Vita nello Spirito

Sabato, 04 Agosto 2007 21:10

La superbia (Luciano Manicardi)

Vota questo articolo
(5 Voti)

di Luciano Manicardi

«Inizio di ogni peccato è La superbia» (Siracide 10,15 secondo La Vulgata). Questo versetto biblico ha contribuito alla tradizione per cui La superbia è all’origine di ogni male ed è, almeno a partire da Gregorio Magno, al primo posto nella lista dei vizi capitali. Primo anche perché sentito come peccato contro Dio che echeggia il “voler diventare come Dio” presente nel racconto delle origini dell’umanità (Genesi 3,5).

La superbia si manifesta in quattro modi: «Quando si pensa che il bene derivi da noi stessi; quando si crede che, se ci viene dato dall’alto, è per i nostri meriti; quando ci si vanta di avere quello che non si ha; quando, disprezzando gli altri, si aspira ad apparire gli unici dotati di determinate qualità»(Gregorio Magno, Moralia XXXIII, 6, 16)

Il primato della superbia ha dunque anche una valenza ontologica circa l’origine del male e rinvia al peccato angelico, alla tracotanza di Lucifero che vuole innalzarsi fino al cielo e farsi simile all’Altissimo (Isaia 14, 12-14). A tale movimento di orgoglio si oppone l’umiltà di Cristo che si svuota della forma di Dio, si abbassa alla condizione umana, riveste il rango dello schiavo e muore della morte infamante di croce (Filippesi 2, 5-11). In Evagrio la superbia ((yperefanìa) appare invece alla fine dell’elenco degli otto pensieri malvagi e Cassiano afferma che «pur essendo all’ultimo posto nell’ordine dei combattimenti, la superbia è al primo posto in rapporto all’origine, ed è il principio di tutti i peccati e di tutte le colpe» (Institutiones XII, 6,1). Insomma che la si ponga all’inizio o alla fine dei vizi capitali, la superbia rappresenta il vizio più temibile. Così si esprime Evagrio:

«Il demonio della superbia è quello che provoca nell’anima la caduta più grave. Egli la persuade a non riconoscere Dio come suo soccorritore, a ritenere invece se stessa come la causa di quanto essa compie di buono e a gonfiarsi d’orgoglio di fronte ai propri fratelli, considerandoli stolti proprio perché essi, tutti quanti, non hanno di lui la sua stessa stima. A tutto questo tiene dietro la collera, la tristezza e, come ultimo danno, il turbamento della mente e la follia» (Praktikòs 14).

La superbia è l’ipertrofia dell’ego che conduce una persona a perdere il senso dei limiti e della realtà a sostituire il proprio “io” a “Dio”. La parola stessa “superbia” contiene quel prefisso che indica una superiorità, il sentirsi superiori agli altri. Secondo Isidoro di Siviglia il superbo è tale perché «vuole andare al di sopra della sua natura» e per san Bernardo è colui che «desidera la propria eccellenza». Nelle descrizioni della superbia ricorre con frequenza la simbolica dell’altezza e del salire, ma poi anche quella del cadere, del precipitare a terra. Spesso all’hybris di un’ascesa smodata segue il tracollo di una caduta fragorosa e tanto più grave quanto più avviene dall’alto.

Nelle liste evagriane la superbia segue la vanagloria (in greco: henodoxìa), che è il peccato di colui che aspira a conquistare la gloria di quanti lo circondano. La vanagloria, dicono i Padri, colpisce spesso i religiosi, i monaci, le persone che sono impegnate in cammini di perfezione. Tutto può divenire oggetto di autocompiacimento e occasione di vanagloria. Scrive Cassiano:

«Non lasciarti illudere dal tuo progresso nella virtù; non elevarti per i successi favorevoli della tua vita spirituale ... Di fatto se in qualcuno lo spirito della vanagloria non ha potuto ingenerare la vanità nel far mostra di una veste ben adatta e tutta linda, cercherà di suscitarla nell’ostentazione di una veste squallida, trasandata e di nessun costo e così esso farà cadere con l’abbassamento colui che non gli è riuscito di abbattere con l’amor proprio; e se non gli è riuscito di fare insuperbire uno per il vanto della scienza e del parlare forbito, lo reprimerà col prestigio derivatogli dalla sua gravità e taciturnità. Se uno praticherà il digiuno in vista degli altri, verrà tentato di compiacersene vanamente, e se invece egli cerca, per disprezzo della vanagloria, di non farlo apparire, cadrà egualmente nel difetto della vana compiacenza. Per non macchiarsi del contagio della singolarità, eviterà di prolungare le sue preghiere sotto lo sguardo dei suoi confratelli, e tuttavia, anche se cercherà di pregare in disparte senza che nessuno ne sia testimone, anche allora non sarà libero dagli attacchi della vana compiacenza. Con certo buon umore i Padri hanno paragonato la natura di questo male con la natura della cipolla e di altri bulbi: anche a toglierne una foglia, subito ne appare un’altra al di sotto, e tante ne appaiono ricoperte, quante ne vengono tolte dal di sopra» (Institutiones XI, 4-5).

La contiguità tra vanagloria e superbia rende a volte difficilmente distinguibili questi due vizi, ma si può., affermare, a grandi linee, che la vanagloria avviene davanti agli uomini, mentre la superbia avviene davanti a Dio. Il superbo perde il contatto con la realtà, la capacità di discernimento (Gregorio dice che «gli si chiude l’occhio del cuore»), di giudizio equo su di sé e sugli altri, perde l’equilibrio e può giungere perfino alla follia, alla malattia mentale: «l’impeto della superbia spinge alla follia» (Evagrio, Gli otto pensieri della malvagità 19). Il superbo si situa tra insopportabilità e ridicolaggine:

«Tutto ciò che fanno gli altri, anche se è fatto bene, non gli piace, e gli piace solo ciò che fa lui, anche se è fatto male. Disprezza sempre le azioni degli altri e ammira sempre le proprie, perché, qualunque cosa faccia, crede d’aver fatto una cosa speciale, e in ciò che fa, per bramosia di gloria, pensa al proprio tornaconto; crede di essere in tutto superiore agli altri, e mentre va rimuginando i suoi pensieri su di sé, tacitamente proclama le proprie lodi.

Qualche volta poi è talmente infatuato di sé che quando si gonfia si lascia pure andare a discorsi esibizionisti» (Gregorio Magno, Moralia XXXIV, 48).

Il superbo è incapace di ringraziare perché fondamentalmente refrattario a riconoscere l’alterità e i debiti che egli ha nei confronti degli altri. La superbia diviene così o egoismo (colui che mentre parla di un altro pensa a sé) o indipendenza (e se vi è una indipendenza buona e giusta che chiamiamo autonomia, vi è anche un distacco dagli altri che è dell’ordine della sufficienza e del disinteresse).

La superbia ama celarsi dietro una maschera: il perfezionista è colui che va avanti finché tutto va bene e il suo percorso non incontra contrarietà. Ma egli non sopporta la visione dei propri limiti e difetti, e così si amputa la possibilità di essere se stesso, di vivere nella verità. L’orgoglioso non si conosce e non vuole (non può) conoscersi: egli ignora il fondo del proprio cuore, le vere ragioni che lo spingono ad agire, non conosce pertanto né i doni di Dio né i proprio peccati. In questo senso si può comprendere l’affermazione per cui «il più grande ostacolo all’amore non è l’egoismo, ma l’orgoglio» (Jacques Marin). In un monastero buddista un giovane discepolo chiede all’anziano: «Che cos’è la vanità?» e il maestro gli risponde: «Che domanda stupida!». Il discepolo resta ferito e si infuria per questa risposta, il suo volto diviene rosso per la collera. Il maestro allora gli dice: «Amico, questa è la vanità». L’umorismo e la presa in giro possono essere strumenti per combattere la superbia, ma sono da maneggiare con attenzione. Inoltre il superbo sempre tende a giustificarsi, a scusarsi e a incolpare gli altri. Non sopporta di non aver ragione, tende sempre a mettersi in mostra, a emergere rispetto agli altri, non sopporta critiche, si autogiustifica, non tollera che siano scoperte sue mancanze, ci tiene enormemente all’immagine, non ascolta, sa disprezzare e giudicare gli altri, non ama l’obbedienza. Secondo Gregorio la superbia si manifesta in quattro modi:

«Quando si pensa che il bene derivi da noi stessi; quando si crede che, se ci viene dato dall’alto, è per i nostri meriti; quando ci si vanta di avere quello che non si ha; quando, disprezzando gli altri, si aspira ad apparire gli unici dotati di determinate qualità» (Moralia XXXIII, 6, 16).

Come ogni passione dell’anima anche la superbia si traduce nel corpo e si esprime corporalmente. Infatti, scrive Cassiano, «dal contegno esteriore di un uomo si può intuire lo stato interiore di lui …. Il superbo, quando discorre, manifesta la tendenza a parlare forte, e quando non parla è perché nasce in lui il disgusto; nella sua ilarità egli si sfoga con scoppi di risa rumorose e inconsiderate; nelle sue risposte c’è rancore; nelle conversazioni faciloneria, e di volta in volta espressioni erompenti senza alcuna riflessione dell’animo» (Institutiones XII, 29, 2).

Il grande rimedio proposto dalla tradizione cristiana al vizio della superbia è l’umiltà. Umiltà che è realistica conoscenza di sé, anche dei propri difetti e limiti e riconoscimento del debito che abbiamo nei confronti degli altri. L’umanità (humanitas) dell’uomo (homo) si manifesta nella sua umiltà (humilitas) La conoscenza di sè davanti a Dio, è la via regale per lasciare lo spazio aperto alla grazia divina che può spezzare le corazze della superbia e dell’orgoglio. Accogliere se stessi come dono dell’amore di Dio: Questo l’esercizio spirituale che può vincere la superbia. 

Letto 4369 volte Ultima modifica il Sabato, 23 Ottobre 2010 23:02
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Search