece, la cultura occidentale nord-atlantica contemporanea, manipola i desideri a servizio del commercio e dell’economia, Consideriamo brevemente questo ultimo punto

Il sistema economico capitalista si sta imponendo nel mondo attuale per il motivo seguente: diventa sempre più capace, su scala mondiale, di produrre «cultura» generando un’antropologia di massa con un sistema di valori e di bisogni che corrisponde al modello economico da lui offerto.

Per raggiungere il suo obiettivo, il capitalismo affronta i desideri in un modo che gli è proprio: li confonde intenzionalmente con i bisogni e poi tenta di modellarli o di conferire loro una forma particolare. Come già abbiamo detto, i bisogni si possono appagare e sono strettamente connessi con la dimensione sociale. I desideri profondi sono insaziabili e sono strettamente connessi con l’interiorità, la profondità e l’originalità dell’essere.

Le teorie capitaliste sono pensate in funzione della soddisfazione dei bisogni- desideri. Ma non si tratta, innanzi tutto, della soddisfazione dei bisogni-desideri di lucro degli imprenditori, bensì della soddisfazione dei bisogni-desideri dei consumatori. Il lucro è una conseguenza della soddisfazione dei bisogni-desideri del cliente che consuma.

Ma, oltre a soddisfare, si tratta anche di manipolare e di creare dei bisogni-desideri. E, poiché i bisogni sono innumerevoli e il desiderio e’ illimitato, infinita sarà la possibilità di lucro. Il capitalismo non educa i desideri, ma piuttosto li confonde con i bisogni, li produce, li riproduce e li plasma artificialmente. In questo modo, il consumatore (che ha potere d’acquisto), assume e consuma quello che desidera e anche quello che non desidera, ma di cui crede fermamente di avere bisogno.

Nel mondo capitalista, i mass media obbediscono alla legge del massimo profitto economico. Non sono affatto neutrali; anche se si proclamano «indipendenti», i mass media sono alleati politicamente ed economicamente, I profitti derivano dalla pubblicità o dalla propaganda. Il telespettatore, l’ascoltatore o il lettore vale secondo il tempo quotidiano che trascorre davanti alla televisione, all’ascolto della radio o nella lettura di giornali e periodici. Il proprietario dei media vende a chi vuol fare pubblicità un certo numero di lettori, ascoltatori e telespettatori e ore di consumo; in altre parole, si vendono udienze/pubblico. Per questo, lo scopo che persegue la programmazione è accattivarsi il maggior numero possibile di udienze/pubblico durante il maggior tempo possibile. I media, soprattutto la televisione, sono orientati in modo da mantenere il desiderio dello spettatore attaccato allo schermo o al microfono, mediante stimoli ben programmati. Ed è in questo modo che i bisogni-desideri diventano profitto economico e vengono manipolati per lo stesso fine.

L’educazione dei nostri desideri, nel contesto monastico, non può ignorare questa manipolazione dei desideri. É necessario saper discernere per poter fare scelte libere e giuste. D’altra parte, il passaggio dal lavoro manuale al lavoro commerciale in molti nostri monasteri, ci costringe ad entrare, in qualche modo, in questa manipolazione capitalista e pubblicitaria dei desideri. È possibile passare da soggetto manipolato a soggetto manipolatore. Non è facile tracciare la frontiera tra la dimensione economica e quella apostolica, tra l’aspetto lucrativo e quello pastorale. L’etica commerciale dei monaci non si può allineare con l’etica commerciale dei secolari. È un tema su cui riflettere, come qualcuno/qualcuna ha già fatto notare, per evitare ambiguità che possono minacciare il fondamento del progetto formativo e della trasmissione del carisma monastico alle giovani generazioni. Difficilmente noì potremmo insegnare a pregare il Padre nostro, come principio che ordina dei nostri desideri e regola i nostri sentimenti, se al tempo stesso cooperiamo con la manipolazione degli uni e degli altri.

7. Desiderio e speranza cristiana

La virtù della speranza corrisponde al desiderio di felicità che Dio ha posto nel nostro cuore quando ci ha creati. Questa speranza dilata il cuore nell’attesa della beatitudine eterna. S. Agostino lo esprime così: Tutta la vita di un buon cristiano è un santo desiderio. Ma quello che desideri, non lo vedi; tuttavia, desiderando, dilati la tua anima così che possa riempirsi quando giungerà il tempo della visione (In Io.ep. tr. IV: 6).

Questo desiderio e questa speranza aperti verso l’escatologia, devono costituire il dinamismo più potente per lavorare con perseveranza e fedeltà. La speranza non è evasione dal mondo e proiezione verso il cielo, è piuttosto: un impegno nel tempo e un fondamento che poggia sulle basi eterne del cielo. La Chiesa cammina sulla terra e lavora in essa come un cittadino che contempla il cielo. In definitiva: Noi infatti ci affatichiamo e combattiamo perché abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente(1Tim 4,10).

La presenza di Gesù Cristo risorto al cuore della Chiesa e del mondo è la fonte della nostra speranza. Questa presenza ci spinge a desiderare, anche gemendo, la manifestazione gloriosa del Signore e a lavorare di buona Iena per un mondo migliore.

Non c’è dubbio che una delle caratteristiche della vita monastica è appunto la sua apertura escatologica e il suo realismo terreno, fondato sul desiderio e sulla speranza. La storia secolare del monachesimo attesta questa duplice realtà: il desiderio di Dio e l’anelito del cielo, radicali in realizzazioni culturali significative e creative.

Alcune delle nostre comunità nel mondo nord-occidentale sono oggi provate nella loro speranza. Il progressivo invecchiamento, la mancanza di vocazioni, la diminuzione dei membri, la povertà di persone competenti e l’incertezza del futuro sono, certamente, una prova difficile da attraversare. Ma costituiscono anche un’opportunità e un’occasione. L’opportunità di vivere una vita monastica trasparente al vangelo, spoglia di aderenze ormai prive di significato, libera ed agile nel suo ritmo quotidiano, a dimensioni domestiche, come di una famiglia, nell’economia e negli edifici, centrata essenzialmente sulla ricerca e l’incontro con il Signore nella comunione e nella carità.

Forse, perché questo sia possibile, non è necessario cercare di conformarsi [a un certo stile] con toppe e rammendi, bisogna desiderare una vita monastica nuova, in un nuovo cielo e in una terra nuova, dove un uomo e una donna nuova possano nascere di nuovo. Bisogna scegliere ciò che è più impossibile, più difficile, più utopistico. Bisogna saper dire: «si, ma non ancora». Bisogna diventare generatori e generatrici di speranza, testimoniando che la lupa allatterà degli agnellini, che la guerra sarà soltanto un termine da cercare in dizionari sorpassati, che le armi saranno pezzi da museo, che la parola data sarà più valida di mille documenti di fronte a notaio pubblico, che tutti abbandoneranno il potere per cominciare a servire, che i sordi comporranno sinfonie, che tutte le città saranno pavimentate da verdi giardini, che i deserti saranno popolati della presenza divina e che i monaci e le monache saranno fermento di comunione là dove ci sono ancora vestigi di discordia.

Osiamo pensare, sempre nel clima dell’utopia, che una vita monastica così rinnovata potrebbe risultare attraente per i giovani di oggi che, come quelli di ieri, cercano Dio. E, con maggiore sicurezza, possiamo affermare che questa vita monastica sarà un mezzo favorevole per comunicare il carisma dei nostri Padri alle nuove generazioni.

Ad ogni modo, anche se non succederà nulla di quanto abbiamo detto, se nonostante i nostri desideri resteremo soli e di fronte alla morte, possiamo credere che tutti ci ricorderanno con gratitudine e nessuno dimenticherà che siamo stati, in questa vita, dei pellegrini della speranza, che abbiamo saputo cantare al cielo mentre costruivamo la comunità monastica terrestre.

Il nostro pellegrinare monastico si alimenta della «preghiera del desiderio», che ci permette di perseverare nel deserto e nella notte. Questa semplice vita orante è un grido di speranza in un mondo che cerca di dare un senso alla sua esistenza. Voglia Dio che tutti noi possiamo elevare lo sguardo ed unire le nostre voci cantando:

«O vero meriggio, pienezza di calore e di luce, dimora del sole, sterminio delle ombre, che prosciughi le lagune ed espelli le impurità! O solstizio perenne, quando il giorno mai più tramonterà! O luce meridiana, o temperatura primaverile, o bellezza estiva, o abbondanza autunnale, riposo e festa dell’inverno!» (San Bernardo, SC 33,6).

1) Conferenza ai Capitoli Generali, ottobre 2005.
Domenica, 10 Giugno 2007 19:59

La gola (Luciano Manicardi)

di Luciano Manicardi

 

Il vizio cosiddetto della “gola” dovrebbe piuttosto essere chiamato “voracità” o, secondo il termine greco gastrimarghìa con cui lo definisce Evagrio, “follia del ventre”. Un altro termine utilizzato dai Padri è laimarghìa, “follia della gola” e indica piuttosto la “golosità”. Secondo Doroteo di Gaza la differenza tra i due atteggiamenti consiste nel fatto che l’uno riguarda la quantità di cibo, l’altro la sua qualità: «A volte si è tentati sulla qualità del cibo: uno, ad esempio, non vuole necessariamente mangiare molto, ma desidera cibi delicati. Costui, quando mangia un cibo che gli piace, è talmente dominato dal piacere che prova, che lo tiene a lungo in bocca, masticandolo a lungo e senza avere il coraggio di ingoiarlo per il piacere che ne prova. E questo si chiama golosità, che in greco si dice laimarghìa. Un altro è tentato sulla quantità del cibo, non cerca cibi buoni, non gli importa che siano delicati, desidera soltanto mangiare; di qualsiasi cibo si tratti, non desidera altro che riempirsi il ventre. E questa si chiama voracità, che in greco si dice gastrimarghìa» (Scritti e insegnamenti spirituali 15,161).

Coniugare etica e scienza,
sfida per l’Europa dei valori

di Gianni Borsa

La Commissione europea ha insediato i nuovi membri di Ege, il comitato di consulenza che affronta temi delicatissimi per la vita e il futuro dei cittadini del continente “In questo campo sono essenziali la ragione e il dialogo”

Non bastano le idee chiare, la volontà politica (ammesso che ci sia) e un solido bilancio per costruire la “casa comune”. Occorre mettere in relazione le leggi e le azioni comunitarie con i principi etici, per dare solide fondamenta all’integrazione e per rispondere alle esigenze più vere e profonde dei cittadini Ue. E’ con questo intento che da diversi anni opera a Bruxelles il Gruppo europeo per l’etica nella scienza e nelle nuove tecnologie (European Group on Ethics in Science and New Tecnologies, sigla Ege), chiamato ad affiancare l’attività della Commissione.

Il Presidente dell’esecutivo, José Manuel Durao Barroso, cui spetta la nomina dei 15 componenti di Ege, ha recentemente provveduto in tal senso. Il gruppo si è riunito a fine ottobre per l’insediamento, mentre a novembre e dicembre ha avviato i propri lavori, cominciando a sviscerare argomenti di estrema delicatezza: l’impiego delle nanotecnologie nella medicina e la ricerca sulle cellule staminali. “Ciò che conta in uno spazio di confronto di questo tipo è anzitutto la ragione – ha dichiarato all’agenzia di stampa “Sir”, Carlo Casini, presidente del Movimento della Vita, unico rappresentante italiano in Ege -. Si tratta di sviluppare un dialogo serrato su temi quali la dignità umana, il diritto alla vita, l’uguaglianza sostanziale tra i soggetti, lo spazio e i limiti della ricerca, la difesa dell’ambiente…”.

Oltre edonismo e consumismo

Ege è un comitato “indipendente, pluralista e interdisciplinare”, incaricato di fornire pareri alla Commissione in vista di nuove direttive comunitarie o riguardo la conduzione di politiche Ue che abbiano significativi risvolti etici. Alla sua presidenza è stato eletto lo svedese Goran Hermerén. Tra i componenti, il cui mandato scadrà nel 2009, sono presenti esperti di vari paesi e con differenti competenze: tre giuristi, sei scienziati e sei studiosi di materie sociali.

“Sono convinto – afferma Casini – che ci sia una sorta di inquietudine culturale e politica a livello europeo quando si affrontano i temi di bioetica non solo dal punto di vista economico (posto che, ad esempio, le biotecnologie possano produrre ricchezza). Se si va oltre l’aspetto consumistico e edonistico, emergono posizioni articolate e si incontrano attenzioni e profonde sensibilità da persone di varia provenienza e formazione; il dialogo tra credenti e non credenti si fa più serrato”.

Fra i tempi di competenza della Commissione europea, in cui Ege può essere chiamato a svolgere il suo ruolo consultivo, troviamo la clonazione animale, la protezione dei dati personali, la cosiddetta “carta di identità genetica”. “Con l’avanzare della ricerca scientifica – aggiunge Casini – questi casi saranno sempre più numerosi e di estrema importanza nella vita di ciascuno di noi”.

Emmanuel Agius, docente di etica e di filosofia morale dell’Università statale di Malta, aggiunge un’osservazione di metodo: “La ragione è essenziale nel nostro operare. Ma la ragione,i principi, la scienza devono essere calati nella storia, nel vissuto dell’Europa di oggi. Nel nostro impegno in Ege è importante considerare gli orientamenti dell’opinione pubblica. E’ questa Europa, comunità di valori, che dobbiamo sostenere nel suo processo di integrazione”. E conclude: “io credo che i cittadini ambiscano a una Ue fondata sui diritti, su grandi progetti. Ege dovrebbe aiutare a tradurre certi valori in pratiche quotidiane, suggerendo pareri che riguardano il processo normativo o le decisioni pratiche delle istituzioni comunitarie. L’Europa chiede infatti risposte etiche ai bisogni della gente e alle sfide del futuro”.

(da Italia Caritas)

di Piero Pisarra

Il governatore d’Egitto si recò un giorno nel deserto di Scete per conoscere abba Mosè, ex brigante divenuto uno dei più famosi eremiti. Avvicinandosi al luogo che gli era stato indicato, incontrò un vecchio al quale chiese dove si trovasse la cella del grande anacoreta. “Che volete da lui?”,replicò l’uomo, “è un pazzo e un eretico”. Senza dargli retta, il governatore proseguì sulla sua strada arrivò alla chiesa più vicina, dove seppe che l’anziano che aveva incontrato altri non era che lo stesso Mosè”.

Le Chiese dell'oriente cristiano

Chiesa ortodossa della Romania

di John Nellykullen





La chiesa ortodossa rumena è unica fra le chiese ortodosse perché è la sola ad esistere all'interno di una coltura latina. Il rumeno è una lingua romanza, che discende direttamente dalla lingua dei soldati romani e dei colonizzatori che avevano occupato la Dacia e si erano sposati con gli abitanti del luogo a seguito della conquista dell’Imperatore Traiano nel 106 d.C.

Il cristianesimo della zona risale ai tempi apostolici ma la storia del suo sviluppo durante il millennio dopo la fine dell’occupazione romana nel 271 è oscura. Certamente sia i missionari latini che quelli bizantini furono attivi nel territorio. In ogni caso nel momento in cui i principati rumeni di Moldavia e Valacchia emergono come entità politiche, nel quattordicesimo secolo, l’identità etnica rumena si era già identificata con la fede cristiana ortodossa.

I seguenti secoli hanno testimoniato lo sviluppo di una specifica tradizione teologica rumena nonostante il fatto che Valacchia e Moldavia fossero vassalle dell’impero ottomano dal 16mo al 19mo secolo. I due principati furono riuniti sotto un solo principe nel 1859 e la Romania divenne completamente indipendente nel 1878. Di conseguenza, il Patriarcato di Costantinopoli, che aveva esercitato la giurisdizione sui Rumeni mentre facevano parte dell’impero ottomano, riconobbe nel 1885 alla Chiesa Rumena lo stato di autocefalia . La Transilvania che comprendeva un elevato numero di ortodossi fu integrata nel regno rumeno dopo la prima guerra mondiale e la Chiesa Rumena fu elevata al rango di Patriarcato nel 1925.

L'istallarsi di un governo comunista in Romania dopo la seconda guerra mondiale creò un nuovo modus vivendi tra chiesa e stato. ed in generale la Chiesa Ortodossa Rumena adottò una politica di stretta collaborazione con il governo. Quali che possono essere stati i meriti di quella decisione la chiesa potette realizzare un'esistenza attiva e piena di significato nel paese. Un movimento spirituale forte di rinnovamento ebbe vita verso la fine degli anni 50. Tantissime chiese erano aperte e vi erano in funzione molti monasteri anche se tutta l'attività della chiesa era sotto il rigoroso controllo del governo. Vi erano sei seminari e due istituti teologici (a Sibiu ed a Bucarest). Periodici teologici di alta qualità erano regolarmente pubblicati, tre dallo stesso Patriarcato ed uno per ognuna delle 5 metropolie, come pure venivano pubblicati altri importanti lavori teologici

A seguito della caduta del regime di Nicolae Ceausescu nel dicembre del 1989 la gerarchia ortodossa fu aspramente criticata per la collaborazione data al regime comunista: Il Patriarca Teoctist dette le dimissioni nel gennaio 1990 ma il Santo Sinodo lo reintegrò nel mese di aprile. Da allora la Chiesa Ortodossa Rumena ha preso una sua posizione di equilibrio ed ha sperimentato uno sviluppo continuo della sua attività. Ci sono attualmente in atto dei programmi per la costruzione di una enorme Cattedrale della Salvezza della Patria a Bucarest. Programma abbastanza contestato a livello laicale, sembra per motivi ecologici. Purtroppo la Chiesa Ortodossa Rumena è ancora in stato di conflitto con la Chiesa Greco Cattolica per il problema della restituzione a questa delle varie chiese confiscatele nel 1948 dal governo comunista e consegnate alla Chiesa Ortodossa. I cattolici ne chiedono la restituzione ma gli Ortodossi oppongono una forte resistenza.

All'inizio del 2003 la Chiesa Ortodossa Rumena ha comunicato di avere 23 diocesi e 12.761 parrocchie. Ugualmente ha detto di avere 373 monasteri e 181 sketes (piccoli monasteri) con un totale di 3.368 monaci e di 4.661 monache. La chiesa era servita da 12173 preti e diaconi; 229 preti erano in servizio come cappellani di ospedale, 39 nelle prigioni e 90 nelle forze armate. Vi erano inoltre 38 seminari con un totale di 4.715 allievi, comprendendo tra gli studenti le monache ed i laici. Gli studi superiori di teologia erano ormai integrati nel sistema universitario statale, con 15 facoltà di teologia ortodossa nel contesto della nazione. Complessivamente vi erano 11.063 allievi di teologia. In più vanno considerate 21 scuole per i cantori della chiesa con 884 allievi. Cinque nazionali e 49 diocesani sono i giornali che si è iniziato a pubblicare.

Secondo il censimento rumeno effettuato nel 2002, ben l’ 86.7% della popolazione si è dichiarato ortodosso. I sondaggi di opinione hanno indicato costantemente che la popolazione rumena tiene la chiesa in alta considerazione, con 86% che nel 1997 definiva l’attività della Chiesa Ortodossa buona o molto buona.



In 1993 il Patriarcato rumeno ha ristabilito le giurisdizioni nella zone che facevano parte della Romania nel periodo tra le due guerre. Nel nord della Bucovina, ora Ucraina, ed in Bessarabia che ora per la maggior parte del territorio è parte delle repubblica indipendente di Moldova. La chiesa ortodossa in Moldova aveva fatta parte della chiesa ortodossa russa a partire dalla seconda guerra mondiale e le era stato appena riconosciuto la stato di autonomia da Mosca. Così gli ortodossi in Moldova sono stati divisi in due giurisdizioni. Il governo di Moldova ha sostenuto la giurisdizione collegata a Mosca (la chiesa ortodossa di Moldova) e non ha riconosciuto la nuova giurisdizione rumena (la chiesa ortodossa di Bessarabia) non concedendo la registrazione ufficiale. Il 27 settembre 2001, il governo di Moldova ha dichiarato che la Chiesa ortodossa di Moldova aveva più di 1.000 parrocchie, questo allo scopo di riconoscerne il possesso dei beni. Nessun tentativo è stato fatto, tuttavia, di confiscare le proprietà della Chiesa Ortodossa di Bessarabia.

Il 13 dicembre 2001, la corte europea dei Diritti dell'Uomo ha dichiarato che il governo della Moldova aveva violato gli articoli della Convenzione europea rifiutando di registrare la chiesa di Bessarabia. Il governo si è appellato contro la sentenza nel febbraio del 2002 ma la Corte ha respinto il ricorso. Nel Luglio del 2002 il governo di Moldova per mezzo dell’Ufficio per Affari del Culto ha registrato la Chiesa di Bessarabia malgrado le proteste della Chiesa Ortodossa di Moldova. Diretta dal Metropolita Petru, la chiesa ortodossa di Bessarabia a quel tempo aveva esattamente 75 prieti e 68 parrocchie.. La maggior parte delle parrocchie non aveva una chiesa adeguata, perciò ci si doveva accontentare di cappelle o di radunarsi in case private.

La più alta autorità nella Chiesa Ortodossa Rumena, per le questioni spirituali e canoniche è il Santo Sinodo composto da tutti i vescovi in carica nel paese. rumeno Le riunioni hanno luogo almeno una volta all'anno. Negli altri momenti la gestione normale della Chiesa è competenza del Santo Sinodo permanente composto dal Patriarca, dai Metropoliti in carica e dal segretario del Santo Sinodo. Per i problemi finanziarii ed amministrativi la più alta autorità è l’Assemblea Nazionale composto da un chierico e due laici per ogni diocesi e dai membri del Santo Sinodo Il supremo organo amministrativo del Santo Sinodo e dell'Assemblea nazionale è il Consiglio Nazionale della Chiesa, composto di tre chierici e sei laici scelti dall’Assemblea Nazionale della Chiesa per un periodo di quattro anni insieme con, come membri permanenti dei consiglieri amministrativi patriarcali.

Complessivamente il Patriarcato Rumeno ha all’estero tre metropolie, un’arcidiocesi, e due dioecesi. Un’arcidiocesi in America del Nord affidata all’Arcivescovo Nicolae Condrea (P.O. Box 27, Skokie, Illinois 60076). Essa ha 25 parrocchie e missioni negli S.U.A. e 18 nel Canada. Fedeli ortodossi rumeni sono in Gran Bretagna ed in Irlanda sono sotto la giurisdizione dellìArcivescovoo Joseph Metropolita dell’ Europa occidentale e del sud, con sede a Parigi. La Comunità rumena in Australia, ha quattro parrocchie. Il Metropolita Nicolae Corneanu del Banat è stato nominato dal Santo Sinodo Esarca di tutti gli ortodossi rumeni della diaspora.


Un'altra giurisdizione ortodossa rumena parte della chiesa ortodossa in America è presieduta dal vescovo Nathaniel Popp (Romanian Orthodox Episcopate of America, 2535 Grey Tower Road, Grass Lake, Michigan 49201-9120). Vi sono 56 parrocchie negli S.U.A. e 19 nel Canada. In 1993 le due giurisdizioni ortodosse rumene in America del Nord hanno accosentito a stabilire dei normali rapporti ecclesiali completi chiudendo così decenni di ostilità.







TERRITORIO:
La Romania, l'Europa occidentale e l'America del Nord

GUIDA:
Patriarca Daniel

TITOLO:
Arcivescovo di Bucarest, metropolita della Ungro-Walacchia, patriarca della Chiesa Ortodossa Rumena

RESIDENZA:
Bucarest, Romania


MEMBRI: 18.817.975 in Romania (censimento del 2002)

WEB SITE:
http://www.patriarhia.ro


Venerdì, 25 Maggio 2007 02:30

La spiritualità degli atei (Enzo Bianchi)

E’ vero che oggi l’ateismo militante non è più attestato come negli anni sessanta, ma l’orizzonte agnostico, oggi ancor più esteso di allora, richiede in realtà lo stesso sforzo da parte dei cristiani per tessere un dialogo che si nutra di ricerca comune, di ascolto, di dibattito tra vie diverse.

Nel magistero post-conciliare

Riflettendo sulla Dichiarazione Conciliare
Nostra Aetate

Il suo spirito aleggia sui nostri giorni

di Paolo Gamberini


Le affermazioni della dichiarazione non furono per nulla scontate. E si può riscontrare una certa “dialettica” tra i documenti del Concilio. Il magistero tuttavia non ebbe tentennamenti e continuò la strada aperta dal documento. Alla luce degli ultimi avvenimenti, vediamo quanto ciò sia stato importante.

Il concilio Vaticano Il ha avviato un diverso modo di comprendere la Chiesa: non più in termini esclusivi, ma in dialogo nei confronti del mondo. In particolare, la dichiarazione conciliare Nostra aetate ha segnato l’inizio di un diverso approccio con i non cristiani. Benché il documento fosse stato pensato originariamente per ridefinire le relazioni con gli ebrei, si comprese subito la necessità di estenderlo alle altre religioni, in particolare all’islam.

A questo riguardo Paolo VI istituì due speciali commissioni, connesse ai due segretariati creati all’indomani del Concilio: una per le relazioni con l’ebraismo, collegata all’allora Segretariato per l’unità dei cristiani (ora Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani) e una per le relazioni con l’islam, connessa all’allora Segretariato per i non cristiani, il quale nel 1988 assunse il nome di Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, per sottolineare l’apertura dialogica della Chiesa cattolica nei confronti delle altre religioni.

Tensione dialettica

Secondo lo spirito della dichiarazione, «la Chiesa nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni» (2): anche in esse è possibile non solo cercare sinceramente, ma incontrare veramente Dio. Va tenuto presente, però, che nei vari documenti del Concilio permane pur sempre una certa tensione. Se da un lato le varie religioni «non raramente riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini» (2), da un altro lato si afferma che questa Verità è il Cristo «via, verità e vita» (Gv 14,6). Non solo. Per la dichiarazione Dignitatis humanae: «L’unica vera religione sussiste nella Chiesa cattolica» (1).

La prospettiva ermeneutica, adottata dai vari documenti conciliari, lascia aperta la dialettica tra l’apprezzamento delle altre esperienze religiose e il riconoscimento della novità insuperabile di Cristo. Il Concilio comprende questa tensione secondo lo schema dei cerchi concentrici. Al centro c’è Cristo e il suo Corpo, cioè la Chiesa cattolica: della pienezza salvifica di Cristo e del suo Corpo in vari gradi partecipano le altre Chiese e le altre religioni (cf Lumen gentium 16): tutti sono ordinati al popolo di Dio e orientati alla Verità di Cristo.

Questa prospettiva ermeneutica, e la tensione che essa implica nella relazione con le altre religioni, è presente anche nei vari documenti del magistero postconciliare. Tra i testi più significativi ricordiamo: il documento del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso L’atteggiamento della Chiesa cattolica di fronte ai seguaci di altre religioni, riflessioni e orientamenti di Dialogo e Missione (1984), l’enciclica Redemptoris missio (RM) di Giovanni Paolo II (1991), il documento Dialogo e Annuncio del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso e della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli (1991), il documento Cristianesimo e religioni della Commissione teologica internazionale (1997), la dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede Dominus Iesus (2000).

In questi vari testi del post-concilio la Chiesa cattolica cerca di articolare ulteriormente la tensione cui prima si accennava. Centrale è l’affermazione della Redemptoris missio che comprende le altre religioni come mediazioni parziali dell’unica mediazione insuperabile di Cristo (5 e 29). Le altre religioni (con i loro riti e testi sacri), pur non avendo in sé stesse efficacia salvifica, possono essere mezzi di salvezza per la grazia di Cristo. Questo è un punto fermo del magistero postconciliare, che vuole appunto conciliare l’unicità e l’universalità di Gesù Cristo con la presenza dei semi del Verbo e dell’azione dello Spirito di Dio nelle altre religioni: infatti, il credente delle altre religioni non è salvato individualmente dalla grazia di Cristo, ma attraverso l’appartenenza alla propria tradizione religiosa (RM 28).

Dialogo e annuncio è certamente il testo “più aperto” tra quelli del post-concilio. Questo documento fonda il valore positivo delle altre religioni non tanto sulla dimensione antropologica (la ricerca religiosa dell’uomo) quanto sulla dimensione teologica: «I cristiani non devono dimenticare che Dio si è anche manifestato in qualche modo ai seguaci delle altre tradizioni religiose. Di conseguenza sono chiamati a considerare le convinzioni e i valori degli altri con apertura» (48). Questa manifestazione di Dio nelle altre religioni, benché sia parziale e misteriosa, costituisce il fondamento per il dialogo interreligioso.

Eventi vicini a noi

Si risente fortemente qui l’eco dell’evento di Assisi del 27.10.1986. A commento di questa intensa esperienza interreligiosa e spirituale, Giovanni Paolo Il affermò che «ogni preghiera autentica è mossa dallo Spirito Santo». In varie occasioni papa Wojtyla ha manifestato con gesti profetici la volontà di proseguire sul cammino inaugurato dalla Nostra aetate: convocando un’assemblea interreligiosa in Vaticano (28.10.1999), visitando la moschea degli Omayyadi a Damasco (6.5.2001), indicendo un giorno di preghiera e di digiuno al termine del Ramadan all’indomani dell’atto terroristico alle Twin Towers (14.12.2001) e invitando per una seconda volta ad Assisi i rappresentati delle varie religioni a pregare per la pace (24.1.2002). Senza l’operato di Giovanni Paolo Il non si sarebbe così chiaramente affermato lo spirito della Nostra aetate nella Chiesa del post-concilio.

Anche Benedetto XVI ha riaffermato più volte l’eredità lasciatagli dal suo predecessore: Commovente è stato l’incontro con la comunità ebraica e musulmana a Colonia in occasione della Giornata mondiale della gioventù (18 e 20.8.2005) e la visita ad Auschwitz durante il viaggio apostolico in Polonia (28.5.2006). Le dure reazioni islamiche ad alcuni passaggi del discorso tenuto dal Papa all’università di Ratisbona in Germania (12.9.2006) e le precisazioni del Vaticano, hanno permesso di chiarire ulteriormente la posizione ufficiale della Chiesa cattolica in merito al dialogo interreligioso, e in particolare con l’islam. Il Papa intende incoraggiare un dialogo franco e sincero con le altre religioni, purché sia fatto con grande rispetto reciproco, nel chiaro e radicale rifiuto della motivazione religiosa della violenza.

Il discorso di Ratisbona, incentrato sul rapporto tra logos (ragione) e religione, e l’intenzione di accorpare il Pontificio consiglio del dialogo interreligioso con quella per la cultura, nominando il cardinale Paul Poupard presidente di ambedue i consigli, rivelano la strategia di Benedetto XVI per il prosieguo di questo dialogo interreligioso: contraddistinta sia dalla condivisione di una ragione comune aperta al trascendente, che dalla comune esperienza di Dio presente nelle varie religioni.

Il gesto inizialmente non previsto, e che si è rivelato assai significativo, di sostare in preghiera nella Moschea blu, durante il pellegrinaggio in Turchia (28.11-1.12.2006), ha evidenziato come il Papa di Roma e il Gran Muftì dì Istanbul credono nell’unico Dio, pur comprendendolo in maniera differente. Già nel secolo XI papa Gregorio VII, rivolgendosi all’emiro Hammadid an-Nasir, gli ricordava che «tu e noi crediamo e confessiamo un solo Dio, anche se in modo diverso, e quotidianamente lodiamo e veneriamo Lui, come Creatore dei mondi e Sovrano di questo mondo».

* docente alla Pontificia facoltà teologica di Napoli, sez. San Luigi

(da Vita pastorale n. 2, 2007)

Bibliografia

Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, “Dialogo e annuncio”, in Il Regno Documenti, 36, 1991, pp. 464-477 Congregazione per la dottrina della fede, Dominus Jesus, EDB 2000, Bologna, Commissione teologica internazionale, “Il cristianesimo e le religioni”, in La civiltà cattolica 1997/I pp. 146 183 Cozzi A , “Le religioni nel Magistero post-conciliare Problemi ermeneutici”, in Teologia, 28 (2002), pp. 267-309; Coda P.. (ed,), L’unico e i molti, la salvezza in Gesù Cristo e la sfida del pluralismo, Mursia-PUL 1997, Roma.

Riflettendo sulla Dichiarazione Conciliare
Nostra Aetate

Mutua conoscenza e stima tra le religioni

di Dario Vitali *

La dichiarazione ebbe un cammino tormentato e quattro redazioni. E’ ormai assodato che fu papa Giovanni XXIII a volere una rivisitazione del rapporto con gli ebrei. Da qui al riconoscimento del valore delle altre religioni il passo fu obbligato. Attualissime le brevi affermazioni sul dimenticare il passato e la mutua comprensione con i musulmani.

Parlare della Nostra aetate è toccare uno dei temi più delicati e sensibili del discorso teologico, che hanno suscitato un dibattito aspro e appassionato al Concilio, in aula e fuori. Si tratta, infatti, di una delle tre dichiarazioni (accanto alla Gravissimum educationis sull’educazione cristiana e alla Dignitatis humanae sulla libertà religiosa) che ha conosciuto un percorso tormentato prima di giungere alla sua definitiva promulgazione, il 28.10.1965.

La redazione definitiva

Nella sua redazione definitiva il testo si presenta in cinque numeri, che affrontano il tema delicatissimo delle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane a partire da una prospettiva universalistica (2) per terminare, dopo un breve accenno alla religione musulmana (3), alla relazione con l’ebraismo (4), inquadrate in un’introduzione che fissa i motivi della dichiarazione, e in un numero conclusivo sulla fraternità universale.

Chiarissima l’intenzione, espressa anche nel titolo, tutt’altro che occasionale: «Nel nostro tempo, in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno e cresce l’interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa esamina con maggior attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non-cristiane». Il motivo è certamente contestuale: il progresso tecnologico e lo sviluppo economico hanno portato a un’interdipendenza tra i popoli che ha moltiplicato anche i punti di contatto tra le religioni. E però il fenomeno contestuale ha fatto emergere una ragione più profonda di questo necessario avvicinamento alle altre religioni, certamente non praticato in precedenza, quando le società erano sistemi chiusi: «Nel suo dovere di favorire l’unità e la carità tra gli uomini, anzi tra i popoli, essa esamina qui per prima cosa quello che gli uomini hanno in comune e che li spinge all’alleanza».

E’ questa la cornice in cui viene inscritto l’accostamento della Chiesa alle religioni non-cristiane, dal momento ché la dichiarazione si conclude con il rimando alla fraternità universale. Nell’introduzione, infatti, si dice che «tutti i popoli costituiscono una sola comunità», avendo in Dio la loro unica origine e il loro fine ultimo; questo fatto fonda la condanna finale di «qualsiasi discriminazione tra gli uomini e persecuzione perpetrata per motivi di razza o di colore, di casta o di religione», e l’esortazione ai cristiani «perché “la loro condotta tra i pagani sia irreprensibile” (1Pt 2,12) e se possibile, per quanto questo dipende da loro, vivano in pace con tutti, per essere realmente figli del Padre celeste».

All’interno di questa grande inclusione, la ,dichiarazione affronta il rapporto della Chiesa con le religioni non cristiane. La presentazione avviene secondo un movimento per cerchi concentrici sempre più circoscritti, in una specie di restringimento progressivo dell’obiettivo che fissa il rapporto della Chiesa con le religioni secondo un criterio di prossimità progressiva.

Il primo rapporto, illustrato al n. 2, è con le religioni che si possono ricollegare al senso religioso dell’uomo. Sotto questa caratterizzazione vengono elencati l’induismo, il buddismo e «le a!tre religioni che si trovano nel mondo intero, [le quali] si sforzano di superare in vari modi l’inquietudine del cuore umano, proponendo delle vie, cioè delle dottrine, dei precetti di vita e dei riti sacri».

«La Chiesa cattolica», afferma la dichiarazione, «non rigetta nulla di quanto c’è di vero e di santo in queste religioni», anzi guarda «con sincero rispetto a quei sistemi di agire e di vivere, a quei precetti e a quelle dottrine che, sebbene differiscano in molti punti da ciò che essa crede e propone, tuttavia non di rado riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini», e invita i suoi figli perché «riconoscano, conservino e promuovano quei beni spirituali e morali e quei valori socio-culturali che in essi si trovano». Senza che questo possa mai precludere l’annuncio di Cristo, «nel quale gli uomini trovano la pienezza della vita religiosa».

Il passaggio successivo, scarno fin quasi alla laconicità, asserisce che «la Chiesa guarda con stima anche i musulmani», e cerca in quella religione i punti di contatto con la fede cristiana: la fede nell’unico Dio, il fatto che egli si sia rivelato, la storia della salvezza, la venerazione di Gesù come profeta, l’onore reso a Maria, la vita morale, il giudizio finale. Si. percepisce un discorso ancora embrionale, dovuto all’evidente difficoltà di coniugare due sistemi per secoli estranei e anche antagonisti.

E, tuttavia, la dichiarazione formula una presa di posizione che oggi suona profetica: «Se nel corso dei secoli non pochi dissensi e inimicizie sono sorti tra cristiani e musulmani, il sacrosanto Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e a promuovere insieme, per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà» (3).

Sui giudei

Ma il rapporto a cui la dichiarazione si applica con più cura, con un testo assai denso e articolato che da solo è più ampio dei due numeri precedenti messi insieme, è quello «con la stirpe di Abramo» (4). Mentre il riferimento alle altre religioni appare come l’accostamento di due mondi diversi, qui il testo conciliare si apre con un «mysterium ecclesiae perscrutans», che rivela come «il vincolo» tra il popolo del Nuovo Testamento e la stirpe di Abramo è costitutivo della natura stessa della Chiesa: «Gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già nei patriarchi, in Mosè e nei profeti»; tutti i fedeli di Cristo sono anche figli di Abramo secondo la fede, e la salvezza del nuovo popolo di Dio «è misteriosamente prefigurata nell’esodo del popolo eletto»; la rivelazione dell’Antico Testamento proviene dal popolo dell’alleanza.

Per cui la Chiesa «si nutre della radice dell’ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell’ulivo selvatico che sono i popoli pagani», gli uni e gli altri riconciliati mediante la croce di Cristo. D’altronde, è un fatto che a Israele «appartengono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legge, il culto, le promesse, i patriarchi: da essi proviene Cristo secondo la carne» (Rm 9,4-5) come pure gli apostoli e i membri della comunità primitiva. In forza della irrevocabilità delle promesse, gli ebrei sono cari a Dio, anche se non hanno riconosciuto in Gesù il Messia e non hanno accettato il Vangelo.

Si tratta qui di un primo livello di risposte le quali conducono a una prima forma di responsabilizzazione: «Poiché dunque è così grande il patrimonio spirituale comune a cristiani ed ebrei, questo sacro Concilio vuole favorire e raccomandare la mutua conoscenza e stima l’uno dell’altro, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con il dialogo fraterno».

La seconda questione riguarda l’accusa di “deicidio” attribuita a quelli che, nella liturgia del Venerdì Santo, venivano bollati come perfidi iudaei, indicata come causa dell’antisemitismo montato fino alla tragedia dei campi di sterminio nazisti durante l’ultima guerra mondiale.

Il testo è formulato con la massima cautela: «E se le autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi, né agli ebrei del nostro tempo. E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli ebrei tuttavia non devono essere presentati né come rigettati da Dio, né come maledetti, come se ciò scaturisse dalla Sacra Scrittura. Pertanto tutti, nella catechesi e nella predicazione della parola di Dio, facciano attenzione a non insegnare alcunché che non sia conforme alla verità del Vangelo e dello spirito di Cristo. La Chiesa, inoltre, che esecra tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio che essa ha in comune con tutti gli ebrei e spinta non da motivi politici ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette conto gli ebrei in ogni tempo e da chiunque».

D’altronde, conclude il paragrafo, Cristo «si è volontariamente sottomesso alla sua passione e morte a causa dei peccati di tutti gli uomini, affinché tutti conseguano la salvezza. Il dovere della Chiesa, nella sua predicazione, è di annunciare la croce di Cristo come il segno dell’amore universale dì Dio e come la fonte di ogni grazia» (4).

L’iter della dichiarazione

Anche a una prima lettura si avverte il carattere composito del testo, frutto di tante stesure e rimaneggiamenti. Quello definitivo, infatti, costituisce la quarta redazione di un testo che ha conosciuto un iter complesso e non sempre lineare e che aveva nel numero sui rapporti della Chiesa con gli ebrei il nucleo iniziale, come dimostra anche la sproporzione del n. 4 rispetto agli altri numeri della dichiarazione.

La prima redazione risale alla fase preparatoria al Concilio. Infatti, il Segretariato per l’unità dei cristiani aveva ricevuto il compito di approntare uno schema De iudaeis, che contenesse una condanna esplicita dell’antisemitismo. Il testo nasceva probabilmente da una richiesta dello stesso Giovanni XXIII, il quale, dopo l’incontro del giugno 1960 con Jules Isaac, rappresentante del Consiglio mondiale ebraico, si era convinto della necessità di una presa di posizione della Chiesa sull’antisemitismo: la scelta poteva avere anche un risvolto apologetico per le accuse rivolte alla Chiesa di essere all’origine dell’antisemitismo con la sua predicazione sui giudei “deicidi” e di non aver fatto tutto quello che era possibile per contrastare l’Olocausto durante la seconda guerra mondiale. In questa direzione, già nel 1959 Giovanni XXIII aveva espunto dalla liturgia del Venerdì Santo il riferimento ai “perfidi giudei”.

Nel 1962 il testo era pronto e conteneva l’affermazione delle radici giudaiche della Chiesa e la condanna dell’antisemitismo. Ma le resistenze all’argomento non tardarono a farsi sentire, dentro e fuori la Chiesa. Nella stessa commissione preparatoria furono avanzate riserve: le ragioni dell’ostilità al documento furono esplicitamente rappresentate dal cardinale Cicognani, il quale dichiarava che il testo non rientrava tra gli scopi del Concilio e lo qualificava come superfluo (perché allora non un documento anche sui musulmani? - domandava il presule) e troppo esposto a strumentalizzazioni politiche di parte. In effetti, già era in atto un’aspra contestazione dei Paesi arabi .per la presenza a Roma di un funzionario dello Stato ebraico in rappresentanza del Consiglio ebraico mondiale, che aveva attirato sul Vaticano l’accusa di favoritismo nei confronti di Israele.

Il fatto che lo schema De iudaeis venisse ritirato dall’agenda conciliare sembrò sancire la fine della questione. Che tuttavia venne ripresa dallo stesso Giovanni XXIII - il quale, peraltro, era stato sollecitato sull’argomento dal cardinale Bea, presidente del Segretariato per l’unità dei cristiani - e inserita, per esplicita indicazione del Papa, nello schema sull’ecumenismo, di cui avrebbe costituito il capitolo quarto, così titolato: “L’atteggiamento dei cattolici di fronte ai non cristiani e in particolare agli ebrei”.

Secondo questa impostazione, il testo fu presentato in aula durante la seconda sessione sotto il pontificato di Paolo VI. Il capitolo si componeva di 42 righe, quasi interamente dedicate all’ebraismo, dopo una breve introduzione sulle religioni in genere. In negativo, la relazione del cardinale Bea chiariva che il testo non concerneva il riconoscimento politico dello Stato d’Israele; in positivo, dichiarava che la questione trattata era di carattere esclusivamente religioso e la sua finalità era di chiarire come la Chiesa sia, in un certo senso, «una continuazione di Israele».

Importanza del documento

La necessità del testo - contestato da molti Padri conciliari - poggiava sul fatto che la Chiesa, direttamente o indirettamente, fosse accusata di aver ispirato e fomentato l’antisemitismo: «La ragione è che già da più decenni il cosiddetto antisemitismo infuriava in varie regioni e nella forma più violenta e criminosa, soprattutto in Germania, sotto il regime nazionalsocialista, il quale per odio contro gli ebrei perpetrò delitti spaventosi, eliminando più milioni di ebrei. (…) Non che l’antisemitismo, soprattutto quello del nazionalsocialismo, abbia attinto la propria ispirazione dalla dottrina della Chiesa, cosa che non regge affatto. Si tratta piuttosto di eliminare alcune idee che, forse per effetto di quella propaganda, rimangono ferme nell’animo dei cattolici». Certamente era un’illusione pretendere che la questione rimanesse circoscritta all’ambito soltanto religioso, e risultava debole l’affermazione di una sostanziale estraneità della Chiesa all’antisemitismo, di fatto non affrontando quel pregiudizio antigiudaico che è stato una costante della cristianità lungo tutto l’arco della sua storia. Né basterebbe asserire che la preclusione era un sentimento diffuso in tutta la società, dal momento che si trattava di una società cristiana, formata e regolata dalla predicazione della Chiesa.

Comunque sia, l’impostazione apparve riduttiva a molti; e se i vescovi delle Chiese orientali continuavano a sostenere l’inopportunità di una dichiarazione sugli ebrei mentre infuriava lo scontro con il mondo arabo e si ingigantiva la questione palestinese, molti altri chiesero di allargare effettivamente la trattazione a tutte le religioni non cristiane.

In merito ai contenuti, si osservò pure che la questione - come quella sulla libertà religiosa, che costituiva il capitolo V - risultava estranea allo schema De Oecumenismo, per cui il capitolo venne estrapolato e costituì la base per un documento autonomo, diviso in due parti, la prima sul tema dell’antisemitismo, la seconda sulle altre religioni.

Il documento fu presentato in aula durante la quarta sessione: per la risonanza avuta presso l’opinione pubblica - almeno così argomentava il cardinale Bea nella relatio - era impensabile togliere la dichiarazione dal programma conciliare. La discussione in aula fu aspra e andò dalla richiesta di ribadire la tesi del “deicidio” all’assunzione di responsabilità da parte della Chiesa per aver alimentato un atteggiamento antigiudaico.

Una commissione del Segretariato per l’unità dei cristiani, dopo la discussione, provvide non senza difficoltà a redigere celermente un testo in cinque punti, che prevedeva, appunto, un riferimento all’origine e al fine comune dell’umanità, alle religioni non cristiane, all’islamismo, all’ebraismo, per concludere con la condanna di ogni forma di discriminazione. Era lo schema che, con alcune correzioni, arriverà alla promulgazione finale. In aula, il cardinale Bea evocò in un’ulteriore relatio l’immagine evangelica del granello di senape, per lo sviluppo del documento, nato come una dichiarazione di condanna dell’antisemitismo e diventato un albero in cui trovavano posto tutte le religioni. Le votazioni sul documento furono lontane dall’unanimità. Vennero avanzate ancora riserve, prese in considerazione per la redazione ultima della dichiarazione, definitivamente approvata con 2.221 voti favorevoli e 88 contrari.

Se l’immagine del granello di senape evocato dal cardinale Bea non sembra corrispondere all’iter così tormentato della dichiarazione, e alla sua formulazione ancora esitante, non omogenea nelle parti e acerba in alcuni passaggi, si può comunque parlare di una novità assoluta nell’atteggiamento della Chiesa. Nell’arco di cinque anni si era passati da un’ipotetica dichiarazione di condanna dell’antisemitismo all’elaborazione teologica del rapporto della Chiesa con .le religioni non cristiane, nel quadro dell’universale volontà salvifica di Dio. Si trattava di un passaggio enorme, in linea con l’ecclesiologia di comunione e con l’apertura al dialogo nei confronti del mondo, che il Concilio aveva formulato nei documenti maggiori, soprattutto nella Lumen gentium e nella Gaudium et spes. Sta qui il punto di partenza di un dibattito intensissimo e pieno di tensioni, quello sul pluralismo religioso, che nel post-concilio conoscerà uno sviluppo incredibile.

* professore di ecclesiologia alla Pontificia università gregoriana di Roma

(da Vita Pastorale n. 2, 2007)

Bibliografia

Per un approfondimento della Nostra aetate il testo più accessibile è Stefani P. Chiesa ebraismo e altre religioni, Padova 1998: un approccio storico in Alberigo G.,Storia del concilio Vaticano II, I-V, Bologna 1995.2001; vale la pena di rileggere il testo del cardinale Bea, alla cui azione si deve di fatto la Dichiarazione Bea A., La Chiesa e il popolo ebraici, Brescia 1966.

Maria nel dialogo tra le Chiese

di Mons. Francesco Pio Tamburrino OSB
Arcivescovo di Foggia

“Questione mariana”

Maria, la madre di Gesù, nell’inno di lode che rivolge a Dio, suo Signore e Salvatore, esprime il presagio di una ininterrotta benedizione da parte di tutte le generazioni dell’umanità: «D’ora in poi tutte le generazioni mi diranno beata» (Lc 1,48). Nel Nuovo Testamento il verbo makarìzein e suoi derivati sì riferiscono alla «singolare gioia religiosa che viene all’uomo dalla partecipazione alla salvezza del regno di Dio» (1). La lode, per Maria, sarà sempre lo stupore umano di fronte alla grandezza di ciò che il Potente ha compiuto in lei, compiacendosi della umiltà (tapeinosis) della sua serva.

«Questa direzione verticale della sua lode non impedisce a Maria di definire la sua esatta posizione nel piano di Dio: - ella è la serva del Signore (cfr Lc 1,38), in una situazione di bassezza (tapeinosis); - tuttavia sarà riconosciuta beata (makariousin me) d’ora in poi da tutte le generazioni» (2).

A partire dalla autocoscienza che Maria manifesta nel Magnificat , sono possibili due accentuazioni differenti e complementari: la «direzione verticale», che esalta il Nome santo di Dio e la sua fedeltà; la «direzione orizzontale», che prende in considerazione Maria nel piano di Dio, la salvezza (ta megàla) operata in lei in favore di Israele e di tutte le generazioni umane.

Oggi la cristianità è divisa. La stessa lode di Maria nelle Chiese non riflette soltanto il legittimo pluralismo, cui il Magnificat fa da preludio e il Nuovo Testamento documenta più ampiamente, ma assume termini antitetici e alternativi.

Va detto subito che la divisione nelle mariologie delle Chiese non è nella persona di Maria, né in ciò che il Nuovo Testamento testimonia di lei. Da parte sua c’è stata solo la volontà di servire il Signore nel singolare compito di generare al mondo il Salvatore e di accompagnarlo nella sua missione mediante la fede e la sottomissione. Maria, nella sua funzione voluta da Dio e nel suo servizio, non è fonte di divisione, bensì di benedizione e di unità. Eppure ella, nella storia delle Chiese cristiane, soprattutto degli ultimi quattro secoli, è divenuta parte del contenzioso teologico, per cui oggi si parla di «questione» e di «problema» mariano. Anzi, il tema mariano sembra essere - nel dialogo ecumenico - uno degli argomenti che suscitano le reazioni e le emozioni più vivaci, capace di coinvolgere altri valori legati all’essenza della fede cristiana. Kenneth S. Kantzer, ad esempio, confessa la sua perplessità nel constatare come questa figura di donna venga sempre più «gonfiata», fino ad assumere aspetti di intollerabile idolatria. «Agli occhi dei protestanti la Chiesa cattolica promuove una pietà mariana che può essere solo definita idolatra» (3). D’altra parte, ortodossi e cattolici rimproverano ai protestanti di ignorare Maria, di non riconoscerle il posto che le compete e, dal punto di vista teologico, il compito unico che ha svolto nella storia della salvezza. Non è assurdo che, pur facendo parte in forza del battesimo di una unica Chiesa e pur essendo tutti credenti in Cristo, proprio sua madre ci divida (4)?

La divisione su Maria si situa sul versante delle teologie, che le Chiese hanno sviluppato nel corso della storia cristiana, delle esegesi bibliche che hanno prodotto, delle ecclesiologie differenti che contraddistinguono le loro coscienze. Sta di fatto che oggi le Chiese divise non sono in grado di proferire «con una sola voce» la lode che Maria presagiva nel popolo dei credenti.

Nel movimento ecumenico ufficiale il tema mariano non è stato ancora affrontato, forse perché finora è stato ritenuto marginale rispetto ad altri argomenti più urgenti e radicali. Solo singoli teologi o gruppi ristretti di ricercatori ne hanno fatto l’oggetto di colloqui interconfessionali (5).

Il tema mariano potrebbe essere studiato illustrando le posizioni delle varie Chiese al riguardo (6). Questa via, per sé legittima, sembra improduttiva, perché «un ecumenismo spaziale tende, direi, per sua natura, verso l’integrismo, verso la riaffermazione delle rispettive posizioni che, pur ripetute, ad un dato momento si scontrano» (7).

Preferisco situare il problema nella sua essenzialità, seguendo un taglio sistematico-teologico dei diversi livelli in cui si pone la «questione mariana».

Il punto di partenza: la Scrittura

La persona di Maria, nella sua essenza, nella sua funzione e missione, è tutta nelle Sacre Scritture e nella storia di salvezza, che hanno come punto centrale la persona e la missione di Gesù. Maria vi appare con discrezione e umiltà, ma anche in un ruolo unico di Vergine che genera miracolosamente il Salvatore del mondo, di credente, di serva del Signore, di povera per eccellenza, sempre disponibile a cogliere e servire i desideri di Dio e degli uomini. Un aspetto profondamente biblico, che ricollega Maria ad Abramo e ai grandi personaggi della storia della salvezza, messo in luce particolarmente dalla esegesi protestante, è la fede tentata di Maria.

«La lettura attenta delle Scritture ci dà una immagine succinta, ma impregnata di una fede semplice, turbata ma trionfante, nella persona di Maria. Dall’Annunciazione alla Natività, attraverso l’infanzia e la maturità di Gesù, fino alla sua crocifissione e alla risurrezione, e anche nella prima comunità cristiana, Maria è un esempio e uno stimolo della fede in Gesù il Cristo» (8).

René Laurentin ha osservato che, mentre al secolo XVI la discrezione del Nuovo Testamento su Maria indusse i protestanti a rinunciare ad ogni mariologia e i cattolici a sviluppare una mariologia parascritturistica, oggi «i protestanti ritrovano Maria mediante la Scrittura, mentre i cattolici ritrovano Maria nella Scrittura» (9).

Il confronto ecumenico sui testi biblici relativi a Maria è, senza dubbio, il primo e fondamentale passo verso una convergenza teologica. Tuttavia non va sottovalutato il fatto inevitabile che anche nell’esegesi è difficile liberarsi dalla forma mentis e dalla conoscenza precedente (Vorveständnis) confessionale, che si rivela nella preferenza e nell’insistenza su determinati temi e testi, piuttosto che su altri.

A questo si aggiunge, come per altre differenze nelle tradizioni confessionali (10), che lo stesso Nuovo Testamento non presenta la Madre di Gesù in modo uniforme e armonioso: la diversità di accentuazioni è già presente negli scritti neotestamentari. Giustamente in una ricerca interconfessionale, condotta negli Stati Uniti tra cattolici e luterani, si osserva: «Se le Chiese oggi non sono d’accordo nel valutare Maria, non è soltanto perché hanno tratto differenti conclusioni intorno agli sviluppi postneotestamentari, ma anche perché hanno dato enfasi differente ai diversi elementi che si trovano nello stesso Nuovo Testamento» (11).

Anche per la dottrina mariana, anzi per essa in modo del tutto speciale - affermata l’autorità sovrana della Scrittura come «norma non normata» della fede cristiana - si pone il problema del rapporto tra Scrittura-Tradizione-Chiesa. Il tradizionale dissenso sulle fonti della rivelazione («sola Scrittura» per i protestanti, Scrittura-Tradizione per gli ortodossi e i cattolici) si va smorzando ed è stato riformulato così dalla (Conferenza ecumenica di Fede e Costituzione a Montreal nel 1963:

«Il nostro punto di partenza è il fatto che viviamo tutti in una tradizione che si rifà al nostro Signore, e affonda le sue radici nell’Antico Testamento, e siamo tutti in debito con quella tradizione nella misura in cui abbiamo ricevuto, attraverso la sua trasmissione da una generazione all’altra, la verità rivelata, il Vangelo. Per questo possiamo dire che esistiamo, come cristiani, per mezzo della Tradizione del Vangelo (la paradosis del kerygma) testimoniata nelle Scritture, trasmessa dentro e per mezzo della Chiesa mediante la potenza dello Spirito Santo. La Tradizione presa in questo senso si realizza nella predicazione della Parola, nell’amministrazione dei sacramenti, nel culto, nell’insegnamento, nella teologia, nella missione e nella testimonianza a Cristo attraverso la vita dei membri della Chiesa.

Ciò che viene trasmesso nel processo della tradizione è la fede cristiana, non soltanto come una somma di principi, ma come una realtà vivente trasmessa attraverso l’opera dello Spirito Santo. Possiamo parlare della Tradizione (con la «T» maiuscola) cristiana, il cui contenuto è la rivelazione di Dio e il suo donarsi in Cristo, presente nella vita della Chiesa.

Ma questa Tradizione, che è l’opera dello Spirito Santo, è incorporata nelle tradizioni (nei due sensi della parola, intendendo sia la diversità nelle forme di espressione, sia le tradizioni confessionali). Le tradizioni nella storia cristiana, sono distinte dalla Tradizione, eppure ad essa collegate. Esse sono le espressioni e le manifestazioni in forme storiche diverse, dell’unica verità e realtà che è Cristo» (12).

Nel caso specifico della mariologia si evidenzia in maniera emblematica il modo diverso di concepire il rapporto fra Scrittura e Tradizione nelle Chiese. Per i cristiani della riforma, per i quali «la Tradizione coincide con la rivelazione in Cristo e la predicazione della Parola, affidata alla Chiesa ed è espressa in diversi gradi di fedeltà, in varie forme condizionate dalla storia, cioè dalle tradizioni» (13), il circolo resta più chiuso e le possibilità di sviluppo dottrinale non oltrepassano di molto il compito della esegesi biblica. Si spiegano allora le perplessità, nel mondo protestante attuale, di ritenere legittimo il titolo di Teotòcos (in latino deipara, colei che ha generato Dio).

«L’espressione «Madre di Dio» si è rivelata particolarmente inaccettabile dai protestanti. Come può, si afferma, una donna di carattere finito essere madre di una persona di carattere infinito?» (14).

Situato nel contesto storico in cui tale titolo è stato formulato (Concilio di Efeso del 431), esso non è un titolo mariano, ma cristologico, inteso ad affermare la qualità di Figlio di Dio inseparabilmente unito alla natura umana dal momento del suo concepimento nel seno di sua madre.

«Maria, nella tradizione cristiana, garantisce l’umanità di Gesù, la realtà della sua vita sulla terra, l’autenticità del dubbio e delle tentazioni che egli ha conosciuto» (15).

Il Nuovo Testamento riporta sulla bocca di Elisabetta il titolo di Maria come «Madre del Signore». L’esegeta minimalista vi scorge solo una lode alla madre del Messia. L’espressione, per quanto poderosa, non sarebbe da intendere nel senso di una confessione di fede nel figlio di Maria come Figlio di Dio (16). È legittimo tuttavia chiedersi se l’intuizione di Elisabetta, «piena di Spirito Santo» (Lc 1,41) non sia sconfinata oltre il semplice riconoscimento del Messia. «Per Luca solo lo Spirito può operare la conoscenza di Gesù come Figlio di Dio» (17). A questo si aggiunge la probabilità che l’evangelista-redattore abbia caricato di un colore post-pasquale e della fede della comunità primitiva l’appellativo di Gesù come Signore (Kyrios).

Il Concilio di Efeso ha inteso collocarsi in continuità con la fede della Chiesa apostolica quando, in una situazione dottrinale diversa da Luca, intende dare lo stesso contenuto dogmatico alle due espressioni della maternità di Maria: «la madre del Signore» di Elisabetta è «la madre di Dio», madre umana del Cristo, vero Dio e vero uomo secondo l’assemblea efesina (18).

C’è poi un altro settore che la riflessione biblica su Maria deve tenere presente ed è quello che René Laurentin chiama «un complesso di suggerimenti» (19) che emergono dal rapporto vivente tra i testi mariani neotestamentari fra di loro e con il resto della Scrittura (20). I riferimenti all’Antico Testamento nei detti e fatti di Maria, espliciti o in filigrana, fanno parte integrante della figura biblica della Madre di Cristo.

Il punto di arrivo: Maria nelle Chiese

A venti secoli di distanza da «Maria nella storia» i cristiani si trovano divisi su «Maria nella fede». Come in altri settori della teologia (sacramenti, ministero ordinato, Scrittura-Tradizione, culto dei santi), si sono formati durante i secoli due poli di concentrazione: da una parte si ritrovano in sostanziale accordo le Chiese orientali (precalcedonesi e ortodosse) e la Chiesa cattolica; dall’altra le Chiese e Confessioni nate o ispirate dalla Riforma del secolo XVI.

Nelle Chiese orientali e cattolica, soprattutto a partire dai grandi dibattiti cristologici dei primi secoli, la comprensione teologica di Maria venne trasferita nel culto liturgico e nella pietà. Si può affermare che, tuttora, se si vuole cogliere il significato più completo e vitale di Maria nel ministero di Cristo e della Chiesa, per la cristianità orientale e cattolica, si deve far ricorso alla liturgia.

Nel contesto cultuale, la madre del Signore vi appare nella sua esatta posizione storico-salvifica: il centro del culto è Dio uni-trino; il sacerdote della nuova alleanza e unico mediatore è Cristo; colui che rende efficace e attuale il memoriale delle opere salvifiche di Dio è lo Spirito. Alla celebrazione della storia della salvezza sono presenti tutti i personaggi dell’Antico e Nuovo Testamento e della Chiesa, da Abele il giusto fino all’ultimo battezzato, che Dio ha voluto associare alla sua opera. Maria vi è presente in prima fila.

Nella concezione del culto ci imbattiamo nella questione che divide i riformati dai cattolici e ortodossi, se, cioè, Maria e i santi debbano entrare e in che modo nella preghiera cristiana.

La norma della Chiesa antica (Concilio di Ippona del 393) di rivolgere la preghiera liturgica a Dio Padre per Gesù Cristo nello Spirito è osservata nella liturgia di tutte le Chiese. Nella liturgia romana si trovano pochissimi elementi, in genere di carattere lirico (inni, antifone) diretti a Maria e ai santi (21). La liturgia bizantina (22) e delle Chiese orientali (23) danno maggiore spazio di quella romana alla preghiera diretta a Maria. Spesso hanno forma di saluto (chairetismòs), che riecheggia quello dell’angelo nell’Annunciazione (Lc 1,28). In generale tali elementi sono marginali e non deformano il carattere teocentrico della liturgia. Il problema si pone invece per le forme di pietà mariana extraliturgica, ove Maria sembra tenere il posto centrale della preghiera e della devozione.

Sono presenti gli eletti di sempre [...].Non si tratta della preghiera per i defunti; la Riforma l’ha respinta a causa della mercantilizzazione della soteriologia che era stata favorita dal Medioevo occidentale; si tratta della preghiera con i vivi di dovunque e di sempre» (24)

Prendendo in esame e raffrontando la mariologia cattolica del Vaticano II e quella protestante, W.A.Quanbeck ha osservato che c’è una commemorazione dei santi vera e giusta nella Chiesa antica.

La preghiera biblica ammette che il credente possa far «memoria» a Dio non solo della sua alleanza, ma anche delle promesse e dell’amore dimostrato a Davide (I Re 8; sal 132,1: «Ricordati, Signore, di Davide, di tutte le sue prove»). Il Padre di Gesù Cristo è «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe» (I Re 18,36, ecc.), «un Dio non dei morti ma dei viventi» (Mc 12,27).

Sembra giunto il momento in cui le Chiese si possono fruttuosamente consultare, sul culto, sulla spiritualità e sulle forme espressive della devozione mariana e dei santi, per eliminare quanto è contrario alla fede cristiana, ma anche per discernere e rispettare quelle diversità e accentuazioni confessionali che sono legittime.

Bisogna riconoscere che, da parte cattolica, fanno ancora ostacolo le esagerazioni delle devozioni popolari e anche la tendenza di certi teologi a non considerare la mariologia in stretto nesso con la cristologia e l’ecclesiologia.

Nell’ambito della riflessione teologica, sia nel presentare la propria fede, sia nel valutare quella degli altri, va tenuto presente il criterio della «gerarchia della verità».

Il Concilio Vaticano II ammonisce i teologi cattolici in questi termini: «Nel mettere a confronto le dottrine si ricordino che esiste un ordine e gerarchia nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso con il fondamento della fede cristiana» (26).

Le verità del cristianesimo non possono essere semplicemente giustapposte o allineate nell’orizzonte piatto di una successione.

«Non tutto si presenta sul medesimo piano, tanto nella vita di tutta la Chiesa che nel suo insegnamento; certo, tutte le verità rivelate esigono la stessa adesione di fede; ma, secondo la maggiore o minore relazione prossima che hanno rispetto al fondamento del mistero rivelato, esse stanno in posizioni diverse le une di fronte alle altre e in rapporti differenti tra di loro» (27).

Il legittimo pluralismo può spingersi anche in altre direzioni; e sono «la diversa enunciazione delle dottrine teologiche», «i metodi e i cammini diversi per giungere alla conoscenza e alla confessione delle cose divine», e perfino uno sviluppo dogmatico differente «di alcuni aspetti del mistero rivelato, percepiti in modo più adatto e posti in migliore luce dall’uno che non dall’altro» (28). Questa osservazione del Vaticano Il riguarda direttamente gli Orientali, ma può estendersi anche alle Chiese della riforma.

In molti casi le formule teologiche si rivelano complementari, ma - non bisogna negarlo - talvolta estranee o opposte tra di loro (29). In questa zona si situano i dogmi cattolici della Immacolata Concezione e l’Assunzione di Maria. Nel prossimo futuro sarà compito della Chiesa cattolica rendere conto della fede che è in lei di fronte agli ortodossi e ai protestanti, utilizzando una accurata ermeneutica dei suoi dogmi, tenendo conto dell’apporto della scienza e del linguaggio, della antropologia e delle recenti escatologie (30).

Conclusione

Se esiste dissenso è divisione sulla figura di Maria, essi non sono dovuti alla sua persona, né al suo rapporto con Cristo, di cui è stata madre e serva fedele. Maria non ha creato partiti nella chiesa apostolica e tra i primi discepoli di Gesù (cfr 1Cor 3,4 ss). La divisione è nella storia successiva e nella teologia delle Chiese storiche.

Questo significa che riprendere la questione mariana in ambito ecumenico non può che giovare alla causa dell’unità. Maria, lasciata finora in disparte nei dialoghi ecumenici ufficiali, merita maggiore attenzione, perché il successo dei dialoghi in corso dipende anche dalle soluzioni che si daranno ai problemi posti dalla mariologia. Il serio rinnovamento teologico in atto sui temi della Scrittura-Tradizione, della ecclesiologia e della cooperazione umana alla salvezza permette una sutura delle lacerazioni.

Nella ricerca ecumenica su Maria, come del resto per ogni altro aspetto, bisogna evitare di fermarsi agli enunciati teologici astratti. La teologia sistematica non sempre è in grado di rendere conto del significato ultimo di ciò che afferma. La teologia deve essere riportata alla esperienza di fede nei suoi molteplici aspetti della vita ecclesiale perché si possa esprimere onestamente la fede, che essa è chiamata a servire. Il «vissuto» della fede dà alla teologia la dimensione che, in qualche modo, la completa e la rende più intelligibile. Per esemplificare: nelle Chiese in cui si apprezza la «verginità per il regno» e si pratica la vita monastica come carisma ecclesiale, più facilmente si recepisce nella teologia, il significato della verginità di Maria (31).

Il dialogo interconfessionale su Maria è possibile. Ma deve svolgersi a partire da ciò che unisce e non da ciò che divide. Ciò che unisce le Chiese su Maria non è il relitto superstite da un grande naufragio o il residuo salvato faticosamente dalla dissipazione reciproca delle divisioni. Esso è l’essenziale tenuto al sicuro da Dio, come seme e speranza di ua totale comunione di fede tra le Chiese

Note

(1) F. Hauck, Macàrios in Grande Lessico del Nuovo Testamento a cura di G. Kittel - G. Friedrich, tr. it., VI, Brescia 1970, 990.

(2) Luca, versione, introduzione e note di C. Ghidelli (Nuovissima versione della Bibbia, 35) Roma 1977, 65 -66.

(3) K. S. Kantzer, Maria, la madre di Gesù: c’è un’alternativa fra l’ignoranza e il divinizzarla? in Voce Evangelica 48 (1987n. 4,10).

(4) G. Cereti, Maria nel dialogo ecumenico, in AA. VV., Maria nella comunità ecumenica, Roma 1982, 21.

(5) Un gruppo di 23 teologi ortodossi, anglicani, riformati e cattolici nell’ VIII Congresso mariologico internazionale (ottobre 1979) arrivarono a redigere una dichiarazione sorprendente per la sostanziale convergenza su diverse questioni riguardanti Maria; il testo è pubblicato in Maria nella comunità ecumenica, 111-113. Di grande interesse sono i tre studi dei luterani T. Harjunpaa, P. Meinhold e W. Borowsky curati per il Centro di studi mariologici ecumenici di Superga (Torino) e pubblicati nel volumetto Maria ancora un ostacolo insormontabile all’unione dei cristiani? Torino 1970. Negli anni 1980-81 il Segretariato Attività Ecumeniche di Roma organizzò degli incontri interconfessionali su Maria. Le relazioni e le meditazioni sono contenute nel voI. Maria nella comunità ecumenica (v. nota 4) e rappresentano finora il migliore contributo delle Chiese italiane al dibattito su Maria.

(6) Così procede E. Geremia, Orientamento ecumenico del culto alla Vergine, in Testimoni nel mondo, n. 40, agosto 1981, 25-32.

(7) R. Bertalot, Come impostare un discorso ecumenico su Maria, in AA.VV., Maria nella comunità ecumenica, 13.

(8) W. A. Quanbeck, Le problème de la mariologie, in AA.VV. Le dialogué est ouvert, I, Neuchâtel 1965, 175.

(9) R. Laurentin, Compendio di mariologia, Il ed., Roma 1963, 50.

(10) Ad esempio, per l’ecclesiologia v. P. R. Tragan, Pluralismo ecclesiale nel Nuovo Testamento, in Servitium 20 (1986) 13-26.

(11) AA. VV.,Mary in the New Testament, Philadelphia New York 1978, 294.

(12) Scrittura, Tradizione e tradizioni, 45-47, in La Bibbia. La sua autorità e interpretazione nel movimento ecumenico a cura di E. Flesseman - van Leer; ed. it. a cura di R. Bertalot e I. Gargano, Leumann-Torino 1982-35.

(13) Scrittura, Tradizione e tradizioni, 57, in La Bibbia. La sua autorità, 39.

(14) K. 5. Kantzer, Maria, la madre di Gesù, 11.

(15) W. A. Quanbeck, Le problème de la mariologie, 176; cfr. W. Borowsky, incontro delle confessioni in Maria, in Maria ancora un ostacolo, 39- 40; M. Thurian, Maria madre del Signore immagine della Chiesa, tr. it., II ed.,Brescia 1969, 87-93.

(16) K. E. Rengstorf, Il vangelo secondo Luca, tr.it., Brescia 1980, 59. Di diversa opinione è M. Thurian, Maria madre del Signore, 88: «San Luca dà al titolo di Kyrios il suo significato divino. Cristo è Signore, egli è Dio».

(17) K. H. Rengstorf, il vangelo secondo Luca, 59. Ma è proprio Luca a menzionare la presenza illuminante dello Spirito!

(18) Sulla continuità tra la fede biblica e il dogma efesino si vedano i testi di Lutero e Zwingli riportati da M. Thurian, Maria madre del Signore, 90-93.

(19) R. Laurentin, Compendio di mariologia, 50.

(20) L’esegeta e il teologo nella ricognizione di questi aspetti meno evidenti devono usare maggiore prudenza. «Le interpretazioni allegoriche dei testi biblici hanno permesso ai Padri e agli scrittori medioevali di tradurre la loro comprensione della figura di Maria in una forma immaginosa, ma talvolta non forniscono alla riflessione teologica una base rigorosa»: P. Grelot, Marie, in Dict de spirit., 10, Paris 1977, 409. Al libro di M. Thurian, Maria madre del Signore (v. n. 15) in campo protestante si muove l’appunto che «le sue conclusioni sono eccessivamente basate sull’allegoria e non trovano [...] un supporto sufficiente al momento della verifica con i testi del Nuovo Testamento: R. Bertalot, Principali dati dottrinali circa Maria nella tradizione protestante, in Maria nella comunità ecumenica, 108.

(21) Si possono menzionare, a titolo di esempio, il Carmen Paschale II, 63- 38 di Sedulio: Salve, sancta Parens divenuto l’antifona di introito per alcune messe mariane; l’inno Ave, maris stella e le quattro antifone maggiori di compieta. Questi e altri testi devozionali sono arricchiti di melodie gregoriane di grande valore artistico: cfr il capitolo Notre Dame dans I‘art grégorien nel volume Les plus belles mélodies grégoriennes, comtnentées par Dom Gajard, Solesmes 1985, 231- 268.

(22) J. Nasrallah, Marie dans la Sainte et Divine Liturgie Byzantine, Paris 1954, 45-107. Tra i numerosi esempi di preghiere dirette a Maria basti ricordare l’inno acatisto e i numerosi theotokia aggiunti regolarmente alle dossologie.

(23) Il più antico esempio (papiro del III secolo) proveniente dall’ Egitto è il Sub tuum praesidium; cfr F. Mercenier, La plus ancienne prière à la Sainte Vierge, in Questions liturgiques etparoissiales 25 (1940) 33-36. Per la Chiesa copta v. G. Giamberardini, Marie dans la Liturgie Copte, Paris 1958. Nella Chiesa armena si fa uso del cap. 80 del Libro delle Lamentazioni di Gregorio di Narek: Preghiere armene, Milano 1978, 101-107 («supplicazione alla Vergine»): nel rito della messa l’introito per le feste mariane è diretto a Maria Liturgia della Santa Messa, Milano 1976, 19.

(24) J. J. von AIlmen, Celebrare la salvezza. Dottrina e prassi del culto cristiano, tr. it., Leumann-Torino 1986, 178-179.

(25) W. A. Quanbeck, Le pro blème de la mariologie, 175-176.

(26) Decreto Unitatis redintegratio, 11..

(27) Segr, per l’unione dei cristiani, Riflessioni e suggerimenti sul dialogo ecumenico, 4b.

(28) Decr. Unitatis Redintegratio, 17,

(29) Nell’area del dissenso rientrano quei titoli mariani che spettano propriamente a Cristo (mediatrice, corredentrice, ausiliatrice, consolatrice, avvocata, ecc). Per il protestantesimo sono titoli riservati alla Trinità. Per il cattolicesimo e l’ortodossia fanno parte del culto e delle devozioni. Tali titoli sono da intendere in senso molto subalterno e analogico. La prassi devozionale, tuttavia, non deve mai offuscare la centralità e la singolarità di Cristo.

(30) W. Borowsky, Incontro delle confessioni in Maria, si apre una pista di ricerca: i due dogmi mariani appartengono alla «Maria glorificata», che supera di molto la «Maria biblica». Borowsky suggerisce di leggerli come «colore religioso» dato alla figura di Maria, elaborato e cresciuto nel corso della storia, per cui «non toccano necessariamente il rapporto personale con Cristo né lo distruggono». Cfr anche R. Bertalot, Come impostare un discorso ecumenico su Maria, 14-15.

(31) cfr G. Westfal, Vie et foi du protestant, Paris 1966, 131-132. Si può osservare che nelle Chiese riformate ove stanno rinascendo esperienze di tipo monastico, cresce anche l’interesse per Maria. Alcune fondazioni hanno assunto nomi significativi, quali: Congregazione delle figlie di Maria (Danimarca); Sorelle evangeliche di Maria di Darmstadt (Germania); Suore di Maria, madre di Gesù (Svezia).

Venerdì, 25 Maggio 2007 01:54

L’infinita coscienza (Giovanni Vannucci)

L’infinita coscienza

di Giovanni Vannucci


In un’ora di grande intimità con i discepoli. Gesù domandò loro: «Cosa dice la gente che io sia?». Ed essi risposero: «Per qualcuno tu sei Giovanni il Battista, per altri Elia, per altri ancora un antico profeta tornato nella vita». «Ma voi chi dite che io sia?». Pietro prese la parola e disse: «II Cristo di Dio». Gesù proibì loro di dirlo ad alcuno. Quindi disse chi era lui stesso e chi sarebbero stati i suoi seguaci: «II Figlio dell’Uomo deve soffrire, venir riprovato, essere ucciso e risorgere il terzo giorno». Dopo aver descritto la sua realtà personale continua il discorso con delle affermazioni che, a prima vista, possono sembrare fuori contesto: «Chi mi vuol seguire, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua. Chi vuoi salvare la propria vita, la perde; chi la perderà, la salva» (cfr. Lc 9,18-24).

La sequela delle parole di Cristo è questa: proibizione ai discepoli di dire che egli è il Cristo, il Messia, il che equivale a un suo rifiuto di tale titolo; affermazione della sua sconcertante realtà: egli è colui che dovrà essere ucciso dalle autorità della sua terra, ma che risorgerà il terzo giorno; i suoi discepoli lo seguiranno nella sua paradossale via: faranno gettito, come lui, della propria vita al fine di possederla veramente.

Cristo nasce alla vera vita accettando la morte, il discepolo trova la vita gettandola allo sbaraglio. Quasi abbia detto: io sono il mistero della morte-risurrezione; voi, miei discepoli, siete chiamati a vivere il mio dramma di rinuncia alla vita per ritrovarla nella sua verità. Tenendo conto di questa novità di coscienza possiamo comprendere il motivo della proibizione di rivelarlo alla gente come il Cristo, il Messia.

La figura del Messia nella tradizione ebraica, e quindi nel pensiero dei discepoli, era quella di un condottiero con la corona e la spada, di un capo di eserciti, oppure - come una recente esegesi ama presentarlo - di un agitatore, di un ribelle poco fortunato. La proibizione ai discepoli di rappresentarlo come il Messia condottiero, e la descrizione che fa di se stesso: dovrò affrontare la morte per risorgere, vogliono dire che Gesù Cristo non ha alcun mezzo di azione fisica; se l’avesse, o se volesse servirsene, non sarebbe «colui che getta la propria vita per veramente possederla» (Lc 9, 24). L’episodio evangelico riportato in Lc 9, 18-24 è uno di quegli avvenimenti della vita di Cristo che rimangono eterni, nella successiva storia della coscienza umana. Egli è ancora, in questo momento, in mezzo a noi suoi discepoli e ancora continua a chiederci: «Chi dite che io sia?» (Lc 9, 20). E continua a proibirci di nominarlo con delle figure di potenza terrena: non dite che io sono il Messia trionfatore e guida di eserciti, prendete la vostra croce come io prendo la mia, gettate la vostra vita allo sbaraglio come io getto la mia, e comprenderete che io sono il senza Nome; ponete fine a tutte le designazioni potenti della mia realtà, comprenderete che con la mia venuta non inizia un nuovo regno terreno, ma un nuovo stato di coscienza, che distruggerà dalla vostra mente tutte le immagini acquisite del mistero divino e vi ricondurrà nell’infinita, incondizionata coscienza divina.

Nell’incontro personale con l’annuncio evangelico i nomi con cui viene designato sono relativi, spesso impropri, in quanto esprimono, accanto al mistero essenziale, delle proiezioni di coscienze non pienamente illuminate; ciò che invece ci attrae e ci rende inquieti è l’invito ad andare oltre, il necessario morire per rinascere in forme di coscienza sempre più vaste e in un continuo superamento dei limiti.

L’annuncio evangelico esige da noi un radicale cambiamento di coscienza, che, una volta iniziato, non si fermerà nel suo movimento di distruzione e di creazione finché non contempleremo faccia a faccia il mistero divino.

Dare un nome al mistero della Parola eterna incarnata in Gesù Cristo è limitarlo, solidificarlo, togliergli ogni energia vitale. La Parola incarnata è l’assoluta coscienza divina in atto, che nel mondo sensibile appare come energia che distrugge per creare, crea per distruggere, il cui moto si placherà quando tutto e tutti saranno ritornati nell’unità della prima sorgente. Anche la Risurrezione è la distruzione del corpo fisico di Gesù e il suo passaggio a una diversa dimensione, dove anche la carne è trasfigurata in una libertà che non conosce nei limiti delle cose sensibili.

Gesù Cristo è un Nome, anzi il Nome, il cui contenuto è di non poter essere espresso da nessun nome, la cui realtà ultima e inesprimibile costituisce il punto in cui convergono tutte le figure religiose e ove si depotenziano trasfigurandosi in lui. «Chi vede me, in questo rapporto essenziale, vede l’incommensurabile coscienza del Padre, e in essa vede anche il più ignorato dei fratelli nel suo valore esatto di creatura chiamata a raggiungere l’infinito di Dio».

Quando questa illuminazione, l’incontro con il mistero del Figlio di Dio e del Figlio dell’Uomo, si compie, scende nell’umana coscienza un’onda di vita esaltante, che distrugge quanto la mente ha formulato con le sue misure limitanti, quanto la nostra inerzia ha potuto costruire in dottrine, istituzioni, ripetizioni di riti e di preghiere, di false evidenze, di idolatrie, e, con anima piena e libera, possiamo contemplare l’innominabile realtà di Dio e del suo Cristo.


Giovanni Vannucci, «L’infinita coscienza», 12a domenica del tempo ordinario. Anno C. In La Vita senza fine, Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985, Pag. 142-144.

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