Esperienze Formative

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Coniugare etica e scienza,
sfida per l’Europa dei valori

di Gianni Borsa

La Commissione europea ha insediato i nuovi membri di Ege, il comitato di consulenza che affronta temi delicatissimi per la vita e il futuro dei cittadini del continente “In questo campo sono essenziali la ragione e il dialogo”

Non bastano le idee chiare, la volontà politica (ammesso che ci sia) e un solido bilancio per costruire la “casa comune”. Occorre mettere in relazione le leggi e le azioni comunitarie con i principi etici, per dare solide fondamenta all’integrazione e per rispondere alle esigenze più vere e profonde dei cittadini Ue. E’ con questo intento che da diversi anni opera a Bruxelles il Gruppo europeo per l’etica nella scienza e nelle nuove tecnologie (European Group on Ethics in Science and New Tecnologies, sigla Ege), chiamato ad affiancare l’attività della Commissione.

Il Presidente dell’esecutivo, José Manuel Durao Barroso, cui spetta la nomina dei 15 componenti di Ege, ha recentemente provveduto in tal senso. Il gruppo si è riunito a fine ottobre per l’insediamento, mentre a novembre e dicembre ha avviato i propri lavori, cominciando a sviscerare argomenti di estrema delicatezza: l’impiego delle nanotecnologie nella medicina e la ricerca sulle cellule staminali. “Ciò che conta in uno spazio di confronto di questo tipo è anzitutto la ragione – ha dichiarato all’agenzia di stampa “Sir”, Carlo Casini, presidente del Movimento della Vita, unico rappresentante italiano in Ege -. Si tratta di sviluppare un dialogo serrato su temi quali la dignità umana, il diritto alla vita, l’uguaglianza sostanziale tra i soggetti, lo spazio e i limiti della ricerca, la difesa dell’ambiente…”.

Oltre edonismo e consumismo

Ege è un comitato “indipendente, pluralista e interdisciplinare”, incaricato di fornire pareri alla Commissione in vista di nuove direttive comunitarie o riguardo la conduzione di politiche Ue che abbiano significativi risvolti etici. Alla sua presidenza è stato eletto lo svedese Goran Hermerén. Tra i componenti, il cui mandato scadrà nel 2009, sono presenti esperti di vari paesi e con differenti competenze: tre giuristi, sei scienziati e sei studiosi di materie sociali.

“Sono convinto – afferma Casini – che ci sia una sorta di inquietudine culturale e politica a livello europeo quando si affrontano i temi di bioetica non solo dal punto di vista economico (posto che, ad esempio, le biotecnologie possano produrre ricchezza). Se si va oltre l’aspetto consumistico e edonistico, emergono posizioni articolate e si incontrano attenzioni e profonde sensibilità da persone di varia provenienza e formazione; il dialogo tra credenti e non credenti si fa più serrato”.

Fra i tempi di competenza della Commissione europea, in cui Ege può essere chiamato a svolgere il suo ruolo consultivo, troviamo la clonazione animale, la protezione dei dati personali, la cosiddetta “carta di identità genetica”. “Con l’avanzare della ricerca scientifica – aggiunge Casini – questi casi saranno sempre più numerosi e di estrema importanza nella vita di ciascuno di noi”.

Emmanuel Agius, docente di etica e di filosofia morale dell’Università statale di Malta, aggiunge un’osservazione di metodo: “La ragione è essenziale nel nostro operare. Ma la ragione,i principi, la scienza devono essere calati nella storia, nel vissuto dell’Europa di oggi. Nel nostro impegno in Ege è importante considerare gli orientamenti dell’opinione pubblica. E’ questa Europa, comunità di valori, che dobbiamo sostenere nel suo processo di integrazione”. E conclude: “io credo che i cittadini ambiscano a una Ue fondata sui diritti, su grandi progetti. Ege dovrebbe aiutare a tradurre certi valori in pratiche quotidiane, suggerendo pareri che riguardano il processo normativo o le decisioni pratiche delle istituzioni comunitarie. L’Europa chiede infatti risposte etiche ai bisogni della gente e alle sfide del futuro”.

(da Italia Caritas)

di Piero Pisarra

Il governatore d’Egitto si recò un giorno nel deserto di Scete per conoscere abba Mosè, ex brigante divenuto uno dei più famosi eremiti. Avvicinandosi al luogo che gli era stato indicato, incontrò un vecchio al quale chiese dove si trovasse la cella del grande anacoreta. “Che volete da lui?”,replicò l’uomo, “è un pazzo e un eretico”. Senza dargli retta, il governatore proseguì sulla sua strada arrivò alla chiesa più vicina, dove seppe che l’anziano che aveva incontrato altri non era che lo stesso Mosè”.

Le Chiese dell'oriente cristiano

Chiesa ortodossa della Romania

di John Nellykullen





La chiesa ortodossa rumena è unica fra le chiese ortodosse perché è la sola ad esistere all'interno di una coltura latina. Il rumeno è una lingua romanza, che discende direttamente dalla lingua dei soldati romani e dei colonizzatori che avevano occupato la Dacia e si erano sposati con gli abitanti del luogo a seguito della conquista dell’Imperatore Traiano nel 106 d.C.

Il cristianesimo della zona risale ai tempi apostolici ma la storia del suo sviluppo durante il millennio dopo la fine dell’occupazione romana nel 271 è oscura. Certamente sia i missionari latini che quelli bizantini furono attivi nel territorio. In ogni caso nel momento in cui i principati rumeni di Moldavia e Valacchia emergono come entità politiche, nel quattordicesimo secolo, l’identità etnica rumena si era già identificata con la fede cristiana ortodossa.

I seguenti secoli hanno testimoniato lo sviluppo di una specifica tradizione teologica rumena nonostante il fatto che Valacchia e Moldavia fossero vassalle dell’impero ottomano dal 16mo al 19mo secolo. I due principati furono riuniti sotto un solo principe nel 1859 e la Romania divenne completamente indipendente nel 1878. Di conseguenza, il Patriarcato di Costantinopoli, che aveva esercitato la giurisdizione sui Rumeni mentre facevano parte dell’impero ottomano, riconobbe nel 1885 alla Chiesa Rumena lo stato di autocefalia . La Transilvania che comprendeva un elevato numero di ortodossi fu integrata nel regno rumeno dopo la prima guerra mondiale e la Chiesa Rumena fu elevata al rango di Patriarcato nel 1925.

L'istallarsi di un governo comunista in Romania dopo la seconda guerra mondiale creò un nuovo modus vivendi tra chiesa e stato. ed in generale la Chiesa Ortodossa Rumena adottò una politica di stretta collaborazione con il governo. Quali che possono essere stati i meriti di quella decisione la chiesa potette realizzare un'esistenza attiva e piena di significato nel paese. Un movimento spirituale forte di rinnovamento ebbe vita verso la fine degli anni 50. Tantissime chiese erano aperte e vi erano in funzione molti monasteri anche se tutta l'attività della chiesa era sotto il rigoroso controllo del governo. Vi erano sei seminari e due istituti teologici (a Sibiu ed a Bucarest). Periodici teologici di alta qualità erano regolarmente pubblicati, tre dallo stesso Patriarcato ed uno per ognuna delle 5 metropolie, come pure venivano pubblicati altri importanti lavori teologici

A seguito della caduta del regime di Nicolae Ceausescu nel dicembre del 1989 la gerarchia ortodossa fu aspramente criticata per la collaborazione data al regime comunista: Il Patriarca Teoctist dette le dimissioni nel gennaio 1990 ma il Santo Sinodo lo reintegrò nel mese di aprile. Da allora la Chiesa Ortodossa Rumena ha preso una sua posizione di equilibrio ed ha sperimentato uno sviluppo continuo della sua attività. Ci sono attualmente in atto dei programmi per la costruzione di una enorme Cattedrale della Salvezza della Patria a Bucarest. Programma abbastanza contestato a livello laicale, sembra per motivi ecologici. Purtroppo la Chiesa Ortodossa Rumena è ancora in stato di conflitto con la Chiesa Greco Cattolica per il problema della restituzione a questa delle varie chiese confiscatele nel 1948 dal governo comunista e consegnate alla Chiesa Ortodossa. I cattolici ne chiedono la restituzione ma gli Ortodossi oppongono una forte resistenza.

All'inizio del 2003 la Chiesa Ortodossa Rumena ha comunicato di avere 23 diocesi e 12.761 parrocchie. Ugualmente ha detto di avere 373 monasteri e 181 sketes (piccoli monasteri) con un totale di 3.368 monaci e di 4.661 monache. La chiesa era servita da 12173 preti e diaconi; 229 preti erano in servizio come cappellani di ospedale, 39 nelle prigioni e 90 nelle forze armate. Vi erano inoltre 38 seminari con un totale di 4.715 allievi, comprendendo tra gli studenti le monache ed i laici. Gli studi superiori di teologia erano ormai integrati nel sistema universitario statale, con 15 facoltà di teologia ortodossa nel contesto della nazione. Complessivamente vi erano 11.063 allievi di teologia. In più vanno considerate 21 scuole per i cantori della chiesa con 884 allievi. Cinque nazionali e 49 diocesani sono i giornali che si è iniziato a pubblicare.

Secondo il censimento rumeno effettuato nel 2002, ben l’ 86.7% della popolazione si è dichiarato ortodosso. I sondaggi di opinione hanno indicato costantemente che la popolazione rumena tiene la chiesa in alta considerazione, con 86% che nel 1997 definiva l’attività della Chiesa Ortodossa buona o molto buona.



In 1993 il Patriarcato rumeno ha ristabilito le giurisdizioni nella zone che facevano parte della Romania nel periodo tra le due guerre. Nel nord della Bucovina, ora Ucraina, ed in Bessarabia che ora per la maggior parte del territorio è parte delle repubblica indipendente di Moldova. La chiesa ortodossa in Moldova aveva fatta parte della chiesa ortodossa russa a partire dalla seconda guerra mondiale e le era stato appena riconosciuto la stato di autonomia da Mosca. Così gli ortodossi in Moldova sono stati divisi in due giurisdizioni. Il governo di Moldova ha sostenuto la giurisdizione collegata a Mosca (la chiesa ortodossa di Moldova) e non ha riconosciuto la nuova giurisdizione rumena (la chiesa ortodossa di Bessarabia) non concedendo la registrazione ufficiale. Il 27 settembre 2001, il governo di Moldova ha dichiarato che la Chiesa ortodossa di Moldova aveva più di 1.000 parrocchie, questo allo scopo di riconoscerne il possesso dei beni. Nessun tentativo è stato fatto, tuttavia, di confiscare le proprietà della Chiesa Ortodossa di Bessarabia.

Il 13 dicembre 2001, la corte europea dei Diritti dell'Uomo ha dichiarato che il governo della Moldova aveva violato gli articoli della Convenzione europea rifiutando di registrare la chiesa di Bessarabia. Il governo si è appellato contro la sentenza nel febbraio del 2002 ma la Corte ha respinto il ricorso. Nel Luglio del 2002 il governo di Moldova per mezzo dell’Ufficio per Affari del Culto ha registrato la Chiesa di Bessarabia malgrado le proteste della Chiesa Ortodossa di Moldova. Diretta dal Metropolita Petru, la chiesa ortodossa di Bessarabia a quel tempo aveva esattamente 75 prieti e 68 parrocchie.. La maggior parte delle parrocchie non aveva una chiesa adeguata, perciò ci si doveva accontentare di cappelle o di radunarsi in case private.

La più alta autorità nella Chiesa Ortodossa Rumena, per le questioni spirituali e canoniche è il Santo Sinodo composto da tutti i vescovi in carica nel paese. rumeno Le riunioni hanno luogo almeno una volta all'anno. Negli altri momenti la gestione normale della Chiesa è competenza del Santo Sinodo permanente composto dal Patriarca, dai Metropoliti in carica e dal segretario del Santo Sinodo. Per i problemi finanziarii ed amministrativi la più alta autorità è l’Assemblea Nazionale composto da un chierico e due laici per ogni diocesi e dai membri del Santo Sinodo Il supremo organo amministrativo del Santo Sinodo e dell'Assemblea nazionale è il Consiglio Nazionale della Chiesa, composto di tre chierici e sei laici scelti dall’Assemblea Nazionale della Chiesa per un periodo di quattro anni insieme con, come membri permanenti dei consiglieri amministrativi patriarcali.

Complessivamente il Patriarcato Rumeno ha all’estero tre metropolie, un’arcidiocesi, e due dioecesi. Un’arcidiocesi in America del Nord affidata all’Arcivescovo Nicolae Condrea (P.O. Box 27, Skokie, Illinois 60076). Essa ha 25 parrocchie e missioni negli S.U.A. e 18 nel Canada. Fedeli ortodossi rumeni sono in Gran Bretagna ed in Irlanda sono sotto la giurisdizione dellìArcivescovoo Joseph Metropolita dell’ Europa occidentale e del sud, con sede a Parigi. La Comunità rumena in Australia, ha quattro parrocchie. Il Metropolita Nicolae Corneanu del Banat è stato nominato dal Santo Sinodo Esarca di tutti gli ortodossi rumeni della diaspora.


Un'altra giurisdizione ortodossa rumena parte della chiesa ortodossa in America è presieduta dal vescovo Nathaniel Popp (Romanian Orthodox Episcopate of America, 2535 Grey Tower Road, Grass Lake, Michigan 49201-9120). Vi sono 56 parrocchie negli S.U.A. e 19 nel Canada. In 1993 le due giurisdizioni ortodosse rumene in America del Nord hanno accosentito a stabilire dei normali rapporti ecclesiali completi chiudendo così decenni di ostilità.







TERRITORIO:
La Romania, l'Europa occidentale e l'America del Nord

GUIDA:
Patriarca Daniel

TITOLO:
Arcivescovo di Bucarest, metropolita della Ungro-Walacchia, patriarca della Chiesa Ortodossa Rumena

RESIDENZA:
Bucarest, Romania


MEMBRI: 18.817.975 in Romania (censimento del 2002)

WEB SITE:
http://www.patriarhia.ro


Venerdì, 25 Maggio 2007 02:30

La spiritualità degli atei (Enzo Bianchi)

E’ vero che oggi l’ateismo militante non è più attestato come negli anni sessanta, ma l’orizzonte agnostico, oggi ancor più esteso di allora, richiede in realtà lo stesso sforzo da parte dei cristiani per tessere un dialogo che si nutra di ricerca comune, di ascolto, di dibattito tra vie diverse.

Nel magistero post-conciliare

Riflettendo sulla Dichiarazione Conciliare
Nostra Aetate

Il suo spirito aleggia sui nostri giorni

di Paolo Gamberini


Le affermazioni della dichiarazione non furono per nulla scontate. E si può riscontrare una certa “dialettica” tra i documenti del Concilio. Il magistero tuttavia non ebbe tentennamenti e continuò la strada aperta dal documento. Alla luce degli ultimi avvenimenti, vediamo quanto ciò sia stato importante.

Il concilio Vaticano Il ha avviato un diverso modo di comprendere la Chiesa: non più in termini esclusivi, ma in dialogo nei confronti del mondo. In particolare, la dichiarazione conciliare Nostra aetate ha segnato l’inizio di un diverso approccio con i non cristiani. Benché il documento fosse stato pensato originariamente per ridefinire le relazioni con gli ebrei, si comprese subito la necessità di estenderlo alle altre religioni, in particolare all’islam.

A questo riguardo Paolo VI istituì due speciali commissioni, connesse ai due segretariati creati all’indomani del Concilio: una per le relazioni con l’ebraismo, collegata all’allora Segretariato per l’unità dei cristiani (ora Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani) e una per le relazioni con l’islam, connessa all’allora Segretariato per i non cristiani, il quale nel 1988 assunse il nome di Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, per sottolineare l’apertura dialogica della Chiesa cattolica nei confronti delle altre religioni.

Tensione dialettica

Secondo lo spirito della dichiarazione, «la Chiesa nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni» (2): anche in esse è possibile non solo cercare sinceramente, ma incontrare veramente Dio. Va tenuto presente, però, che nei vari documenti del Concilio permane pur sempre una certa tensione. Se da un lato le varie religioni «non raramente riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini» (2), da un altro lato si afferma che questa Verità è il Cristo «via, verità e vita» (Gv 14,6). Non solo. Per la dichiarazione Dignitatis humanae: «L’unica vera religione sussiste nella Chiesa cattolica» (1).

La prospettiva ermeneutica, adottata dai vari documenti conciliari, lascia aperta la dialettica tra l’apprezzamento delle altre esperienze religiose e il riconoscimento della novità insuperabile di Cristo. Il Concilio comprende questa tensione secondo lo schema dei cerchi concentrici. Al centro c’è Cristo e il suo Corpo, cioè la Chiesa cattolica: della pienezza salvifica di Cristo e del suo Corpo in vari gradi partecipano le altre Chiese e le altre religioni (cf Lumen gentium 16): tutti sono ordinati al popolo di Dio e orientati alla Verità di Cristo.

Questa prospettiva ermeneutica, e la tensione che essa implica nella relazione con le altre religioni, è presente anche nei vari documenti del magistero postconciliare. Tra i testi più significativi ricordiamo: il documento del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso L’atteggiamento della Chiesa cattolica di fronte ai seguaci di altre religioni, riflessioni e orientamenti di Dialogo e Missione (1984), l’enciclica Redemptoris missio (RM) di Giovanni Paolo II (1991), il documento Dialogo e Annuncio del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso e della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli (1991), il documento Cristianesimo e religioni della Commissione teologica internazionale (1997), la dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede Dominus Iesus (2000).

In questi vari testi del post-concilio la Chiesa cattolica cerca di articolare ulteriormente la tensione cui prima si accennava. Centrale è l’affermazione della Redemptoris missio che comprende le altre religioni come mediazioni parziali dell’unica mediazione insuperabile di Cristo (5 e 29). Le altre religioni (con i loro riti e testi sacri), pur non avendo in sé stesse efficacia salvifica, possono essere mezzi di salvezza per la grazia di Cristo. Questo è un punto fermo del magistero postconciliare, che vuole appunto conciliare l’unicità e l’universalità di Gesù Cristo con la presenza dei semi del Verbo e dell’azione dello Spirito di Dio nelle altre religioni: infatti, il credente delle altre religioni non è salvato individualmente dalla grazia di Cristo, ma attraverso l’appartenenza alla propria tradizione religiosa (RM 28).

Dialogo e annuncio è certamente il testo “più aperto” tra quelli del post-concilio. Questo documento fonda il valore positivo delle altre religioni non tanto sulla dimensione antropologica (la ricerca religiosa dell’uomo) quanto sulla dimensione teologica: «I cristiani non devono dimenticare che Dio si è anche manifestato in qualche modo ai seguaci delle altre tradizioni religiose. Di conseguenza sono chiamati a considerare le convinzioni e i valori degli altri con apertura» (48). Questa manifestazione di Dio nelle altre religioni, benché sia parziale e misteriosa, costituisce il fondamento per il dialogo interreligioso.

Eventi vicini a noi

Si risente fortemente qui l’eco dell’evento di Assisi del 27.10.1986. A commento di questa intensa esperienza interreligiosa e spirituale, Giovanni Paolo Il affermò che «ogni preghiera autentica è mossa dallo Spirito Santo». In varie occasioni papa Wojtyla ha manifestato con gesti profetici la volontà di proseguire sul cammino inaugurato dalla Nostra aetate: convocando un’assemblea interreligiosa in Vaticano (28.10.1999), visitando la moschea degli Omayyadi a Damasco (6.5.2001), indicendo un giorno di preghiera e di digiuno al termine del Ramadan all’indomani dell’atto terroristico alle Twin Towers (14.12.2001) e invitando per una seconda volta ad Assisi i rappresentati delle varie religioni a pregare per la pace (24.1.2002). Senza l’operato di Giovanni Paolo Il non si sarebbe così chiaramente affermato lo spirito della Nostra aetate nella Chiesa del post-concilio.

Anche Benedetto XVI ha riaffermato più volte l’eredità lasciatagli dal suo predecessore: Commovente è stato l’incontro con la comunità ebraica e musulmana a Colonia in occasione della Giornata mondiale della gioventù (18 e 20.8.2005) e la visita ad Auschwitz durante il viaggio apostolico in Polonia (28.5.2006). Le dure reazioni islamiche ad alcuni passaggi del discorso tenuto dal Papa all’università di Ratisbona in Germania (12.9.2006) e le precisazioni del Vaticano, hanno permesso di chiarire ulteriormente la posizione ufficiale della Chiesa cattolica in merito al dialogo interreligioso, e in particolare con l’islam. Il Papa intende incoraggiare un dialogo franco e sincero con le altre religioni, purché sia fatto con grande rispetto reciproco, nel chiaro e radicale rifiuto della motivazione religiosa della violenza.

Il discorso di Ratisbona, incentrato sul rapporto tra logos (ragione) e religione, e l’intenzione di accorpare il Pontificio consiglio del dialogo interreligioso con quella per la cultura, nominando il cardinale Paul Poupard presidente di ambedue i consigli, rivelano la strategia di Benedetto XVI per il prosieguo di questo dialogo interreligioso: contraddistinta sia dalla condivisione di una ragione comune aperta al trascendente, che dalla comune esperienza di Dio presente nelle varie religioni.

Il gesto inizialmente non previsto, e che si è rivelato assai significativo, di sostare in preghiera nella Moschea blu, durante il pellegrinaggio in Turchia (28.11-1.12.2006), ha evidenziato come il Papa di Roma e il Gran Muftì dì Istanbul credono nell’unico Dio, pur comprendendolo in maniera differente. Già nel secolo XI papa Gregorio VII, rivolgendosi all’emiro Hammadid an-Nasir, gli ricordava che «tu e noi crediamo e confessiamo un solo Dio, anche se in modo diverso, e quotidianamente lodiamo e veneriamo Lui, come Creatore dei mondi e Sovrano di questo mondo».

* docente alla Pontificia facoltà teologica di Napoli, sez. San Luigi

(da Vita pastorale n. 2, 2007)

Bibliografia

Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, “Dialogo e annuncio”, in Il Regno Documenti, 36, 1991, pp. 464-477 Congregazione per la dottrina della fede, Dominus Jesus, EDB 2000, Bologna, Commissione teologica internazionale, “Il cristianesimo e le religioni”, in La civiltà cattolica 1997/I pp. 146 183 Cozzi A , “Le religioni nel Magistero post-conciliare Problemi ermeneutici”, in Teologia, 28 (2002), pp. 267-309; Coda P.. (ed,), L’unico e i molti, la salvezza in Gesù Cristo e la sfida del pluralismo, Mursia-PUL 1997, Roma.

Riflettendo sulla Dichiarazione Conciliare
Nostra Aetate

Mutua conoscenza e stima tra le religioni

di Dario Vitali *

La dichiarazione ebbe un cammino tormentato e quattro redazioni. E’ ormai assodato che fu papa Giovanni XXIII a volere una rivisitazione del rapporto con gli ebrei. Da qui al riconoscimento del valore delle altre religioni il passo fu obbligato. Attualissime le brevi affermazioni sul dimenticare il passato e la mutua comprensione con i musulmani.

Parlare della Nostra aetate è toccare uno dei temi più delicati e sensibili del discorso teologico, che hanno suscitato un dibattito aspro e appassionato al Concilio, in aula e fuori. Si tratta, infatti, di una delle tre dichiarazioni (accanto alla Gravissimum educationis sull’educazione cristiana e alla Dignitatis humanae sulla libertà religiosa) che ha conosciuto un percorso tormentato prima di giungere alla sua definitiva promulgazione, il 28.10.1965.

La redazione definitiva

Nella sua redazione definitiva il testo si presenta in cinque numeri, che affrontano il tema delicatissimo delle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane a partire da una prospettiva universalistica (2) per terminare, dopo un breve accenno alla religione musulmana (3), alla relazione con l’ebraismo (4), inquadrate in un’introduzione che fissa i motivi della dichiarazione, e in un numero conclusivo sulla fraternità universale.

Chiarissima l’intenzione, espressa anche nel titolo, tutt’altro che occasionale: «Nel nostro tempo, in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno e cresce l’interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa esamina con maggior attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non-cristiane». Il motivo è certamente contestuale: il progresso tecnologico e lo sviluppo economico hanno portato a un’interdipendenza tra i popoli che ha moltiplicato anche i punti di contatto tra le religioni. E però il fenomeno contestuale ha fatto emergere una ragione più profonda di questo necessario avvicinamento alle altre religioni, certamente non praticato in precedenza, quando le società erano sistemi chiusi: «Nel suo dovere di favorire l’unità e la carità tra gli uomini, anzi tra i popoli, essa esamina qui per prima cosa quello che gli uomini hanno in comune e che li spinge all’alleanza».

E’ questa la cornice in cui viene inscritto l’accostamento della Chiesa alle religioni non-cristiane, dal momento ché la dichiarazione si conclude con il rimando alla fraternità universale. Nell’introduzione, infatti, si dice che «tutti i popoli costituiscono una sola comunità», avendo in Dio la loro unica origine e il loro fine ultimo; questo fatto fonda la condanna finale di «qualsiasi discriminazione tra gli uomini e persecuzione perpetrata per motivi di razza o di colore, di casta o di religione», e l’esortazione ai cristiani «perché “la loro condotta tra i pagani sia irreprensibile” (1Pt 2,12) e se possibile, per quanto questo dipende da loro, vivano in pace con tutti, per essere realmente figli del Padre celeste».

All’interno di questa grande inclusione, la ,dichiarazione affronta il rapporto della Chiesa con le religioni non cristiane. La presentazione avviene secondo un movimento per cerchi concentrici sempre più circoscritti, in una specie di restringimento progressivo dell’obiettivo che fissa il rapporto della Chiesa con le religioni secondo un criterio di prossimità progressiva.

Il primo rapporto, illustrato al n. 2, è con le religioni che si possono ricollegare al senso religioso dell’uomo. Sotto questa caratterizzazione vengono elencati l’induismo, il buddismo e «le a!tre religioni che si trovano nel mondo intero, [le quali] si sforzano di superare in vari modi l’inquietudine del cuore umano, proponendo delle vie, cioè delle dottrine, dei precetti di vita e dei riti sacri».

«La Chiesa cattolica», afferma la dichiarazione, «non rigetta nulla di quanto c’è di vero e di santo in queste religioni», anzi guarda «con sincero rispetto a quei sistemi di agire e di vivere, a quei precetti e a quelle dottrine che, sebbene differiscano in molti punti da ciò che essa crede e propone, tuttavia non di rado riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini», e invita i suoi figli perché «riconoscano, conservino e promuovano quei beni spirituali e morali e quei valori socio-culturali che in essi si trovano». Senza che questo possa mai precludere l’annuncio di Cristo, «nel quale gli uomini trovano la pienezza della vita religiosa».

Il passaggio successivo, scarno fin quasi alla laconicità, asserisce che «la Chiesa guarda con stima anche i musulmani», e cerca in quella religione i punti di contatto con la fede cristiana: la fede nell’unico Dio, il fatto che egli si sia rivelato, la storia della salvezza, la venerazione di Gesù come profeta, l’onore reso a Maria, la vita morale, il giudizio finale. Si. percepisce un discorso ancora embrionale, dovuto all’evidente difficoltà di coniugare due sistemi per secoli estranei e anche antagonisti.

E, tuttavia, la dichiarazione formula una presa di posizione che oggi suona profetica: «Se nel corso dei secoli non pochi dissensi e inimicizie sono sorti tra cristiani e musulmani, il sacrosanto Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e a promuovere insieme, per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà» (3).

Sui giudei

Ma il rapporto a cui la dichiarazione si applica con più cura, con un testo assai denso e articolato che da solo è più ampio dei due numeri precedenti messi insieme, è quello «con la stirpe di Abramo» (4). Mentre il riferimento alle altre religioni appare come l’accostamento di due mondi diversi, qui il testo conciliare si apre con un «mysterium ecclesiae perscrutans», che rivela come «il vincolo» tra il popolo del Nuovo Testamento e la stirpe di Abramo è costitutivo della natura stessa della Chiesa: «Gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già nei patriarchi, in Mosè e nei profeti»; tutti i fedeli di Cristo sono anche figli di Abramo secondo la fede, e la salvezza del nuovo popolo di Dio «è misteriosamente prefigurata nell’esodo del popolo eletto»; la rivelazione dell’Antico Testamento proviene dal popolo dell’alleanza.

Per cui la Chiesa «si nutre della radice dell’ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell’ulivo selvatico che sono i popoli pagani», gli uni e gli altri riconciliati mediante la croce di Cristo. D’altronde, è un fatto che a Israele «appartengono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legge, il culto, le promesse, i patriarchi: da essi proviene Cristo secondo la carne» (Rm 9,4-5) come pure gli apostoli e i membri della comunità primitiva. In forza della irrevocabilità delle promesse, gli ebrei sono cari a Dio, anche se non hanno riconosciuto in Gesù il Messia e non hanno accettato il Vangelo.

Si tratta qui di un primo livello di risposte le quali conducono a una prima forma di responsabilizzazione: «Poiché dunque è così grande il patrimonio spirituale comune a cristiani ed ebrei, questo sacro Concilio vuole favorire e raccomandare la mutua conoscenza e stima l’uno dell’altro, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con il dialogo fraterno».

La seconda questione riguarda l’accusa di “deicidio” attribuita a quelli che, nella liturgia del Venerdì Santo, venivano bollati come perfidi iudaei, indicata come causa dell’antisemitismo montato fino alla tragedia dei campi di sterminio nazisti durante l’ultima guerra mondiale.

Il testo è formulato con la massima cautela: «E se le autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi, né agli ebrei del nostro tempo. E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli ebrei tuttavia non devono essere presentati né come rigettati da Dio, né come maledetti, come se ciò scaturisse dalla Sacra Scrittura. Pertanto tutti, nella catechesi e nella predicazione della parola di Dio, facciano attenzione a non insegnare alcunché che non sia conforme alla verità del Vangelo e dello spirito di Cristo. La Chiesa, inoltre, che esecra tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio che essa ha in comune con tutti gli ebrei e spinta non da motivi politici ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette conto gli ebrei in ogni tempo e da chiunque».

D’altronde, conclude il paragrafo, Cristo «si è volontariamente sottomesso alla sua passione e morte a causa dei peccati di tutti gli uomini, affinché tutti conseguano la salvezza. Il dovere della Chiesa, nella sua predicazione, è di annunciare la croce di Cristo come il segno dell’amore universale dì Dio e come la fonte di ogni grazia» (4).

L’iter della dichiarazione

Anche a una prima lettura si avverte il carattere composito del testo, frutto di tante stesure e rimaneggiamenti. Quello definitivo, infatti, costituisce la quarta redazione di un testo che ha conosciuto un iter complesso e non sempre lineare e che aveva nel numero sui rapporti della Chiesa con gli ebrei il nucleo iniziale, come dimostra anche la sproporzione del n. 4 rispetto agli altri numeri della dichiarazione.

La prima redazione risale alla fase preparatoria al Concilio. Infatti, il Segretariato per l’unità dei cristiani aveva ricevuto il compito di approntare uno schema De iudaeis, che contenesse una condanna esplicita dell’antisemitismo. Il testo nasceva probabilmente da una richiesta dello stesso Giovanni XXIII, il quale, dopo l’incontro del giugno 1960 con Jules Isaac, rappresentante del Consiglio mondiale ebraico, si era convinto della necessità di una presa di posizione della Chiesa sull’antisemitismo: la scelta poteva avere anche un risvolto apologetico per le accuse rivolte alla Chiesa di essere all’origine dell’antisemitismo con la sua predicazione sui giudei “deicidi” e di non aver fatto tutto quello che era possibile per contrastare l’Olocausto durante la seconda guerra mondiale. In questa direzione, già nel 1959 Giovanni XXIII aveva espunto dalla liturgia del Venerdì Santo il riferimento ai “perfidi giudei”.

Nel 1962 il testo era pronto e conteneva l’affermazione delle radici giudaiche della Chiesa e la condanna dell’antisemitismo. Ma le resistenze all’argomento non tardarono a farsi sentire, dentro e fuori la Chiesa. Nella stessa commissione preparatoria furono avanzate riserve: le ragioni dell’ostilità al documento furono esplicitamente rappresentate dal cardinale Cicognani, il quale dichiarava che il testo non rientrava tra gli scopi del Concilio e lo qualificava come superfluo (perché allora non un documento anche sui musulmani? - domandava il presule) e troppo esposto a strumentalizzazioni politiche di parte. In effetti, già era in atto un’aspra contestazione dei Paesi arabi .per la presenza a Roma di un funzionario dello Stato ebraico in rappresentanza del Consiglio ebraico mondiale, che aveva attirato sul Vaticano l’accusa di favoritismo nei confronti di Israele.

Il fatto che lo schema De iudaeis venisse ritirato dall’agenda conciliare sembrò sancire la fine della questione. Che tuttavia venne ripresa dallo stesso Giovanni XXIII - il quale, peraltro, era stato sollecitato sull’argomento dal cardinale Bea, presidente del Segretariato per l’unità dei cristiani - e inserita, per esplicita indicazione del Papa, nello schema sull’ecumenismo, di cui avrebbe costituito il capitolo quarto, così titolato: “L’atteggiamento dei cattolici di fronte ai non cristiani e in particolare agli ebrei”.

Secondo questa impostazione, il testo fu presentato in aula durante la seconda sessione sotto il pontificato di Paolo VI. Il capitolo si componeva di 42 righe, quasi interamente dedicate all’ebraismo, dopo una breve introduzione sulle religioni in genere. In negativo, la relazione del cardinale Bea chiariva che il testo non concerneva il riconoscimento politico dello Stato d’Israele; in positivo, dichiarava che la questione trattata era di carattere esclusivamente religioso e la sua finalità era di chiarire come la Chiesa sia, in un certo senso, «una continuazione di Israele».

Importanza del documento

La necessità del testo - contestato da molti Padri conciliari - poggiava sul fatto che la Chiesa, direttamente o indirettamente, fosse accusata di aver ispirato e fomentato l’antisemitismo: «La ragione è che già da più decenni il cosiddetto antisemitismo infuriava in varie regioni e nella forma più violenta e criminosa, soprattutto in Germania, sotto il regime nazionalsocialista, il quale per odio contro gli ebrei perpetrò delitti spaventosi, eliminando più milioni di ebrei. (…) Non che l’antisemitismo, soprattutto quello del nazionalsocialismo, abbia attinto la propria ispirazione dalla dottrina della Chiesa, cosa che non regge affatto. Si tratta piuttosto di eliminare alcune idee che, forse per effetto di quella propaganda, rimangono ferme nell’animo dei cattolici». Certamente era un’illusione pretendere che la questione rimanesse circoscritta all’ambito soltanto religioso, e risultava debole l’affermazione di una sostanziale estraneità della Chiesa all’antisemitismo, di fatto non affrontando quel pregiudizio antigiudaico che è stato una costante della cristianità lungo tutto l’arco della sua storia. Né basterebbe asserire che la preclusione era un sentimento diffuso in tutta la società, dal momento che si trattava di una società cristiana, formata e regolata dalla predicazione della Chiesa.

Comunque sia, l’impostazione apparve riduttiva a molti; e se i vescovi delle Chiese orientali continuavano a sostenere l’inopportunità di una dichiarazione sugli ebrei mentre infuriava lo scontro con il mondo arabo e si ingigantiva la questione palestinese, molti altri chiesero di allargare effettivamente la trattazione a tutte le religioni non cristiane.

In merito ai contenuti, si osservò pure che la questione - come quella sulla libertà religiosa, che costituiva il capitolo V - risultava estranea allo schema De Oecumenismo, per cui il capitolo venne estrapolato e costituì la base per un documento autonomo, diviso in due parti, la prima sul tema dell’antisemitismo, la seconda sulle altre religioni.

Il documento fu presentato in aula durante la quarta sessione: per la risonanza avuta presso l’opinione pubblica - almeno così argomentava il cardinale Bea nella relatio - era impensabile togliere la dichiarazione dal programma conciliare. La discussione in aula fu aspra e andò dalla richiesta di ribadire la tesi del “deicidio” all’assunzione di responsabilità da parte della Chiesa per aver alimentato un atteggiamento antigiudaico.

Una commissione del Segretariato per l’unità dei cristiani, dopo la discussione, provvide non senza difficoltà a redigere celermente un testo in cinque punti, che prevedeva, appunto, un riferimento all’origine e al fine comune dell’umanità, alle religioni non cristiane, all’islamismo, all’ebraismo, per concludere con la condanna di ogni forma di discriminazione. Era lo schema che, con alcune correzioni, arriverà alla promulgazione finale. In aula, il cardinale Bea evocò in un’ulteriore relatio l’immagine evangelica del granello di senape, per lo sviluppo del documento, nato come una dichiarazione di condanna dell’antisemitismo e diventato un albero in cui trovavano posto tutte le religioni. Le votazioni sul documento furono lontane dall’unanimità. Vennero avanzate ancora riserve, prese in considerazione per la redazione ultima della dichiarazione, definitivamente approvata con 2.221 voti favorevoli e 88 contrari.

Se l’immagine del granello di senape evocato dal cardinale Bea non sembra corrispondere all’iter così tormentato della dichiarazione, e alla sua formulazione ancora esitante, non omogenea nelle parti e acerba in alcuni passaggi, si può comunque parlare di una novità assoluta nell’atteggiamento della Chiesa. Nell’arco di cinque anni si era passati da un’ipotetica dichiarazione di condanna dell’antisemitismo all’elaborazione teologica del rapporto della Chiesa con .le religioni non cristiane, nel quadro dell’universale volontà salvifica di Dio. Si trattava di un passaggio enorme, in linea con l’ecclesiologia di comunione e con l’apertura al dialogo nei confronti del mondo, che il Concilio aveva formulato nei documenti maggiori, soprattutto nella Lumen gentium e nella Gaudium et spes. Sta qui il punto di partenza di un dibattito intensissimo e pieno di tensioni, quello sul pluralismo religioso, che nel post-concilio conoscerà uno sviluppo incredibile.

* professore di ecclesiologia alla Pontificia università gregoriana di Roma

(da Vita Pastorale n. 2, 2007)

Bibliografia

Per un approfondimento della Nostra aetate il testo più accessibile è Stefani P. Chiesa ebraismo e altre religioni, Padova 1998: un approccio storico in Alberigo G.,Storia del concilio Vaticano II, I-V, Bologna 1995.2001; vale la pena di rileggere il testo del cardinale Bea, alla cui azione si deve di fatto la Dichiarazione Bea A., La Chiesa e il popolo ebraici, Brescia 1966.

Maria nel dialogo tra le Chiese

di Mons. Francesco Pio Tamburrino OSB
Arcivescovo di Foggia

“Questione mariana”

Maria, la madre di Gesù, nell’inno di lode che rivolge a Dio, suo Signore e Salvatore, esprime il presagio di una ininterrotta benedizione da parte di tutte le generazioni dell’umanità: «D’ora in poi tutte le generazioni mi diranno beata» (Lc 1,48). Nel Nuovo Testamento il verbo makarìzein e suoi derivati sì riferiscono alla «singolare gioia religiosa che viene all’uomo dalla partecipazione alla salvezza del regno di Dio» (1). La lode, per Maria, sarà sempre lo stupore umano di fronte alla grandezza di ciò che il Potente ha compiuto in lei, compiacendosi della umiltà (tapeinosis) della sua serva.

«Questa direzione verticale della sua lode non impedisce a Maria di definire la sua esatta posizione nel piano di Dio: - ella è la serva del Signore (cfr Lc 1,38), in una situazione di bassezza (tapeinosis); - tuttavia sarà riconosciuta beata (makariousin me) d’ora in poi da tutte le generazioni» (2).

A partire dalla autocoscienza che Maria manifesta nel Magnificat , sono possibili due accentuazioni differenti e complementari: la «direzione verticale», che esalta il Nome santo di Dio e la sua fedeltà; la «direzione orizzontale», che prende in considerazione Maria nel piano di Dio, la salvezza (ta megàla) operata in lei in favore di Israele e di tutte le generazioni umane.

Oggi la cristianità è divisa. La stessa lode di Maria nelle Chiese non riflette soltanto il legittimo pluralismo, cui il Magnificat fa da preludio e il Nuovo Testamento documenta più ampiamente, ma assume termini antitetici e alternativi.

Va detto subito che la divisione nelle mariologie delle Chiese non è nella persona di Maria, né in ciò che il Nuovo Testamento testimonia di lei. Da parte sua c’è stata solo la volontà di servire il Signore nel singolare compito di generare al mondo il Salvatore e di accompagnarlo nella sua missione mediante la fede e la sottomissione. Maria, nella sua funzione voluta da Dio e nel suo servizio, non è fonte di divisione, bensì di benedizione e di unità. Eppure ella, nella storia delle Chiese cristiane, soprattutto degli ultimi quattro secoli, è divenuta parte del contenzioso teologico, per cui oggi si parla di «questione» e di «problema» mariano. Anzi, il tema mariano sembra essere - nel dialogo ecumenico - uno degli argomenti che suscitano le reazioni e le emozioni più vivaci, capace di coinvolgere altri valori legati all’essenza della fede cristiana. Kenneth S. Kantzer, ad esempio, confessa la sua perplessità nel constatare come questa figura di donna venga sempre più «gonfiata», fino ad assumere aspetti di intollerabile idolatria. «Agli occhi dei protestanti la Chiesa cattolica promuove una pietà mariana che può essere solo definita idolatra» (3). D’altra parte, ortodossi e cattolici rimproverano ai protestanti di ignorare Maria, di non riconoscerle il posto che le compete e, dal punto di vista teologico, il compito unico che ha svolto nella storia della salvezza. Non è assurdo che, pur facendo parte in forza del battesimo di una unica Chiesa e pur essendo tutti credenti in Cristo, proprio sua madre ci divida (4)?

La divisione su Maria si situa sul versante delle teologie, che le Chiese hanno sviluppato nel corso della storia cristiana, delle esegesi bibliche che hanno prodotto, delle ecclesiologie differenti che contraddistinguono le loro coscienze. Sta di fatto che oggi le Chiese divise non sono in grado di proferire «con una sola voce» la lode che Maria presagiva nel popolo dei credenti.

Nel movimento ecumenico ufficiale il tema mariano non è stato ancora affrontato, forse perché finora è stato ritenuto marginale rispetto ad altri argomenti più urgenti e radicali. Solo singoli teologi o gruppi ristretti di ricercatori ne hanno fatto l’oggetto di colloqui interconfessionali (5).

Il tema mariano potrebbe essere studiato illustrando le posizioni delle varie Chiese al riguardo (6). Questa via, per sé legittima, sembra improduttiva, perché «un ecumenismo spaziale tende, direi, per sua natura, verso l’integrismo, verso la riaffermazione delle rispettive posizioni che, pur ripetute, ad un dato momento si scontrano» (7).

Preferisco situare il problema nella sua essenzialità, seguendo un taglio sistematico-teologico dei diversi livelli in cui si pone la «questione mariana».

Il punto di partenza: la Scrittura

La persona di Maria, nella sua essenza, nella sua funzione e missione, è tutta nelle Sacre Scritture e nella storia di salvezza, che hanno come punto centrale la persona e la missione di Gesù. Maria vi appare con discrezione e umiltà, ma anche in un ruolo unico di Vergine che genera miracolosamente il Salvatore del mondo, di credente, di serva del Signore, di povera per eccellenza, sempre disponibile a cogliere e servire i desideri di Dio e degli uomini. Un aspetto profondamente biblico, che ricollega Maria ad Abramo e ai grandi personaggi della storia della salvezza, messo in luce particolarmente dalla esegesi protestante, è la fede tentata di Maria.

«La lettura attenta delle Scritture ci dà una immagine succinta, ma impregnata di una fede semplice, turbata ma trionfante, nella persona di Maria. Dall’Annunciazione alla Natività, attraverso l’infanzia e la maturità di Gesù, fino alla sua crocifissione e alla risurrezione, e anche nella prima comunità cristiana, Maria è un esempio e uno stimolo della fede in Gesù il Cristo» (8).

René Laurentin ha osservato che, mentre al secolo XVI la discrezione del Nuovo Testamento su Maria indusse i protestanti a rinunciare ad ogni mariologia e i cattolici a sviluppare una mariologia parascritturistica, oggi «i protestanti ritrovano Maria mediante la Scrittura, mentre i cattolici ritrovano Maria nella Scrittura» (9).

Il confronto ecumenico sui testi biblici relativi a Maria è, senza dubbio, il primo e fondamentale passo verso una convergenza teologica. Tuttavia non va sottovalutato il fatto inevitabile che anche nell’esegesi è difficile liberarsi dalla forma mentis e dalla conoscenza precedente (Vorveständnis) confessionale, che si rivela nella preferenza e nell’insistenza su determinati temi e testi, piuttosto che su altri.

A questo si aggiunge, come per altre differenze nelle tradizioni confessionali (10), che lo stesso Nuovo Testamento non presenta la Madre di Gesù in modo uniforme e armonioso: la diversità di accentuazioni è già presente negli scritti neotestamentari. Giustamente in una ricerca interconfessionale, condotta negli Stati Uniti tra cattolici e luterani, si osserva: «Se le Chiese oggi non sono d’accordo nel valutare Maria, non è soltanto perché hanno tratto differenti conclusioni intorno agli sviluppi postneotestamentari, ma anche perché hanno dato enfasi differente ai diversi elementi che si trovano nello stesso Nuovo Testamento» (11).

Anche per la dottrina mariana, anzi per essa in modo del tutto speciale - affermata l’autorità sovrana della Scrittura come «norma non normata» della fede cristiana - si pone il problema del rapporto tra Scrittura-Tradizione-Chiesa. Il tradizionale dissenso sulle fonti della rivelazione («sola Scrittura» per i protestanti, Scrittura-Tradizione per gli ortodossi e i cattolici) si va smorzando ed è stato riformulato così dalla (Conferenza ecumenica di Fede e Costituzione a Montreal nel 1963:

«Il nostro punto di partenza è il fatto che viviamo tutti in una tradizione che si rifà al nostro Signore, e affonda le sue radici nell’Antico Testamento, e siamo tutti in debito con quella tradizione nella misura in cui abbiamo ricevuto, attraverso la sua trasmissione da una generazione all’altra, la verità rivelata, il Vangelo. Per questo possiamo dire che esistiamo, come cristiani, per mezzo della Tradizione del Vangelo (la paradosis del kerygma) testimoniata nelle Scritture, trasmessa dentro e per mezzo della Chiesa mediante la potenza dello Spirito Santo. La Tradizione presa in questo senso si realizza nella predicazione della Parola, nell’amministrazione dei sacramenti, nel culto, nell’insegnamento, nella teologia, nella missione e nella testimonianza a Cristo attraverso la vita dei membri della Chiesa.

Ciò che viene trasmesso nel processo della tradizione è la fede cristiana, non soltanto come una somma di principi, ma come una realtà vivente trasmessa attraverso l’opera dello Spirito Santo. Possiamo parlare della Tradizione (con la «T» maiuscola) cristiana, il cui contenuto è la rivelazione di Dio e il suo donarsi in Cristo, presente nella vita della Chiesa.

Ma questa Tradizione, che è l’opera dello Spirito Santo, è incorporata nelle tradizioni (nei due sensi della parola, intendendo sia la diversità nelle forme di espressione, sia le tradizioni confessionali). Le tradizioni nella storia cristiana, sono distinte dalla Tradizione, eppure ad essa collegate. Esse sono le espressioni e le manifestazioni in forme storiche diverse, dell’unica verità e realtà che è Cristo» (12).

Nel caso specifico della mariologia si evidenzia in maniera emblematica il modo diverso di concepire il rapporto fra Scrittura e Tradizione nelle Chiese. Per i cristiani della riforma, per i quali «la Tradizione coincide con la rivelazione in Cristo e la predicazione della Parola, affidata alla Chiesa ed è espressa in diversi gradi di fedeltà, in varie forme condizionate dalla storia, cioè dalle tradizioni» (13), il circolo resta più chiuso e le possibilità di sviluppo dottrinale non oltrepassano di molto il compito della esegesi biblica. Si spiegano allora le perplessità, nel mondo protestante attuale, di ritenere legittimo il titolo di Teotòcos (in latino deipara, colei che ha generato Dio).

«L’espressione «Madre di Dio» si è rivelata particolarmente inaccettabile dai protestanti. Come può, si afferma, una donna di carattere finito essere madre di una persona di carattere infinito?» (14).

Situato nel contesto storico in cui tale titolo è stato formulato (Concilio di Efeso del 431), esso non è un titolo mariano, ma cristologico, inteso ad affermare la qualità di Figlio di Dio inseparabilmente unito alla natura umana dal momento del suo concepimento nel seno di sua madre.

«Maria, nella tradizione cristiana, garantisce l’umanità di Gesù, la realtà della sua vita sulla terra, l’autenticità del dubbio e delle tentazioni che egli ha conosciuto» (15).

Il Nuovo Testamento riporta sulla bocca di Elisabetta il titolo di Maria come «Madre del Signore». L’esegeta minimalista vi scorge solo una lode alla madre del Messia. L’espressione, per quanto poderosa, non sarebbe da intendere nel senso di una confessione di fede nel figlio di Maria come Figlio di Dio (16). È legittimo tuttavia chiedersi se l’intuizione di Elisabetta, «piena di Spirito Santo» (Lc 1,41) non sia sconfinata oltre il semplice riconoscimento del Messia. «Per Luca solo lo Spirito può operare la conoscenza di Gesù come Figlio di Dio» (17). A questo si aggiunge la probabilità che l’evangelista-redattore abbia caricato di un colore post-pasquale e della fede della comunità primitiva l’appellativo di Gesù come Signore (Kyrios).

Il Concilio di Efeso ha inteso collocarsi in continuità con la fede della Chiesa apostolica quando, in una situazione dottrinale diversa da Luca, intende dare lo stesso contenuto dogmatico alle due espressioni della maternità di Maria: «la madre del Signore» di Elisabetta è «la madre di Dio», madre umana del Cristo, vero Dio e vero uomo secondo l’assemblea efesina (18).

C’è poi un altro settore che la riflessione biblica su Maria deve tenere presente ed è quello che René Laurentin chiama «un complesso di suggerimenti» (19) che emergono dal rapporto vivente tra i testi mariani neotestamentari fra di loro e con il resto della Scrittura (20). I riferimenti all’Antico Testamento nei detti e fatti di Maria, espliciti o in filigrana, fanno parte integrante della figura biblica della Madre di Cristo.

Il punto di arrivo: Maria nelle Chiese

A venti secoli di distanza da «Maria nella storia» i cristiani si trovano divisi su «Maria nella fede». Come in altri settori della teologia (sacramenti, ministero ordinato, Scrittura-Tradizione, culto dei santi), si sono formati durante i secoli due poli di concentrazione: da una parte si ritrovano in sostanziale accordo le Chiese orientali (precalcedonesi e ortodosse) e la Chiesa cattolica; dall’altra le Chiese e Confessioni nate o ispirate dalla Riforma del secolo XVI.

Nelle Chiese orientali e cattolica, soprattutto a partire dai grandi dibattiti cristologici dei primi secoli, la comprensione teologica di Maria venne trasferita nel culto liturgico e nella pietà. Si può affermare che, tuttora, se si vuole cogliere il significato più completo e vitale di Maria nel ministero di Cristo e della Chiesa, per la cristianità orientale e cattolica, si deve far ricorso alla liturgia.

Nel contesto cultuale, la madre del Signore vi appare nella sua esatta posizione storico-salvifica: il centro del culto è Dio uni-trino; il sacerdote della nuova alleanza e unico mediatore è Cristo; colui che rende efficace e attuale il memoriale delle opere salvifiche di Dio è lo Spirito. Alla celebrazione della storia della salvezza sono presenti tutti i personaggi dell’Antico e Nuovo Testamento e della Chiesa, da Abele il giusto fino all’ultimo battezzato, che Dio ha voluto associare alla sua opera. Maria vi è presente in prima fila.

Nella concezione del culto ci imbattiamo nella questione che divide i riformati dai cattolici e ortodossi, se, cioè, Maria e i santi debbano entrare e in che modo nella preghiera cristiana.

La norma della Chiesa antica (Concilio di Ippona del 393) di rivolgere la preghiera liturgica a Dio Padre per Gesù Cristo nello Spirito è osservata nella liturgia di tutte le Chiese. Nella liturgia romana si trovano pochissimi elementi, in genere di carattere lirico (inni, antifone) diretti a Maria e ai santi (21). La liturgia bizantina (22) e delle Chiese orientali (23) danno maggiore spazio di quella romana alla preghiera diretta a Maria. Spesso hanno forma di saluto (chairetismòs), che riecheggia quello dell’angelo nell’Annunciazione (Lc 1,28). In generale tali elementi sono marginali e non deformano il carattere teocentrico della liturgia. Il problema si pone invece per le forme di pietà mariana extraliturgica, ove Maria sembra tenere il posto centrale della preghiera e della devozione.

Sono presenti gli eletti di sempre [...].Non si tratta della preghiera per i defunti; la Riforma l’ha respinta a causa della mercantilizzazione della soteriologia che era stata favorita dal Medioevo occidentale; si tratta della preghiera con i vivi di dovunque e di sempre» (24)

Prendendo in esame e raffrontando la mariologia cattolica del Vaticano II e quella protestante, W.A.Quanbeck ha osservato che c’è una commemorazione dei santi vera e giusta nella Chiesa antica.

La preghiera biblica ammette che il credente possa far «memoria» a Dio non solo della sua alleanza, ma anche delle promesse e dell’amore dimostrato a Davide (I Re 8; sal 132,1: «Ricordati, Signore, di Davide, di tutte le sue prove»). Il Padre di Gesù Cristo è «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe» (I Re 18,36, ecc.), «un Dio non dei morti ma dei viventi» (Mc 12,27).

Sembra giunto il momento in cui le Chiese si possono fruttuosamente consultare, sul culto, sulla spiritualità e sulle forme espressive della devozione mariana e dei santi, per eliminare quanto è contrario alla fede cristiana, ma anche per discernere e rispettare quelle diversità e accentuazioni confessionali che sono legittime.

Bisogna riconoscere che, da parte cattolica, fanno ancora ostacolo le esagerazioni delle devozioni popolari e anche la tendenza di certi teologi a non considerare la mariologia in stretto nesso con la cristologia e l’ecclesiologia.

Nell’ambito della riflessione teologica, sia nel presentare la propria fede, sia nel valutare quella degli altri, va tenuto presente il criterio della «gerarchia della verità».

Il Concilio Vaticano II ammonisce i teologi cattolici in questi termini: «Nel mettere a confronto le dottrine si ricordino che esiste un ordine e gerarchia nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso con il fondamento della fede cristiana» (26).

Le verità del cristianesimo non possono essere semplicemente giustapposte o allineate nell’orizzonte piatto di una successione.

«Non tutto si presenta sul medesimo piano, tanto nella vita di tutta la Chiesa che nel suo insegnamento; certo, tutte le verità rivelate esigono la stessa adesione di fede; ma, secondo la maggiore o minore relazione prossima che hanno rispetto al fondamento del mistero rivelato, esse stanno in posizioni diverse le une di fronte alle altre e in rapporti differenti tra di loro» (27).

Il legittimo pluralismo può spingersi anche in altre direzioni; e sono «la diversa enunciazione delle dottrine teologiche», «i metodi e i cammini diversi per giungere alla conoscenza e alla confessione delle cose divine», e perfino uno sviluppo dogmatico differente «di alcuni aspetti del mistero rivelato, percepiti in modo più adatto e posti in migliore luce dall’uno che non dall’altro» (28). Questa osservazione del Vaticano Il riguarda direttamente gli Orientali, ma può estendersi anche alle Chiese della riforma.

In molti casi le formule teologiche si rivelano complementari, ma - non bisogna negarlo - talvolta estranee o opposte tra di loro (29). In questa zona si situano i dogmi cattolici della Immacolata Concezione e l’Assunzione di Maria. Nel prossimo futuro sarà compito della Chiesa cattolica rendere conto della fede che è in lei di fronte agli ortodossi e ai protestanti, utilizzando una accurata ermeneutica dei suoi dogmi, tenendo conto dell’apporto della scienza e del linguaggio, della antropologia e delle recenti escatologie (30).

Conclusione

Se esiste dissenso è divisione sulla figura di Maria, essi non sono dovuti alla sua persona, né al suo rapporto con Cristo, di cui è stata madre e serva fedele. Maria non ha creato partiti nella chiesa apostolica e tra i primi discepoli di Gesù (cfr 1Cor 3,4 ss). La divisione è nella storia successiva e nella teologia delle Chiese storiche.

Questo significa che riprendere la questione mariana in ambito ecumenico non può che giovare alla causa dell’unità. Maria, lasciata finora in disparte nei dialoghi ecumenici ufficiali, merita maggiore attenzione, perché il successo dei dialoghi in corso dipende anche dalle soluzioni che si daranno ai problemi posti dalla mariologia. Il serio rinnovamento teologico in atto sui temi della Scrittura-Tradizione, della ecclesiologia e della cooperazione umana alla salvezza permette una sutura delle lacerazioni.

Nella ricerca ecumenica su Maria, come del resto per ogni altro aspetto, bisogna evitare di fermarsi agli enunciati teologici astratti. La teologia sistematica non sempre è in grado di rendere conto del significato ultimo di ciò che afferma. La teologia deve essere riportata alla esperienza di fede nei suoi molteplici aspetti della vita ecclesiale perché si possa esprimere onestamente la fede, che essa è chiamata a servire. Il «vissuto» della fede dà alla teologia la dimensione che, in qualche modo, la completa e la rende più intelligibile. Per esemplificare: nelle Chiese in cui si apprezza la «verginità per il regno» e si pratica la vita monastica come carisma ecclesiale, più facilmente si recepisce nella teologia, il significato della verginità di Maria (31).

Il dialogo interconfessionale su Maria è possibile. Ma deve svolgersi a partire da ciò che unisce e non da ciò che divide. Ciò che unisce le Chiese su Maria non è il relitto superstite da un grande naufragio o il residuo salvato faticosamente dalla dissipazione reciproca delle divisioni. Esso è l’essenziale tenuto al sicuro da Dio, come seme e speranza di ua totale comunione di fede tra le Chiese

Note

(1) F. Hauck, Macàrios in Grande Lessico del Nuovo Testamento a cura di G. Kittel - G. Friedrich, tr. it., VI, Brescia 1970, 990.

(2) Luca, versione, introduzione e note di C. Ghidelli (Nuovissima versione della Bibbia, 35) Roma 1977, 65 -66.

(3) K. S. Kantzer, Maria, la madre di Gesù: c’è un’alternativa fra l’ignoranza e il divinizzarla? in Voce Evangelica 48 (1987n. 4,10).

(4) G. Cereti, Maria nel dialogo ecumenico, in AA. VV., Maria nella comunità ecumenica, Roma 1982, 21.

(5) Un gruppo di 23 teologi ortodossi, anglicani, riformati e cattolici nell’ VIII Congresso mariologico internazionale (ottobre 1979) arrivarono a redigere una dichiarazione sorprendente per la sostanziale convergenza su diverse questioni riguardanti Maria; il testo è pubblicato in Maria nella comunità ecumenica, 111-113. Di grande interesse sono i tre studi dei luterani T. Harjunpaa, P. Meinhold e W. Borowsky curati per il Centro di studi mariologici ecumenici di Superga (Torino) e pubblicati nel volumetto Maria ancora un ostacolo insormontabile all’unione dei cristiani? Torino 1970. Negli anni 1980-81 il Segretariato Attività Ecumeniche di Roma organizzò degli incontri interconfessionali su Maria. Le relazioni e le meditazioni sono contenute nel voI. Maria nella comunità ecumenica (v. nota 4) e rappresentano finora il migliore contributo delle Chiese italiane al dibattito su Maria.

(6) Così procede E. Geremia, Orientamento ecumenico del culto alla Vergine, in Testimoni nel mondo, n. 40, agosto 1981, 25-32.

(7) R. Bertalot, Come impostare un discorso ecumenico su Maria, in AA.VV., Maria nella comunità ecumenica, 13.

(8) W. A. Quanbeck, Le problème de la mariologie, in AA.VV. Le dialogué est ouvert, I, Neuchâtel 1965, 175.

(9) R. Laurentin, Compendio di mariologia, Il ed., Roma 1963, 50.

(10) Ad esempio, per l’ecclesiologia v. P. R. Tragan, Pluralismo ecclesiale nel Nuovo Testamento, in Servitium 20 (1986) 13-26.

(11) AA. VV.,Mary in the New Testament, Philadelphia New York 1978, 294.

(12) Scrittura, Tradizione e tradizioni, 45-47, in La Bibbia. La sua autorità e interpretazione nel movimento ecumenico a cura di E. Flesseman - van Leer; ed. it. a cura di R. Bertalot e I. Gargano, Leumann-Torino 1982-35.

(13) Scrittura, Tradizione e tradizioni, 57, in La Bibbia. La sua autorità, 39.

(14) K. 5. Kantzer, Maria, la madre di Gesù, 11.

(15) W. A. Quanbeck, Le problème de la mariologie, 176; cfr. W. Borowsky, incontro delle confessioni in Maria, in Maria ancora un ostacolo, 39- 40; M. Thurian, Maria madre del Signore immagine della Chiesa, tr. it., II ed.,Brescia 1969, 87-93.

(16) K. E. Rengstorf, Il vangelo secondo Luca, tr.it., Brescia 1980, 59. Di diversa opinione è M. Thurian, Maria madre del Signore, 88: «San Luca dà al titolo di Kyrios il suo significato divino. Cristo è Signore, egli è Dio».

(17) K. H. Rengstorf, il vangelo secondo Luca, 59. Ma è proprio Luca a menzionare la presenza illuminante dello Spirito!

(18) Sulla continuità tra la fede biblica e il dogma efesino si vedano i testi di Lutero e Zwingli riportati da M. Thurian, Maria madre del Signore, 90-93.

(19) R. Laurentin, Compendio di mariologia, 50.

(20) L’esegeta e il teologo nella ricognizione di questi aspetti meno evidenti devono usare maggiore prudenza. «Le interpretazioni allegoriche dei testi biblici hanno permesso ai Padri e agli scrittori medioevali di tradurre la loro comprensione della figura di Maria in una forma immaginosa, ma talvolta non forniscono alla riflessione teologica una base rigorosa»: P. Grelot, Marie, in Dict de spirit., 10, Paris 1977, 409. Al libro di M. Thurian, Maria madre del Signore (v. n. 15) in campo protestante si muove l’appunto che «le sue conclusioni sono eccessivamente basate sull’allegoria e non trovano [...] un supporto sufficiente al momento della verifica con i testi del Nuovo Testamento: R. Bertalot, Principali dati dottrinali circa Maria nella tradizione protestante, in Maria nella comunità ecumenica, 108.

(21) Si possono menzionare, a titolo di esempio, il Carmen Paschale II, 63- 38 di Sedulio: Salve, sancta Parens divenuto l’antifona di introito per alcune messe mariane; l’inno Ave, maris stella e le quattro antifone maggiori di compieta. Questi e altri testi devozionali sono arricchiti di melodie gregoriane di grande valore artistico: cfr il capitolo Notre Dame dans I‘art grégorien nel volume Les plus belles mélodies grégoriennes, comtnentées par Dom Gajard, Solesmes 1985, 231- 268.

(22) J. Nasrallah, Marie dans la Sainte et Divine Liturgie Byzantine, Paris 1954, 45-107. Tra i numerosi esempi di preghiere dirette a Maria basti ricordare l’inno acatisto e i numerosi theotokia aggiunti regolarmente alle dossologie.

(23) Il più antico esempio (papiro del III secolo) proveniente dall’ Egitto è il Sub tuum praesidium; cfr F. Mercenier, La plus ancienne prière à la Sainte Vierge, in Questions liturgiques etparoissiales 25 (1940) 33-36. Per la Chiesa copta v. G. Giamberardini, Marie dans la Liturgie Copte, Paris 1958. Nella Chiesa armena si fa uso del cap. 80 del Libro delle Lamentazioni di Gregorio di Narek: Preghiere armene, Milano 1978, 101-107 («supplicazione alla Vergine»): nel rito della messa l’introito per le feste mariane è diretto a Maria Liturgia della Santa Messa, Milano 1976, 19.

(24) J. J. von AIlmen, Celebrare la salvezza. Dottrina e prassi del culto cristiano, tr. it., Leumann-Torino 1986, 178-179.

(25) W. A. Quanbeck, Le pro blème de la mariologie, 175-176.

(26) Decreto Unitatis redintegratio, 11..

(27) Segr, per l’unione dei cristiani, Riflessioni e suggerimenti sul dialogo ecumenico, 4b.

(28) Decr. Unitatis Redintegratio, 17,

(29) Nell’area del dissenso rientrano quei titoli mariani che spettano propriamente a Cristo (mediatrice, corredentrice, ausiliatrice, consolatrice, avvocata, ecc). Per il protestantesimo sono titoli riservati alla Trinità. Per il cattolicesimo e l’ortodossia fanno parte del culto e delle devozioni. Tali titoli sono da intendere in senso molto subalterno e analogico. La prassi devozionale, tuttavia, non deve mai offuscare la centralità e la singolarità di Cristo.

(30) W. Borowsky, Incontro delle confessioni in Maria, si apre una pista di ricerca: i due dogmi mariani appartengono alla «Maria glorificata», che supera di molto la «Maria biblica». Borowsky suggerisce di leggerli come «colore religioso» dato alla figura di Maria, elaborato e cresciuto nel corso della storia, per cui «non toccano necessariamente il rapporto personale con Cristo né lo distruggono». Cfr anche R. Bertalot, Come impostare un discorso ecumenico su Maria, 14-15.

(31) cfr G. Westfal, Vie et foi du protestant, Paris 1966, 131-132. Si può osservare che nelle Chiese riformate ove stanno rinascendo esperienze di tipo monastico, cresce anche l’interesse per Maria. Alcune fondazioni hanno assunto nomi significativi, quali: Congregazione delle figlie di Maria (Danimarca); Sorelle evangeliche di Maria di Darmstadt (Germania); Suore di Maria, madre di Gesù (Svezia).

Venerdì, 25 Maggio 2007 01:54

L’infinita coscienza (Giovanni Vannucci)

L’infinita coscienza

di Giovanni Vannucci


In un’ora di grande intimità con i discepoli. Gesù domandò loro: «Cosa dice la gente che io sia?». Ed essi risposero: «Per qualcuno tu sei Giovanni il Battista, per altri Elia, per altri ancora un antico profeta tornato nella vita». «Ma voi chi dite che io sia?». Pietro prese la parola e disse: «II Cristo di Dio». Gesù proibì loro di dirlo ad alcuno. Quindi disse chi era lui stesso e chi sarebbero stati i suoi seguaci: «II Figlio dell’Uomo deve soffrire, venir riprovato, essere ucciso e risorgere il terzo giorno». Dopo aver descritto la sua realtà personale continua il discorso con delle affermazioni che, a prima vista, possono sembrare fuori contesto: «Chi mi vuol seguire, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua. Chi vuoi salvare la propria vita, la perde; chi la perderà, la salva» (cfr. Lc 9,18-24).

La sequela delle parole di Cristo è questa: proibizione ai discepoli di dire che egli è il Cristo, il Messia, il che equivale a un suo rifiuto di tale titolo; affermazione della sua sconcertante realtà: egli è colui che dovrà essere ucciso dalle autorità della sua terra, ma che risorgerà il terzo giorno; i suoi discepoli lo seguiranno nella sua paradossale via: faranno gettito, come lui, della propria vita al fine di possederla veramente.

Cristo nasce alla vera vita accettando la morte, il discepolo trova la vita gettandola allo sbaraglio. Quasi abbia detto: io sono il mistero della morte-risurrezione; voi, miei discepoli, siete chiamati a vivere il mio dramma di rinuncia alla vita per ritrovarla nella sua verità. Tenendo conto di questa novità di coscienza possiamo comprendere il motivo della proibizione di rivelarlo alla gente come il Cristo, il Messia.

La figura del Messia nella tradizione ebraica, e quindi nel pensiero dei discepoli, era quella di un condottiero con la corona e la spada, di un capo di eserciti, oppure - come una recente esegesi ama presentarlo - di un agitatore, di un ribelle poco fortunato. La proibizione ai discepoli di rappresentarlo come il Messia condottiero, e la descrizione che fa di se stesso: dovrò affrontare la morte per risorgere, vogliono dire che Gesù Cristo non ha alcun mezzo di azione fisica; se l’avesse, o se volesse servirsene, non sarebbe «colui che getta la propria vita per veramente possederla» (Lc 9, 24). L’episodio evangelico riportato in Lc 9, 18-24 è uno di quegli avvenimenti della vita di Cristo che rimangono eterni, nella successiva storia della coscienza umana. Egli è ancora, in questo momento, in mezzo a noi suoi discepoli e ancora continua a chiederci: «Chi dite che io sia?» (Lc 9, 20). E continua a proibirci di nominarlo con delle figure di potenza terrena: non dite che io sono il Messia trionfatore e guida di eserciti, prendete la vostra croce come io prendo la mia, gettate la vostra vita allo sbaraglio come io getto la mia, e comprenderete che io sono il senza Nome; ponete fine a tutte le designazioni potenti della mia realtà, comprenderete che con la mia venuta non inizia un nuovo regno terreno, ma un nuovo stato di coscienza, che distruggerà dalla vostra mente tutte le immagini acquisite del mistero divino e vi ricondurrà nell’infinita, incondizionata coscienza divina.

Nell’incontro personale con l’annuncio evangelico i nomi con cui viene designato sono relativi, spesso impropri, in quanto esprimono, accanto al mistero essenziale, delle proiezioni di coscienze non pienamente illuminate; ciò che invece ci attrae e ci rende inquieti è l’invito ad andare oltre, il necessario morire per rinascere in forme di coscienza sempre più vaste e in un continuo superamento dei limiti.

L’annuncio evangelico esige da noi un radicale cambiamento di coscienza, che, una volta iniziato, non si fermerà nel suo movimento di distruzione e di creazione finché non contempleremo faccia a faccia il mistero divino.

Dare un nome al mistero della Parola eterna incarnata in Gesù Cristo è limitarlo, solidificarlo, togliergli ogni energia vitale. La Parola incarnata è l’assoluta coscienza divina in atto, che nel mondo sensibile appare come energia che distrugge per creare, crea per distruggere, il cui moto si placherà quando tutto e tutti saranno ritornati nell’unità della prima sorgente. Anche la Risurrezione è la distruzione del corpo fisico di Gesù e il suo passaggio a una diversa dimensione, dove anche la carne è trasfigurata in una libertà che non conosce nei limiti delle cose sensibili.

Gesù Cristo è un Nome, anzi il Nome, il cui contenuto è di non poter essere espresso da nessun nome, la cui realtà ultima e inesprimibile costituisce il punto in cui convergono tutte le figure religiose e ove si depotenziano trasfigurandosi in lui. «Chi vede me, in questo rapporto essenziale, vede l’incommensurabile coscienza del Padre, e in essa vede anche il più ignorato dei fratelli nel suo valore esatto di creatura chiamata a raggiungere l’infinito di Dio».

Quando questa illuminazione, l’incontro con il mistero del Figlio di Dio e del Figlio dell’Uomo, si compie, scende nell’umana coscienza un’onda di vita esaltante, che distrugge quanto la mente ha formulato con le sue misure limitanti, quanto la nostra inerzia ha potuto costruire in dottrine, istituzioni, ripetizioni di riti e di preghiere, di false evidenze, di idolatrie, e, con anima piena e libera, possiamo contemplare l’innominabile realtà di Dio e del suo Cristo.


Giovanni Vannucci, «L’infinita coscienza», 12a domenica del tempo ordinario. Anno C. In La Vita senza fine, Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985, Pag. 142-144.

Fasi della cultura europea d'oltralpe

S. KIERKEGAARD
E LA TEOLOGIA DIALETTICA (1813-1855)

di Renzo Bertalot




Premessa

Benché il tema che mi è stato assegnato ci impegna nel confronto con la teologia dialettica, si rende necessario richiamare alcuni punti noti ed essenziali di riferimento.

Sören Kierkegaard nacque il 15 maggio 1813 e morì nel 1855. L'Europa era allora in fase di restaurazione dopo la burrasca napoleonica.

La sua vita fu segnata sia dall'esperienza del padre, avvelenata da un complesso di colpa per aver maledetto la sua esistenza di miseria, sia dal suo euforico ed affrettato fidanzamento con Regina Olsen, legame che ritenne di dover rompere perché non si sentiva pronto al matrimonio.

La sua produzione letteraria risente del continuo di questi condizionamenti e si muove, non sempre coerentemente, tra l'angoscia e la disperazione.

La sua considerazione del cristianesimo lo porta a mettere a confronto Socrate e Cristo: due grandi maestri di religione. Socrate si ferma all'ironia e alla maieutica, mentre Cristo porta con sé la novità della trasformazione: una scuola di serie A e una di serie B.

Da un punto di vista filosofico Kierkegaard è soprattutto anti-hegeliano. Non accetta i sistemi chiusi. Non c'è sintesi tra ragione e fede. La vita si decide sulla base dell'esperienza personale. "Esistere" (ex-sistere) vuol dire trovarsi "fuori" e fare quotidianamente i conti soli con se stessi. Siamo nel puro soggettivismo: troppo puro per non leggervi una sublimazione del pietismo precedente e una ripulsa contro le sopravvivenze di una ortodossia protestante a carattere assolutistico.

Nella prospettiva kierkegardiana si rende necessario un triplice passaggio dall'esperienza "estetica" (la sua ammirazione per la natura, i gigli dei campi e gli uccelli del cielo; il suo primo viaggio entusiasmante a Berlino rivelatosi, in un secondo viaggio, un vissuto irripetibile se non addirittura deludente) alla fase "etica" del dovere (Che cosa devo fare?) e infine a quella del "salto" religioso, del "paradosso" e dell'"assurdo", della vera libertà che non è un modo di pensare, ma di vivere, che non è scienza, ma passione non reperibile nella politica delle chiese fatta di troppi compromessi e di impuri adattamenti terreni. Le chiese visibili sono repellenti perché promuovono una fede imposta.

A - La società borghese

Kierkegaard era morto troppo giovane per rendersi conto delle nuove idee che andavano maturando contrapponendo l'affermazione del proletariato alla solida società borghese europea. Il romanticismo e l'ottimismo, che avevano avvolto la società vittoriana e anche quella guglielmina, non lasciavano intravedere i venti di guerra che sarebbero diventati tempesta con la morte dell'arciduca Francesco Ferdinando d'Austria e della sua consorte a Sarajevo.

In Inghilterra già si parlava della religione come "oppio dei popoli" con il canonico anglicano Charles Kingsley e solo in seguito con Carlo Marx. Negli Stati Uniti le chiese affiancavano l'insorgenza della classe operaia e sostenevano l'Evangelo Sociale contro l'espandersi di un capitalismo selvaggio, animato da una "concorrenza demoniaca". L'Europa era in ritardo e le chiese avevano spontaneamente fatto il nido accanto al potere: erano per lo più sospettose e contrarie alla sovversione di una società, dopo tutto, ritenuta sana. Il socialismo religioso era ai suoi primi passi, ma lo sconvolgimento della prima guerra mondiale allontanò i giovani e il proletariato dalle chiese favorendo più il secolarismo che la secolarizzazione.

Fu allora che emerse una religiosità dal basso verso l'alto, caratteristica di una criptoteologia, di una ribellione alla grazia, di una malattia, di una disarmonia, di un vicolo cieco e di una catastrofe (Barth). Kant, con la sua Critica della Ragion Pura, aveva a suo tempo sbarrato definitivamente la strada a chi s'affacciava al "noumeno" partendo dal "fenomeno". Eppure Kant credeva nella sola grazia come salvezza dal mistero inspiegabile del male anche se restringeva la capacità e le possibilità della ragione al solo ambito del "fenomeno". Kant fu considerato il "filosofo del protestantesimo" da contrapporre, in area cattolica, al risorgente tomismo inteso come rimedio al dilagare del "modernismo" socialisteggiante nel mondo latino.

Nel contesto delle idee e degli eventi, accanto alla crisi della cultura europea, si affermò la forte e irreversibile affermazione della teologia dialettica, detta anche teologia della crisi. Karl Barth, Emil Brunner, Fiedrich Gogarten e Rudolf Bultmann ne furono i massimi animatori e gli ispiratori di nuove generazioni di teologi al di là delle Alpi.

Kierkegaard, dapprima quasi ignorato, ritrovava allora, a notevole distanza di tempo, il suo momento fortunato e il suo pensiero stimolava la ricerca di nuove prospettive capaci di riportare alla ribalta la passione per il Regno di Dio.

B – I punti di riferimento

La religiosità hegheliana della sintesi cadde in disuso. L'uomo non è riconciliato per quel che passa nella testa del filosofo. Nell'area dell'esistenza, del fenomeno, la riconciliazione non è avvenuta. Viviamo nell'alienazione, nell'angoscia e nella disperazione a causa della nostra finitezza. Di qui la necessità di un "salto" "non razionale", fatto con infinita passione oltre le indicazioni del grande maestro di religione, che fu Socrate, e i suoi metodi della ironia e della maieutica. L'uomo ha bisogno più di una levatrice per essere salvato; lo "scampo e in Cristo che ci è dato e che ci trasforma. La certezza oggettiva è impossibile nella religione. Il "salto ", invece, è necessario per superare la disperazione e il dubbio; si tratta di un "paradosso", di "un rischio" e di una scelta", ma non di un arbitrio. Il senso della vita è libertà e creatività; un abbandonarsi alla fede e al tocco della grazia vivificante.

La ragione procede dall'esistenza (non verso l'esistenza), mentre Dio è il "totalmente altro", il soggetto e non l'oggetto o il predicato. Le verità storiche non producono fede. Anche la Bibbia non produce fede se non è accompagnata dalla passione dello Spirito Santo. In questo senso il cristianesimo è soggettivo, "folle" e "assurdo" mentre l'oggettività (la filosofia speculativa) assume la caratteristica di un paganesimo.

C - Le radici

questi nuovi orientamenti se non si richiamano, a volo radente, alcuni antecedenti.

Con la fine della Scolastica vanno ricordati Guglielmo d'Occam e le vivaci discussioni del suo pensiero sia alla Sorbona di Parigi, sia nella falda sotterranea che doveva più tardi sfociare nel XVI secolo e nella Riforma protestante: si posset naturaliter probari fides non esset necessaria, (Se si può dimostrare naturalmente la fede è non necessaria).

Con l'Umanesimo s'impone l'apporto di Lorenzo Valla che dimostrò la falsità della donazione di Costantino che per un millennio aveva determinato la storia dell'occidente. A lui si deve la sostituzione della mediazione del magistero non solo con la storia, ma anche con la filologia. La traduzione della "Vulgata" era ritenuta inaffidabile; bisognava rivedere i termini di "sacramento", di "penitenza" e l'espressione "piena di grazia".

Con il Rinascimento va segnalata la caduta dell'incidenza di Aristotele. Sorge a Firenze l'Accademia Platonica; si rende necessario un forte ritorno "alle fonti" (ad fontes) che al di là delle Alpi significa innanzi tutto ritorno alla Sacra Scrittura.

Con il XVI secolo riaffiorano i tre "solismi" precedenti: sola gratia, sola Scriptura, sola fides. La giustificazione per fede si trova al centro dell'interesse teologico fino al riaffermarsi dell'inquisizione nel 1542con Paolo III.

fino ad arrivare recentemente a Karl Raimund Popper (1902-1994) e alla sua teoria della "falsificazione”.

D - La teologia dialettica

Con il dilagare della crisi della società borghese, il pensiero di Kierkegaard ritrovò il suo punto di forza. Fu maestro" apprezzato e influente tra i teologi del XX secolo che stavano ricostruendo la teologia su nuove basi (eppure antiche: ecclesia semper reformanda): nessun ritorno ad Hegel, ai sistemi chiusi, alla dottrina, alle certezze e alle prove antropologiche lasciateci in eredità dai secoli precedenti. L'angoscia, la disperazione, la mancanza di riconciliazione, la non razionalità, l'incertezza e il dubbio erano tutti concetti che travagliavano i ripensamenti e intessevano la crisi con fattori ineliminabili. Il paradosso, il salto, il totalmente altro e il rischio riprendevano il sopravvento. Kierkegaard è oggi considerato il padre della filosofia esistenziale, della teologia dialettica e della psicologia del profondo. E il ceppo solido, capace di una nuova vitalità intorno agli anni della prima guerra mondiale, al momento del crollo della società borghese e della crisi della teologia liberale. I teologi, che a lui si sono ispirati, ne hanno condiviso le prospettive e l'impegno contro lo storicismo, lo psicologismo, il moralismo e il razionalismo, pur assumendo di volta in volta caratteristiche proprie di notevole portata nel rimanente del millennio. Ne ricorderemo alcune.

a) Emil Brunner (1889-1966) riprende da Kierkegaard l'idea della "contemporaneità" della fede. La rivelazione ci porta a confessare la fede cristiana "insieme" agli autori del Nuovo Testamento, non certo per l'azione del predicatore, ma per l'azione stessa dello Spirito Santo. Tra la ragione e la rivelazione v'è un'antitesi in quanto la ragione accecata dal peccato non è in grado di produrre prove oltre se stessa. Tuttavia l'uomo naturale non è svincolato da Dio anzi gli è sottomesso: esistono "punti di contatto" tra la linea verticale e quella orizzontale, tra il "totalmente altro", l'infinito, e il finito. Si tratta quindi di un "terreno comune" che si presta alla domanda esistenziale, all'apologetica come preparazione alla grazia. A questo punto sorse la polemica interminabile (forse mai spenta) con Karl Barth che rispose con un secco "NO" ad ogni "punto di contatto": lo Spirito Santo non ha bisogno di "punti di contatto" perché se li crea. Tuttavia per Brunner il protestante, che si occupa di filosofia, rispetta l'evento (esistenziale) della rivelazione senza attingervi e sa pure che la sua elaborazione dogmatica è un'opera filosofica e non l'atto stesso di Dio che si rivela. In questo senso nessuna filosofia potrà mai dirsi cristiana.

b) Rudolf Bultmann (1884-1951). Anche per il teologo di Marburgo la teologia liberale del secolo precedente non aveva parlato di Dio, ma dell'uomo, anche se ancora oggi non va sottovalutata la sua importanza per la serietà critica nel descrivere (kantianamente) il fenomeno. Una filosofia neutra, come quella di Heidegger, può aiutarci a "dialogare" con la storia nell'indagare la "precomprensione" che tutti ci portiamo dietro. Ma Dio, fuori della fede, non è riconoscibile perché la rivelazione è "un fatto di Dio".

Bultmann sarà ricordato per il suo programma di "demitologizzazione": il tentativo di separare il messaggio biblico dai suoi miti con lo scopo di evidenziarne la portata "contemporanea" (come Kierkegaard e Brunner). Tuttavia la fede rimane un "paradosso" senza garanzie. La sicurezza è solo nella grazia che ci "giustifica". L'autocomprensione e l'autorealizzazione rimangono un'illusione se Dio non ci "afferra", non opera il miracolo dell'"incontro" e non raddrizza (extra nos) dall'esterno i nostri desideri e la nostra natura donandoci la vera libertà (quella del "salto" kierkegaardiano) possibile solo nella fede.

c) Karl Barth (1886-1968). Il teologo di Basilea è stato l'alfiere della rivoluzione teologica che andava compiendosi riportando alla ribalta Sören Kierkegaard. "Dio è in cielo e l'uomo è in terra", il "totalmente altro", la religione (nel mondo latino sarebbe preferibile dire religiosità) come ribellione alla grazia, l'uomo che cerca se stesso non troverà nulla, ma l'uomo trovato da Dio troverà se stesso:

sono tutte espressioni classiche ricorrenti ogni volta che s'indaga sul pensiero di Barth dalle assonanze kierkegaardiane. Barth è rimasto fedele per tutta la vita al "maestro" di Copenaghen. Tuttavia qualche differenziazione va pure notata specialmente con l'andare del tempo. Il "totalmente altro" di Dio in quanto "altro" non richiamava forse l'uomo come unità di misura o di confronto? Quindi un nuovo paganesimo? È l'uomo capace di scegliere e di credere? L'Evangelo non ci ricorda forse che Cristo sceglie per noi altrimenti cadiamo nell'eresia del terzo articolo del credo apostolico: "Credo nello Spirito Santo…"?

Che il SI di Dio venga dall'alto e debba essere proclamato dalla comunità imponeva a Barth un prolungamento della liberazione annunciata all'umanità da Kierkegaard contro ogni criptoteologia dal basso o criptofilosofia originaria dall'alto.

d) Paul Tillich (1886-1965). Il teologo tedesco-americano ha condiviso con Barth la rivoluzione kantiana contro la metafisica e ogni tentativo di sintesi tra filosofia e teologia. Una filosofia “cristiana" è "una "disonestà filosofica". Tillich più di Barth si ferma a riflettere sulla nostra "alienazione", capace sì di formulare domande, ma non di offrire risposte. L'impatto con il "non-essere" porta all'angoscia e alla disperazione e poi si spegne in una serie di interrogativi a carattere ultimo e definitivo. Sono concetti che richiamano Kierkegaard e il "salto" della fede. La medicina non è in grado di guarire l'angoscia esistenziale (dovuta al senso di colpa e alla mancanza di significato); solo l'Evangelo ci garantisce contro il crollo delle nostre attese. La risposta "adeguata" viene dalla salvezza cioè dalla continua vittoria di Dio su di noi. Il mondo, infatti, non è abbandonato a se stesso perché se lo fosse a nulla servirebbe il governo di Dio.

Kierkegaard lascia al terzo millennio l'eco del suo grido di libertà che risuona forte attraverso i suoi discepoli ora esistenzialisti ora teologi. Il suo appello vuol essere determinante (contro l'assolutismo, contro il relativismo e contro il potere) nel nome della grazia "paradossale" che sola può illuminare e ispirare il formarsi di una nuova cultura laica ed europea.


* Il testo è stato presentato in occasione della riunione veneziana (2000) della Società Italiana per gli Studi Kierkegaardiani e si richiama all'incidenza del pensiero di Kierkegaard sulla riflessione teologica d'oltralpe. Oggi il teologo danese torna ad essere di notevole interesse per molti settori della nuova cultura europea, in via di unificazione.

Cf. Leggere oggi Kierkegaard, a cura di Isabella Adinolfi, Città Nuova Ed., Roma, 2000.

GIORNATA DEL DIALOGO EBRAICO CRISTIANO
17 GENNAIO 2003

"Mosè parlava con DIO
e tutto il popolo rispondeva"

di Rav Umberto Piperno

Il titolo proposto dal Segretariato delle Attività Ecumeniche è una traduzione parziale.

Non solo rispondeva, ma "corrispondeva". Operava attivamente ed integra con la Parola Divina.

Desidero iniziare ringraziando sia il Segretariato per le Attività Ecumeniche sia le istituzioni della Chiesa cattolica e delle altre Chiese cristiane che vedo qui presenti a testimoniare la particolarità di questa Trieste, sempre attenta al Dialogo, non solo nella dimensione italiana ma addirittura di quella europea, di un’Europa attenta alla Parola del Signore e speriamo anche della nostra risposta a questa Parola che scende su di noi. Certamente abbiamo un certo grado di responsabilità nell'interno di ogni comunità e all'interno di ogni città, di essere non solo il Mosè di questa generazione, il Mosè del proprio culto, della propria comunità o di coloro che ci sono vicini, bensì soprattutto di coloro che per qualche motivo ancora non ci sono vicini, ancora non riescono a rispondere, o meglio a corrispondere all'invito della Parola divina.

Quindi dobbiamo in qualche modo porre il punto d'equilibrio, il difficilissimo incontro tra la dimensione sovrannaturale, e la dimensione della parola umana; ma Parola divina non è come quella umana.

La Parola divina è come un martello che spezza la roccia da cui escono settanta scintille, una Parola capace di dire contemporaneamente la stessa cosa in settanta lingue e quindi capace di parlare "secondo la forza", secondo l’attitudine a capire di chi ascolta questa Parola.

In questo incontro tra la Parola divina e la parola dell’uomo, vedremo come nell'Esodo questa discesa è una discesa graduale del Signore sul monte Sinai, è anche una salita del popolo ebraico e di Mosè verso il monte Sinai.

Il Talmud affronta questo incontro ascensionale e discensionale con una con una distanza dice “ di quattro cubiti “ che diremmo di limite, di confine tra queste due parole; ed il compito di Mosè viene ad essere proprio quello dell’intermediario tra questi” quattro cubiti “, questo spazio umano di “ quattro cubiti “ nel pensiero giuridico ebraico, è uno spazio di acquisto, lo spazio del corpo umano, sia nella dimensione della vita, sia in quella appunto in cui l'anima è staccata dal corpo.

Tutto ciò che è intorno a noi, in qualche modo viene ad essere appartenente ai suoi ” quattro cubiti di pertinenza “, quindi questi “ quattro cubiti “ che certamente non sono vuoti, ma che sono pieni di parole.

A chi appartengono queste parole: all'uomo o al Signore?

Ancora di più ci chiediamo quale sia la difficile strada, il difficile ruolo di Mosè che non vuole essere assolutamente un intermediario, che non vuole essere assolutamente un portavoce, bensì, fin dall'inizio della sua scelta dapprima della nascita, dalla sua formazione, sia nella culla presso il Nilo, sia nel momento in cui pur accolto dal Faraone, veniva allattato dalla madre, ebbene Mosè si nutre di questi sentimenti di giustizia che poi ritrova quando esce e va verso il suoi fratelli.

E vide "nelle loro sofferenze". Non vide "le sofferenze" ma vide dall'interno, con il suo sentimento con la sua interiorità

Ecco la grandezza di Mosè fino dall'inizio è di guardare all'interno e di esser capace di compartecipare all'interno di una situazione in cui la stessa divina presenza si trova in difficoltà; ed ecco come allora l'esperienza del Sinai, l'esperienza della ricezione della Parola divina e della risposta del popolo, del Patto della Legge stabilita sul Sinai, non a caso il Libro dell’Esodo lo pone come primo incontro tra Mosè e il Signore.

Il Signore non parla con Mosé bambino, non parla a Mosè quando compie questi grandi atti di giustizia nei confronti dei suoi fratelli, o ancora di più nei confronti di estranei, tra pastori che litigano, ma nel momento in cui, dice il Midrash, come sappiamo va nel deserto per correre dietro ad una pecora che si era allontanata. Solo in quel momento diremmo, la persona, il leader diviene tale proprio nella compartecipazione, nella preoccupazione per il singolo, quest'elemento pastorale dell'attività di Mosè che non è assolutamente marginale nella sua esperienza.

Mosè vive per quarant'anni negli agi della corte del Faraone, accorgendosi però nel quarantesimo anno di questa tragedia del suo popolo, ma per altri quarant'anni vive a Midian, vive una dimensione pastorale, prepara la sua figura, il suo intervento, curando il gregge come tanti altri grandi personaggi della Bibbia. Ma sono questi secondi quarant'anni che daranno a Mosè la capacità di leader, poi certamente nel ottantesimo anno avverrà questa scelta, questa chiamata dal ” Roveto “ e negli ultimi quarant'anni secondo tradizione, dagli 80 ai 120 anni, allora Mosè interverrà positivamente a favore del popolo ebraico, e parlerà con il Signore.

Parlerà con molti intervalli, come vedremo, non è un dialogo continuo, un dialogo addirittura ci dice la Bibbia con 38 anni di pausa.

Il Signore parla a Mosè nell’ottantesimo anno della sua vita, l'anno in cui si realizzano le “Piaghe”, si realizza l'uscita dall'Egitto, si realizzano i cinquanta giorni dopo il Patto del Sinai, per un anno intero vedremo le Prime e le Seconde Tavole, il massimo momento della visione profetica nella rottura delle Prime Tavole, del Perdono divino, l'inaugurazione del Santuario, l'invio degli esploratori, e poi abbiamo 38 anni di silenzio.

Fino all'ultimo anno, da Numeri (cap.13) fino al Deuteronomio in cui in sei mesi Mosè riassume tutto il suo insegnamento, quindi è un Logos (dialogo) interrotto a spezzoni, in cui abbiamo appunto questo avvicinamento solo all'ottantesimo anno per due anni e poi gli ultimi mesi.

Ma allora ci domandiamo ecco quale fosse la qualità di questa “ chiamata “, di questo discorso, di questa capacità di poter essere prescelto per riportare da Parola divina ad un popolo intero.

Abbiamo detto le qualità morali, le qualità di estrema dedizione ad ogni singolo, la guida della comunità che significa l'andare fino al deserto, nel posto dove non c'è assolutamente pascolo, per seguire una pecora. Una pecora che non solo si era allontanata dal gregge, il Midrash aggiunge qualcosa a riguardo di questa pecora, a riguardo di cosa fosse andata a fare nel deserto.

Dice il Midrash, per raccogliere qualche goccia di miele che usciva da una roccia. Sappiamo che molto probabilmente le api forse pongono il nido nelle rocce, ecco: raccogliere da una roccia dove non c'è niente, dove non c'è vita, apparentemente, ecco lì c'è il miele. Questo è il compito di Mosè: prendere il miele, raccogliere il miele dove apparentemente sembra esserci il deserto.

Se trasferiamo questo insegnamento nella attualità, grandi sembrano essere i deserti, grandi sembrano essere le rocce e molto piccole sembrano essere le gocce di miele. Un po' il compito di ognuno di noi, di ogni Mosè che affronta il deserto, senza “seccarsi spiritualmente”, di seguire questo impeto per raccogliere questo miele, fare in modo che diventi tutta una vallata, questa pecora che si è allontanata venga quindi nutrita, e santifichi in qualche modo l'intera realtà circostante.

Per questo il Signore si manifesta proprio in questo Monte del Signore che però sembra esser privo di vita, sembra essere un Roveto consumato dal fuoco.

Un Roveto che però non si consuma, l'immagine del Roveto che darà il Nome al Monte, il Monte Sinai, vuole anzitutto trasmetterci l'insegnamento che la Parola del Signore è in ogni posto, persino nel deserto e soprattutto non in un grande albero, non come dice il profeta Elia: “ Nella voce impetuosa dell'acqua, nella voce impetuosa del fuoco, bensì una voce sottile e silenziosa “.

Voce silenziosa: paradosso del testo biblico. Una voce di fuoco che non consuma, che non distrugge che non è un fuoco dell'odio né un fuoco della distruzione, bensì, come vedremo” dalla Destra del Signore una Legge di Fuoco”.

Queste Parole incise con il fuoco che vengono ad essere riportate al popolo nelle Prime Tavole per essere poi sostituite da una scrittura umana, quella di Mosè nelle Seconde Tavole.

La dimensione del Roveto vuole sottolineare ancora la compartecipazione del Signore ai dolori del suo popolo; la possibilità di stare all'interno di un Roveto, in una situazione di ristrettezza, in cui le spine vengono ancora di più a procurare dolore.

Preoccupazione e dolore, più per il Signore che non per coloro che purtroppo sembrano non accorgersi di tutto ciò.

Li dove è compressa la libertà umana, la spiritualità del singolo, di un popolo, è compressa la Parola del Signore. E quindi ecco che la preoccupazione di Mosè è proprio che il popolo non possa ricevere, recepire, credere ne a Mosè né alla sua Parola: “..Certamente non mi crederanno …”.

Mosè chiede non solo dei segni, ma un messaggio, una “parola chiave” con la quale creare un collegamento iniziale, con il quale aprire la porta del Dialogo.

E certamente questo insegnamento, questa “parola chiave”, altro non può essere che il ricordo.

“ Il Signore si è ricordato e si ricorderà di voi “.

Quelle stesse parole che ha detto Giacobbe quando ha voluto essere sepolto in Israele, quelle stesse parole che ha voluto dire Giuseppe che non ha voluto essere sepolto in Israele bensì rimanere in Egitto in sepoltura temporanea, affinché fosse come simbolo vivente, paradossalmente pur privo di vita fisica, legato al ricordo della liberazione che sarebbe arrivata.

Quindi ecco che queste due parole, questo verbo del ricordo viene ad essere il primo elemento in cui il popolo si riconosce.

Sento una voce familiare, sento un verbo familiare, forse quella parola d'ordine che porta un personaggio nuovo, un personaggio che viene da lontano. Ma soprattutto un personaggio che pratica la fratellanza.

La novità, la prima grande novità del messaggio biblico dell'Esodo, è proprio la fratellanza, la compartecipazione tra Mosè e Aronne.

Mentre nel Libro della Bibbia, nel primo Libro della Genesi da Caino e Abele, Abramo e Lot che debbono dividersi perché sono fratelli. Noi siamo fratelli. Quali fratelli! Non ci sia lite tra noi, dividiamoci perché siamo fratelli. Certamente una situazione di fratellanza ridotta ed ancora di più fratellanze imperfette tra Ismaele e di Isacco, e tra i figli di Isacco, tra Giacobbe ed Esaù. Fratellanze difficili tra Giuseppe e i sui fratelli, come tra i due figli di Giuseppe l’uno che prende il posto dell’altro, questa lotta continua per la primogenitura, quale fratellanza ci offre il Libro della Genesi.

Improvvisamente ecco che arriva Mosè con il fratello più grande che si preoccupa, prima di tutto nel messaggio del Signore di dare giusto ruolo al fratello più grande, perché appunto chiede:

“ Manda chi sei solito mandare “.

Il Signore gli indica una nuova dimensione nel quale Aronne non è solo il portavoce, certamente tutta la difficoltà del profeta balbuziente, quasi del profeta noto, colui che deve riportare la Parola e che incapace di parlare. È vero in termini umani, è incapace di dire cose sue, ma certamente è capace di essere ispirato. All'interno di questa ispirazione: “ Aronne tuo fratello sarà il tuo profeta “. Non è il suo speaker, non è suo portavoce, non è il suo addetto stampa.

Aronne viene ad avere insieme a Mosè questo ruolo di comunicazione, ma questo ruolo di comunicazione si crea proprio nel momento in cui, per la prima volta, si ri-incontrano dopo quarant'anni Mosè e Aronne dopo questa grande esperienza del Roveto Ardente.

Il Signore lo rassicura: “ Stai tranquillo, ti vedrà e gioirà in cuor suo.”

Anche qui il vedere non solo un fratello, ma il condividere a livello interiore la gioia di una missione difficile, di un compito che più che un onore certamente è un grande onere rispetto al quale Mosè e Aronne insieme rischiano più volte la lapidazione da parte del popolo ebraico.

“ Ancora un po' e mi lapideranno “.

Per la mancanza di cibo, per la mancanza d'acqua, per le scelte difficili e coraggiose che faranno Mosè ed Aronne; ebbene la gioia interna, la gioia all'interno di un cuore è ancora quella che fa pensare a un popolo, addirittura li fa inchinare quando vedono un leader che è capace di gioire assieme a suo fratello, quando egli non ha sentimenti di prevalenza, allora il popolo riesce ad accorgersi che Mosè è il leader giusto, prescelto dal Signore proprio per queste sue qualità.

Ed allora ecco che durante tutta l'uscita dall'Egitto, durante tutto il periodo di sei mesi nei quali si susseguono i segni e i miracoli, Mosè ed Aronne insieme agiscono l'uno dove non può agir l'altro: per esempio Mosè che non può colpire la sabbia perché la sabbia lo difeso quando lui ha sepolto l'egiziano ed allora è Aronne a coprire la sabbia; Mosè che non può colpire l'acqua perché l'acqua lo ha salvato quando era un bambino in fasce nel Nilo, allora è Aronne a percuoterla.

Ma soprattutto è nell'esperienza del passaggio del Mar Rosso, in cui ecco per la prima volta il popolo ebraico ebbe fiducia nel Signore è in Mosè suo servitore.

Il testo biblico dice. “… ebbe fiducia “ non dice “… ebbe fede ”.

Come sappiamo grande è la distanza tra fede e fiducia; la fiducia viene ad essere qualcosa che ha bisogno di un elemento pratico di riscontro, ebbene il popolo ebraico per la prima volta dopo sei mesi, dopo le “ Dieci Piaghe “, nel momento in cui passa il Mar Rosso, nutre questa fiducia. Certamente è la Parola del Signore, che non è più una Parola destinata alla liberazione fisica, ma che diventa immediatamente “ fattore di crescita spirituale “ così come il Signore dichiara nel suo programma di liberazione in cinque punti nel quale appunto il popolo ebraico si sarebbe dovuto liberare non solo dalla schiavitù fisica, non solo dal sentimento di dipendenza psicologica verso padrone, ma addirittura di meritare un'indipendenza di mezzi, di strutture, con le quali costituire una Nazione, meritare di essere preso come Popolo, come Sposa del Signore e quindi di avere, di meritare questo rapporto diretto con il Signore e di essere portato quindi, nella sua terra.

Per realizzare questo progetto, questo processo, la Parola del Signore certamente ha un ruolo diverso.

Un ruolo insieme di crescita, di salita, di rivelazione, ma in ogni momento, come è scritto nei Salmi, la voce del Signore è secondo la forza; la forza di chi è capace di recepire; la forza individuale, non la forza in termini divini, ma la forza in termini umani. La capacità ricettiva dell'uomo, una capacità che viene ad essere assolutamente individuale e quindi ecco che cinquanta giorni dopo l'uscita del popolo ebraico dall'Egitto nel terzo mese, si realizza questo incontro, questo incontro che non è lontano nel tempo, che come dice nel Libro dell'Esodo, cap.19, viene ad essere l'incontro odierno.

“In questo giorno arrivarono nel deserto del Sinai “. Non dice in quello, oppure arrivarono tanti anni fa. I Maestri calcolano l'anno 1313 avanti all'era volgare, ma non ci interessa. Nessuno del popolo ebraico, ne i bambini ne i Maestri si sogna mai di dire sono passati 3380 anni dalla Rivelazione. No!.

Il giorno in cui, ogni uomo, apre il libro della Parola divina, quello è il giorno del Sinai; non conta l'anno, in questo giorno, non solo, ma soprattutto si realizza quella condizione indispensabile per ricevere la Parola divina.

Apparentemente la Bibbia sembra darci dettagli di viaggio, dettagli per chi voglia ripercorrere le tracce di Mosè nel deserto del Sinai. Ma Maestri del Midrash leggono sempre questi dettagli in chiave di “elevazione spirituale”. Partirono da Refidim e arrivarono nel deserto del Sinai.

Già sapevamo nell'ultimo brano letto, da dove era partito il popolo, che bisogna c'era di ripetere questo elemento. I Maestri giocano sul significato topografico del nome “ rifidim “che è vicino ad un termine che si ottiene invertendo le lettere fino ad avere un altro termine il cui significato è quello di divisione.

L'ultimo elemento di cui appunto si era occupato il testo biblico era l'attacco di Amalec, l'attacco portato al popolo ebraico nel momento in cui era caldo di entusiasmo e pieno di fiducia nel Signore.

Ecco che arriva qualcuno che dice: “ Vediamo se il Signore è con noi oppure no “.

Nello stesso momento, nel momento del dubbio il nemico si fa strada e colpisce il popolo ebraico alle sue spalle. Numerosi sono stati gli Amalec della storia, numerosi e sempre più sanguinari.

Il dovere di ricordare quello che ci ha fatto Amalec che ti ha raffreddato nella strada, non ti ha solo attaccato, ha fatto di più. Il pericolo più grande è quello di aver raffreddato la vita di un singolo o di una comunità:

i Maestri che non ci sono più, l'entusiasmo di una vita comunitaria che prima di una Shoà poteva avere quattro sinagoghe, centri di studio attivi dalla mattina alla sera, in migliaia di luoghi in Europa che sono stati interrotti, distrutti da Ameleq.

Non è solo la distruzione fisica: è il raffreddamento di questo entusiasmo il pericolo più grande. E allora questa divisione dal Signore, questa difficoltà di percepire la presenza del Signore, che viene a portare la divisione. Ma nel momento in cui il popolo ebraico avanza all'incontro con la Parola del Signore ecco che il testo biblico ci dice: “ Si accamparono nel deserto e si accampò li Israele di fronte al monte.

Che vuol dire sia accamparono, si accampò?

Soprattutto che bisogno c'è di una ripetizione, e perché soprattutto con persone diverse prima al plurale poi al singolare. I Maestri sottolineano che non si può ascoltare la Parola del Signore se non si è uniti.

“ Si accampò Israel come un unico uomo, con un unico cuore “, dicono i commentatori.

Solo quando superano le divisioni, solo quando diventano come un'unica persona, allora il Signore può parlare.

Ecco allora che Mosè sale verso il Signore. E il Signore lo chiama dal monte dicendogli: “ Così dirai alla casa di Giacobbe e parlerai ai figli di Israele “.

Anche qui “ parlare “ e “ dire “ due verbi diversi, “ la casa “ e i ” figli “.

La Torah, il testo biblico in poche parole, in una sola parola ci vuole insegnare anche la psicologia, ci vuole insegnare il mestiere di leader, di mestiere di oratore, come parlare al popolo.

Innanzitutto parlare alle donne, la casa di Giacobbe la forza della spiritualità di un popolo, di una comunità, sono le donne.

Saper entrare nel cuore delle donne, saperle conquistare, saper fare in modo che la parola sia una parola dolce, una parola appunto capace di catturare la loro attenzione.

Purtroppo gli uomini non sono così ricettivi e quindi per i figli di Israel, per i maschi, c'è bisogno di altro.

C’è bisogno non solo di narrare, ma dice ancora il Midrash, c’è bisogno di parole "dure come nervi".

Parole che in qualche modo hanno una elasticità, che però non può essere estesa o ridotta a piacere; ma così come la funzione del nervo nell'uomo è quella di trasmettere un impulso, un comando, ma se non ci fosse la durezza dell'elemento trasmettitore, non arriverebbe il messaggio.

L'uomo ha bisogno, per ascoltare la Parola del Signore di uno strumento particolare, uno strumento duro come lo sono i nervi.

A proposito della Parola stessa in cui appunto il Signore viene a dire: “ Avete visto quello che ho fatto in Egitto, vi ho portato su ali d'aquila e vi ho fatto arrivare a me “, quindi usa una cura particolare nei confronti del viaggio, una protezione particolare, e continua “ Se ora ascolterete la mia voce e osserverete il mio Patto “. Le condizioni sono chiare: per essere un reame di sacerdoti, un popolo distinto. Queste sono le parole che porterai ai figli di Israele: ascoltare la voce, anche qui ” nella voce “, cioè l'intera gamma dei messaggi e osservare il patto. Nel Sinai si realizza un vero Patto che pone il popolo ebraico nella accettazione, e vedremo se questa accettazione è libera o no, del precetto divino, della sua norma così come per ogni persona, che si avvicina all'ebraismo.

Non basta il patto della circoncisione. La circoncisione è il patto storico, il passaggio di generazione in generazione, da Abramo ai suoi figli.

Quel Patto che lega il singolo alla spiritualità divina, che porta l'elemento corporale, fisico nella dimensione del sacro e quindi ecco che il patto della circoncisione è strettamente individuale.

Il bambino nel momento in cui viene circonciso, perfeziona attraverso questa modifica della sua dimensione corporale, appunto la dimensione in cui la materia in oggetto è proprio l'organo dedicato alla riproduzione, entra nello Spirito.

Ma la circoncisione rimane un discorso individuale non è un discorso collettivo.

Il discorso collettivo, comunitario e di popolo, si realizza per tutto il popolo ebraico nel momento in cui il popolo si prepara al Decalogo, si prepara all'incontro con il Signore. Dice il testo dell'Esodo: “ Lavando i vestiti “. Ma in effetti quell'immersione nelle acque della purità che perfezionano appunto l'ingresso del popolo ebraico, non è solo l'immersione ad essere determinante. Insieme alla circoncisione, insieme all'immersione e per la donna che non ha neanche bisogno di sacralizzare il suo corpo perché già sacro, per il quale c'e solo l'immersione, ecco che deve intervenire l'elemento fondamentale, l'elemento dell'accettazione dei precetti.

Quest'accettazione è certamente un'accettazione difficile da comprendere, e un'accettazione rispetto alla quale il popolo ebraico viene a porre il suo futuro, così come ogni persona diremmo viene a porre le sue scelte, a dare una dimensione particolare alla sua libertà, piuttosto che a sottomettere la propria libertà.

Il mondo dei precetti non è mai una sottomissione e lo vedremo nel punto in cui è scritto: “ Le Parole incise sulle Tavole non leggere “ l'inciso “ ma, libertà sulle Tavole “. Quindi la libertà quotidiana in ogni momento di dedicare la propria attenzione e il proprio orecchio alla Parola del Signore, al richiamo della coscienza a un'altra voce a un altro richiamo, alla libertà di ogni giorno di aderire o non aderire ai precetti positivi. La libertà di violare o non violare un precetto negativo. La libertà che ogni giorno l'ebreo sceglie dicendo al presente: “ Ci stai dando la Legge “.

Ma che viene ad essere santificata fino dal momento del Monte Sinai.

È questa un'esperienza a cui partecipa, secondo il Midrash, tutto il popolo ebraico, passato, presente e futuro. Tutte le anime che sarebbero nate, che nasceranno nel corso dei secoli, secondo il Midrash è li presente ai piedi, o meglio come vedremo, sotto il Monte Sinai.

Perché “ sotto “ il monte Sinai ?

Dopo questo messaggio da parte del Signore, dopo questa condizione, Mosè chiama gli anziani del popolo e gli propone quelle cose, così come gli aveva detto, ordinato il Signore.

Ed ecco ora la risposta del popolo:

Rispose tutto il popolo insieme, qui nel capitolo 19,8 e dissero: “ Tutto quello che ha detto il Signore faremo “.

Più avanti viene detto: “..Tutto quello che ha detto il Signore faremo ed ascolteremo “.

Che bisogno c'è di dire”.. faremo e ascolteremo “. Anzi, se “faremo “ non c'è bisogno di ascoltare; e che vuol dire “ ascolteremo “; non è meglio dire: “ Ascolteremo e faremo “ ?.

L'ascolto non è condizione necessaria per l'esecuzione di un’azione.

Ma come si può realizzare la volontà del Signore se non si ascolta ?.

Possiamo ascoltare, possiamo comprendere, possiamo capire solo facendo.

Quindi non vuol dire prima faremo senza capir niente e poi ascolteremo, ma vuol dire ascolteremo mettendo in pratica, ascolteremo facendo, nella contemporaneità.

Il vero ascolto non è l'ascolto passivo, come davanti a uno strumento meccanico come la radio, la televisione, il computer; ma è "l'interattività" e quindi la possibilità di rispondere, la possibilità di intervenire e modificare in qualche modo, non il programma divino che certamente non può essere modificato, ma la dimensione della propria spiritualità.

Innanzitutto il cammino della " Teshuvà " del ritorno a Dio in ogni momento della nostra vita.

L'uomo in quanto tale, non solo l'ebreo quindi, ha la possibilità di pentirsi del sue colpe, ha la possibilità di ravvedersi, un ravvedimento attivo dove deve prima di tutto correggere il suo comportamento, per incontrare di nuovo il Signore.

E quindi ecco che a proposito di questo “ faremo “ certamente il Talmud deve intervenire.

Come sappiamo, i dettagli del racconto dell'Esodo, anche dal punto di vista "metereologico" sono abbastanza importanti.

Il Signore che parla dall'interno, più che da dietro una cortina di nubi, le nubi che rappresentano un elemento non di schermo tra l'uomo e il Signore, ma un elemento di protezione per l'uomo, quasi come quegli occhiali che servono per non rimanere abbagliati.

Più avanti il testo biblico dice: “ Verrò da te nell'addensarsi delle nubi ”.

Dio parla con il suo profeta Mosè affinché il popolo ascolti e risponda.

“ Ed in te avranno fiducia per sempre “.

Solo dopo Mosè riporta le parole del Signore a tutto il popolo.

Allora il Signore gli dice di prepararsi, di dividersi tre giorni delle proprie mogli e nel terzo giorno il Signore si sarebbe manifestato.

Il Signore sarebbe sceso sul Monte, nel terzo giorno davanti agli occhi di tutto il popolo.

Ecco che questi tre giorni di limitazione, non solo nella vita familiare coniugale, ma questi confini messi intorno al Monte, vengono ad essere quegli elementi nei quali insieme al suono del Corno, al suono dello Shofar, gli avrebbero consentito poi di salire al Monte.

Ecco che Mosè deve discendere dal Monte Sinai.

Quante volte ha dovuto salire e scendere dal Monte per riportare anche questa norma al popolo, in cui appunto viene a dire quello che era richiesto dal Signore per l'incontro.

E solo nel terzo giorno, al mattino, tra "suoni e lampi".

Tuoni e lampi anche qui normalmente prima il lampo dopo il tuono, la fisica ci insegna e la luce è ben più veloce del suono.

La Bibbia ci vuole dire che questa è un'esperienza sinestetica in cui non solo l'udito viene coinvolto, ma tutte le capacità dell'uomo, quelle intellettive e quelle sensitive.

E "tremò tutto il popolo che era ai piedi del Monte" così come poi tremerà il Monte.

Immaginiamo, la paura, la sensazione di un terremoto in cui trema la terra, ma anche trema la persona, trema e vibra diremmo, anche l'anima dell'uomo.

E allora ecco che anche qui il testo usa delle “ forzature “ bellissime. “ Fece uscire Mosè il popolo incontro al Signore dall'accampamento e si fermarono ai piedi del monte “.

Che vuol dire: “ Fece uscire “.

I Maestri vedono qui quasi una “ forzatura “: come la sposa che ha paura di andare incontro allo sposo mentre l'accompagna il padre, perché appunto forse ci potrebbe ripensare, forse ha qualche esitazione. Ebbene arriva il momento in cui, malgrado la santità dell'unione, ecco sorgono i dubbi e c'è bisogno di un Mosè che spinga il popolo ebraico a questo incontro.

Un incontro in cui il popolo si ferma ed è presente sotto il Monte, mentre il Monte sta fumando, diventa un vulcano perché era sceso il Signore con il fuoco ed il fumo come appunto una fornace.

Immaginiamo questa dimensione dei vulcani nel quale la voce dello " Shofar " è sempre forte.

“ Mosè parlava “, questo è il titolo dell'incontro, e ” il Signore gli rispondeva con la voce “.

Più avanti, prima del dell'incontro, scese il Signore sul Monte Sinai, quindi continui spostamenti.

Il Signore chiede ancora a Mosè di scendere un'altra volta per prepararlo a salire gradatamente, scese verso il popolo e il Signore disse tutte queste parole, cioè i Comandamenti.

E poi il popolo che ” vedeva “ i suoni.

Anche qui un'esperienza particolare, quasi televisiva diciamo, in cui il popolo vedeva da lontano e che chiedono a Mosè di parlare con il Signore perché loro temono di morire.

E Mosè che dice al popolo di non aver paura perché proprio questa è la prova che Signore richiede:

“ che sia il Suo timore sul vostro volto, senza peccare “.

Il popolo sta lontano e Mosè si avvicina alla Nube, dove c'e il Signore.

Certamente l'esperienza del Sinai, è quell’esperienza collettiva, che dimostra la veridicità della propria fede come elemento di continuità, dice: “ Come sarebbe stato possibile trasferire ad un intero popolo, un racconto collettivo se qualcuno non ne avesse trasmessa la memoria “.

Non una memoria individuale, che passa ad un popolo, ma una memoria trasmessa da un testimone.

Se ci vengono a raccontate che i nostri nonni sono andati sulla Luna, non potremmo mai credere a questo racconto se almeno una persona che ha conosciuto il nonno non abbia ricevuto questo messaggio, non abbia ricevuto questa testimonianza.

Quindi l'elemento della fiducia nella Torah stà proprio in questa esperienza collettiva, in cui il popolo ebraico nel corso della sua storia delle sue diaspore vive questo incontro, è certamente anche storicamente almeno subito pochi secoli dopo la promulgazione del Pentateuco, il popolo ha la coscienza che c'è stato questo incontro, che c'è stato questo Patto di accettazione.

Ma come è questo Patto ?.

Il Talmud si sofferma su questo incontro, si sofferma e cerchiamo in pochi minuti di trarre qualche insegnamento da questo momento di attesa, e nello stesso momento di sosta sotto il Monte.

Perché “sotto il monte” e non “ai piedi del monte” ?.

Un altro Midrash ci dice che il Signore usò violenza nei confronti del popolo ebraico.

I Rabbini, che parlano liberamente, usano questa metafora.

Come un uomo che usa violenza ad una donna, cioè che lo ha forzato ad accettare la Legge.

“ O accettate la mia Legge o qui sarà la vostra tomba”.

Il popolo ebraico non aveva scelta; avrebbe dovuto accettare il Patto del Sinai, altrimenti il Monte sarebbe piombato su di loro e li avrebbe soffocati.

Non solo il Monte, ma addirittura tutto il mondo, quel mondo creato nel sesto giorno, sarebbe piombato nel caos.

Quindi li dove non c'è l'accettazione della Legge e lo studio della Legge, l’intero mondo torna nel caos, l'intero mondo viene distrutto.

Una responsabilità ben pesante per il popolo ebraico, una responsabilità di accettare, appunto un matrimonio forzato.

I Maestri dicono questo innanzitutto per legare il Signore al popolo ebraico; è vero che forse c'è stato un atto di violenza, vedremo poi che non è così, ma che invece c'è stata una libera scelta.

Ma se c'è stato un atto violenza, ebbene, così come un uomo che poi il decide di sposare quella donna perché la ha violentata non può più divorziare da lei, non può dire cinquant'anni dopo: “ è vecchia non mi piace “. E quindi così il popolo ebraico non può essere più abbandonato dal Signore.

Ecco perché “ costringono “ tra virgolette il Signore ad essere il marito sempre fedele al popolo d'Israele malgrado il popolo di Israele non sia sempre stato fedele. Quindi viene capovolta questa violenza, viene capovolta chiaramente con un'immagine nella quale il Talmud nel trattato di Shabbat, accetta che ci sia stata questa imposizione. Ma quale imposizione, se poi abbiamo letto nell'Esodo: “ Tutto quello che ha detto il Signore faremo e ascolteremo “.

C'è un’attitudine, nel popolo ebraico che come al solito lo porta ad essere impaziente e a non aspettare i tempi necessari.

Quindi pronunciano questa affermazione senza pensare, un'affermazione che non avrebbero poi confermato nel corso della storia.

Ma interviene un altro Maestro e dice non è così.

La Torah ci vuole dire che è vero che la sussistenza del popolo ebraico e del mondo, dipende dall'accettazione della Torah: “ O accettate o qui sarà la vostra morte “. Così come se il popolo ebraico si distaccasse della sua Legge sarebbe come un corpo senz‘anima.

Ma nello stesso momento dice: “ Ecco che tutto il popolo ebraico ha accettato la Legge e la ha accettata anche in un secondo momento, nel momento della persecuzione alla fine del pericolo “.

Nel libro di Ester è scritto: “ Tutti accettarono e riconobbero “.

Che cosa misero in pratica? Il precetto di leggere il rotolo di Ester.

Che cosa c'entra questo precetto rabbinico abbastanza facile da seguire, anzi, nel momento di massima gioia del popolo ebraico, che ci vuole ad accettare questi quattro precetti del "Purin" di ascoltare questi pochi capitoli degli agiografi e poi magari gioire, fare il banchetto, dare doni ai poveri, fare una bella festa.

No dice, perché è importante quella accettazione?

Perché è un'accettazione dopo il pericolo.

Il popolo ebraico che rimane fedele alla Legge, proprio e malgrado il nemico che lo aveva voluto colpire per la sua dimensione appunto di fede, di fiducia, di attaccamento al Signore. Ed allora ecco che la seconda accettazione quella avvenuta in Persia, ai tempi di Ester, che paradossalmente viene ad essere una accettazione più forte di quella del Monte Sinai.

Cioè come nel corso della storia il popolo ebraico ha accettato e confermato liberamente, finito il pericolo, di ritornare alla Legge del Signore; ritornare senza alcuna costrizione, ritornare senza dimensione di paura che non è immobilità, ma è appunto una paura della responsabilità.

Il Midrash continua, che cosa è avvenuto dopo che il popolo ebraico ha detto: “ Faremo ed ascolteremo” sono venuti seicentomila angeli, uno per ogni individuo, ed hanno donato a ciascuno due corone: una per il “ faremo “ un'altra per “ l'ascolteremo “.

Immaginiamoci quindi questa dimensione nella quale ogni individuo dal più semplice fino al profeta Mosè, è incoronato con questi elementi, non a caso diremo messaggi di splendore nella dimensione intellettuale, nella dimensione appunto “ sopra la testa “.

Ma poi dice quando il popolo ebraico ha fatto il vitello d'oro sono scesi un milione e duecentomila angeli ognuno a riprendere una corona, mentre prima un angelo gli aveva dato due corone, queste corone state perdute, ma questa perdita delle corone viene sostituita dai "Tifillin" dai filatteri dove c'è: “ L'ascolta Israele “.

Quindi chi ha sbagliato ha la possibilità, ogni giorno di rimettere almeno una di queste corone, dimostrando che “faremo ed ascolteremo” cioè che stiamo “ascoltando” dimostrando con il precetto dei filatteri sulla testa “di fare”, di accettare queste corone.

Il discorso delle donne è ancora più nobile; le donne hanno ancora queste due corone: non le hanno perse perché non hanno sbagliato nell’ episodio del “vitello d’oro “.

Nel fondere il vitello d'oro sono stati usati ornamenti maschili, orecchini da uomo, anelli..

Per questo motivo le donne non mettono i filatteri: perché non hanno perso le loro corone.

Non hanno bisogno di corone sostitutive, umane da mettere al posto di quelle divine. Ma verrà il momento in cui tutto il popolo ebraico si pentirà, e farà Thesuvà, e accetterà quelle Seconde Tavole che Mosè ha riportato al popolo ebraico nel giorno del Kippur, il 10 del mese di Tishrì.

Mosè scende dopo 40 giorni, sente il rumore nel campo.

Mosè pensa che si tratti di guerra, ma sente solo confusione e allora compie quel grandissimo atto nel pensiero ebraico il più alto momento di profezia, perchè anticipa l'intelletto attivo, la volontà del Signore nello spezzare le Tavole del Signore.

Spezzare quelle Tavole scritte con il fuoco del Signore perché appunto il popolo non le avrebbe potuto sopportare. L'uomo non avrebbe potuto incontrare questa Volontà, questa Parola.

Non avrebbe potuto, come ha fatto Mosè, salire, entrare in questi “ due metri “, in questi quattro cubiti di terra di nessuno.

Ed allora che fa ?

Risale sul monte Sinai, per 40 giorni e 40 notti e chiede perdono al Signore per tutto il popolo.

Quel popolo ebraico che il Signore vuole distruggere, per crearne un altro a partire da Mosè.

Rinuncia ad una sua discendenza, ad il suo onore in favore del popolo, e solo dopo nel momento in cui può vedere parte della sua Gloria, solo dopo Il Signore passa su lui e gli rivela i 13 Attributi, allora discende al popolo ebraico.

Scende con le Seconde Tavole.

Queste Seconde Tavole che certamente non sono diverse nel contenuto, nella Parola divina, se non in piccolissime differenze tra il testo dell'Esodo e quello del Deuteronomio, ma che sono fuse nel contenuto. Questa volta però sono di matrice umana, scritte dall'uomo; e solo dove sono scritte dall'uomo sono sostenibili dalle mani dell'uomo; cioè non vengono più ad essere un peso per l'uomo, ma vengono ad essere quell'elemento di libertà che si tramuta, dicono i Maestri, nella semplicità del popolo che accetta quel che ha detto il Signore:

“Faremo ed ascolteremo”.

In che modo ?. Dove i giusti ed insieme tutto il popolo, nel momento del loro ravvedimento verranno condotti verso il loro obiettivo finale, con una gioia eterna sul loro capo.

Cos'è questa gioia eterna ?

Sono queste corone recuperate. Quindi la dimensione nella quale tutto il popolo non è capace immediatamente di rispondere, oppure risponde senza pensare, o risponde impetuosamente, si impegna forse in maniera precipitosa o viene costretto a impegnarsi, ma solo nel momento in cui nella dimensione futura il popolo è capace di prendere quest'impegno, di ri-meritare queste corone perché giornalmente appunto le sostituisce con le corone dei filatteri, con le corone delle buone azioni, così come Mosè ha meritato questa corona di splendore sul suo volto, allora ecco che riusciamo a comprendere, riusciamo a capire come il popolo “risponda” o meglio “corrisponda” alla Parola del Signore.

Una ascesa verso il monte Sinai, una ascesa verso la volontà del Signore che non si ferma mai, che non ha mai malgrado la discesa del Signore sul monte, un momento di incontro.

Una ascesa che è quotidiana, un compito difficile così come quello di Mosè di prendere il miele dalle rocce desertiche, un compito però di cui non abbiamo più paura.

* Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Trieste

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