Esperienze Formative

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Dialogo ecumenico

Spiritualità e mistica: frontiere esigenti

di Andrea Pacini

Il dialogo della spiritualità è formalmente riconosciuto come un livello importante attraverso cui si è chiamati a sviluppare il dialogo interreligioso. A questo esorta il documento Dialogo e annuncio. Al dialogo della spiritualità sono riconducibili, tra le altre, le iniziative promosse dall’Interfaith Monastic Dialogue negli Stati Uniti o, a livello locale, il dialogo orante attuato dai monaci trappisti di Tibhirine con i membri di una confraternita sufi algerina, di cui rimane memoria nei loro scritti.

Tuttavia, accanto a tali esperienze di alto livello, non si può non notare la diffusione di un generico richiamo al dialogo a partire dall’esperienza spirituale che presenta non poche ambiguità: spesso prende infatti la forma di una sorta di invito al superamento della dottrina che divide, a favore di un incontro a un livello più profondo, spesso denominato "mistico". Ma proprio sulla mistica occorre un chiarimento.

In effetti una corretta comprensione del dialogo della spiritualità rimanda certamente all’esperienza religiosa vissuta dai seguaci delle diverse tradizioni religiose e rinvia al ruolo della mistica come ambito di dialogo. Per muoversi in tale prospettiva occorre essere consapevoli che la dimensione mistica rappresenta il nucleo fondamentale di ogni tradizione religiosa specifica.

In quanto tale, il suo concetto generale dovrebbe piuttosto essere declinato nell’accezione plurale di "mistiche": proprio perché la dimensione mistica svolge il ruolo di riferimento esistenziale fondante e di orientamento fondamentale dell’esperienza religiosa proposta dalle diverse tradizioni, ogni religione ha una specifica espressione mistica, che riceve senso e conferisce senso all’interno della religione specifica.

Questa prima precisazione è fondamentale, perché riconduce la mistica alla sua realtà più vera: quella cioè di esprimere sul piano dell’esperienza religiosa vissuta l’orientamento più profondo sotteso alla specifica tradizione religiosa praticata.

Nello stesso tempo viene corretta una possibile interpretazione erronea della mistica, quella cioè di essere una sorta di religio perennis (religione perenne), che come un fiume carsico scorre nella vita spirituale dell’umanità ed emerge concretamente nelle religioni storiche. In effetti, nel rapporto religione/mistica è la religione specifica che ha la priorità: quest’ultima con la sua dottrina e i suoi precetti (spirituali e morali) definisce la visione di Dio (o Realtà assoluta), del mondo e della realtà, nonché l’orientamento dell’uomo in rapporto alla globalità dell’esistente, e quindi definisce l’orientamento mistico.

Le mistiche esprimono quindi la tradizione religiosa di riferimento; per questo si possono suddividere almeno in due grandi categorie rispetto alle religioni di cui sono espressione: le mistiche interpersonali e le mistiche fusionali.

Le mistiche interpersonali esprimono l’esperienza spirituale nelle cosiddette religioni profetiche (ebraismo, cristianesimo, islam), caratterizzate – sia pure con differenze tra loro – dalla fede in un Dio unico e "personale", con il quale l’uomo è chiamato a sviluppare un rapporto interpersonale, anche se le modalità e il termine ultimo di tale rapporto differiscono per le tre religioni.

Le mistiche fusionali sono espressione delle grandi religioni orientali (hinduismo, buddismo) la cui finalità è far compiere al soggetto l’esperienza della non dualità, ovvero di sperimentare la propria coincidenza con il "tutto esistente" (la realtà assoluta) in cui la consapevolezza individuale si annulla. Si tratta di due orientamenti spirituali molto diversi e ci si può chiedere fino a che punto esprimano una stessa esperienza: si tratta di una questione cui può rispondere solo un dialogo della spiritualità assunto in modo rigoroso.

All’interno delle cosiddette religioni profetiche occorre poi notare un accento forte sulla dimensione morale, che crea un campo di tensione con l’esperienza mistica. Nell’ebraismo la mistica cabalistica si è sviluppata in tensione con l’insegnamento rabbinico tradizionale, più preoccupato di offrire una formazione morale e religiosa di tipo normativo.

All’interno dell’islam ortodosso ufficiale la mistica (il sufismo) ha una collocazione problematica per almeno due motivi: per la possibile relativizzazione in termini di superamento del ruolo della legge (la shari’a), considerata mediazione ineludibile per attuare la sottomissione a Dio in cui consiste il nucleo della religione musulmana; e per l’orientamento finale che i maestri sufi propongono, ovvero l’esperienza dell’unione con Dio. Questo concetto è assai poco condiviso all’interno dell’ortodossia ufficiale, che radicalizza la categoria di tawhid, unicità, per la quale non si può definire il rapporto dell’uomo con Dio, assolutamente trascendente, nei termini di "unione".

Occorre infine evidenziare come all’interno del cristianesimo la mistica riceva un’accezione propria, in quanto si presenta come mistica cristologica: infatti coincide con l’esperienza stessa della fede cristiana, in cui "morale" e "mistica" sono funzioni interdipendenti dell’unica caritas. Ma la caritas, prima di essere esperienza morale e spirituale dell’uomo, è la stessa identità (natura) del Dio uno e trino, che precede ogni risposta ed esperienza umana e ne costituisce la condizione di possibilità («Dio ci ama per primo»).

La mistica è cristologica perché trova in Cristo il suo luogo personale di manifestazione e di esperienza: in lui, vero Dio e vero uomo, si attua in sommo grado la comunione tra Dio e l’uomo, tra l’amore di Dio e l’amore dell’uomo. Propriamente parlando, la mistica cristiana coincide con la persona di Gesù, che nella sua unicità è mediatore universale della "comunione" tra Dio e gli uomini e tra gli uomini e Dio. Qui è l’essenza del mistero cristiano.

La mistica cristiana è dunque cristologica, perché implica la mediazione ineludibile di Cristo ed è suo "dono", e perché consiste nella trasfigurazione in Cristo della vita personale dei credenti, cioè assumere il pensiero, i sentimenti, l’amore, la volontà di Cristo. Ne consegue un rapporto indissolubile tra mistica e morale, e tra mistica e storia in prospettiva escatologica.

Poste queste troppo sintetiche precisazioni, nel considerare il rapporto tra le diverse mistiche in vista del dialogo interreligioso, occorrerà evitare con cura sia il sincretismo, cui rimanda ad esempio il concetto di religio perennis sopra menzionato, sia l’esclusivismo. Il sincretismo confonde ciò che è generale con ciò che ha valore supremo, ciò che è comune con ciò che è specifico, scambiando gli aspetti comuni con il sostrato ultimo. In definitiva finisce per dissolvere le identità delle diverse religioni con il rischio di "inventare" espressioni religiose nuove e quanto mai vaghe, di cui la galassia delle varie forme religiose riconducibili alla New Age sono un possibile tipo di espressione accanto ad altre di ispirazione esoterica.

L’esclusivismo è l’errore opposto, che implica il considerare le mistiche non cristiane in netta opposizione con la fede cristiana, vedendone solo gli elementi di differenza e sottoponendoli a un giudizio puramente negativo.

Si tratterà invece di valorizzare, pur nella loro differenza, gli orientamenti mistici presenti nelle diverse tradizioni religiose per avviare a partire da essi un dialogo di scambio e di riflessione sulle reciproche esperienze spirituali, verificandone la sintonia con i valori evangelici e avendo, da parte cristiana, il criterio cristologico come elemento fondamentale di valutazione e di discernimento.

In questa prospettiva il dialogo della spiritualità è certamente la frontiera più affascinante e significativa del dialogo interreligioso, ma proprio per questo rappresenta il livello più impegnativo e più delicato in cui il dialogo può spingersi, rispetto al quale occorre evitare ogni tipo di banalizzazione.

(da Vita Pastorale, n. 2, 2007)

Pasqua di Resurrezione: Le due Chiese

di Giovanni Vannucci

 

Leggiamo attentamente la pagina del Vangelo di questa domenica della Risurrezione (Gv 20, 1-9).

Maria di Magdala andò di buon mattino al sepolcro, trovò la pietra tombale ribaltata e la tomba vuota. Costernata corse da Simon Pietro e da Giovanni dicendo: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro!». I due discepoli di corsa andarono al sepolcro. Giovanni arrivò per primo, ma non vi entrò; Pietro, giunto dopo, entrò e vide le bende e il sudario deposti per terra. Allora entrò anche Giovanni e vide e credette.

Perché questa constatazione è fatta al singolare ed è riferita a Giovanni? Questa domanda non è una sottigliezza: trattandosi di un testo ispirato, nessun particolare è privo di significato, tanto più se si tiene presente che nel quarto Vangelo le narrazioni sono trasfigurate in simboli della vita e delle vicende della Chiesa.

La visione realistica che il Vangelo ha della natura umana non esclude la possibilità di una fede legata al compromesso; in due figure di apostoli ha tratteggiato due immagini: quella del discepolo che, pur sentendo il fascino di Cristo, è attratto dalle vedute umane, e quella del discepolo che non viene mai meno nella sua fedeltà all’amore: Pietro e Giovanni. Esse indicano le due costanti della storia della Chiesa.

Pietro è chiamato, come Giovanni, ad amare e a perdere la propria anima, ma non sempre riesce a liberarsi dai ragionamenti e a gettarsi allo sbaraglio della fede. «Pietro discese dalla barca e cominciò a camminare sulle acque. Davanti alla violenza del vento ebbe paura e principiando ad affondare gridò: “Signore, salvami!”. Gesù lo prese per mano e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”» (Mt 14, 29-31).

Due sono i poli che determinano la storia del singolo e di conseguenza di tutta l’umanità: l’uomo e Dio, il visibile e l’invisibile.

L’individuo che si orienta verso il polo-uomo, pone se stesso come centro dell’universo, padrone e ordinatore della storia. La sua azione tende a dominare la natura e la vita, escludendo ogni imponderabile che contrasti col principio della causalità razionale. E viene a trovarsi come Pietro sulla superficie delle acque, vive nel miracolo e lo scopre impossibile razionalmente, preso dal panico tenta di liberarsene costringendo l’orizzonte sconfinato della vita nel breve ambito delle formulazioni scientifiche o moralistiche.

L’anelito all’infinito è imbrigliato nella composta osservanza del dovere; la creatività ridotta alla ricerca delle leggi che regolano il mondo; le più ardenti ispirazioni abbassate alla richiesta del conforto e della sicurezza.

Tutto diventa ripetizione: i pensieri, le teorie, i costumi, l’arte. L’autorità assume il ruolo del rigido controllo dell’ordine costituito, accolto come perfetto e definitivo. L’ultima assise di questo tipo umano è la legge, la consuetudine, la staticità dei princìpi, il culto della lettera. Il regno di Dio non è più la tensione dei regni umani verso l’infinito oceano della vita divina, ma la monotona enunciazione di formule fisse, l’invariata ripetizione di tradizioni, entro le quali l’anelito a più vasta vita è spento nella sicurezza dell’invariabile.

L’uomo orientato verso il polo divino è proteso verso quelle realtà che, pur non avendo ancora raggiunto la loro forma, sono vive e operose nel visibile, e accendono nel cuore i più puri ideali. Davanti al sepolcro vuoto del Signore, egli osserva l’assenza della salma e crede nella Risurrezione. Per questa fede contro le apparenze egli diviene la figura e l’annunciatore delle realtà invisibili.

In lui tutto viene trasmutato: l’autorità diventa attento e rispettoso servizio dell’uomo; la legge tramonta per aprire il varco allo spirito; la terra non è più oggetto di conquista e di avidità, ma termine di un rapporto di amorosa dedizione; tutto egli vede e sente attraversato dall’ansia della risurrezione e della trasfigurazione; e adempie il suo compito di uomo come strumento per l’ascesa nello Spirito di tutto l’esistente.

Il brano evangelico di Gv 20, 1-9 ci rivela il duplice aspetto terreno della Chiesa: uno legato alla fede e al dubbio, alla ricerca dello Spirito e insieme alla necessità di costruire delle «tende» ove ingenuamente pensa di custodire il Signore. L’altro aperto all’infinito cammino del Signore, morto e risorto, del Signore che distrugge implacabile tutte le forme che attorno a Lui si densificano; abbatte i templi costruiti da mano d’uomo; cancella la lettera in nome dello Spirito; abolisce la forma che ha assunto nella morte in nome della Vita, che è sempre costellata da infinite risurrezioni.

Allora, «se siamo risorti con Cristo» (Col 3, 1), poiché molto dolore è nella vita, accendiamovi molto amore; molto è il buio e il freddo, diveniamo luce e calore; molto è il disprezzo e la profanazione della vita, amiamola con forte e rispettoso amore. «Se siamo risorti con Cristo», affermeremo la vita contro la morte, lo Spirito contro la Legge, la Grazia come trionfo sul Peccato!



Giovanni Vannucci, in La vita senza fine, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985, pp. 73-75.

Vladimir Solovëv alle soglie del XXI secolo

di Vladimir Zelinskij


Il profeta della riconciliazione

Vladimir Solovëv morì un secolo fa e noi dobbiamo misurare bene questa distanza. Sembra che lui sia vissuto in un altro mondo, ma sullo stesso territorio che si chiama oggi con una pretesa un po' orgogliosa, "l'Europa dall'Atlantico agli Urali". Infatti, egli era sempre in viaggio dall'Est e dall'Ovest del continente europeo. Era il tipico pellegrino russo, ma con una schiacciante erudizione, un ex-professore itinerante, un trovatore e un interlocutore della caparbia Signora Sofia, ma anche uno spiritoso che poteva nascondere nello scherzo ciò che è più santo e ciò che è più profano, un vagabondo instancabile in ricerca della Città Celeste sulla terra, un alchimista del pensiero, uno scolastico, ma anche un poe­ta visionario che sembra venuto dal Medioevo per camminare verso quel futuro che non vediamo neanche noi.

L’Europa, però, l'area geografica del suo pellegrinaggio, come concetto sto­rico e culturale, come carta dei valori comuni, bagaglio legislativo, simbolo dei diritti umani, non era neanche in progetto. La terra dall'Atlantico agli Urali era occupata dagli stati nazionali con i loro egoismi e patriottismi sfrenati in cui fer­mentavano le due guerre mondiali, e poi c'erano il comunismo e l'olocausto, che non erano ancora giunti a maturazione, ma che tuttavia erano già stati con­cepiti nel seno della cultura e della mentalità europea.

Solovëv non si è accorto di questi fermenti del XX secolo sul finire del XIX, come non ha previsto lo sviluppo delle ideologie e dei regimi. Non ha potuto immaginare il tragico ruolo del marxismo nel destino della Russia e, nel "Blut­und Bodenromantik" tedesco non ha indovinato le cellule di cancro che già sta­vano per crescere. Solovëv, per dire la verità, non ha nemmeno sentito la fiori­tura del simbolismo russo, di cui proprio lui, come poeta mistico, è diventato il padrino a pieno diritto. Nel suo Racconto dell’Anticristo, che contiene una cer­ta previsione del futuro, la guerra si fa ancora con le armi della campagna del 1877-1878 per la liberazione dei popoli ortodossi dal dominio turco. Ma ades­so che il XX secolo è già alle nostre spalle e il dominio ideologico appartiene alla storia passata, quasi come quello turco sull'Europa, noi scopriamo di nuovo il Solovëv-profeta, il precursore o l'uomo del presentimento geniale, più spiritua­le che letterale, delle cose che noi non abbiamo ancora raggiunto, ma che im­pariamo ancora a pensare e a sperare.

E non per caso abbiamo cominciato a parlare della nuova nascita dell’Euro­pa alle soglie del XXI secolo, perché davvero questo filosofo-pellegrino, studio­so rispettabile, studente permanente, cercatore della Sofia e dell’"Ewig-Wiebliche", "pazzo in Cristo" nel senso più nobile della parola, è diventato uno dei padri spirituali della nuova unità europea, colui che "prepara la sua strada", forse, senza conoscerla e allo stesso tempo uno dei primi a denunciare il suo ani­mo secolarizzato e privo di slanci ideali. Solovëv è riuscito ad assorbire e trasfor­mare in sé quasi tutto il patrimonio dello spirito europeo, filosofico, sociale, mistico, ad esprimerlo in un grandioso tentativo di sintesi degli elementi più contraddittori e inconciliabili. Questo tentativo porta, a mio avviso, un grande ed autentico vigore profetico che noi dobbiamo leggere con gli occhi della no­stra esperienza, della memoria e della speranza comune.

Si vuole sottolineare che questa lettura, che nasce dalla comprensione e dall'incontro nella fede condivisa, è ancora davanti a noi e dipende dal nostro coinvolgimento nelle cose che "si sperano e non si vedono" (cf. Eb 11,1). È vero che durante la sua breve vita Solovëv voleva fare il profeta e sentiva dall'infanzia la sua vocazione come missione ecclesiale, ma ciò che lui considerava come pro­fezia, coincideva con la sua opera che è ancora legata o condizionata dal tempo che fa il suo. Dopo la sua morte, però, Solovëv è diventato il pensatore russo, forse più famoso in Occidente, ma non molto ricordato in Russia; in ogni caso, mi sembra che lui non abbia ancora manifestato tutto il suo spirito, quello che nasce lentamente quando noi ci apriamo al suo messaggio principale.

Nonostante le numerose pubblicazioni (nel 1999 è iniziata la 4a edizione della sua Opera omnia in russo in 20 volumi), Solovëv non è molto letto nell'ambito ecclesiale e ai nostri giorni (cioè nel primo decennio di libertà di parola dopo il comunismo) suscita un interesse più accademico che religioso. Il suo spirito, in tutti i suoi scritti di filosofo, di poeta lirico, di pubblicista, di teologo, di critico letterario, di pensatore politico ed etico, è profondamente e intrinsecamente re­ligioso nel senso cristiano ed ecclesiale, ma, forse, la sua religione, quella dello Spirito Santo che avrebbe dovuto unire in sé Oriente ed Occidente (come lui confessò una volta nella lettera privata a V. Rosanov), non è ancora nata all'in­terno delle Chiese storiche. Per questo motivo se avessi dovuto parlare su Solovëv nella Russia d'oggi, avrei potuto dire ben poco, al di là di un paio di conferenze filosofiche, sostenute materialmente dall'estero.

Quella Russia tradizionalista che cerca la sua identità nel sogno del passato, che vive nella resistenza spirituale, visibile ed invisibile, con l'Occidente-invasore, con poche eccezioni, non è una grande lettrice ed ammiratrice di Solovëv che ha una fama, pesante ed ambigua, di occidentalista militante. Per quanto riguarda l'Occi­dente, soprattutto cattolico, che manifesta la sua particolare stima, interesse, perfi­no venerazione nei confronti del filosofo russo, esso vede in lui anzitutto un grande "araldo" dell'unità cristiana, solo uno dei primi orientali che osava "respirare a due polmoni", quello russo e quello romano. (Va ricordato anche che non è per caso che il termine, o piuttosto l'immagine, dei "due polmoni" appartiene a un altro grande poeta e pensatore russo: Vjačeslav Ivanov). Ci risulta che la tendenza che domina oggi nell'Ortodossia russa rigetti o semplicemente dimentichi Solovëv per lo stesso motivo per cui il mondo cattolico lo apprezza e lo elogia. Questo fatto ci dice soltanto che lo “spirito” o il messaggio profetico di Solovëv non si è ancora liberato dalla polemica.

Questo spirito o diciamo, il centro più profondo, a volte nascosto, della sua missione, che è anche ecclesiale in senso proprio, è il servizio della riconciliazio­ne nel suo significato iniziale, filosofico, ed ecclesiale. In qualunque sezione della sua opera grandiosa, la sorgente manifestata o celata rimane sempre il messaggio" dell'unità e della ricerca di una visione sintetica nella sua versione globale, che porta il nome della "divino-umanità".

La "divino-umanità", cioè la famiglia umana nel suo cammino verso Dio e nella sua trasfigurazione in Dio, secondo tutti i ricercatori del pensiero di Solovëv, non è soltanto il suo concetto centrale, ma la sorgente stessa della sua ispi­razione. Se noi togliamo questa idea di fondo, tutte le sue splendide speculazioni, come afferma lo storico della filosofia russa V. Zenkovskij, sem­brano un “mosaico” di idee eterogenee. La "divino-umanità" è un progetto uto­pistico, un sistema teologico, un sogno, una visione profetica, una filosofia mistica, ma soprattutto la radice e il cammino del suo pensiero ecclesiale che cercava il Dio Vivente nell'edificio delle "pietre vive" (cf. 1Pt 2,5). Ma l'inizio personale di questo cammino, come ritiene lo storico della teologia russa G. Florovskij, forse, con un po' di esagerazione critica, era "la ricerca della giustizia sociale". Certo, non si può spiegare tutta l'opera di Solovëv, che mi ricorda una costruzione incompiuta di una maestosa chiesa gotica, solo partendo dalla ri­cerca della giustizia, ma tutto il suo pensiero porta l'impronta della preoccupa­zione sociale, quando "misericordia e verità s'incontreranno, giustizia e pace si baceranno" (Sal 84,11), nell'edificazione della Città di Dio. Solovëv, che era fi­glio del più grande storico della Russia, cresciuto negli anni '60 del secolo XIX, cioè nel periodo del dominio del nichilismo e del positivismo, ha ereditato tutto il bagaglio materialistico-utopistico-ateo dell'intelligencija russa. Ma egli l'ha messo al servizio della fede e della divino-umanità.

"Tutta l'originalità dell'opera cristiana di Solovëv si vuol cercare nel fatto, scrive Berdjaev, che lui si è formato alla fede dei padri e ne è diventato un di­fensore dopo esser passato attraverso l'esperienza umanistica della storia nuova, dopo l'autoconferma della libertà umana nella conoscenza e nella costruzione sociale".

il positivismo volgare contro la vita mistica, l'atei­smo scandalizzante contro la pietà rituale, la salvezza collettiva nella protesta contro l'ordine pubblico e la salvezza personale nella devozione di stampo mo­nastico; la benedizione della realtà sociale tale quale era e la rivolta contro di es­sa; il canto della distruzione che va fino ai terrorismo individuale e poi fino al terrorismo di Stato e, dall'altro lato, l'elogio come virtù principale di un buon cittadino, l'umiltà e l'ubbidienza alla volontà di Dio che agisce nella gerarchia della società. Le radici spirituali di questo conflitto degli anni 60-70 del secolo XIX sono rivelate nei romanzi di Turghenev e Dostoevskij, soprattutto nei Fratelli Karamazov.

L'intelligencija russa dalla sua origine si è presentata come ordine, con il suo proprio monachesimo a rovescio, con il suo ascetismo, la sua dottrina, i suoi ri­ti, i suoi santi martiri, la sua scrittura sacra (dal "precursore" Büchner al “mes­sia” Marx). L'adolescente Solovëv è entrato con grande entusiasmo in quest'ordine dei servitori dell'umanità e, come uno degli eroi di Turghenev, ha cercato nei riflessi delle rane la risposta a tutte le domande della sua anima in­dagatrice. Successivamente ha trovato lui stesso una formula per questa "fede" nei riflessi: "Siamo discesi dalla scimmia, dunque, amiamoci gli uni gli altri". Ma verso i 20 anni, forse anche un po' prima, si convertì all'Assoluto e dopo la Facoltà di Scienze naturali, si iscrisse alla Facoltà di Lettere e quindi all'Accademia teologica. Le "conversioni" di questo genere, le fughe da un ordine ad un altro, non erano poi così eccezionali, ma questi passaggi si accompagnavano sempre ad uno “scuotimento della polvere" (Mt 10,14), ovvero ad una rottura spettacolare ed irreversibile con il campo rigettato. Solovëv fu il primo a speri­mentare la strada della riconciliazione delle due esperienze, delle due verità fino allora inconciliabili, perché anche in un altro campo egli ha potuto scorgere il seme evangelico, ancorché rinsecchito e calpestato.

Quando, molti anni dopo, nel suo libro La Russie et l’Eglise universelle, scrit­to in francese, leggiamo che i giusti atei hanno fatto il lavoro dei credenti passivi ed ingiusti, che tutto il progresso sociale è opera della gente che cercava la verità senza Dio e spesso contro Dio, riconosciamo subito il vecchio pathos dell'intel­ligencija russa, ma inserito nella visione ecclesiale e messo nello spazio del mes­saggio evangelico. Questo pensiero, dopo Solovëv, è diventato quasi un luogo comune, come il tentativo moralistico di costruire un ponte fra i due tipi di umanesimo: quello bizantino ortodosso, che parte dalla visione dell'uomo sal­vato per la sua vita in Cristo, tramite i sacramenti della Chiesa e la disciplina ascetica, e quello secolare che ha le sue radici nella cultura europea del XVII­-XVIII secolo, ma che ha ricevuto sulla terra russa uno slancio particolarmente forte. È l'umanesimo incarnato nella lotta per la giustizia sociale all'epoca di So­lovëv; oggi se ne può riconoscere il suo discendente nel liberalismo occidentale, nella charta dei diritti umani, nel concetto dell'Europa unita. Ma egli fu anche il primo ad avvertire che l'umanesimo che perde le sue radici in Cristo presta subito il suo "volto umano" all'Anticristo che non tarda ad occupare il suo po­sto.

Sì, il conflitto e l'opposizione fra i due campi esiste anche ai nostri giorni e nelle forme non meno acute che ai tempi di Solovëv e i due campi rimangono sempre in guerra ideologica. Solovëv ha percorso la strada verso la riconciliazio­ne non con un compromesso fra idee diverse, ma nella sua personale scoperta di un "altro" Cristo, ancora poco conosciuto. Si può dire che nel Cristo della fede tradizionale, egli ha rivelato il Cristo della coscienza e del dolore di Colui che "assunse la condizione di servo” (cf Fil 2,7) e che si trova sempre davanti al nostro sguardo spirituale, come modello che vive dentro di noi (con questa immagine Solovëv finisce il suo libro I fondamenti spirituali della vita). Ma egli vede lo stesso Cristo anche come principio dinamico della storia (nelle sue Le­zioni sulla Divinoumanità) e noi possiamo indovinare alcuni tratti che saranno sviluppati da Teilhard de Chardin. La rivelazione del Cristo inizia dentro di noi, nella nostra esperienza e nella nostra coscienza e abbraccia tutta la famiglia umana nel suo cammino verso la divino-umanità. Ma nell'ambito dell'essere eterno e divino il Cristo rimane il centro eterno spirituale dell'organismo uni­versale.

Sulla strada del pensiero speculativo Solovëv cercava sempre di costruire questo organismo che più tardi riceverà il nome dell'uni-totalità. Si tratta prima di tutto della sintesi della scienza, della filosofia e della religione. "Tutte le idee, essendosi legate fra di loro, sono partecipi all'idea dell'amore incondizionale che secondo la sua propria natura contiene all'interno di sé tutto l'altro, è l'espres­sione concentrata del tutto come unità" (Lezioni sulla Divinoumanità). Il progetto di Solovëv, che può sembrare utopistico, è di vedere, in questa unità che abbraccia tutto, la dinamica intrinseca dell'amore oppure della rivelazione del Cristo, non soltanto nell'anima umana, ma anche nella storia e nella società. In questo progetto si può riconoscere l'universalismo, ma anche lo spirito sognan­te tipicamente russo che parte dall'idea dell'umanità come un essere unico, come un organismo collettivo, soggetto dello sviluppo storico.

Questo organismo deve avere una conoscenza integrale - Solovëv usa questo termine della filosofia degli slavofili, ma con scopi opposti a quelli di qualsiasi particolarismo nazionale. Egli vuole trovare una sintesi, come dice nella sua pri­ma opera filosofica I fondamenti filosofici della conoscenza integrale, fra "le con­templazioni dell'Oriente e il lavoro speculativo dell'Occidente". Per esempio, sulle tracce di Schelling, Solovëv fa distinzione fra l'essere e l'essente e prende l'essente come l'inizio di ogni essere concreto. L'essere è l'inizio della pluralità, l'essente è l'origine dell'unità di tutto ciò che esiste. L'essente in assoluto porta in sé la forza positiva dell'essere, lo possiede e va chiamato "superessente”. Rifiu­tare il superessente vuol dire negare l'esistenza delle cose e del mondo come tale. Ma questa costruzione si realizza, per il giovane Solovëv, nel tentativo delta te­ologia trinitaria quando egli riferisce l'idea del «superessente" all'ipostasi del Pa­dre che rivela l'essere tramite il Logos o il Figlio, ma tutto l'essere torna all'unità nel Padre nello Spirito Santo. Così nasce il sistema della conoscenza integrale, in cui la speculazione puramente filosofica non può essere staccata dall'intuizio­ne teologica, caso motto caratteristico proprio nel pensiero religioso russo. Le idee di Solovëv cambiano durante tutta la sua vita, ma questa confusione che io preferirei chiamare "riconciliazione" tra i due filoni del suo pensiero, quello ra­zionale e quello intuitivo-mistico, rimane la costante della sua creatività.

Da filosofo (che non ha fatto in tempo a costruire il suo sistema, ma, si può dire, lo portava sempre in sé) Solovëv cercava di trovare la sintesi fra i vari tipi di conoscenza (empirico, mistico, razionale), da uomo di vocazione universalista ha creato il primo grande ponte fra il pensiero russo nella sua ricerca della verità della ragione astratta, basata sulla verità del cuore, e tutta la ricchezza del pensiero occidentale del passato ed anche della sua epoca. Peccato che la filosofia dominante del suo tempo fosse il positivismo, un avversario che non era sempre a livello delle sue ispirazioni. Egli cercava di superare il secolarismo del pensiero positivista e metafisico nell'idea slavofila della conoscenza, che potreb­be abbracciare tutta l'esistenza umana per date la priorità alta "vivente ed auten­tica comunione con l'Assoluto”. Infatti la conoscenza integrale sboccia nella vita integrale che, secondo V. Zenkovsky, è una sorta di “trasformazione dell'idea del Regno di Dio".

Il programma filosofico di Solovëv, cioè sintesi del pensiero occidentale con il pensiero ortodosso, non è ancora realizzato. Solovëv è diventato il precursore e il maestro di una grande scuola di pensatori russi, in cui alcuni hanno apertamente adottato le sue idee. L'opera più grande di P. Serghij Bulgakov si chiama Della divinoumanità. Bulgakov, P. Florenskij, S. e E. Tiubeckoj, L. Karsavin hanno svi­luppato la sua idea di Sofia; Nicola Berdaev ha invece ereditato i temi della crea­zione della vita nuova e dello spirito creatore rivolto alla sinergia con Dio. Semion Frank, un altro grande pensatore russo, purtroppo poco conosciuto in Occidente, può essere chiamato il discepolo di Solovëv in gnoseologia perché ha dato sviluppo alla sua idea della certezza dell'Incomprensibile (da Solovëv "l'idea di Assolu­to") come premessa della nostra conoscenza. Solovëv stesso è diventato come la radice di un grande albero filosofico, i cui frutti non sono ancora stati raccolti per­ché tutte le sue idee sono rimaste come sospese dopo la rottura con la cultura in­tellettuale e spirituale nel 1917. "La filosofia di Solovëv, dice il filosofo contemporaneo S. Chorugij, ha distrutto una barriera che impediva l'espressione del pensiero russo nella sviluppata forma filosofica. Essa ha dato inizio a un grande movimento di pensiero da cui sorge una pleiade di filosofi che svilupparono le sue idee senza riconoscere di esserne discepoli".

Il suo progetto della sintesi dei due tipi di pensiero che, forse, non è più attuale alla lettera, in quanto elaborato nei termini della filosofia del XIX secolo, rimane più che mai attuale nello spirito. La grande sintesi fra le due tradizioni intellettuali rimane un compito che tocca ogni generazione di pensatori religiosi in Russia, perché il loro pensiero porta sempre in sé lo stesso disegno: la costruzione di un sistema, o piuttosto di un'immagine intuitivo-razionale, della conoscenza aperta alla realtà divina, della visione organica dell'universo e della storia sulla base della filosofia occidentale trasformata nell'esperienza spirituale ortodossa o, in altre pa­role, la fonte dei principi astratti nella "conoscenza vivente". Il pensiero russo da Solovëv in poi si rivolge al pensiero occidentale più metafisico (nel caso di Solovëv si tratta prima di tutto di Spinoza e di Schelling) e lo legge a modo suo.

La visione della divino-umanità non ha potuto non includere la ricerca ap­passionata dell'unità cristiana. A parte il caso molto particolare di Caadaev o del principe Gagarin o di Pecerin (questi ultimi nel secolo XIX hanno dovuto lasciare la Russia per diventare religiosi cattolici in Occidente) o alcuni salotti aristocratici di S. Pietroburgo, nessun tipo di ciò che si chiama oggi ecumeni­smo era all'ordine del giorno all'epoca di Solovëv. L'ortodossia e il cattolicesimo si trovavano nella situazione di "guerra fredda" che, a ben guardare, continua anche oggi, nonostante le relazioni reciproche e una sorta di armistizio diplo­matico, sempre molto fragile. Alle soglie del XX secolo non esisteva nemmeno questo. Per poter predicare la sua idea della divino-umanità Solovëv dovette fare una doppia rottura: prima uscire dell'isolazionismo intellettuale dell'intelligencija russa per entrare nell'ambito religioso; quindi uscire dell'isolazionismo spirituale della sua epoca per proclamare l'idea dell'unità cristiana.

Siamo abituati a pensare che, da teologo partigiano dell'unità Solovëv abbia proclamato un grande progetto di unione delle Chiese nella storia alla metà della sua vita e fuori della storia alla fine della vita. Ma questo è solo uno schema. Co­nosciamo la sua proposta di unire il Papa di Roma e l'imperatore russo, cioè il po­tere spirituale con quello temporale. Quando il Papa Leone XIII venne a sapere di questo progetto, esclamò: "Che bell'idea, ma sarebbe un miracolo se fosse rea­lizzata!". Ma "la lettera" di questa bell'idea è sicuramente fuori dal contesto stori­co, invece il suo “spirito” e più vivo che mai.

Rivolgiamoci per un attimo al suo Racconto dell’Anticristo, la sua opera più fa­mosa e conosciuta da tutti, per evidenziare un altro momento di cui Solovëv par­la, questa volta in modo allegorico. Egli racconta una bella storia sulla fine del mondo di cui sappiamo solo ciò che al detto nel Vangelo. Questa parabola serve non per rimandare l'incontro e l'unione delle Chiese, o delle tre grandi confessio­ni, fuori dal mondo e dalla storia umana, ma al contrario, per rendere questa unione più vicina e dentro la storia, per ricordarci che non occorre attendere l'An­ticristo in persona per trovarci in una sola Chiesa, ma dobbiamo assumere questa unione come un compito che non si può rimandare all'infinito, perché l'apoca­lisse nella spiritualità ortodossa è un avvenimento interiore. Il Racconto di Solovëv è rivolto prima di tutto agli Ortodossi, perché la figura dell'Anticristo rimane sempre attuale nella loro cultura e nella mentalità della Chiesa Orientale.

Questa figura ha in Russia una storia molto lunga. La paura dell'Anticristo, che è già venuto per distruggere la vera fede, fa una delle cause dello scisma del XVII secolo; qualche anno prima del Racconto, Constantin Leontiev, un altro brillante pensatore e intransigente oppositore di Solovëv, fece la profezia che sarà proprio la Russia che perde la fede a far nascere l'Anticristo. Il senso lette­rale del Racconto è forse opposto alla credenza dei "vecchi credenti" e di Leon­tiev, come a quella delle sette apocalittiche, ma lo spirito è lo stesso: quando la vera fede è "danneggiata", come dicevano i rascolniki, la minaccia dell'Anticri­sto diventa più attuale, poiché lui è già alle nostre porte. Ma per Solovëv la fede è danneggiata proprio dalla divisione, perciò l'unione delle Chiese non si fa per addizione di una Chiesa ad un'altra, ma per il riconoscimento reciproco fra tut­te le tradizioni apostoliche in un'unica Chiesa che, secondo lui, non è stata mai divisa nella sua essenza, nella sua origine in Cristo.

Il Racconto dell’Anticristo ha avuto una continuazione che non è ancora finita. Come è noto, nelle Tre conversazioni (il Racconto fa parte di questa opera) Solovëv ha apertamente polemizzato contro la dottrina di Tolstoj, contro il cosiddetto "tolstoismo", perché il suo Anticristo è "buono e geniale", è un gran benefattore, un amico dell'umanità. Dopo la rivoluzione, nella raccolta degli articoli dei filo­sofi russi sotto il titolo De profundis, Berdjaev, che in un certo senso è uscito dalla scuola solovioviana, nel suo saggio Gli spiriti della rivoluzione russa, ha dichiarato colpevole il moralismo tolstoiano per la follia della rivoluzione effettuata in nome del "bene dell'Anticristo". Qualche anno dopo, G. Fedotov, altro spirito brillante della cultura russa, nel suo articolo sull'Anticristo, scritto durante il periodo dell'emigrazione, contro Solovëv e contro Berdjaev, difendeva un'altra tesi: il bene dell'Anticristo è un bene-miraggio, un bene finto, un male che porta la ma­schera della beneficenza. L'esperienza della nostra epoca, soprattutto l'esperienza russa, potrebbe aggiungere che il bene dell'Anticristo è un bene puramente ideo­logico, il bene che esiste solo a parole e che fa sempre male nella realtà.

Il secolo XX, che può considerare Solovëv il suo vate, è diventato una grande fabbrica della falsificazione del bene e l'idea o l'immagine dell'Anticristo è così attuale come nel secolo XVII, all'epoca dello scisma dei vecchi credenti.

Anche ai nostri giorni nella cultura e pietà ortodossa c’è una reazione molto for­te e a volte un po' nevrotica contro l'Anticristo venuto dall'Occidente sotto la ma­schera del bene del liberalismo, permissivismo, capitalismo con i suoi numeri del codice fiscale che contiene la cifra apocalittica 666. Il Racconto di Solovëv continua, anzi include altri argomenti e riceve nuovi stimoli, ma il suo soggetto è il tema per­manente della storia russa, quella di ieri, quella di oggi, e molto probabilmente an­che quella di domani. Il problema formulato e a suo modo risolto da Solovëv è il seguente: il bene, o in altre parole tutta l'eredità dell'umanesimo secolare, staccato da Cristo, è condannato subito a diventare l'eredità dell'Anticristo; oppure il bene può essere autonomo, può servire l'uomo senza Cristo, può diventare "degno e giusto" anche nell'ambito secolare, privato della fede vera e salvifica?

Direi che questa domanda è tipicamente orientale, perché per l'Occidente di oggi il problema semplicemente non esiste. Chi, nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, metterà in dubbio il valore in sé della democrazia, dei diritti uma­ni o della libertà di parola? La libertà come tale, cristiana o meno, è fuori discus­sione, mentre il dibattito ortodosso, che continua anche oggi, e soprattutto oggi, nell'epoca del liberalismo decaduto e peccaminoso, che è venuto per sostituire l'impero dell'Anticristo dell'utopia, fa sempre la stessa domanda quasi soloviovia­na: la libertà è il dono più avvelenato dello stesso nemico della nostra salvezza o il più difficile dono del Cristo? Questa era anche la domanda di Dostoevskij che è tornata ai nostri giorni con le profezie di Solovëv, con la polemica di Leontiev, di Berdjaev, di Fedotov fino ai pubblicisti dei nostri giorni.

La maggior parte dei lettori forse non si è accorta che il vero protagonista del Racconto non è l'Anticristo, che a me sembra una figura un po' schematica, ma proprio il Cristo, il Cristo vivo e confessato, presente nella fede dei tre grandi rappresentanti delle Chiese divise. Solovëv aveva un reale e profondo senso del Cristo durante tutta la sua attività ed egli è riuscito ad esprimere questo senso nella fede del Papa Pietro II, dello “starets" Giovanni e del professore protestan­te Pauli. Ma non è questo il punto più importante: il Racconto dell’Anticristo ci fornisce la testimonianza del suo personale incontro con Cristo, Messia e Sal­vatore, Colui che è, che era e che viene, secondo le parole dell'Apocalisse (1,4) e che era anche presente durante tutto il suo cammino. Il vero messaggio di Solovëv è il ritorno di Cristo e l'annuncio che l'umanità, per diventare divino-umanità, deve stare in guardia.

Da questo senso del Cristo apocalittico che è lo stesso Cristo storico, deriva anche “la conversione" di Solovëv a ciò che ai nostri giorni si chiama il dialogo con l'ebraismo. Si deve, a mio avviso, parlare proprio della conversione, come di un avvenimento spirituale nuovo, coraggioso e straordinario nella sua epoca. Non si tratta solo della difesa della popolazione ebrea della Russia dall'antise­mitismo, che cominciò a crescere proprio all'epoca di Alessandro III, perché la difesa dei perseguitati era come una sorta di obbligo morale per l'intelligencija russa. Ma Solovëv pone questo problema in altro modo. "Se i giudei, dice nel suo articolo Giudaismo e la questione cristiana, trattavano sempre i cristiani se­condo i principi della loro fede, i cristiani non hanno mai imparato a trattare i giudei nel modo cristiano. Perciò non esiste il problema ebreo, esiste solo il pro­blema cristiano" e la soluzione di questo problema è la conversione dei cristiani alla loro propria fede. Allora, secondo la profezia di Solovëv, gli ebrei entreran­no nella teocrazia cristiana quando i cristiani saranno uniti e così, secondo le parole di san Paolo, "tutto Israele sarà salvato" (Rm 11,26).

Si tratta non soltanto del dialogo sui “buoni rapporti", ma proprio dell'incontro religioso, dell'apertura dell'anima al confronto con tutto il patrimonio e il mistero dell'Antico Testamento. "Il trattato di Dio con Israele costituisce l'essenza della religione ebraica", dice Solovëv, un avvenimento unico nella storia religiosa dell'umanità. Il senso della storia d'Israele è la preparazione delle ani­me sante e dei corpi santi per l'incarnazione della Parola di Dio, ma questa sto­ria non può essere ridotta solo alla preparazione. Solovëv prevede la riconciliazione finale e cristiana tra il popolo d'Israele, fedele al Dio uno, e la Chiesa unita. Per questo motivo nella Russia di oggi Solovëv rimane il precur­sore del dialogo della riconciliazione che non è ancora iniziato. Il suo inizio ap­partiene, forse, al secolo futuro. Non si può dimenticare la tonalità profetica della sua morte prematura, con i Salmi recitati in ebraico negli ultimi momenti della sua vita.

ma il cen­tro della sua enorme attività intellettuale e del suo sforzo spirituale rimane sem­pre la visione, l'utopia, la costruzione o la profezia dell'unità e della riconciliazione delle cose e delle idee che sembrano più lontane. Il nucleo del suo messaggio è sempre l'incontro nel Cristo e col Cristo.

Da metafisico, Solovëv crea una grande sintesi fra la conoscenza integrale, la conoscenza che parte dal cuore che vive nella Parola di Dio, e tutta l'eredità del pensiero occidentale.

Da pensatore politico, Solovëv propone un progetto della società organica nel senso slavofilo e libero nel senso moderno ed attuale, ma fedele al Vangelo.

Da mistico, Solovëv costruisce il ponte fra la vita più intima della sua anima, ricercatrice della Sapienza di Dio, e la sua dottrina sofiologica, imbevuta dalla visione della bellezza del creato.

Da poeta, Solovëv si rivela a noi nel suo universo "notturno", che sembra così diverso dalla sua attività "diurna», rivolta alla Giustificazione del Bene nel pensiero speculativo e nella società, ma il "giorno" e la «notte" della sua anima riflettono lo stesso cielo, illuminato, come dice il suo verso, dal “Sole dell'amore”.

Da uomo del dialogo, Solovëv ha fatto il primo e grande passo intrinsecamente cristiano verso la riconciliazione con i giudei e anche con i musulmani.

Da portatore di pace, Solovëv prevede non soltanto la tanto sperata unità delle Chiese, ma anche la vittoria e il ritorno del Cristo, il mondo in cui "Dio sarà tutto in tutto".

Per tutte queste strade il pensatore russo si è mostrato il precursore che è ve­nuto per il suo paese prima del suo tempo, che fu e rimane ancora il tempo della divisione. Il secolo in cui si manifesterà la riconciliazione in Cristo, sarà anche il secolo del ritorno dei suoi profeti e dei suoi poeti e uno dei primi sarà il "pel­legrino" Vladimir Solovëv.



Lunedì, 26 Marzo 2007 22:24

COME ACCOMPAGNARE LE PERSONE SEPARATE

Anche questo contributo,come il precedente, vuole avere un taglio spirituale e pastorale nell’affrontare quel passaggio delicato e doloroso che è la separazione. Come accostarsi alle persone che stanno soffrendo per questa ferita della loro vita matrimoniale? È possibile offrire un servizio di accompagnamento cristiano? Situazioni e stati d’animo. I passaggi interiori da affrontare. La necessità del perdono.

Dopo aver posto l'attenzione alla prevenzione e alle situazioni di crisi nel matrimonio (cf. Sett. n. 20/04 pp. 8-9), l’attenzione si porta ora a quel passaggio doloroso e delicato che è la separazione. Non si può non fare ascolto e discernimento delle domande più popolari che trovano ingiusta la severità della chiesa oppure che vorrebbero un trattamento diverso per il coniuge innocente rispetto al coniuge colpevole, oppure un Tribunale ecclesiastico più accessibile e rapido ecc. Ma ci sembrano domande che esulano dallo scopo di questo intervento. Altri forse potranno affrontare il tema da un punto di vista teologico, storico e giuridico.

Noi vogliamo cogliere invece un’altra domanda: «Stante questa situazione, con queste esplicite indicazioni della chiesa, come ci si può accostare alle persone che sono ferite nella loro vita matrimoniale e offrire un servizio di accompagnamento cristiano? Abbiamo la possibilità di offrire un aiuto valido oppure dovremo aspettare soltanto che cambino le istituzioni?». Il nostro vuol essere un taglio spirituale e pastorale.

Situazione e stato d’animo

Accostandoci con sensibilità e amore, ci accorgiamo che anche questa situazione presenta momenti e stati d’animo differenti.

  • Innanzitutto bisogna comprendere se la persona sta vivendo quella fase (che avviene soprattutto all’inizio) in cui ci può essere la speranza della riunificazione; in cui si possono fare tentativi per superare gli ostacoli e approdare a una guarigione ancora possibile. Non ci si può rassegnare subito come davanti a una situazione definitiva: non solo per un imperativo morale che ci sospinge, ma anche perché spesso gli stessi coniugi, momentaneamente separati, hanno fatto tale passo, non con gioia e allegria, ma come sconfitti dalla loro incapacità di convivere bene e saper risolvere le loro divergenze. Sono sfiduciati nelle loro forze, ma non sono affatto contrari a che avvenga “il miracolo”. In questa fase occorre perciò mettere in atto tentativi concreti, quali abbiamo descritto nell’articolo precedente.
  • Possiamo trovarci invece nell’altra situazione, quella della separazione che appare ormai come “quasi” definitiva; in cui il sogno è infranto, il coccio sembra rotto in mille pezzi.

Che tipo di proposte può allora fare la comunità cristiana ai coniugi «stabilmente separati», che si trovano ora in quella che la chiesa definisce «situazione matrimoniale difficile»... (difficile, non irregolare!)?

La prima cosa da fare è avere un atteggiamento di accoglienza e buon ascolto per comprendere la persona e ciò che sta vivendo. Per riuscirci è essenziale saperla accostare con delicatezza, senza farla sentire giudicata, esclusa o etichettata.

È anche utile avere la consapevolezza di quali siano i principali sentimenti e passaggi interiori spirituali che la maggior parte delle persone separate vive e la gradualità del pas-saggio dall’una all'altra fase di questo cammino. Si tratta di un’evoluzione che può anche bloccarsi in uno degli stadi iniziali o intermedi e che, per il raggiungimento delle sue fasi più avanzate, comporta spesso un cammino di accettazione della croce che richiede una particolare vicinanza a Dio e un valido aiuto e accompagnamento da parte della comunità di cui la persona fa parte.

I passaggi interiori affrontati dalle persone separate sono spesso i seguenti.

Dolore e rabbia

Di fronte alla rottura di un rapporto sul quale si era investito abbastanza e di un sogno che svanisce per sempre, sulla persona si abbatte il senso di fallimento, di sconfitta, più spesso forti sentimenti di rabbia e rancore profondo: è un’esperienza alla quale è molto difficile sfuggire.

È quindi importante accostarsi a chi vive questa realtà abbandonando il pregiudizio che potrebbe farcelo vedere come un «gaudente irresponsabile» a cui si dovrebbe fare la predica dicendogli: «Ci dovevi pensare prima...».

Molte persone si separano per scelta imposta dolorosamente dall’altro coniuge (che decide di andarsene o chiede di chiudere la convivenza coniugale), oppure per scoraggiamento e disperazione (cioè perché hanno perso la speranza che i loro sforzi e il loro impegno possano servire a migliorare una situazione che causa delle grandi sofferenze).

Perfino chi ha scelto la separazione con leggerezza e per motivi “frivoli” si trova poi comunque ad affrontare la divisione, le sofferenze dei figli, l’avvocato e le lotte nel tribunale: sono esperienze che segnano dentro per sempre.

Di fronte a questa situazione occorre aiutare a fare dei passaggi di liberazione, prima ancora di affrontare proposte pratiche per il futuro.

  • Accettare il fallimento.È doloroso ammetterlo, perché nessuno vuol essere un perdente, ma è il primo passaggio necessario. Altri pensatori parlano della “grazia del punto zero”. Il fallito non ha più nulla da perdere,. ma può incominciare qualcosa di nuovo. È l'esperienza di molti. Questo fa male, ci vuole del tempo per riconoscere dentro di sé la sconfitta, perché l’istinto fa recalcitrare: ma, quando la si è accettata, si è disponibili a un secondo passaggio.
  • Fare pace con se stessi e con i propri sensi di colpa.Questi si abbattono sull’animo e finiscono per bloccare e sfiancare. Quando si riuscirà a guardarli senza sentirsi paralizzati, essi diventeranno una risorsa; si avrà una strategia in più per impostare meglio il futuro.
  • Accettare il tempo.La ferita è talmente viva che si vorrebbe trovare subito il rimedio e la guarigione. Se non arriva presto, ci si scoraggia. Si dice: «È finita... per sempre; è finito tutto». Per la frattura di un arto è importante sapere che c’è un tempo necessario per la guarigione e la riabilitazione. Questo aiuta a vincere la paura che il trauma possa aver rovinato per sempre. Il processo di guarigione ha bisogno di tempo: generalmente ci vogliono uno-due anni di tempo perché il fallito ritrovi una nuova strada. Alcuni impazienti cercheranno scorciatoie, ma con esito spesso infelice.
  • Il bisogno di trovare un senso.Di fronte al dolore e alla sensazione di aver fallito in qualcosa di così importante per la propria vita, emerge nelle persone il bisogno forte di trovare un senso a questa loro sofferenza; la risposta al “perché" di questo dolore può essere trovata con più facilità grazie all’aiuto della fede e della preghiera, attingendo alla Bibbia come fonte di conoscenza e di conforto. «Mi sono arresa a Dio – dice una donna separata – ed è stata la mia salvezza». Un altro racconta: «Non avrei mai immaginato quanto grande potesse essere la sofferenza: un evento che mi ha interiormente lacerato. Tuttavia quello stesso evento ha segnato, per me e per molti altri, l'inizio di un cammino di fede radicalmente diverso».
  • L’immagine del Crocifissopuò venire in soccorso. La sua preghiera sulla croce («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?») può anche assomigliare a un grido di sconforto o a una mancanza di fiducia, ma è comunque una preghiera. come lo sono tanti salmi di lamentazione per sofferenze private e pubbliche. La contemplazione del Crocifisso innocente la spiritualità che ne promana, il beneficio scaturito misteriosamente da quel supremo sacrificio possono contribuire a dar forza interiore, pazienza e costanza; mentre la tentazione sollecita a perdere fiducia nel bene, nella fedeltà, nella bontà...La solitudine è pesante

La persona si sente sola perché non è più parte di una coppia; poi perché spesso non si sente più capita e accettata dalla comunità in cui vive; a volte perfino dagli amici e dai familiari più stretti, magari anche dalla comunità cristiana di cui ha fatto parte fino a quel momento; questo è fonte di altro dolore e può portare le persone a rinchiudersi in se stesse o a cercare sostegno in esperienze e scelte “meno valide” nel tentativo di uscire il prima possibile da questo tunnel. Per gli uomini la situazione interiore può essere più grave perché nella maggioranza dei casi sono privati dei figli, i quali sono affidati generalmente dal tribunale alla madre: la solitudine pesa ancora di più.

  • Il gruppo è una risorsa. È una risorsa fondamentale (insieme alla preghiera) per superare i momenti di difficoltà e la tentazione di ripiegarsi su se stessi tipica della precedente fase: il gruppo può offrire sostegno, occasione di condivisione e confronto della propria esperienza, un terreno favorevole per sperimentarsi di nuovo nell’apertura agli altri e nella ricostruzione di una nuova rete di rapporti umani positivi in un contesto “sicuro” e accogliente. Questa è una proposta pastorale molto pratica e realizzabile facilmente nelle nostre comunità cristiane perché gruppi di preghiera o di altro genere esistono o possono facilmente nascere, come riscontrato in tanti luoghi.
  • In questa fase sarebbe utile la presenza di qualche persona disponibilela visita fraterna e delicata di un sacerdote, di una religiosa, di amici e parenti che abbiano la pazienza di ascoltare le logorroiche lamentazioni o i pianti disperati. Potrebbe essere preziosa anche la presenza di una persona separata che abbia già fatto un certo cammino, possibilmente dello stesso sesso. Non sempre è necessario avere parole, risposte o ricette da dare. Spesso l’ascolto stesso è terapeutico!* Ma la vita non può dipendere dagli altri.Nessuno può essere guaritore: Dio è il Salvatore mediante un cammino personale e interiore. Il miglior compagno di cammino non sarà colui che dà soluzioni teoriche o colui che vorrà diventare il salvatore, ma colui che aiuterà il separato a camminare da solo, attivando le sue energie interiori. Senza perdono non c’è futuro

Il vero perdono è un altro passaggio vitale che la chiesa può offrire e favorire. Perdonare non significa solo rinunciare all’odio e alla vendetta verso l’altro ma soprattutto raggiungere una “guarigione di sé” che permette di aprirsi nuovamente alta vita. Non perdonare significa restare "intrappolati” nel rancore, rischiando di portare con sé la rabbia e la sfiducia verso tutto e tutti: gli altri, se stessi, Dio, la vita. È necessario il distacco dalle forti emozioni precedenti per poter percorrere una nuova via. Restare arrabbiati e come schiacciati l’uno dall'altro non fa bene, perché ci sarà sempre un fantasma che non lascia in pace.

Allora il "lasciarsi con dignità e serenità” diventa un passaggio importante, ma che difficilmente potrà realizzarsi prima di un tempo adeguato, almeno un anno o due. Non è tanto il lasciarsi in senso fisico quello che conta: infatti, molti, anche dopo la separazione o il divorzio, restano arrabbiati e condizionati l'uno dall’altro al punto che si potrebbe dire che non si sono lasciati, ma sono ancora come perversamente uniti dall'odio e incapaci di districarsi.

Quando realisticamente non si può che prendere atto della «definitiva partenza» del coniuge, può essere utile questo passaggio che consente la sedimentazione di tutto quel polverone che si era sollevato e favorisce la capacità di ritrovare in sé e nel Signore le energie per capire e cercare la volontà di Dio nel nuovo corso di vita.

Cercare nuove piste

Questo non vuol dire sciogliere il matrimonio precedente per essere liberi di farne un secondo, ma scoprire dentro di sé possibilità nuove di vita. Nuove non nel senso di «seconda volta» o ripetizione della stessa esperienza. Nuove nel senso biblico, cioè con un animo nuovo, con una forza e grazia nuova: «Non ricordate più le cose passate. Ecco, faccio una cosa nuova; proprio ora, non ve ne accorgete?» (Is 43,18).

Forse proprio la sconfitta di certe capacità e sicurezze accettata ormai serenamente apre a una fiducia nuova che viene da Dio: «Deponete l’uomo vecchio con la condotta di prima. Rinnovatevi nello spirito della mente e rivestite l'uomo nuovo, creato secondo Dio...» (Ef 4,22). La storia di molti santi, di tante umili, nascoste o famose personalità, spesso (o quasi sempre) inizia da un fallimento. Il fallimento, preso per il verso giusto, può segnare l'inizio di qualcosa perfino migliore.

  • Il dono di sé. Quando si vive f un'esperienza di difficoltà e di dolore può esserci la tentazione di fermarsi alla propria necessità di “prendere” (aiuto, appoggio, ascolto, conforto...) dagli altri, nel tentativo di sentirsi meglio; la verità, però, è che gli altri (chiunque altro) non possono “guarirci”: solo noi, con l'aiuto c di Dio, possiamo "guarire” noi stessi, e una delle vie maestre per riuscirci è proprio il "dono di sé”, la riscoperta della propria capacità non solo di ricevere ma anche di dare ancora agli altri (nella chiesa e nella società) qualcosa di valido, utile e buono. Questo permette di ritrovare più rapidamente la propria autostima, il senso del proprio valore personale, lo scopo “positivo” della propria vita e delle proprie esperienze (anche di quelle dolorose) e anche di continuare a sentirsi collaboratori vivi e cattivi della costruzione del regno di Dio.
  • Il valore della fedeltà. Dopo aver fatto questo cammino, la persona sarà in grado di capire da sé la volontà di Dio sulla propria vita, la propria “vocazione”, e di rispondere ad essa. Quando l'animo è guarito, è possibile arrivare a sentire la fedeltà come un valore forte: fedeltà a se stessi e alla parola data, fedeltà a Dio, a lui che è fedele.Ci sarà allora chi sentirà la vocazione a continuare a vivere la fedeltà al proprio impegno matrimoniale anche da separato: si tratta indubbiamente di abbracciare una croce, di accettare – in un certo senso – una forma di “martirio”; la via dei martiri è una di quelle che Dio può chiedere al cristiano di percorrere, con il suo aiuto e con il sostegno della sua forza.

Se, invece, la scelta finale fosse quella di passare ad una nuova unione, la chiesa non potrà convalidarla e approvarla, ma non per questo chiuderà in faccia i tesori che le sono offerti dal suo Salvatore; cercherà in ogni caso di offrire un accompagnamento spirituale a quelli che resteranno comunque e sempre suoi membri e suoi “figli”.

Dal “Direttorio di pastorale familiare” possiamo trarre qualche cenno del pensiero ufficiale della chiesa:

  • Stima della chiesa...La comunità cristiana, a iniziare dai sacerdoti e dalle coppie di sposi più sensibili,
    • si faccia loro vicina con attenzione, discrezione e solidarietà;
    • riconosca il valore della testimonianza di fedeltà di cui soprattutto il coniuge innocente si fa portatore, accettando anche la sofferenza e la solitudine che la nuova situazione

comporta;

  •  
    • sostenga il coniuge separato, soprattutto se innocente, nella sua pena e solitudine e lo inviti con carità e prudenza a partecipare alla vita della comunità: gli sarà così più facile superare la non infrequente tentazione di ritirarsi da tutto e da tutti li per ripiegarsi su se stesso;
    • prodighi loro stima, comprensione, cordiale solidarietà e aiuti concreti, specialmente nei momenti in cui si fa più forte in essi la tentazione di passare dalla solitudine al divorzio e al matrimonio civile;
    • li aiuti a «coltivare l’esigenza del perdono propria dell’amore cristiano e la disponibilità all’eventuale ripresa della vita coniugale anteriore».
  • Sacramenti.La loro situazione di vita non li preclude dall’ammissione ai sacramenti. Ovviamente, proprio la loro partecipazione ai sacramenti li impegna anche ad essere sinceramente pronti al perdono e disponibili a interrogarsi sull’opportunità o meno di riprendere la vita coniugale....Sul divorzio.Solo per gravissimi motivi può adattarsi a subire e accettare il divorzio o a farvi ricorso... Circa l'ammissione ai sacramenti, non esistono di per sé ostacoli: se il divorzio civile rimane l’unico modo possibile di assicurare certi diritti legittimi, quali la cura dei figli o la tutela del patrimonio, può essere tollerato, senza che costituisca una colpa morale: l'essere stato costretto a subire il divorzio significa aver ricevuto una violenza e un'umiliazione, che rendono più necessaria, da parte della chiesa, la testimonianza del suo amore e aiuto. Perché possa accedere ai sacramenti, il coniuge che è moralmente responsabile del divorzio ma non si è risposato deve pentirsi sinceramente e riparare concretamente il male compiuto....Sul battesimo dei figli:Si celebri comunque il battesimo se, con il consenso dei genitori, l’impegno di educare cristianamente il bambino viene assunto dal padrino o dalla madrina o da un parente prossimo, come pure da una persona qualificata della comunità cristiana.

Il cammino di accompagnamento necessariamente si estende (lo vedremo in un prossimo articolo) a quanti si trovano nella situazione che la chiesa qualifica come "irregolare”. Dovremo anche qui domandarci: fermi restando i capisaldi della morale cattolica, quali cammini e proposte sono possibili?

Settimana 26, 2005

Comunità di Caresto

Le Chiese dell'oriente cristiano

XIII. La chiesa ortodossa Serba

di John Nellykullen

Le origini della Cristianità in Serbia sono oscure. Si sa che i missionari Latini furono attivi nel secolo VII lungo la costa dalmata e che durante il secolo IX vi erano missionari greci attivi in Serbia, mandati dall’imperatore Basilio I il macedone. Fu così che il popolo serbo divenne interamente cristiano.

Fu in parte per la sua posizione geografica che la Chiesa serba oscillò per un po’ di tempo tra Roma e Costantinopoli, ma finì per gravitare verso i bizantini Nel 1219 San Sava fu consacrato prima Arcivescovo dell’Autonoma Chiesa Ortodossa Serba dal patriarca di Costantinopoli, allora residente a Nicea durante l’occupazione latina della sua città.

Il regno serbo raggiunse il suo apogeo durante il regno di Stefan Dushan, il quale estese il potere serbo all’Albania, Tessaglia, Epiro e Macedonia. Dushan fu incoronato imperatore dei Serbi e stabilì un Patriarcato serbo in Peč nel 1346. Questo assetto fu riconosciuto da Costantinopoli nel 1375.

I Serbi furono battuti dei Turchi nel 1389 e, in seguito, gradualmente integrati nell’Impero Ottomano. I turchi soppressero il Patriarcato serbo nel 1459 ma venne ripristinato nel 1557, venne nuovamente soppresso nel 1766 quando tutti i vescovi in Serbia furono rimpiazzati da vescovi Greci, soggetti al Patriarcato di Costantinopoli.

L’emergere di uno stato autonomo nel 1830 fu accompagnato dalla creazione di un episcopato metropolitano con base a Belgrado e dalla sostituzione dei vescovi greci con quelli serbi. Nel 1878 la Serbia guadagnò il riconoscimento internazionale di nazione indipendente e nel 1879 il Patriarcato di Costantinopoli riconobbe la chiesa serba come autocefala. Nel 1918 lo stato multinazionale di Jugoslavia era formato, e ciò favorì l’amalgama di varie giurisdizioni ortodosse con la Jugoslavia (i precedentemente autonomi, metropoliti serbi di Belgrado, Karlovci, Bosnia, Montenegro, e la diocesi di Dalmazia), in una singola chiesa ortodossa serba. Nel 1920 Costantinopoli riconobbe quest’unione e innalzò la chiesa serba a rango di patriarcato. La Chiesa Serba ebbe molto a soffrire durante la Seconda Guerra Mondiale, specialmente nelle regioni sotto il controllo dello stato fascista croato. Nel complesso, ha perso il 25% delle sue chiese e monasteri e circa 1/5 del suo clero. Nel 1945, con l’avvento del governo comunista jugoslavo la chiesa serba dovette approntare un nuovo tipo di relazioni con lo stato ufficialmente ateo. Furono confiscate molte proprietà ecclesiastiche, dalle scuole fu bandita l’educazione religiosa e vi fu un forte disaccordo sul ruolo della Serbia nella Jugoslavia multietnica. La rottura di Tito con l’unione sovietica del 1948 e il miglioramento delle relazioni con l’occidente portò a maggior tolleranza nei confronti della religione e al miglioramento della situazione per la Chiesa. Tuttavia continuarono forme sottili di persecuzione, con il governo che incoraggiava lo scisma all’interno della chiesa serba ortodossa.

Con il crollo della Jugoslavia, la Chiesa Serba si trovò maggiormente coinvolta in questioni politiche. Denunciò fortemente la politica antireligiosa dei passati regimi comunisti e nel maggio 1992 cominciò a distanziarsi dal governo di Milosevic. Ma, benché con frequenza invocasse la pace, durante la guerra in Bosnia-Erzegovina, la gerarchia ecclesiastica sostenne con vigore gli sforzi della minoranza serba in quel paese e in Croazia, per l’unione politica con la stessa Serbia. Nel 1994 i vescovi ortodossi Serbi si sono incontrati in Banja Luka, nella sezione della Bosnia in mano ai serbi. Nell’incontro essi asserirono che, poiché molti serbi si erano trovati in nuove repubbliche fuori della Serbia per i confini artificialmente imposti dai regimi totalitari per scopi amministrativi, quei confini non potevano essere accettati come definitivi. Essi rigettarono sia le sanzioni internazionali poste sulla Jugoslavia, sia le sanzioni poste dal governo jugoslavo sui serbi in Bosnia. Essi si impegnavano a rimanere con il popolo serbo sulla croce sulla quale essi sono crocifissi.

Nel 1996 i Vescovi serbi invitavano il popolo serbo ad un rinnovamento morale, ma dicevano che tale processo era impedito dal sistema educativo, ancora marxista nello spirito. Denunciavano anche il riapparire dei vecchi metodi totalitari nella società e lamentavano che l’azione della comunità internazionale in Bosnia e il Tribunale Hague penalizzavano la Serbia. Nel gennaio 1997 il Santo Sinodo Serbo condannava con parole forti gli sforzi del governo di Milosevic di annullare i risultati delle elezioni locali del novembre 1996 e ammoniva le autorità di rispettare i principi democratici. Alla fine di gennaio il Patriarca Pavle capeggiava più di 300 mila dimostranti per le strade di Belgrado a sostegno del movimento “per la democrazia”.

A metà del 1997 una assemblea di tutti i Vescovi Serbi incoraggiava i serbi esiliati dalla Croazia e dalla Bosnia a ritornare a casa e chiedevano che i governi di quei paesi garantissero la loro incolumità. Invitavano inoltre il governo jugoslavo a discutere la restituzione delle proprietà ecclesiastiche prese dopo il 1945 e a reintrodurre l’insegnamento del catechismo nelle scuole pubbliche. Sulla questione dell’ecumenismo i Vescovi affermavano che le loro Chiese erano come sempre aperta al dialogo e facevano quanto possibile per promuovere la riconciliazione e l’unità tra cristiani. Richiedevano una consultazione pan-ortodossa sul movimento ecumenico e una partecipazione ortodossa al Consiglio Mondiale delle Chiese. L’assemblea si riuniva nel novembre 1997 per parlare della riorganizzazione del sistema educativo della Chiesa. I vescovi ripetevano la richiesta dell’introduzione dell’educazione religiosa nelle scuole pubbliche e della promozione dei valori etici cristiani tra il popolo.

La più alta autorità il nella Chiesa Serba è la Santa Assemblea dei Vescovi composta da tutti i Vescovi diocesani. S’incontrano una volta all’anno, a maggio. Il Santo Sinodo dei Vescovi, formato dal Patriarca e da quattro Vescovi, governa la Chiesa nella quotidianità. C’è un Istituto Teologico in Belgrado (fondato nel 1921), quattro seminari ed una scuola di preparazione per monaci. Quindici pubblicazioni religiose sono sponsorizzate dal Patriarcato e da altre diocesi.

Diocesi per Ortodossi Serbi sono stati creati nel Nord-America, nell’Europa Occidentale e in Australia. La comunità in diaspora ha sperimentato una spaccatura nel 1963 nelle relazioni tra il Patriarcato Serbo e il governo comunista jugoslavo. Coloro che pensavano che la relazione implicava interferenze inaccettabili negli affari della chiesa hanno formato la Chiesa Serba Ortodossa libera, più tardi conosciuta come Nuova Metropolia Gracamica, che ha rotto ogni legame canonico con Belgrado. È solo nel 1991 che è avvenuta una riconciliazione tra i due gruppi sotto il Patriarca Pavle, sebbene per un po’ di tempo ambedue le strutture ecclesiastiche hanno continuato ad esistere parallelamente. I due gruppi hanno adottato una costituzione comune nel 1998, preparando la strada alla futura unità amministrativa.

La nuova giurisdizione gracramica era guidata dal Metropolita Ireney sino a che il Santo Sinodo Serbo ha nominato, essendo Ireney malato, il Vescovo Longin di Dalmazia come amministratore nel maggio 1998. Negli USA guida la gerarchia delle tre diocesi che sono rimaste legate al patriarcato serbo il metropolita Christofer. La diocesi del Canada è sotto le cure pastorali delle vescovo Georgije. Nel complesso ci sono 73 parrocchie o missioni negli USA e 20 in Canada. Ancora, il Vescovo Luka presiede 17 parrocchie in Australia e nuova Zelanda. In Gran Bretagna vi sono 22 comunità ortodosse serbe sotto la giurisdizione delle Vescovo Dositej di Bretagna e Scandinavia, il quale risiede in Svezia.



Territorio: Serbia-Montenegro, Europa occidentale, Nord-America, Australia.

Guida: Patriarca Pavle I (nato 1914, eletto 1990).

Titolo: Arcivescovo di Peč, Metropolita di Belgrado e Karlovči, Patriarca di Serbi.

Residenza: Belgrado, Serbia

Membri: 8.000.000

Sito web: http://www.spc.org.yu

Mercoledì, 14 Marzo 2007 01:21

13. La regalità in Israele (Rinaldo Fabris)

Il testo attuale presenta l'origine della monarchia in Israele come direttamente derivata dall'iniziativa di Dio che ha visto l'afflizione di Israele e ha udito il loro grido.

Mercoledì, 14 Marzo 2007 01:00

La lussuria (Luciano Manicardi)

di Luciano Manicardi

L'ambito della sessualità rinvia a quanto di più profondo, misterioso e vulnerabile vi è nell'essere umano. Coinvolge anche quanto vi sia di più vitale: l'amore. E' arte difficile, quella dell'amore, e da apprendere con sapienza. Ordinare il desiderio, assumere il proprio corpo sessuato, sono compiti essenziali per entrare nella gioia della relazione e uscire dalla tristezza della cosificazione.

Mercoledì, 14 Marzo 2007 00:50

Il sano equilibrio delle emozioni (Frei Betto)

di Frei Betto
 

Composti di fango e spirito, siamo un fascio di stupefacenti sentimenti. Che però teniamo in ghiacciaia, per paura di essere noi stessi. Se solo li sapessimo liberare…

Religioni e pace. Nello spirito di Assisi

Induismo

di Marilia Albanese


DOMANDA:

Come gli indù vedono gli altri e le loro religioni?

Nell’antichità come barbari. Ma è la storia del mondo: facevano tutti così. Oggi vedono lo stato di ciascuno, religione compresa, come frutto del suo cammino spirituale. L’acqua è sempre acqua, anche se ha nomi diversi, e tutte le religioni sono mezzi per elevarsi. Sul tetto si sale con la pertica, la scala o arrampicandosi... è il fine che conta. Concettualmente, l’indù ha grande rispetto e accettazione di quel che gli altri sono. Sottolineo concettualmente, perché in pratica, soprattutto negli ultimi tempi questo atteggiamento è stato dimenticato anche in India dove, proprio per il sistema indu che abbiamo detto inclusivo, la guerra di religione non ha alcun senso. Ahimé, non aveva senso: le cose purtroppo sono cambiate.

L’UOMO: ARBITRO DEL PROPRIO PENSIERO

L’induismo è un mondo complesso e affascinante che risale al III millennio a.C. e al cui centro è l’uomo: che siano volte al bene o al male, le sue azioni influiscono sulla sua esistenza presente o nelle sue vite successive. Una catena di reincarnazioni di cui l’uomo percepisce la costrizione e che cerca di interrompere purificando i suoi atti.

Può riuscirci percorrendo le vie spirituali del rito, della devozione e della conoscenza. Così ogni azione della giornata diventa una liturgia, un’offerta: ad agire non è più l’uomo ma la volontà divina che attraverso la purificazione ne abita l’anima.

È un cammino di progressiva spoliazione, che porta a scoprire che niente ci appartiene, quindi alla disperazione... Ma proprio a questo punto avviene il miracolo dell’illuminazione, per cui l’anima si apre al mistero dell’infinito e della felicità eterna.

Mentre anela a questa liberazione, l’uomo vive un’esistenza scandita da regole ben precise, come l’appartenenza a una determinata casta: di essa è responsabile, avendola acquisita per nascita come diretta conseguenza delle vite passate. Regole che la società indiana si è data e che l’hanno strutturata e consolidata: solo seguendole, interiorizzandole e rispettando il proprio ruolo l’uomo può venirne trasformato e salvarsi. Questo spiega perché in India le disuguaglianze sociali non abbiano portato rivoluzioni cruente.

Ma l’India è anche un universo composito, con almeno 16 lingue nazionali, centinaia di lingue locali, migliaia di dialetti, razze diverse; ha visto nascere e diffondersi le più grandi religioni della terra; è un’enorme democrazia che non ha conosciuto golpe o dittature militari. La sua storia è quella del difficile obiettivo di unire nella diversità. Il primo incontro con l’islam (XII-XIII sec.) fu tragico: le incomprensioni portarono a grandi massacri. Poi i musulmani concessero agli indù (come a ebrei e cristiani) di esercitare la propria fede pagando una tassa di capitazione.

Nei secoli successivi, sotto imperatori musulmani illuminati, ormai indiani di sangue, l’incontro tra le due culture, pur senza esiti di sincretismo religioso, diede vita a uno dei periodi più splendidi della storia dell’India dal punto di vista artistico-letterario e di fioritura della civiltà.

Pur in declino dalla metà del XVII secolo, la presenza musulmana ha però imposto all’India la grande e terribile scissione dalla quale sono nati Pakistan e Bangladesh. Ancora una volta un confronto forte tra le due religioni che ha lasciato solchi di incomprensione e dolori, ma che ben poco ha di religioso ed è stato fomentato e scatenato per ragioni politiche e interessi commerciali. Perché in effetti indù e musulmani vivono fianco a fianco e partecipano addirittura a cerimonie composite.

Diverso da quello musulmano, ma altrettanto determinante sulla realtà indiana, fu l’avvento degli inglesi nel XVII secolo. Il loro intento di costituire quadri locali utili nell’apparato governativo, produsse una categoria di indiani anglicizzati che, avendo studiato in Inghilterra, avevano conosciuto il pensiero occidentale e, tornati in India, l’avevano rielaborato in una versione assolutamente personale, dedicandosi al recupero della dignità indiana, dell’autonomia e dell’indipendenza.

Gandhi è l’esponente più famoso fra questi personaggi di grande rilievo; pensatori e mistici che, oltre le vicende politiche, hanno avuto la capacità di rileggersi, rivisitare e riproporre la propria cultura in termini estremamente interessanti. Questo probabilmente è il segreto della vitalità di una visione religiosa che ha ormai più di 4 mila anni di storia.

* Docente di lingua e cultura indiana, grande esperta dell’India e sue religioni, attualmente dirige l’Is.I.A.O. (Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente) presso l’Università degli studi di Milano. Presidente della Yani (Yoga associazione nazionale insegnanti) è autrice di articoli, saggi e libri.


MIGLIORARE SE STESSI PER PORTARE LA PACE

di Sushama Swarup Sahai *

In passato l’India era il paese misterioso dei fachiri, giungla, fiumi sacri... Oggi è uno dei mercati più dinamici del mondo, in progressiva espansione, dove la globalizzazione convive con le antiche tradizioni. In questo contesto come possiamo ragionare sull’induismo in relazione alla pace?

Intanto, cosa intendiamo con religione? Penso che abitudini, idee e valori tramandati da una generazione all’altra, o meglio il «patrimonio sociale» di una cultura, possono essere definiti come «sua religione». Gli uomini inventano e trasmettono la propria religione, con folclore, miti, leggende...

Una volta, mi fu chiesto, essendo io indù, come vedevo il cristianesimo. Fino a quel momento sapevo d’essere indù, ma non sapevo cosa questo significasse. Pensandoci credo che l’essenza dell’induismo sia proprio il suo inglobare una somma di valori comuni e tradizioni, che costituiscono la cultura indù, che include anche l’aspetto religioso.

L’induismo costituisce una complessa e continua totalità che si esprime negli aspetti sociali, economici, letterari e artistici. Perciò la religione è solo una parte dell’essere indù.

La mia relazione con l’induismo è cominciata il giorno in cui sono nata; in una famiglia dove si praticavano i riti e si celebravano le feste indù: cerimonie che consacrano la mente e il corpo della persona e la preparano per la comunità.

Non sono stata costretta a niente in nome della religione. Ho potuto crescere libera e tollerante nei confronti di tutti. Ogni giorno incontro, frequento e mangio con persone di caste e religioni diverse. Soprattutto mi è stata data l’opportunità di cogliere gli insegnamenti migliori di tutte le religioni.

Tolleranza e non-violenza sono i principi che guidano le mie azioni.

Mi è stato insegnato ad agire senza pensare ai risultati. Ciò enfatizza l’introspezione personale per esaminare la propria condotta. Devo sempre fare del mio meglio. La competizione è una buona cosa, ma deve essere con me stessa, non con gli altri. Sto bene con me stessa se riesco a migliorarmi.

Nell’induismo quel che è importante è la persona, non la razza o la religione. Non posso provare l’esistenza e attribuire qualità al mio Dio come non posso screditare o criticare il Dio degli altri. La religione mi deve dare la capacità di pensare liberamente secondo la mia natura.

A mio parere, la colpa delle guerre e ingiustizie nel mondo non è della troppa, poca o mal compresa religione, ma della globalizzazione, che sta cambiando la società troppo in fretta. Nelle scuole ci sono bambini di diverse culture che cominciano a vivere insieme: fanno amicizie, conoscono altre tradizioni, mangiano cibi diversi e così si arricchiscono culturalmente. In futuro diventeranno tolleranti alle altre religioni senza accorgersene. Ma ci vuole un tempo di assestamento.

Credo che comprensione e cooperazione siano molto importanti per essere felici in qualsiasi società. Facciamo un modesto sforzo per migliorarla recitando una preghiera per l’umanità tratta dalle Upanishad (vi secolo a.C.): «Noi siamo uccelli dello stesso nido, possiamo avere una pelle diversa, possiamo parlare lingue diverse, possiamo credere in una religione diversa, possiamo appartenere a culture diverse, ma dividiamo la stessa casa, la nostra terra. Nati sullo stesso pianeta, sovrastati dallo stesso cielo, guardando le stesse stelle, respirando la stessa aria, dobbiamo imparare a progredire insieme con gioia, o periremo insieme con dolore, perché l’uomo può vivere da solo, ma sopravviverà come umanità, soltanto se unito agli altri».

* Psicologa indiana, in Italia dal 1970, ha collaborato con diverse istituzioni accademiche milanesi (Bocconi, Università degli studi). Indian cultural ambassador, collaboratrice di Microcosmo, insegna lingua hindi e collabora con l’Is.I.A.O ed è presidente dell’associazione Magnifica India.

(da Missioni Consolata, Gennaio 2007)

Chiese d’Oriente di tradizione non cattolica

Un cammino ancora pieno di difficoltà

di Gerardo Cioffari, op *

Con il Concilio è terminata la contrapposizione con le “Chiese sorelle d’Oriente” e si è instaurato un dialogo che ha rivelato poche dissonanze teologiche.
Da superare, invece, è l’uniatismo visto come espressione di proselitismo. Soprattutto resta la necessità dì mettere in campo. comportamenti pratici e iniziative concrete di effettiva collaborazione.

Il concilio Vaticano II segnò un grande passo avanti nei rapporti fra la Chiesa cattolica (romana) e le Chiese d’Oriente rispetto alle posizioni precedenti ispirate a integralismo nell’approccio alla verità e a una certa aria di sufficienza da entrambe le parti. In particolare, i cattolici avevano sempre inteso l”’unità” come “ritorno” dei fratelli separati all’ovile del vicario di Cristo, magari tollerando una certa autonomia disciplinare. Ora, invece, si valorizzava anche il loro patrimonio patristico, liturgico e spirituale (legittimando quindi il diverso approccio teologico alle verità di fede) e, più correttamente, si evidenziava Gesù Cristo come fondamento dell’unità ecclesiale.

Dalla polemica al dialogo

La svolta nell’atteggiamento della Chiesa cattolica, iniziata con i gesti di Giovanni XXIII, trovò la sua espressione compiuta nel decreto Unitatis redintegratio, che ha chiuso l’epoca della polemica (tendente a dimostrare la propria ragione contro l’errore dell’interlocutore) per aprire quella del dialogo sincero con tutte le Chiese orientali.

Il dialogo ha coinvolto tutte queste Chiese, sia le non-calcedonesi che le ortodosse. Sono stati istituiti contatti stabili con le Chiese “monofisite” (armena, copta o egiziana, e giacobita o siro-antiochena) e la Chiesa “nestoriana” (caldea o Chiesa apostolica d’Oriente), tutte sorte nel V secolo. I contatti con i capi di queste Chiese hanno dimostrato che la qualifica di monofisiti e nestoriani corrisponde ben poco alla realtà e che quindi i motivi reali della separazione sono molto meno solidi di quanto si pensi.

Ovviamente un posto privilegiato nel dialogo con i cattolici hanno avuto le Chiese d’Oriente di tradizione bizantino-slava, che nel loro insieme formano la Chiesa ortodossa, la quale ha camminato fianco a fianco con la Chiesa romana fino al 1054, quando è iniziata l’estraniazione. L’ortodossia comprende 15 Chiese autocefale, vale a dire Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme, Mosca, Serbia, Romania, Bulgaria, Georgia, Cipro, Grecia, Polonia, Albania, Cecoslovacchia, America (delle quali le prime 9 sono sedi patriarcali; mentre l’ultima non è riconosciuta da Costantinopoli), e 5 Chiese autonome, cioè Sinai, Estonia, Finlandia Giappone e Cina.

Il 7 dicembre 1965 Paolo VI e il patriarca Atenagora I annullavano le reciproche scomuniche del 1054. Dopo di che i gesti fraterni sono aumentati con i saluti e i reciproci inviti a venire a Roma in occasione della festa dei santi Pietro e Paolo (29 giugno) e ad andare a Costantinopoli per la festa di sant’Andrea (30 novembre).

Su questa scia si è innestato il grande impegno ecumenico di Giovanni Paolo II, che a più riprese ha voluto testimoniare ai fratelli ortodossi che la teologia cattolica intende affondare le sue radici nella stessa tradizione ecclesiale primitiva e soprattutto nella stessa professione di fede niceno-costantinopolitana.

Nel 1979 il Papa e il patriarca Dimitrios creavano la Commissione mista per il dialogo teologico cattolico ortodosso. Questa si riunì a Patmos e Rodi (1980), a Monaco di Baviera nel 1982 (Il mistero della Chiesa e dell’Eucaristia alla luce del mistero della Santissima Trinità), a Creta nel 1984, a Bari nel 1986-87 (Fede, Sacramenti e Unità della Chiesa) e a Valamo (Finlandia) nel 1988, discutendo problemi concernenti il sacramento dell’ordine.

A questo punto si verificava un fatto nuovo: tra il 1985 e il 1989 era crollato il comunismo e, conseguentemente, risorgevano le Chiese greco- cattoliche (unite a Roma). Considerando il successo dei primi incontri, nel 1993 la Commissione mista ritenne che fosse giunto il momento di toccare il tema più scottante, l’uniatismo, vale a dire le Chiese orientali già unitesi con Roma nel 1596.

I problemi dell’uniatismo

L’incontro, tenutosi a Balamand in Libano, si concluse con il rigetto per il futuro del metodo dell’uniatismo e il riconoscimento dell’essere già “Chiese sorelle”. Questo di Balamand fu un grande balzo in avanti, ma proprio per questo era difficile che passasse inosservato. All’interno delle Chiese ortodosse si è acceso un dibattito sul senso dell’espressione “Chiesa sorella” e quindi sull’effettiva rinuncia a considerare eretica la Chiesa di Roma.

Ma anche da parte cattolica il cammino ecumenico è risultato impervio con principi teorici ispirati a grande apertura e iniziative pratiche decisamente antiecumeniche. Da un lato Giovanni Paolo Il promulgava l’enciclica Ut unum sint (1995), il documento cattolico più avanzato nel campo dell’ecumenismo, che addirittura invitava i teologi cattolici a ripensare le modalità dell’esercizio del primato petrino; dall’altro, l’istituzione di svariate nuove diocesi cattoliche nella Russia ortodossa, violando il principio del territorio canonico (che, per molto meno, aveva spinto Mosca a rompere per diversi mesi la comunione con Costantinopoli).

Circondata da simili contraddizioni, la Commissione mista cattolico ortodossa nella riunione di Baltimora nel luglio del 2000 (Implicanze teologiche e canoniche dell’uniatismo), ha concluso i lavori senza riuscire a emettere un documento comune. Anzi, da allora i suoi lavori procedono a singhiozzo.

Pur dichiarando che il dialogo deve continuare, i partecipanti hanno fatto reciprocamente rilevare l’esigenza di consultarsi con le proprie Chiese. Il fatto può apparire negativo. In realtà questa crisi era abbastanza prevedibile dopo le notevoli acquisizioni a seguito di tali incontri. Man mano che si stringono i tempi (e ci si avvicina sempre più alle radici delle diversità) è più che normale un momento di riflessione.

Il nuovo papa Benedetto XVI il 29 maggio a Bari ha dichiarato solennemente la sua intenzione di continuare e sviluppare gli impegni ecumenici del suo predecessore; ma la via resta irta di difficoltà. Basti pensare alle pressioni degli uniati per ottenere un patriarcato in Ucraina, cosa che porterebbe definitivamente i russi a credere che per i cattolici l’ecumenismo non è che una forma di proselitismo.

Se, dunque, il dialogo teologico ha fatto grandi progressi, quello dei gesti stenta a decollare, da una parte fra grandi manifestazioni di cortesia e dall’altra con iniziative, poche in verità, che assestano duri colpi alla fiducia reciproca.

* docente all’istituto ecumenico di Bari

(da Vita Pastorale, Dicembre 2005)

Bibliografia

Salachas D., Il dialogo teologico ufficiale tra la Chiesa cattolico-romana e la Chiesa Ortodossa, La quarta assemblea plenaria di Bari, 1986-1987, Quaderni di ”O Odigos” 1988, Bari; Olivier C., La Chiesa ortodossa, Queriniana 1989, Brescia; Cioffari G., L’Ecclesiologia ortodossa. Problemi e prospettive, Quaderni di “O Odigos” 1992, Bari; Morini E., La Chiesa ortodossa. Storia, disciplinare, culto; Edizioni Studio Domenicano 1996, Bologna; Rosso S. e Turco E., Per una riconciliazione delle memorie. 2 Le Chiese cristiane d’oriente, Quaderni “Ecumenismo e dialogo” 2002, Torino.

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