Esperienze Formative

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Martedì, 09 Gennaio 2007 02:00

Alia mondo eblas (Marcelo Barros)

Alia mondo eblas
di Marcelo Barros

Significa “un altro mondo è possibile” in esperanto. Questa lingua ausiliaria internazionale si presenta come un fattore che può facilitare una comunicazione meno “mercantilizzata” e come fondamento di uguaglianza tra i popoli

Nel giugno scorso si è ricordato il 30° anniversario del massacro di Soweto. Nel 1976 studenti neri della nota township di Johannesburg scesero nelle strade per protestare contro l’apartheid. Quella manifestazione di migliaia di giovani fu dispersa dalle forze dell’ordine, intervenute con tale brutalità da causare uno dei più sanguinosi massacri di civili del secolo scorso. Quel dramma e quella vergogna del Sudafrica razzista sarebbero poi stati divulgati, con forza ed emozione, in tutto il mondo dal film Cry Freedom (“Grido di libertà” - 1987), di Richard Attemborough. Indimenticabile la straziante sequenza finale, che rievoca il massacro.

È importante notare che una delle principali ragioni che spinsero quegli studenti a invadere le vie della township fu l’imposizione dell’afrikaans come lingua obbligatoria nelle scuole. Gli oppressori - di ogni tempo e di ogni sorta - sanno bene che il miglior modo per garantirsi il controllo socio-economico di un paese è quello d’imporre la propria cultura e la propria lingua ai popoli soggiogati che lo abitano.

In questi mesi sono in programma molti incontri e seminari - a livello locale, nazionale e regionale - in vista del Forum sociale mondiale che si terrà in Kenya, nel gennaio 2007. Ebbene, in molti di questi colloqui e convegni appare la presenza di un gruppo di studio il cui scopo è quello di affrontare la sfida di una “lingua comune” che possa essere fattore d’integrazione dei popoli, e non d’imposizione di una cultura sull’altra.

Nel corso della storia, un popolo forte ha sempre imposto la sua lingua a quello più debole. Il greco, esportato da Alessandro Magno fino all’Estremo Oriente, portò alla nascita dell’ellenismo. Più tardi, durante l’era romana, il latino divenne la lingua parlata da coloro che non desideravano essere considerati barbari. Fino alla fine del 18° secolo, in Brasile si parlava la cosiddetta lingua geral (tupiguarani); poi il portoghese fu imposto come unica lingua consentita nel paese. La stessa cosa avvenne nell’America spagnola, dove l’imposizione della lingua europea portò alla sparizione di migliaia di lingue, impoverendo, così, il mondo intero. Una sorte più o meno uguale è toccata a popoli regionali europei: catalani, galiziani, baschi, fiamminghi, irlandesi…..

Gli “imperi” odierni non possono più impedire alle persone di parlare la propria lingua natia, ma non desistono dal voler imporre all’intera umanità l’inglese come lingua delle assemblee internazionali e delle comunicazioni.

L’esperanto è una lingua ausiliaria internazionale che venne sviluppata tra il 1872 ed il 1887 dall’oculista Ludwik Lejzer Zamenhof a Varsavia. Da subito, cerca di proporsi al mondo intero come lingua comune a tutti i popoli, senza appartenere a nessuno di essi. Agli inizi, l’iniziativa sembra più uno sfizio di alcuni gruppuscoli eccentrici.

Un secolo dopo, però, ed esattamente nel 1985, l’Unesco passa una risoluzione in cui si raccomanda a tutti gli stati membri di sostenere le commemorazioni centenarie della creazione di questo nuovo mezzo di comunicazione e di incentivarne l’apprendimento. Non si tratta di sostituire idiomi locali o nazionali. Al contrario, chi lotta per la giustizia e la pace mira a che ogni popolo torni a valorizzare la propria identità culturale e la propria lingua. Costatando però che in un mondo trasformato in “mercato globale” l’inglese si sta sempre più imponendo come fattore di “macdonaldizzazione” del pianeta, è urgente che la società civile, che mira a un ordine sociale più giusto, diventi sempre più consapevole della necessità di una lingua internazionale che parta dall’uguaglianza di tutti i popoli e sia accessibile e agli eruditi e alle persone appartenenti a culture ancora orali.

La struttura dell’esperanto lo fa collocare nel gruppo delle lingue indoeuropee (in quanto al lessico), ma la sua morfologia; prevalentemente agglutinante, lo porta ai margini di questo gruppo, avvicinandola a lingue come l’ungherese o il giapponese e lo rende veramente “universale”. Coloro che lo parlano sono sparsi in 120 paesi nel mondo, principalmente in Europa e Cina. Oggi i siti in Internet che s’interessano all’esperanto sono moltissimi.

Nell‘Agenda latino-americana 2006, l’esperantista cileno José Antonio Vergara scrive: «Nel processo di costituzione della società civile mondiale come soggetto della costituzione di un ordine planetario più giusto e solidale ed ecologicamente responsabile, l’esperanto si presenta come un fattore che può facilitare una comunicazione meno “mercantilizzata” e come fondamento di uguaglianza tra i popoli. Nei suoi 120 anni di vita, il movimento esperantista ha accumulato una ricca esperienza, facilitando contatti e interscambi culturali, senza soggiogare le persone che parlano altre lingue, in quanto è sempre stato particolarmente legato ai movimenti d’emancipazione, quali quello pacifista, e alle diverse correnti del movimento operaio».

(da Nigrizia, settembre 2006)

Martedì, 09 Gennaio 2007 01:52

Le cose del Padre (Giovanni Vannucci)

Le cose del Padre

di Giovanni Vannucci

Quando pronunciamo la parola «Padre» riferendola al divino, il nostro cuore si riempie di tenerezza, di amore filiale e fiducioso. Dobbiamo chiederci se questa stessa parola avesse, sulle labbra di Gesù, lo stesso significato prevalentemente emotivo che ha per noi.

A – GESÙ CRISTO,
FINE DELLA STORIA UMANA
di Bruno Secondin

Il redentore dell’uomo, Gesù Cristo, è il fine della storia umana, il punto focale dei desideri delle civiltà, il centro del cosmo e delle aspirazioni dell’umanità (cf. GS 45).

La corsa gloriosa della Parola (2Ts 3,1) dalla creazione all’eschaton ha come centro l’avvento sulla terra di Gesù di Nazaret, Figlio di Dio. Il suo messaggio e la sua vicenda hanno segnato gli ultimi due millenni in maniera unica: egli è stato il vero protagonista di progetti e valori, fermenti e speranze collettive, resistenze e utopie religiose.

Ogni epoca storica - non solo quella attuale - si è trovata nella necessità e nel rischioso compito di colmare il divario fra le generazioni e gli strati culturali, a provare ed esperimentare formule «cristologiche» culturalmente nuove o più vicine alle generazioni più giovani. Ma ancor più frequente è stata l’esperienza di un dialogo vitale con le culture periodicamente emergenti o già ricche di grande maturità.

Nel primo caso non è mancato il rischio di ricorrere ad una ortodossia irrigidita o di vedere talora mutilata la rivelazione nelle sue esigenze di autenticità e nella gerarchia dei suoi contenuti vincolanti. Sono le note tendenze al fondamentalismo dogmatico o al riduzionismo per paura della radicalità evangelica. Il compromesso o l’esasperazione della tradizione sono sempre deleteri per la stessa radicalità evangelica.

Nel secondo caso - specie nei momenti di grandi trasformazioni sociali - si è trattato di un cammino in compagnia delle culture, e delle loro trasmigrazioni, per dare e ricevere, riconoscere e seminare, criticare e purificare. Si è così realizzata la possibilità anche per la precedente «sintesi», di uscire dai propri limiti (culturali o linguistici) e trascenderli, per una migliore e più significativa «cattolicità».

I

Dalla memoria la profezia

Dobbiamo ritrovare la creatività apostolica e la potenza profetica dei primi discepoli per affrontare le nuove culture», ha detto Giovanni Paolo II al Pontificio consiglio per la cultura (18 gennaio 1983). Ma è un compito per niente facile.

In effetti le enormi trasmigrazioni culturali cui partecipano le nostre generazioni hanno da un pezzo scompaginato la simbiosi fra Vangelo e cultura, fra linguaggio comune e valori religiosi, fra modelli di comportamento e di riferimento e progetti cristiani. A tal punto che si può veramente parlare di una plasmazione nuova di tutto il sistema di evangelizzazione ereditato. Quei «molteplici rapporti tra messaggio della salvezza e cultura umana» (GS 58) che avevano consentito alle generazioni precedenti di raggiungere una quasi totale omogeneità cristiana, si stanno rivelando oggi difficili. se non addirittura impossibili.

La nuova generazione e la nuova cultura emergente, sono dominate dalla fattualità, dalla libertà creatrice e istintuale, che portano alla crisi di ogni riferimento, alla così detta «identità stabile», per sposare la civiltà della dimenticanza (come dice Heidegger). E il ritardo culturale di tutto il sistema comunicativo ecclesiale conduce all’impotenza crescente nell’evolversi della cultura, e all’incapacità a confessare e testimoniare Gesù Cristo come salvatore della storia e del cosmo, pienezza delle attese di liberazione e di pace fra i nostri contemporanei.

Notiamo:

«Per ciascuna cultura è presente il dinamismo pasquale, della morte e della risurrezione, grazie al quale la chiesa si può arricchire, ma anche tutto il genere umano. Bisogna perciò che nei battezzati si risvegli il senso critico per giudicare i germogli di vita e di morte nascosti nel inondo. Una evangelizzazione che non arrivasse al cuore della cultura sarebbe solamente superficiale e vuota. Infatti una fede che non permeasse la cultura non sarebbe pienamente recepita, né rettamente compresa, né vitalmente assimilata (cf. Giovanni Paolo Il, Al popolo belga, 20 maggio 1985)». (1)

Tradizione e comunicazione

Non si può negare che oggi le possibilità di comunicazione sono enormi: ma non è la mancanza di comunicazione che fa problema, quanto piuttosto il suo processo di elaborazione e i suoi contenuti. In effetti la densità di comunicazione si trasforma - in progressione geometrica - in vera e propria anemia di autenticità personalizzante e comunicativa. Le parole certamente corrono, ma il dialogo è soffocato e ristagna: tutto è trasformato in res quantificabile sulla base degli interessi pan-economici (acquirente, consumatore, numero statistico, mezzo di scambio...).

In tale regime non è per nulla agevole parlare e pensare la propria fede in termini acculturati.

Se la parola fa esistere l’uomo e lo qualifica socialmente, ma poi tale parola diventa monopolio operativo di pochi e passività di molti, anche la Parola di vita rischia di affogare nel marasma del verbalismo ubiquitario. Oppure verrà asservita a progettualità che si fondano sulla dominanza degli uni sugli altri, anche se in forme religiose.

Il molteplice caos che imperversa a livello di evidenze etiche, di appartenenze sociali, di valori guida, esige non solo di resistere alla mercificazione del Logos, operata sulla base delle emozioni effimere o di sensazioni magico-taumaturgiche. Ma postula anche una riscrittura dell’intera sintassi dell’evangelizzazione secondo condizioni culturali nuove.

La babele dei linguaggi che caratterizza la nostra stagione, non consente l’uso innocente del linguaggio tradizionale: perché spesso si tratta di codici culturali obsoleti o ipostatizzati in altri contesti sociali, oggi scomparsi. Piuttosto esige una decodificazione del nostro bagaglio culturale di evangelizzazione, per distinguervi i dinamismi vitali e i rivestimenti caduchi, per cogliere la Parola e discernere la sua presenza fra le parole.

La legge “incarnatoria”

L’incontro con la cultura e le culture può essere una grande sfida, ma di fatto è anche una grande promessa per la fede cristiana, e oltre tutto corrisponde ad un’esperienza più volte vissuta dalla comunità del Signore. Sappiamo bene che la rivelazione divina ha una «struttura incarnatoria». La Bibbia stessa ne dà esempio dalla prima pagina fino all’ultima: dal racconto della creazione all’immaginario apocalittico, troviamo attestata la presenza ed evidente l’osmosi con le culture antiche della Mesopotamia, dei babilonesi, degli egiziani, e poi dei greci e infine dei romani.

Quando il Verbo si è fatto carne ha assunto le forme della cultura ebraica del suo tempo: che era essa stessa frutto di stratificazioni diverse nel tempo e nei valori.

Poi il messaggio evangelico, annunciato in lingua e mentalità ebraico-aramaica, è stato trascritto (e reinterpretato) in greco e progressivamente ha assunto modelli latini, siriaci, bizantini, ecc. Infine prendendo forma attraverso le successive ondate biologiche ed etniche, ha attraversato le culture occidentali impregnandole profondamente, ma anche ricevendone strumenti per una esplicitazione eccellente.

Dice Gaudium et spes:

«La chiesa, vivendo nel corso dei secoli in condizioni diverse, si è servita delle differenti culture, per diffondere e spiegare il messaggio cristiano nella sua predicazione a tutte le genti, per studiarlo ed approfondirlo, per meglio esprimerlo nella vita liturgica e nella vita della multiforme comunità dei fedeli. Ma allo stesso tempo, inviata a tutti i popoli di qualsiasi tempo e di qualsiasi luogo. la chiesa non si lega in modo esclusivo e indissolubile a nessuna stirpe o nazione, a nessun particolare modo di vivere, a nessuna consuetudine antica o recente. Fedele alla propria tradizione e nello stesso tempo cosciente della sua missione universale, è in grado di entrare in comunione con le diverse forme di cultura; tale comunione arricchisce tanto la chiesa stessa quanto le varie culture».

Oggi tenta di esprimersi nelle lingue e negli elementi vitali delle culture di tutti i popoli. Il compito grandioso e creativo del prossimo millennio sarà il processo di penetrazione evangelica nelle culture dell’Africa e dell’Asia. Di fatto è appena all’inizio, ma già si intuiscono sviluppi fecondi!

Negli ultimi anni abbiamo visto esplodere, dentro il quadro collaudato della cultura umanistica dell’occidente, una cultura materiale ed efficientistica - la così detta cultura delle mani - che sgretola l’antica sintesi e porta ad un enorme pluralismo ideologico e culturale mai incontrato nel passato. E questo comporta una nuova stagione di annuncio e maturazione del Vangelo.

Noi sappiamo bene che la pluralità delle culture non è una maledizione, perché anch’essa è frutto della crescita dell’umanità (nonostante i limiti reali). La pluralità riflette la ricchezza senza misura della verità: e il disegno di Dio è riconciliare in Cristo la molteplicità delle cose (cf. Ef.10; Col 1,20).

Il divorzio o la rottura fra Vangelo e cultura è il dramma della nostra epoca (cf. Ef 20), ma la soluzione non è quella di voltarsi indietro e rimpiangere l’antico connubio o risuscitare l’antica «cristianità». Piuttosto, come suggerisce Puebla:

«Fare attenzione verso dove si dirige il movimento generale della cultura, più che guardare al retaggio del passato; guardare alle espressioni attualmente in vigore, più che a quelle puramente folkloriche» (n.398)

Solo così è possibile individuare le nuove «sintesi» che stanno emergendo, vivendole da protagonisti e non da distratti spettatori («la vita non è uno sport da spettatori») e fermentarle con l’annuncio di Cristo. Il termine nuovo dell’evangelizzazione è l’incu!turazione: tutti ne parlano e significa appunto l’esperienza di compagnia e crescita insieme alle culture, dal loro interno, orientandole e arricchendole. Questa trasformazione delle culture è un’esigenza intrinseca e necessaria del principio teologico secondo cui Cristo è l’unico Salvatore e senza di lui nulla può salvarsi.

Dice la Evangelii nuntiandi:

«Raggiungere e trasformare, con la forza del Vangelo, i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero. le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno di salvezza. Si potrebbe esprimere tutto ciò dicendo: occorre evangelizzare - non in una maniera decorativa, a somiglianza di vernice superficiale, ma in modo vitale, in profondità e fino alle radici - la cultura e le culture dell’uomo» (nn. 19-20).

Tutto l’umano è destinato ad essere penetrato da Cristo, dalla sua azione liberatrice, dalla sua pienezza ultima, e trovare in lui dignità e consistenza, per virtù della vita vera che comunica il Verbo di vita.

Rimane sempre valido nell’ordine pastorale il principio formulato già da sant’Ireneo: «Ciò che non viene assunto non viene neppure redento». Gesù è la via al Padre, e tutta l’umanità deve passare per la strada della sua carne gloriosa, per essere un unico e cosmico «Amen!» con lui al Padre.

Karl Rahner, nella sua vecchiaia - facendosi carico di certe nuove esigenze molto diffuse - ha detto circa l’annuncio cristologico:

«La chiesa deve mantenere, difendere e proclamare il suo dogma cristologico (e naturalmente lo farà). Tuttavia penso anche che questo annuncio dovrebbe avvenire in modo da giungere più facilmente di quanto non sia oggi. Infatti l’annuncio effettivo ha, non come tesi esplicita ma come “ambiente”, una tonalità di carattere monofisita e questo causa le difficoltà della fede in Gesù Cristo che non dovrebbero esistere».

E aggiunge ancora:

«La mia opinione è questa: che qualora fosse predicata in maniera più viva e naturale la vera semplice autonoma sperimentabile umanità di Cristo, in forza della quale - come professa la chiesa - egli è consostanziale con noi; e qualora nella predicazione non si facesse di Gesù, sia pure non intenzionalmente ma di fatto, un Dio nella livrea di uomo; qualora... si proclamasse con più chiarezza, vivacità e convinzione il dogma di Calcedonia della permanente distinzione di divinità e umanità nella persona concreta di Gesù; qualora.., si presentasse, ad esempio, senza complessi, Gesù come un ebreo del suo tempo, quell’ebreo che egli era: qualora si tenesse in conto più apertamente, almeno entro determinate circostanze, anche di uno sviluppo personale di Gesù nonostante il fatto di trovarsi costantemente in unità col Logos: ecco io penso che allora la proclamazione del dogma permanente della chiesa, per quanto riguarda la cristologia, potrebbe diventare più facile... Forse vi sono teologi che, presi da un grandioso entusiasmo per la loro fede, si sentono superiori a questi problemi; ma io non vorrei far parte di essi, bensì sforzarmi di evitare costantemente, per quanto è possibile, questi malintesi o difficoltà inerenti alle affermazioni di fede, perché la fede cristiana non sia resa per la gente più pesante di quanto necessario, perché questo peso sia il peso della fede e non il peso che, hanno aggiunto alla fede teologi pigri e antiquati». (2)


1) Le propositiones, si trovano pubblicate integralmente in varie riviste. Noi citiamo dalla rivista «Regno-documenti» 32(1987), 21, pp. 700-709. Nello stesso fascicolo si trovano anche altri testi importanti del sinodo dei laici. Una raccolta organica dei documenti SYNODE ÈVÊQUES 1987, Les laïcs dans l’Église et dans le monde. Leur vocation et leur mission ans après Vatican II, Centurion-Cerf, Paris 1987. 2) Regno-documenti 26 (1981), II pp. 364-372.

2) Regno-documenti 26 (1981) II pp. 364-372.

II

Gesù Cristo al Centro

«Non c’è vera evangelizzazione se il Nome, l’insegnamento, la vita, le promesse, il Regno, il mistero di Gesù di Nazaret, Figlio di Dio, non sono proclamati. La storia della chiesa, a partire dal discorso di Pietro la mattina della pentecoste, si mescola e si confonde con questo annuncio» (EN, n. 21).

Non c’è dubbio che l’annuncio di Gesù, salvezza dell’uomo e rivelazione suprema di Dio, e la ricerca di forme e vie per vivere esperienzialmente questa verità dominano tutti i secoli della storia della chiesa, anche la storia dell’umanità dei due millenni dell’era cristiana. Oggi si può affermare che non c’è persona nel mondo civile che non abbia qualche nozione o informazione su Gesù di Nazaret, questo personaggio davvero unico nella storia.

Senza Gesù non vi sarebbe il cristianesimo, e senza il cristianesimo l’occidente e il mondo intero mancherebbero di una componente unica della loro storia. Non solo la vita spirituale, ma anche l’arte, la cultura, la stessa vita politica, tutta la tradizione sociale sono state toccate intimamente dal messaggio di Gesù e dalla presenza dei suoi messaggeri con le loro organizzazioni. Basta pensare a ciò che sono state e sono tuttora per l’occidente e per le culture che da esso hanno preso forma, la dialettica stato-chiesa, fede-cultura, religione-umanismi, e la missione universale del cristianesimo. Per non dire dei grandi temi del pensiero e dell’etica: come fede e ragione, libertà e destino, peccato e salvezza, natura e grazia, vita presente e vita futura. Ai quali si deve aggiungere la ricerca sul significato della storia e della vita umana. In occidente e in buona parte del mondo, molto rimanda a Gesù di Nazaret e alla sua chiesa: dall’arte alla letteratura, dalla geografia all’identità nazionale, dalle istituzioni ai linguaggi, dai progetti alle tragedie collettive.

La grandezza dell’uomo Gesù

Da lui l’uomo, in qualunque individuo si voglia esprimere, è stato esaltato ai vertici dei valori. Da lui il singolo è stato abilitato a rivendicare la propria dignità e libertà di coscienza di fronte a ogni genere di potere autocratico e di costrizione sociale. Per questo la persona di Gesù ha sempre goduto di una riverenza incondizionata: e nulla lascia presagire che diminuirà nelle generazioni che ancora verranno.

Gesù è stato oggetto di amore e di venerazione, ma anche di avversione radicale durante la vita come pochi altri uomini; ma nessuno come lui ha contato dopo di sé tanti che l’hanno seguito fino a morire per restargli fedeli.

Studiosi e critici di ogni tendenza hanno tentato negli ultimi due secoli di intaccarne la sincerità e la consistenza, ma la loro ricerca sulla testimonianza, per quanto frammentata. è servita ad illuminare ancor meglio la figura storica di Gesù, che emerge nella sua unicità. Anzi essa appare irriducibile, sotto qualunque aspetto, alle stesse realizzazioni che si appellano a lui. Si potrebbe quasi dire che in verità ogni generazione scopre «tratti ispirativi» nuovi di Gesù, lasciandone altri alle generazioni che verranno.

I suoi rapporti con gli uomini e le donne, con i ricchi e i poveri, con i potenti e con i deboli, con chi soffre e con chi è nella gioia, con chi patisce ingiustizia e con chi invece la compie. sono diventati delle categorie emblematiche universali della perfezione morale stessa.

Soltanto figure come Mosè, Budda, Maometto, Confucio, variamente controllabili dagli storici. possono parzialmente essergli avvicinate. Ma per quanto si sa , nessuno ha osato dire ciò che invece Gesù ha detto con insistenza e sconcertando non pochi: di essere il Figlio di Dio.

Nessuno ha avuto una storia pari alla sua. La sua persona e il suo messaggio hanno influenzato e influenzano le stesse grandi religioni del mondo.

In particolare sono le sue parole che non hanno eguali. Si è potuto affermare che in Gesù la parola ha raggiunto il massimo della sua intensità e capacità espressiva. Si pensi al discorso della montagna o alle parabole del Regno. Forse anche per questo i discepoli l’hanno salutato come il Logos, la parola divina diventata carne per comunicarsi agli uomini.

Ma come tutti sappiamo l’annunzio, la relazione vitale. l’esperienza con Gesù non hanno sempre avuto le medesime tonalità e mediazioni. Ogni epoca ha riascoltato la domanda provocatoria: «Voi chi dite che io sia?» (Mt 16,15), e vi ha dato risposte sempre nuove, sempre legate alla sensibilità culturale, alle prospettive globali dell’esistenza umana e dell’autocoscienza ecclesiale.

Così è stato durante la storia antica e così si verifica ancora oggi. Infatti anche i nostri ultimi decenni segnano chiaramente una dilatazione delle questioni cristologiche a carattere soprattutto globale: e così nascono le nuove cristologie, di cui parleremo brevemente.

E’ tanto vero questo, che qualcuno ha sollevato con violenza la questione, se negli ultimi secoli non si sia verificata un’apoteosi del cristocentrismo che ha sbilanciato la bipolarità secolare teocentrismo/cristocentrismo. Due teologi francesi, J. Milet e C. Duquoc, hanno richiamato l’attenzione su queste punto, il primo, in verità, in maniera piuttosto polemica.

Due secoli di studio

Per quasi 1700 anni la questione storica della cristologia è stata praticamente pacifica. Ma verso la metà del 1700 la pacifica situazione viene interrotta dalla grande discussione sulla storicità di Gesù. Questa è stata certamente una delle cause della iperconcentrazione della riflessione e delle ricerche su Cristo.

Possiamo riassumere brevemente i motivi della discussione sulla storicità in quattro interrogativi:

- Tutti i fatti straordinari narrati dal Vangelo sono razionalmente possibili?

- In caso di risposta affermativa, è possibile, partendo dai racconti evangelici, considerati storici, giungere ad una ricostruzione della vita di Gesù?

- In caso di risposta negativa, è egualmente ricostruibile, attraverso i racconti che sono stati tramandati, l’immagine storica di Gesù?

- Nel caso in cui Gesù storico non fosse raggiungibile, sarebbe ancora possibile essere cristiani?

Il nocciolo della questione trova la sua origine nell’esigenza di razionalità spinta fino al radicalismo, che fu propria del sec. XVIII, detto secolo dei lumi.

Di fatto tutto il problema è sorto non per l’uso indebito di metodi critici alla Scrittura, ma dal rifiuto di accettare il monopolio assoluto della chiesa nei suoi argomenti culturali. E questo ha portato ad aprire perfino il dossier Scrittura e Gesù Cristo: due settori chiave e assolutizzati ipostaticamente. Così Gesù storico diventa un elemento «sovversivo» rispetto alla figura del Gesù ecclesiale: uno strumento di libertà.

Alcuni nomi vanno ricordati: Herman Samuel Reimarus (+ 1768): il suo principio storico è: solo ciò che è razionalmente accettabile può definirsi storico, il resto è «mito». Per lui Gesù era un israelita intento a suscitare un movimento politico-militare contro i romani oppressori; mentre i suoi seguaci, di fronte al fallimento del Maestro, continuarono la sua memoria in senso religioso, predicando che il suo scopo era stato quello di portare agli uomini la salvezza puramente spirituale.

Altro nome è David Friedrich Strauss (+ 1874): secondo lui fu riversata su Gesù - che in fondo non era che un semplice uomo - la ricchezza immaginativa della lunga attesa messianica presente nel popolo ebraico e ispirata agli attributi che le Scritture davano al Messia. Gli rispose, con argomentazioni cattoliche, Johan Baptist Kuhn mostrando la storicità dei testi.

Altro nome da ricordare è Martin Koehler che suggerì di distinguere nel Gesù dei Vangeli i due aspetti: storico/documentaristico (historisch) e storico/vitalistico (geschichtlich). Il primo riguarda il passato ed è comune a qualsiasi altro personaggio storico; il secondo riguarda il presente come risultato dell’influsso derivato dal passato ed è specifico del nostro tema, come lettura di Cristo nella fede. I due aspetti in fondo sono sempre presenti e non ha alcun senso volerli separare, almeno a livello di esperienza cristiana.

Su queste premesse si introducono poi tutti i grandi esegeti e teologi del nostro secolo, a cominciare da Bultmann, caposcuola di tutta una nuova impostazione del discorso su Gesù: sottolineando soprattutto la linea del Gesù della fede.


Martedì, 09 Gennaio 2007 01:12

L'energia umana (Pierre Teilhard de Chardin)

L'energia umana
di Pierre Teilhard de Chardin



L’energia umana si presenta alla nostra osservazione quale termine di un ampio processo in cui è impegnata la massa totale dell’Universo.

In noi, l’evoluzione del Mondo verso lo spirito si fa coscienza. La nostra perfezione, il nostro interesse, la nostra salvezza elementare possono pertanto consistere solamente in un impegno di portare avanti, con tutte le nostre forze, precisamente questa evoluzione. E’ possibile che non comprendi9amo ancora esattamente dove questa ci porti, ma sarebbe assurdo da parte nostra dubitare che non ci conduca verso una qualche fine di supremo valore.

Di conseguenza, per la prima volta da quando la Vita si è svegliata sulla Terra, emerge finalmente nella nostra coscienza umana del sec. XX, il problema fondamentale dell’azione. Non solo, come una volta, per la nostra piccola individualità, la nostra piccola famiglia, la nostra piccola patria, nemmeno solo per la totalità della Terra, ma per la salvezza e la riuscita dello stesso Universo, come dobbiamo, noi uomini di oggi, organizzare nel miglior modo attorno a noi il mantenimento, la distribuzione e il progresso dell’Energia umana?

Il primo obiettivo che debba focalizzare l’attenzione di un tecnico dell’Energia umana è quello di assicurare ai nuclei umani, considerati isolatamente, il loro grado massimale di consistenza e di “efficienza” elementari. Perfezionare gli individui in modo da conferire all’insieme un sommo grado di potenza, ecco ovviamente la marcia da seguire per il successo finale dell’operazione.

Quale che sia la genericità dei suoi metodi, l’organizzazione dell’Energia umana elementare deve culminare, in ciascun elemento, nella costituzione di un massimo di personalità.

Ma oggi che si realizza, sotto i nostri occhi e nella nostra coscienza, la presa in massa dello strato umano, l’Uomo, anche ipotizzandolo ormai stabilizzato nella sua natura individuale, vede aprirsi davanti ai suoi occhi un campo evolutivo nuovo illimitato: quello delle creazioni, delle associazioni, delle rappresentazioni e delle emozioni collettive. Come assegnare limiti agli effetti di espansione, di penetrazione, di diffusione spirituale risultanti da un’organizzazione coerente della moltitudine umana? E’ bello dominare e disciplinare le potenze dell’etere e del mare. Ma che trionfo è questo paragonato alla padronanza globale del pensiero e dell’amore umano? In verità, mai una opportunità più bella si è presentata alle speranze e agli sforzi della Terra.

Volentieri ci vantiamo di vivere in un secolo di luce e di scienza. Eppure, tutt’al contrario, ci attardiamo ancora in forme rudimentali e infantili di conquista intellettuale. In danaro, in personale, in organizzazione, qual è attualmente la percentuale delle attività terrestri impegnata nell’esplorazione e nella conquista delle zone ancora ignote del mondo?

A tutt’oggi la maggior parte degli uomini capisce la Forza (chiave e simbolo del più-essere) soltanto nella sua forma più primitiva e più brutale: la Guerra.

Ma venga il tempo (e verrà) in cui la massa si renderà conto che i veri successi umani sono quelli riportati sui misteri della Materia e della Vita. Allora suonerà per l’Uomo un’ora decisiva: quella in cui lo Spirito della Scoperta assorbirà la forza viva contenuta nello Spirito della Guerra. Fase capitale della Storia, in cui tutta la potenza delle flotte e delle armate, trasformata, raddoppierà quell’altra potenza che, grazie alla macchina, sarà inoccupata, sicché una marea irresistibile di energia libera salirà verso le zone più progressive della Noosfera. Di questa massa di energia disponibile, una parte importante verrà subito impegnata nell’espansione umana nel mondo materiale. Ma un’altra porzione, quella più preziosa, rifluirà necessariamente sino al livello dell’energia spiritualizzata.

L’energia spiritualizzata è il fior fiore dell’energia cosmica. Rappresenta pertanto la frazione più interessante delle forze umane da organizzare. In quali direzioni principali possiamo ipotizzare che essa cammini e che noi possiamo aiutarla a svilupparsi in seno alle nostre nature individuali? Senz’altro, nel senso di una fioritura decisiva di certe nostre capacità di sempre, assieme all’acquisizione di nuove facoltà o gradi di coscienza.

L’Amore, alla pari del pensiero, è sempre in pieno aumento nella Noosfera. Ogni giorno diventa più flagrante l’eccedenza delle sue crescenti energie sui bisogni sempre minori della propagazione umana. Ciò significa che, nella sua forma pienamente ominizzata, questo Amore tende a svolgere una funzione molto più ampia del semplice richiamo della riproduzione. Verosimilmente, tra l’uomo e la donna, sonnecchia ancora uno specifico e reciproco potere di sensibilizzazione e di fecondazione spirituale che aspira a sprigionarsi in uno slancio irresistibile verso ogni bellezza e ogni verità. Grazie alle illimitate possibilità d’intuizione e di correlazione che reca con sé, oltre un certo grado di sublimazione, l’amore spiritualizzato penetra nell’ignoto.

In tutti i campi, noi cominciamo a vivere abitualmente in presenza e con la preoccupazione del Tutto. Dal punto di vista dell’energia umana, nulla è più capitale dell’apparizione spontanea, ed eventualmente dello sviluppo sistematico, di un siffatto “senso cosmico”. Con esso gli uomini cessano di rappresentare individualità chiuse su di sé, per diventare parti di un Tutto. In essi, pertanto, l’energia spirituale elementare si trova definitivamente pronta ad inserirsi nell’energia totale della Noosfera. Ma non dimenticheremo di porre in luce un punto importante: la perfezione e l’utilità di ogni nucleo di energia umana, rispetto all’insieme, dipendono, in definitiva, da ciò che v’è d’unico e d’incomunicabile nel completamento di ciascuno. Dunque, la cosa che deve preoccupare il tecnico dello Spirito, nel maneggio delle unità umane, è lasciare a queste, nelle trasformazioni che tenta di far loro subire, la possibilità di trovare se stesse e la libertà di differenziarsi sempre di più.

I primi lineamenti di una coscienza comune racchiudono in sé una vivente esigenza di precisarsi e di prolungarsi ulteriormente. Nel campo intellettuale, i progressi della scienza tendono ad edificare una sintesi delle leggi della Materia e della Vita che, in fondo, non è che un atto collettivo di percezione: il mondo visto dalla totalità dell’Umanità in una stessa prospettiva coerente. Nel campo sociale, il mescolamento e la fusione delle razze portano direttamente all’elaborazione di una forma anch’essa comune, non solo di linguaggio ma di moralità e d’ideale.

Considerata nella sua totalità, l’organizzazione dell’energia umana ci orienta e ci sospinge, al di sopra di ogni elemento personale, verso la formazione ultima di un’anima comune.

La convergenza di attività dalla quale nasce l’anima collettiva umana presuppone, come punto di partenza, l’aspirazione comune suscitata da una speranza. Per muovere ed alimentare l’energia umana ci vuole, all’origine, nulla meno dell’attrazione interna verso un oggetto desiderato.

Dato che non vi è né fusione né dissoluzione delle persone elementari, il Centro in cui aspirano a congiungersi deve necessariamente essere distinto da esse, avere cioè la sua propria personalità, la sua realtà autonoma.

Per il suo mantenimento e il suo funzionamento, la Noosfera esige, fisicamente, l’esistenza nell’Universo di un Polo reale di convergenza psichica: Centro differente da tutti gli altri Centri che esso “supercentra” assimilandoli; Persona distinta da tutte le persone che perfeziona unendosele. Il Mondo non funzionerebbe se non esistesse, da qualche parte, oltre noi nel Tempo e nello Spazio, “un punto cosmico” di sintesi totale.

Lo abbiamo testè riconosciuto: con l’Ominizzazione, l’Universo ha raggiunto un livello superiore in cui le sue forze fisicomorali assumono via via la figura di un’affinità fondamentale correlante gli individui fra di loro e al Centro trascendente. In noi e attorno a noi, gli elementi del Mondo senza posa si personalizzano sempre di più, per accessione a un Termine, anch’esso personale, di unificazione: sicché, da quel Termine di confluenza ultima s’irradia, e verso di Lui rifluisce, in definitiva, l’energia essenziale del Mondo, quella che, dopo aver agitato confusamente la massa cosmica, ne emerge per formare la Noosfera.

Quale nome dobbiamo dare a tale sorta d’influsso? Uno solo, l’Amore: forma superiore e principio totalizzatore dell’Energia umana.

Rappresentiamoci un uomo diventato consapevole delle sue relazioni personali con una Persona suprema, alla quale egli è portato ad aggregarsi attraverso l’intero gioco delle attività cosmiche. In un tale soggetto, e a partire da lui, ecco abbozzarsi un processo di unificazione segnato dalle seguenti tappe:

  • totalizzazione di ogni operazione sul piano individuale;
  • totalizzazione dell’individuo rispetto a se stesso;
  • totalizzazione, infine, degli individui nella collettività umana.

Tutto questo “impossibile” si realizza sotto l’influsso dell’Amore. Omega, Colui verso cui tutto converge, è reciprocamente Colui dal quale tutto s’irradia. Non si può situare quale focolaio al vertice dell’Universo senza diffondere, ipso facto, la sua presenza fin nell’intimo del minimo progresso compiuto dall’Evoluzione. Ciò significa che, per colui che ha visto questo, ogni cosa, per quanto umile sia, purché venga situata nella linea del progresso, si scalda s’illumina, si anima e diventa pertanto un oggetto di adesione totale.

Che sotto l’influsso animatore di Omega ogni nostro gesto particolare possa diventare totale, e già una meravigliosa utilizzazione dell’energia umana. Ma ecco che, appena avviata, questa prima trasfigurazione delle nostre attività tende a prolungarsi in un’altra metamorfosi ancor più profonda. Per lo stesso fatto di diventare totali, ciascuna per conto suo, le nostro operazioni sono logicamente portate a totalizzarsi, raccolte tutte quante in un atto unico.

E’ una vera sintesi che l’amore di Omega opera sul fascio raggruppato delle nostre facoltà.

Nel corso superficiale delle nostre esistenze, vedere o pensare, capire o amare, dare o ricevere, crescere o diminuire, vivere o morire, sono cose diverse. Ma cosa diventeranno tutte quelle contrapposizioni non appena, in Omega, la loro diversità si rivelerà quale le modalità infinitamente varie di uno stesso contatto universale? Senza che le loro radici svaniscano affatto, tenderanno a combinarsi in una risultante comune, in cui la loro pluralità, sempre riconoscibile, esploderà in una ineffabile ricchezza. Perché meravigliarci? Non conosciamo, forse, a un minor grado di intensità, un fenomeno analogo nella nostra esperienza? Quando un uomo ama nobilmente una donna, con questa passione vigorosa che esalta l’essere al di sopra di se stesso, la vita di questo uomo, la sua capacità di creare e di sentire, l’intero suo universo, si ritrovano distintamente contenuti e ad un tempo sublimati nell’amore per questa donna. Eppure la donna, per quanto sia necessaria all’uomo per rispecchiargli, rivelargli, comunicargli e “personalizzargli” il Mondo, non è ancora il Centro del Mondo. Se dunque l’amore di un elemento per un altro elemento è potente sino al punto di fondere (senza confonderla) in una impressione unica la moltitudine delle nostre percezioni e delle nostre emozioni, chi sa cosa sarà la vibrazione intima dei nostri esseri nel loro incontro con Omega!

Quando, progredendo nei nostri cuori l’amore del Tutto, sentiremo allargarsi, al di sopra della divergenza dei nostri sforzi e dei nostri desideri, l’esuberante semplicità di uno slancio nel quale si mescolano e si esaltano, senza perdersi, le innumerevoli sfumature della passione e dell’azione, allora, in seno alla massa costituita dall’Energia umana, saremo vicini, ciascuno alla pienezza della nostra efficienza e della nostra personalità.

Totalizzare senza spersonalizzare. Salvare al tempo stesso l’insieme e gli elementi. Tutti sono d’accordo su questo doppio fine da raggiungere. Ma come i raggruppamenti sociali di oggi situano i valori che essi sono teoricamente concordi nel voler preservare? Sempre considerando la persona come un elemento secondario o transitorio, e ponendo in testa ai programmi il primato della pura totalità. In tutti i sistemi di organizzazione sociale che si affrontano sotto i nostri occhi, va sottinteso che lo stato finale al quale tende la Noosfera è un corpo senz’anima individualizzata, un organismo senza volto, un’Umanità diffusa, un Impersonale.

Ora, questo punto di partenza, una volta accettato, vizia l’intero svolgimento successivo dell’operazione sino a renderla impraticabile. Se l’universo tende finalmente a diventare un qualcosa, come potrebbe mai riservare in sé un posto per un Qualcuno? Se si premette che il vertice dell’Evoluzione umana sia di natura impersonale, gli elementi che lo accettano vedranno inevitabilmente, a dispetto di ogni sforzo contrario, diminuire la loro personalità sotto il suo influsso. Ed è proprio quanto accade. I servi del progresso materiale o delle entità hanno un bel da darsi da fare per emergere nella libertà, sono fatalmente aspirati e assimilati dai determinismi che costruiscono. Sono meccanizzati dai loro propri meccanismi. Allora, per padroneggiare i meccanismi dell’energia umana, resta solo l’uso della forza brutale, forza che, molto logicamente, vorrebbero di nuovo, oggi, farci adorare.

Al di sopra di noi, non già la forza ma l’Amore, e quindi, per incominciare, l’esistenza riconosciuta da un Trascendente che renda possibile un Amore universale.

Cosa accadrebbe il giorno in cui, anziché un’umanità impersonale presentata dalle dottrine sociali moderne alle ambizioni dell’impegno umano, noi riconoscessimo la presenza di un Centro cosciente di convergenza totale? Allora, le individualità coinvolte nella corrente irresistibile della totalizzazione umana si sentirebbero rafforzate dallo stesso moto che le avvicina. Quanto più si raggrupperebbero sotto un Personale, tanto più accrescerebbero la loro stessa personalità. E ciò avrebbe senza sforzo, in base alle proprietà dell’Amore.

Immaginiamo una Terra in cui gli uomini fossero innanzitutto interessati alla realizzazione del loro accesso globale a un Essere appassionatamente desiderato e al quale ognuno riconoscesse, in ciò che vi è di più incomunicabile nel suo prossimo, una vivente partecipazione. In un siffatto mondo, diventerebbe inutile la coercizione per mantenere gli individui nell’ordine più favorevole all’azione, - per orientarli in una libera concorrenza verso le combinazioni migliori, - per far loro accettare le restrizioni ed i sacrifici imposti da una certa selezione umana, - per deciderli, infine, a non sperperare la loro capacità di amare, ma a sublimarla gelosamente in vista della unione finale.

Siamo giunti a un punto decisivo dell’evoluzione umana, in cui l’unica via di uscita si trova nella direzione di una comune passione.

Continuare a porre le nostre speranze in un ordine sociale ottenuto con la violenza equivarrebbe semplicemente per noi ad abbandonare ogni probabilità di portare a compimento lo Spirito della Terra. Ora, espressione di un moto irresistibile ed infallibile come lo stesso Universo, l’energia umana non potrebbe affatto essere ostacolata nel raggiungimento libero del termine naturale della sua evoluzione.

Dunque, a dispetto di ogni inverosimiglianza, ci avviciniamo necessariamente a un’età nuova in cui il mondo rigetterà le sue catene per abbandonarsi al potere delle sue affinità interne.

Dobbiamo credere, sconfinatamene, alla possibilità e alle necessarie conseguenze di un amore universale.

A partire dal Cristo,la teoria e la pratica dell’Amore totale non hanno mai cessato di precisarsi, di trasmettersi e di propagarsi: dimodochè, per effetto dei due millenni di esperienza mistica che ci sorreggono, il contatto che potevamo prendere con il Focolaio personale dell’Universo ha guadagnato in ricchezza esplicita proprio quanto quello che, dopo due millenni di ricerca scientifica, possiamo prendere con le sfere naturali del Mondo. Considerato quale un “phylum” di amore, il cristianesimo è così vivente che, in questo stesso momento, possiamo osservare come, elevandosi ad una coscienza più ferma del suo valore, subisce una straordinaria ascesa.

Un’ulteriore, ultima metamorfosi non sarebbe per caso in corso? La presa di coscienza di Dio nel cuore della Noosfera, il passaggio dei cerchi al loro Centro comune, l’apparizione della Noosfera?

Pechino, 1937

N.B. Questo testo si trova in: L’Energie humaine, Oeuvres vol. 6, Parigi Seuil 1962, pp. 141-200 passim. Tr. it. L’energia umana. Tra scienza e fede, Nuova Pratiche Editrice, Milano 1997.

Martedì, 09 Gennaio 2007 00:44

Il III secolo (Lorenzo Dattrino)

Il III secolodi Lorenzo Dattrino


Mentre in Oriente fiorivano Clemente e Origene, ormai aperti agli influssi dell’ellenismo, in Occidente gli uomini di chiesa, fatte poche eccezioni, sembravano estranei a ogni impegno inteso a conciliare fede cristiana e dottrina greca. Ma c’era di più. Anziché spingersi nei campi rischiosi delle ricerche dottrinalmente ardite per tentare di spiegare i misteri divini, gli occidentali preferivano rimanere docilmente sicuri nell’accettazione delle norme tradizionali dell loro fede. Se poi si vuole penetrare maggiormente in questa divisione, tendente a sottolineare la diversa mentalità tradizionale e dottrinale dell’Oriente e dell’Occidente, emergerà chiaramente l’impossibilità, per gli occidentali, di distinguere, tra i fedeli, le due categorie dei semplici credenti e dei «perfetti»: i primi considerati e, per così dire, catalogati in un grado inferiore, perché cresciuti nella pura accettazione delle verità rivelate, i secondi invece ritenuti ormai elevati in un grado superiore per aver raggiunto la vera «gnosi», il privilegio di una scienza ben più profonda dei misteri divini.

Uno dei fattori più decisivi, atti a spiegare il ritardo di una letteratura tutta propria dell’Occidente, va cercato nel dominio incontrastato esercitato dalla persistenza, anche in Occidente, della lingua greca, particolarmente come lingua di cultura. E questo avvenne certo in campo profano; si pensi che lo stesso Marco Aurelio scrisse in greco i suoi Ricordi, e siamo già negli anni tra i 161 e il 180, ma avvenne anche in campo cristiano. Le opere letterarie scritte in Roma e nell’Occidente fino alla fine del Il secolo furono scritte in lingua greca: così la Lettera di Clemente ai Corinti, il Pastore d’Erma, gli scritti di Giustino e di Ireneo. Il bisogno d’una letteratura in lingua latina cominciò a farsi sentire quando, nell’accresciuto numero dei credenti in Cristo, reclutati anche fuori dell’ambiente giudaico da tutti i ceti sociali, erano ormai troppo numerosi coloro per i quali non era familiare la lingua greca. (1)

Nota

1) Cf. M. Pellegrino, Letteratura latina cristiana, Roma 1985.

Il progetto della nostra salvezza
inizia per mezzo di un saluto
Il saluto angelico

di Baldovino di Ford
VII TRATTATO

a cura di Dom Luigi Rotini, abate o. cist.


“Dio ti salvi”

Salve, piena di grazia, il Signore è con te

Il saluto rivolto a Maria

tu sei benedetta fra tutte le donne

(Lc 1,28)

Il progetto della nostra salvezza inizia per mezzo di un saluto, e l’annuncio di pace consacra l’inizio della nostra riconciliazione. Il messaggero della salvezza e angelo della pace, fu inviato da Dio, e questo stesso amico della verginità, rivolgendosi alla Vergine, la saluta con un nuovo ed insolito appellativo che mai, da quel momento, era stato usato. Le offre, nello stesso tempo, l’omaggio di una nuova situazione e l’annuncio di una nuova lode. Che una donna sia salutata da un angelo è cosa nuova e inaudita. Né Agar né la donna di Manoah furono salutate da un angelo quando, ambedue, godettero della presenza di un misterioso personaggio che gli rivolgeva la parola. Qui, invece, una donna è salutata da un angelo; vuol dire che si avvicina il tempo in cui le donne saranno salutate dal proprio Signore alle quali dirà: “Dio ti salvi!” (Mt 28,9).

La Vergine si chiedeva che cosa volesse dire quel saluto. Anche noi meditiamo su questo saluto, per quanto ci è possibile, e che cosa significhi. Non è questo un saluto espresso durante il cammino, ma un saluto che conduce alla patria “Lungo il cammino non fermatevi a salutare nessuno” (Lc 10,5).

Se qualcuno, con aperta adulazione e con accattivante condiscendenza voglia farti piacere in cose vane o mostrarsi benevolo e complimentoso, questi è uno che ti saluta durante il cammino. Sta attento, sii guardingo contro quelli che ti dicono: “Salve!”. Povero te se ti fai servo di questi tali! Povero te se ti dominano quelli che cercano la tua anima! (Cfr Sal 70,3). Non andare in cerca dei saluti sulla pubblica piazza. (cfr Mt 23,7); ti basti la testimonianza della tua coscienza (Cfr 2 Cor 1,12) e il Testimone fedele in cielo (Sal 89,38), al quale puoi dire: “Per quel che hai fatto ti loderò nella grande assemblea” (Sal 22,26).

C’è saluto e saluto, perché c’è differenza tra salvezza e salvezza. C’è una salvezza vana della quale sta scritto: “A nulla serve l’appoggio degli uomini” (sal 60,13); e c’è una salvezza vera della quale è scritto: “sia questo, Signore, il tempo del tuo favore” (Sal 69, 14). Questo saluto, che sia un auspicio votivo di salvezza desiderata o che sia l’annuncio di salvezza concessa da parte di chi ti saluta, non può essere una falsa lode rivolta alla Vergine.

“PIENA DI GRAZIA”

Piena di grazia in un modo unico

Poiché la verginità è sempre stata apprezzata dagli angeli, l’angelo elogia la Vergine con una lode sincera e comincia lodando la sua pienezza di grazia, dicendole: “Salve, piena di grazia!” Oh saluto che porti la salvezza, pronunciato da un angelo ed espresso in modo tale perché anche noi possiamo salutare così la Vergine! Oh allegrezza per il cuore, dolcezza per le labbra, vincolo dell’amore! Può esserci posto per l’ira lì dove c’è la pienezza della grazia? La pienezza della grazia è annichilimento del peccato e riparazione della natura. Il peccato aveva corrotto la natura e aveva provocato l’ira. Però Dio, nella sua ira, non desistette dalla sua misericordia (Cfr Sal 77,10). Riversò la sua grazia e allontanò la sua ira. Il sesso che era stato condannato da una sentenza di maledizione nella prima donna, ora lo ricolma nella santissima Vergine con una grazia di benedizione e con l’olio della misericordia. Questa è il piccolo vaso di olio(Cfr 1 Re 17,12); questa è la coppa di Gedeone piena di rugiada (Cfr Gdc 6,38); questa è l’urna d’oro che contiene la manna dolcissima caduta dal cielo come pioggia (Cfr Eb 9, 4). Chi potrà immaginare quale e quanta sia stata l’abbondanza di grazia per Colei che, prima fra tutte le donne e l’unica designata come piena di grazia, diede alla luce il Figlio unigenito pieno di grazia e di verità? (Cfr Gv 1,14).

Leggiamo che il protomartire Stefano era pieno di grazia e di forza (Cfr At 6,8). Ma siamo certissimi che Maria lo sia stato tanto in sommo grado quanto maggiore era la sua capacità di grazia. Ella potè contenere, tanto nel cuore come nella mente, l’autore stesso della grazia, Lui tanto grande, tanto immenso che l’universo intero non può contenere. Sappiamo che la beata Elisabetta era ripiena di Spirito Santo (Cfr Lc 1, 41), la quale, visitata e salutata da Maria, riconoscendo che la grazia nella Vergine era maggiore, con stupore disse: “A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?” (Lc 1,43).

Piena di grazia affinché, per mezzo suo,la grazia abbondi in noi

Salutata con giusto motivo dall’angelo, Elisabetta saluta Colei per la quale sarebbe stata comunicata al mondo la salvezza, perché, per mezzo di Maria, siano rese grazie a Dio che dà salvezza (Cfr Sal 144,10) e manda la salvezza a Giacobbe (Cfr Sal 44,6). Per questo esiste la piena di grazia “come misura buona, pigiata, scossa e traboccante” (Lc 6, 38), perché per essa la grazia di Dio abbondi in noi. In modo singolare Dio la scelse subito e la arricchì con triplice grazia: la grazia della bellezza, la grazia della predilezione e la grazia dell’onore, per renderla bella, graziosa e gloriosa.


LA TRIPLICE GRAZIA DELLA BELLEZZA, DELLA PREDILEZIONE E DELL’ONORE

Cos’è la grazia della bellezza

La grazia della bellezza risplende su un volto buono. Un volto buono, secondo la definizione di Sant’Agostino, è ben proporzionato, di ottimo colore e pieno di allegria. L’uguaglianza dei tratti che implica una giusta proporzione, la somiglianza, l’armonia e l’accordo fatto di varietà e di somiglianza negli ambedue lati del volto, costituiscono una parte non piccola della sua bellezza. Non conviene che gli occhi siano differenti, disuguali tra sé; che le gote siano diverse; che ci sia disarmonia delle labbra; ogni particolare, qualunque sia, che per la sua deformità e irregolarità non concorda con l’altra parte che le corrisponde, si allontana dalla bellezza dell’insieme. Tutto ciò che diminuisce o eccede la misura dovuta o non si avvicina alla somiglianza con il suo somigliante, sfigura la grazia della bellezza.

La lode della vera bellezza, corrisponde più all’anima che al corpo, e nonostante questo, in nessun modo corrisponde anche al corpo. Infatti ciò che spesso si concepisce interiormente con casta dilezione del cuore, viene proiettato fuori con decoro per il ruolo del corpo. Si ingenera, però, in modo impuro, tutto ciò che non nasce dalla purezza del cuore: “Splendida dentro il palazzo, la principessa è avvolta in vesti intessute d’oro” (Sal 45,14), anche se tutta la sua gloria non sta all’interno. Spesso sgorga dal più profondo ciò che dà gloria al Re della gloria che sta nei cieli.

La bellezza interiore ama l’uguaglianza di quelli che si assomigliano. Non è opportuno segnalare sempre una differenza là dove non appare il motivo della dissomiglianza. Se giudichi in un certo modo il buono o il cattivo che c’è in te, e poi in maniera diversa ciò che c’è nel prossimo, i tuoi occhi sono differenti. Se davanti a Dio sei superbo e umile davanti agli uomini, hai un volto disuguale. Se in presenza del prossimo parli bene di lui e in sua assenza lo denigri, se lodi Dio nella prosperità e mormori nell’avversità, c’è disarmonia sulle tue labbra.

Bellezza interiore di Maria; umiltà nell’onore

Tutta questa deformità procede dal vizio della superbia che ama sempre la disuguaglianza, la differenza negli atteggiamenti, al contrario l’umiltà riduce all’uguaglianza anche le cose disuguali. Cerchiamo in questa Vergine quale sia l’uguaglianza dei tratti del suo volto, tanto buono, tanto degno di lode, che non se ne può trovare di meglio né più degno di lode tra tutte le figlie di Sion. Cosa si può chiamare più giustamente ritratto simile, se non per l’uguaglianza dell’umiltà e dell’onore, della stima e della dignità? E’ scritto infatti: “Quanto più sei grande, tanto più cerca di riconoscere i tuoi limiti” (Sir 3,18). Se sei nobile, sii anche umile. Se stai al di sopra degli altri, non disdegnare di essere sottomesso.

L’esempio di Cristo

Esaminati attentamente, e esamina attentamente anche il tuo Maestro. In quale momento si è manifestato come Maestro e perché giustamente lo è? (Cfr Gv 13,13). Esamina attentamente ciò che disse e ciò che fece: “Non sono venuto dice, per essere servito, ma per servire” (Mt 20,28).Aggiunse anche: “Chi tra voi è il più importante diventi come il più piccolo; chi comanda diventi come quello che serve” (Lc 22,26).

Ecco ciò che disse. Sapete ciò che fece? Si umiliò fino ai piedi dei suoi discepoli. Chi fece così? Colui che ha ai suoi piedi, come sgabello, la terra (Cfr Is 66,1). Colui che dice: “Io sono il primo e l’ultimo” (Ap 1, 17); il primo in dignità, l’ultimo in umiltà. Ci diede un esempio affinché seguiamo le sue orme (Cfr 1 Pt 2,21) e adoriamo il luogo su cui si posero i suoi piedi (Cfr Sa 1 132,7). Venite, adoriamo e prostriamoci davanti a Dio (Cfr Sal 95,6), umiliamoci sotto e con Lui (Cfr 1Pt 5,6 e Gn 16,9), perché salverà gli umili di spirito (Cfr Sal 34,19), cioè quelli che adorano in spirito e verità (Cfr Gv 4,24). Qui si fermarono i suoi piedi. Come si fermarono? Venne nell’umiltà, e nell’umiltà perseverò. Si annullò, prese la forma di servo, e per i suoi servi, il Signore sopportò l’obbrobrio della croce, “si fece obbediente al Padre fino alla morte” (Fil 2,7-8). Qual è la somma umiltà se non questa? Che stupenda uguaglianza questa somma dignità e questa somma umiltà!

Invito ad imitare l’umiltà di Cristo

Oh anima fedele! Se per questo esempio ti sentissi protetta contro la superbia, segui, in tal modo, mediante l’umiltà, le orme del tuo Maestro che ti dice: “Come sono belli i tuoi piedi nei sandali, principessa” (Cfr 7,2): “Ascolta, figlia; guarda, presta attenzione.. il Re s’innamori della tua bellezza” (Sal 45,11). Chi è il Re se non colui che è il solo Re? Ti renderai accettabile, desiderabile e amabile a lui se, piegando il tuo orecchio, ti umilii e meglio ancora se lo diventi. Quanto più ti umilii, tanto più sarai gradita al Signore.

Maria, tanto più umile quanto più innalzata

Per questo si crede che ella sia stata tanto più umile degli altri quanto più degna, lei, l’unica che dice: “L’anima mia magnifica il Signore” (Lc 1, 46); più lo magnificava, lei che era la più magnificata, più era resa sublime, l’unica che potè dire: “Perché ha fatto grandi cose in me, l’Onnipotente” (Lc I,49). Quanto più era magnificata, tanto più magnificò il Signore, perché si umiliò moltissimo e dà testimonianza della sua umiltà dicendo umilmente: “Perché ha guardato l’umiltà della sua serva” (Lc I,48).

Anche Elisabetta è testimone, quando, contemplando la Madre di Dio che si avvicinava a lei, ammira anche la sua felicità, la sua dignità e umiltà che conserva in mezzo a tanta dignità.

E’ sempre cosa ammirabile conservare, in mezzo ad una così grande dignità, tanta grande umiltà, in una situazione tanto potente una così grande umiltà; una umiltà tanto grande nella sapienza, l’eloquenza, la forza. Insomma, in tutte le cose grandi, una grande umiltà è la proporzione che va di pari passo con esse, ciò che rende bello il volto, ciò che conforma e adatta tutto perché tutte le cose concordino in ogni cosa.


LA GRAZIA DELLA BELLEZZA

La grazia del colore: purezza e riservatezza

La grazia del colore, di un candore unito alla rossore, adorna la grazia di questa bellezza. Qui il colore è il pudore. C’è un duplice pudore: il pudore puro e il pudore riservato (verecondo). La purezza e la modestia sono il giglio bianco e la rosa vermiglia. La purezza, come il suo candore, imbianca il volto; la modestia (verecondia) con il suo rossore colora le guance. Questa è la guardiana della purezza e, nello stesso tempo, è la sua bellezza e il suo ornamento. Ogni senso del corpo e dell’anima ha la sua purezza e la sua modestia. C’è una purezza degli occhi e una loro modestia; e negli altri sensi la modestia è solita essere compagna della purezza. Perciò la purezza di tutti i sensi si apprezza per l’incorruttibilità degli stessi. Dice l’Apostolo: “Temo che i vostri pensieri si corrompano, e come Eva fu sedotta dalla malizia del serpente, così voi possiate perdere la vostra semplicità e purezza nei riguardi di Cristo” (2 Cor 11,3). La santa modestia consiste nell’arrossire davanti a cose triviali; la santa purezza consiste nel conservarsi immacolati. Considera quanto puri fossero gli occhi di colui che diceva: “Io avevo imposto ai miei occhi di non guardare con passione le ragazze” (Gb 31,1). E chi guarda una donna con desiderio (Cfr Mt 5,28), non ha l’occhio impuro?.

L’occhio impuro è il segno dell’impurità dell’anima. La corruzione dei sensi va di pari passo con l’impurità. La sua integrità è il segnale della castità.

La purezza e la modestia incomparabili di Maria

L’integrità della Vergine e la purezza della sua anima e del suo corpo furono tanto grandi da renderla tutta vergine, tutta incontaminata, tutta immacolata, senza corruzione in nessuno dei suoi sensi, in nessuno dei suoi sentimenti. Tutto ciò che era vergognoso la fece sentire a disagio, tutto ciò che era cattivo lo condannò: volle solo ciò che era puro e rifiutò tutto ciò che era disonesto. Questa è, infatti, la verginità perfetta: l’integrità inviolabile di tutti i sensi. Tutto ciò che ferisce l’integrità è una specie di deflorazione della verginità. Questo è il colore risplendente, un insieme del candore della purezza e il rossore della modestia che brilla sul volto della Vergine e accresce la grazia della sua bellezza. Il suo colore fu, perciò, risplendente, fu pura alla pari della purità, di modo che in ella si compie ciò che è stato scritto: “Una donna è riservata e splendida come il sole sulle cime dei monti” (Sir 26, 16 )cc .

Alla grazia si aggiunge il fatto che è stata colmata di gioia, il suo volto si è rallegrato come fosse spalmato di olio che è segno di gioia (Cfr Eb 1,9), perché ogni devozione, piena delle fervore e della carità, offre se stessa a Dio in odore di soavità. Più tutte le figlie di Sion che esultano davanti al loro re (Cfr Sal 149,2), il suo spirito esultò in Dio suo Salvatore. (Cfr Lc 1,47). Guarda quanto è bello il volto, quanta grazia di armonia dei tratti ha disegnato su di esso, quanta grazia di purezza e di rossore ha su di esso impresso, con quanta grazia di allegria l’ha resa felice! Non solo il volto è bello, ma tutto è bello in lei, come lo dichiara chi dice : “Sei bellissima, amica mia, sei perfetta” (Ct 4,7). Guarda come la Vergine è piena di grazia e di bellezza!


LA GRAZIA DELLA PREDILEZIONE

La più amata dalle creature

In essa la grazia della predilezione non è di meno. Infatti è amata, lodata e onorata da tutti, ed è la prima, dopo Dio, ad essere oggetto di amore, lode e onore da parte degli angeli e degli uomini. Tutta la Chiesa dei santi proclama la sua lode: “Come sei fortunata, dicono le altre ragazze quando la incontrano. Anche le regine e le concubine la lodano” (CtBeata mi chiameranno tutte le generazioni” (Lc 1,48). 6,9). Ella non nasconde la grazia di tale predilezione e dice: “


LA GRAZIA DELL’ONORE

Tutto, in Maria, è degno di lode in maniera unica

Quanto grande sia la grazia dell’onore concessa a Maria non è nelle nostre facoltà determinarlo. Infatti poiché in Lei tutte le cose sono degne di lode, tanto quelle che le sono proprie quanto quelle che le sono comuni con gli altri, le une e le altre la presentano con una speciale lode. Ciò che Lei ha in comune con gli altri lo possiede in modo particolare perché ha, in maniera al di sopra di ogni misura più degli altri, ciò che gli altri hanno. Ha in modo eminente ciò che non solo Lei possiede. È casta, umile, dolce e pia. Gli altri hanno simili virtù, però non in modo simile ed uguali. Ella supera tutti, e in ogni cosa è signora del mondo, regina del mondo, degli uomini e degli angeli. Madre di Dio e figlia sua, sorella e sposa, amica ed alleata. Madre per la sua verginità feconda, sorella per la grazia dell’adozione, sorella per la grazia della comunione, sposa per la fedeltà del matrimonio, amica per la reciprocità dell’amore, alleata per la vicinanza della somiglianza. Ella è degna di essere amata più di tutti, in modo insuperabile bella, incantevole, gloriosa.

“Il Signore è con te”

Dio è con noi, Dio è in Maria, è con noi grazie a Maria

Che gloria è questa, tanto singolare, da rivolgersi a Lei dicendo: “Il Signore è con te” quando anche a Gedeone l’angelo gli disse, “Il Signore è con te, valente guerriero”? (Gdc 6,12). E il salmista dice: “Il Signore degli eserciti è con noi” (Sal 46,8). E Cristo ci dice: “Ecco io sono con voi fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). E Isaia dice di Cristo: “Lo si chiamerà Emmanuele, Dio con noi” (Is 7,14; Mt 1,23). Prima però aveva detto: “Una vergine darà alla luce un figlio e lo chiamerà Emmanuele” Come sarebbe venuto a noi per stare con noi, se non perché venne alla Vergine che preparò, in anticipo, per rimanere con lei, in lei, uscire da lei, e per mezzo di lei in noi. Lui il nostro difensore, il Dio di Giacobbe? (Cfr Sal 46,11). Per questo il Dio di Giacobbe assunse da lei la nostra natura per rimanere sempre in noi. Egli ha detto: “La mia gioia, è vivere con gli uomini” (Prv 8,31).

In Maria Dio ha trovato le sue delizie

Se le delizie di Dio consistono nello stare con i figli degli uomini, quante delizie reputi abbia incontrato nello stare con l’unica creatura che ha scelto dai tempi antichi nella elargizione di tante delizie? In ciò che ci riguarda, egli partecipa della nostra natura e ci rende partecipi della sua grazia perché diventiamo figli ed eredi di Dio, fratelli e coeredi di Gesù Cristo (Cfr Rm 8,17), questo grande dono, questo bene tanto grande lo dobbiamo, in un modo singolare, dopo Dio, a colei cui fu detto in modo singolare: «li Signore è con te».

Ruolo di Maria nell’opera della nostra salvezza

Posta come ancella e cooperatrice di un privilegio tanto grande, ella dette la salvezza al mondo perché partorì, per noi, il proprio Salvatore del mondo. Ma] poiché non le era possibile farlo da sola, così offrì la sua disponibilità, compi il suo incarico di mediatrice, compì la sua mediazione e lo diede alla luce a beneficio di tutti; per questo l’angelo le si rivolge dicendo: «Il Signore è con te» Così si compie una cosa magnifica: la salvezza del mondo sarà possibile per mezzo suo, sarà spezzato il giogo del nemico come nel giorno di Madian (Cfr Is 9,3). Colui per il quale sei stata eletta, è al di là di ogni forza e sapienza umana, il Signore però è con te, Lui, cui nulla è impossibile (Lc 137). Così a Gedeone, quando doveva liberare i figli di Israele dalle mani di Madian, viene detto: «Il Signore è con te, valoroso guerriero». Poiché si fa accenno al coraggio, anche allora era necessaria il coraggio? Dio gli dà il coraggio, Lui, l’”Aiuto valente” (SaI 71,7). In questa opera della nostra salvezza che ha inizio per mezzo di una grazia altissima e si consuma in altrettanta grazia stupenda, si accenna alla pienezza della grazia; la lode è attribuita all’Autore della grazia che, con la cooperazione della Vergine, si manifesta come l’autore di questa opera.


LA BENEDIZIONE DELLA VERGINE

«Benedetta tu fra le donne»

Eva meritò una maledizione a causa del suo orgoglio, Maria, invece, una benedizione per la sua umiltà

Dopo Dio, autore di una benedizione tanto grande, la prima lode è dovuta alla Vergine che giustamente è benedetta da tutti. Perché è a Lei che l’angelo dice: «Benedetta tu fra le donne» (Lc 1,28). Anche Elisabetta le dice: «Benedetta tu fra le donne» (Lc 1,42). Eva, per il suo orgoglio, per il suo peccato di disobbedienza, attirò su di sé la sentenza di maledizione e attraverso questa anche noi siamo soggetti alla maledizione. La maledizione è causata dall’orgoglio: «Perché Dio resiste ai superbi e dà la sua grazia agli umili» (1 Pt 5,5). È scritto: «L’inizio di ogni peccato è l’orgoglio, e chi si adira gli cadranno addosso sventure» (Cfr Qo 10,13). Maria si umiliò e meritò la benedizione. Consideriamo, per quanto ci è possibile, fino a che punto si umiliò, e fino a che punto fu benedetta.

Diversi gradi di umiltà

C’è un’umiltà di precetto, un’altra di consiglio, un’altra suscitata dall’esempio, un’altra dovuta ad un voto, un’altra che attira la maledizione.

Il precetto impone un obbligo, il consiglio incita la volontà libera, l’esempio provoca l’emulazione, i! proposito santo o il voto aumenta la fedeltà, la maledizione conduce alla confusione. L’umiltà del consiglio è più grande di quella del precetto. È comandato di non rubare i beni altrui e si consiglia di lasciare i propri. Questo è un bene maggiore, anche se il precedente è più necessario, Il secondo è più ordinario, I primo più rigoroso. L’umiltà suscitata dall’esempio, senza precetto e senza consiglio, sembra sia distante dall’enfiagione della superbia e più lontana dall’ostentazione dell’arroganza. Indizio di una grande umiltà è, senza nessun obbligo né consiglio, preferire a sé l’altro che opera bene, e non disdegnare tutto ciò che è degno di imitazione. Spesso, senza il tramite di un precetto, di un consiglio o di un esempio, si sperimenta qualche bene per un istinto segreto dell’anima e si assume questo bene sia per un proposito sia per un voto: questo è una umiltà ammirabile. Infatti è motivo di grande merito rinunciare alla libertà che appartiene a tutti e sottomettersi ad un santo obbligo.

A volte ciò che si ritiene accetto a Dio appare scandaloso per gli uomini ed esposto alla maledizione. Per questo, alcuni, vinti dal timore della confusione, spesso, mettono in atto lo sforzo della perfezione, arrossiscono per lo sforzo, e mentre temono le critiche degli uomini fuggono dai beni che desiderano] Altri invece apprezzano la giustizia e la santità di tale atteggiamento, e cosi sentono lo zelo per queste virtù, disprezzando le maledizioni e gli obbrobri degli uomini: stimano cosa buona soffrire oltraggi per il nome di Gesù, e considerano ricchezza più grande dei tesori d’Egitto l’obbrobrio di Cristo (Cfr Eb 11,26). Questo grado di umiltà, quanto meno teme le maledizioni degli uomini a motivo di Dio, tanto più merita una abbondante grazia di benedizioni davanti a Dio. Questo grado di umiltà né Cristo stesso la dimenticò, Lui, che desiderando compiere ogni giustizia, si fece maledetto per noi, come è scritto: «Maledetto l’uomo che prende dal legno» (Dt 21, 23 e Gai 3,13). Come si fece maledetto lo dimostra colui che dice: «Fu disprezzato dagli uomini ma eletto da Dio) (1Pt 2,4). Concorda con «Essi possono maledire, ma tu benedici» (Sal 109,28).

L’umiltà di Maria suscitata dalla maledizione

Convinti con quanto è stato detto, consideriamo quale sia stata l’umiltà di questa Vergine che consacrò la sua verginità senza che lo prescrivesse la Legge e sotto la maledizione della Legge, perché si riteneva maledetta colei che non lasciava discendenza in Israele. Se Dio, fin dall’inizio, prescrisse a coloro che benedisse: «Siate fecondi e moltiplicatevi» (Gn 1,28) e concesse loro la grazia della fecondità con una benedizione, come non era esente da questa benedizione colei che rimaneva privata della fecondità? Se la fecondità è una benedizione, come non poteva essere una maledizione la sterilità? C’è forse cosa più sterile, più infeconda, più infruttuosa della verginità? Assolutamente. Però questo, prima che una vergine sia feconda, non c’è nulla di più fruttuoso di una verginità feconda. La consacrazione della verginità sta al di sopra della legge; nessuna legge la convertì in precetto se non fino a che la perfezione evangelica la convertì in consiglio, quando il Signore disse: «Chi ha orecchi da intendere, intenda» (Mt 19,12), e l’Apostolo dice: «Riguardo alle vergini non ho nessun precetto del Signore, anche se do un consiglio» (1Cor 7,25). Nessun precetto della Legge anticipò il proposito di questa vergine; nessun consiglio della Legge, come sembra ad alcuno, anticipò l’esempio della Legge. Ciò che dico riguardo all’esempio deve essere interpretato più dalle donne che dagli uomini, anche se si deve considerare che Elia, Geremia e Daniele conservarono la purezza della verginità. Tuttavia tra le donne, prima della Legge o sotto la Legge, non sì danno esempi di verginità osservata per consacrarla a Dio. Quello della figlia di Iefte, che chiese un periodo di due mesi per piangere la sua verginità, può essere interpretato in vari modi. Con quale intenzione fece questo, la Scrittura non lo dice. Se il motivo di deplorare la sua verginità fu quello che, come sterile, senza frutto, non avrebbe lasciato discendenza in Israele, questo pensiero del suo cuore e questo pianto sono lontani dal proposito della santa verginità. Tuttavia sembra che in tutto questo ci sia qualche cosa di più elevato, il cuore lo potrebbe rivelare, perché la fanciulla dice al padre: «Padre mio, se ti sei impegnato così davanti al Signore, fai di me come hai promesso, perché il Signore ti ha concesso di vendicarti contro quelli di Ammon, i tuoi nemici» (Gdc 11,36).

Per una illuminazione speciale, Maria comprese che la verginità è gradita a Dio

Perciò, alla nostra Vergine, quale motivo ha potuto farle credere che la verginità sarebbe piaciuta a Dio, verginità che era esposta alta maledizione a causa della sterilità?

E in lsaia si poteva leggere: «Un eunuco non dovrebbe più dire “Sono soltanto un albero secco”. Se un eunuco rispetta i miei sabati, si comporta come piace me e rimane sempre fedele alla mia alleanza, io gli darò un posto nel mio tempio per il mio nome. Questo sarà meglio che avere figli e figlie, perché io renderò eterno il suo nome. Nulla potrà cancellarlo». (Is 56,3-5). Ella avrà anche potuto leggere: «Ecco una vergine concepirà e darà alla luce un figlio e lo chiamerà Emmanuele» (Is 7,14). Quando l’onore di un nome che è migliore di quello dei figli e delta figlie fu promesso agli eunuchi, cioè, ai vergini, quando fu predetto che il Salvatore del mondo sarebbe nato da una vergine, dallo stesso Spirito che ispirò questo profeta e sotto la sua ispirazione, la Vergine ispirata da Dio ha potuto pensare che c’era una verginità molto preziosa, molto accetta a Dio, poiché l’onore di concepire Dio era riservato ad una vergine che doveva darIo alla luce. Ella, istruita dal valore eccellente della verginità, sia per l’oracolo del Profeta, sia per un istinto divino molto grande che le dava una conoscenza esatta dall’intimo, amò la verginità, offrì e consacrò al Signore, in odore soavissimo, la verginità che aveva abbracciato, e disprezzò l’obbrobrio della maledizione.

Maria abbraccia la verginità e la sua verginità fu feconda

Però con questa verginità fino a questo momento sterile, ricevette la fecondità; per la maledizione che disprezzò meritò la grazia della benedizione. Per le altre donne, a causa della maledizione, c’era iniquità nel concepimento, dolore nel parto, e in alcune, sterilità senza frutto. Questa invece concepì senza peccato, diede alla luce senza dolore, produsse un frutto dalla sua verginità. Quale frutto? Un frutto singolare, un frutto più prezioso di qualsiasi frutto prodotto dall’unione coniugale.

La maledizione divina ferisce tutti gli uomini a motivo del peccato

Questo frutto dell’unione coniugale cos’è se non tutta la posterità di Adamo, la moltitudine dei figli degli uomini? Intatti coloro che nacquero dalla fornicazione si moltiplicarono attraverso l’unione coniugale dei nostri primi padri. Ogni frutto dell’unione carnale fu condannato in anticipo come se fosse nato da un albero cattivo, corrotto dalla sua radice viziata, poiché un albero cattivo produce frutti cattivi (Cfr Mt 7,1 7). Dirai: qual’è questo frutto cattivo? Certamente la concupiscenza cattiva, la concupiscenza della carne che trascina dietro a sé tutti coloro che sono generati secondo la legge della carne, tutti coloro che si propagano con la trasmissione del peccato. Questo è in noi il male originale, il semenzaio dei mali e il fermento di ogni massa corrotta, l’inizio e la consumazione della condanna comune. A questo male originale tanto nocivo, tanto mortifero, era necessario porvi rimedio per mezzo di un bene originale, precedente dallo stato della prima condizione dell’uomo, a beneficio di quelli che sarebbero nati dopo la prima prevaricazione, e della legge viziata fin dal suo origine.

Dio così ottemperò la sua sentenza contro l’uomo peccatore, di modo che la natura corrotta a motivo del suo vizio, sentisse da una parte il male meritato e dall’altro esaltasse il profumo del bene che aveva posseduto. Il peccato della disobbedienza, la legge della disobbedienza, perché questo è il vizio della concupiscenza, provocò a tutti coloro che sarebbero nati una propagazione viziosa e tuttavia la primitiva condizione conserva una certa integrità di incorruttibilità in quelli che sarebbero nati. Infatti, tutti nascono vergini e la verginità accompagna, fin dall’uscita del seno materno, la crescita in età e conserva la grazia di una scelta incorruttibile tino a che si produce la corruzione della carne, che non frena il movimento della concupiscenza, che estingue la qualità dell’integrità e corrompe il fiore primaverile della verginità. Comunque ciò che il corpo dell’uomo e della donna perde quando essi si uniscono, il principio della generazione lo ristabilisce nel figlio? La verginità, integrità comune a tutti quelli che nascono, possiede principalmente il nome e la lode della virtù in coloro che con l’integrità della carne conservano la castità dello spirito. La verginità della carne senza la castità dello spirito, sebbene non meriti in sé il rimprovero di crimine, non merita, tuttavia, l’elogio della vera virtù.

Maria, esentata dalla maledizione

La verginità di questa donna benedetta merita di essere lodata in modo singolare in quanto virtù, poiché ottenne la grazia singolare di quella benedizione per cui, con giustizia, le viene detto: «Benedetta tu fra tutte le donne». Benedetta, certamente, in primo luogo, per l’esenzione dalla maledizione comune, poi - e questo è ancora più eccezionale - per essere sfuggita alla condanna meritata. La maledizione generale coinvolge tutte le donne, tanto le feconde quanto le sterili; questa, invece, per grazia, è risparmiata da essa; in questo ottenne la benedizione come eredità, perché, sola, fu preservata dal male generale e si mantenne immune da esso. Questa è, come abbiamo detto, l’immunità dalla maledizione generale.

Maria ci ha sottratti dalla maledizione

L’uomo peccatore poteva addurre, come scusa per il suo peccato, la colpa della donna e dire: «a causa tua, donna maledetta e giustamente degna di maledizione,anche io sono maledetto; per causa tua sono scacciato dal paradiso, per causa tua ho perso questi ed altri benefici; per causa tua ho incontrato questi e quest’altri mali; ah, povera te, perché per te è accaduto questo! Ah povero me!» A questi lamenti nessuna donna poteva rispondere una parola, non poteva che restare confusa nella sua stessa confusione ed essere turbata nel suo stesso turbamento. Tutta la discendenza della donna poté essere distrutta ed essere anche meritevole della condanna generale. Così accadde prima che la Vergine desse alla luce il Figlio di Dio. Ora, però, tutto è cambiato. La donna, ora, ha chi risponde per lei; ha nella Santissima Vergine chi può rispondere alla condanna. Questa è, come abbiamo detto, l’assoluzione dalla giusta condanna. Da questa condanna la Vergine si mostrò liberata e per suo merito assolse le altre. Infatti ella ha dato al mondo il Salvatore che ha distrutto la morte e allontanò da noi la meritata condanna; dopo che a Dio, a Lei dobbiamo tutto, in quanto liberati dalla maledizione: perché siamo stati benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli (Cfr Ef 1,3), cosicché come ella è sempre benedetta da Dio così anche sia sempre benedetta da noi.


BENEDETTO IL FRUTTO DEL TUO SENO

Benedetto il frutto del tuo seno, Gesù,

Gesù il frutto benedetto della Vergine

A questo saluto angelico con cui salutiamo ogni giorno la Santissima Vergine con la dovuta devozione, siamo soliti aggiungere: «E benedetto il frutto dei tuo seno». A costei, Elisabetta, dopo essere stata salutata dalla Vergine, quasi alla fine del saluto angelico che ella ripete, aggiunge: «Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo seno!» Questo è il frutto del quale lsaia dice: «Un giorno, quel che il Signore farà germogliare sarà motivo di orgoglio e di fierezza per i superstiti d’Israele» (Is 4,2). Chi è questo frutto se non il Santo d’lsraee che è anche discendenza di Abramo, seme del Signore e fiore che sboccia dalla radice di lesse, frutto della vita da cui tutti riceviamo? Benedetto certamente nella discendenza e benedetto nel seme, benedetto nel fiore, benedetto nel dono, benedetto, infine, nell’azione di grazia e nella lode.

Cristo della discendenza di Davide, immune, alla nascita, dal peccato

Cristo, discendenza di Abramo, nacque secondo la carne dalla discendenza di Davide. Se la Vergine, sposa di Giuseppe, della casa di Davide, fu ella stessa discendenza di Davide, perché non dobbiamo credere devotamente che Cristo nacque dalla discendenza di Davide, nascendo da una donna (Cfr. GaI 4,4), e da cui nacque senza seme di uomo, cioè della discendenza di Davide, (Cfr Gv 7,42), «senza seme»? Perchè senza seme, se non perché la Vergine si trovò incinta per opera dello Spirito Santo (Cfr Mt 1,18) e concepì in modo mirabile, senza che nessuno la fecondasse? Ella stessa somministrò da sé la stessa sostanza delta carne di Cristo, e questi, nell’assumere la carne da lei non la contaminò.

Questa è la benedizione della discendenza, in cui non c’è nessun impedimento di peccato, in cui non è propagato né contratto nessun principio di iniquità. La forma di servo che assunse senza condizione servile e l’immunità dal peccato nel suo nascere, in lui sono una libertà genuina e un’ingenita libertà, per il cui mezzo egli è l’unico libero che assolve colpevoli e li rende liberi.

Benedetto come seme: pienezza di grazia

A questa benedizione che è l’immunità dalla colpa si aggiunge la benedizione del seme che è pienezza di grazia e di santità perfetta. È l’unico tra gli uomini che ha la pienezza di ogni bene perchè si presenta immune da ogni male. A lui, lo Spirito è stato dato senza misura (Cfr Gv 3,34), perché solo, possa compiere ogni giustizia. (Cfr Mt 3, 15). Tutta la santità dei santi, paragonata a questa, è palesemente inferiore. «Solo il Signore è santo, lui solo è Dio» (ISam 2,2). La propria santità può solo bastare ad ognuno; la sua santità, invece, basta all’umanità intera secondo quanto è scritto: «Come la terra fa nascere i germogli e il giardino fa germogliare i suoi semi, così Dio, il Signore, farà sbocciare la giustizia e la lode davanti a tutte le nazioni» (Is 6111).

Benedetto come fiore: la gloria eterna

Questo è il seme della santità, che sbocciando adorna il fiore della gloria. Di quanta gloria? Quanta più sublime si possa pensare, anzi di più, di quanta, in nessun modo, si possa pensare. Il fiore uscì dalla radice di lesse. Fino dove? Certamente fino alla sommità, perché Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre (Cfr RI 2,1 1). La sua magnificenza è elevata al di sopra dei cieli (Cfr SaI 9,2), e così il seme del Signore sarà magnifico e glorioso, e il frutto della terra sarà sublime (Cfr Is 4,2).

Benedetto come frutto di vita per noi

Ma che profitto c’è, per noi, in questo frutto? Quale, se non il frutto della benedizione che procede dal frutto benedetto? Da questo seme, da questo germe, da questo fiore proviene un frutto di benedizione che arriva fino a noi. Prima sotto forma di seme per la grazia del perdono; poi sotto forma di germoglio perla nascita nella santità; poi, infine, sotto forma di fiore per la speranza e l’acquisto della gloria. Benedetto da Dio e in Dio, cioè che Dio è glorificato in lui, poi è benedetto anche per noi cosicché siamo glorificati in lui che per la promessa fatta ad Abramo Dio gli diede la benedizione di tutti i popoli, affinché nel dono della benedizione egli sia benedetto per noi. Per questo dono sia sempre benedetto per noi con azioni di grazie e confessione di lode. Il suo nome di eterna maestà, sia benedetto, e tutta la terra sia riempita della sua maestà! Amen, amen! (Cfr SaI 72,19).

Ripensare il problema morale della “omosessualità” in senso generico sub luce evangelii non è ripensarlo con le categorie mentali e la tradizione filosofica che hanno dominato per millenni. E’ invece ripensarlo nel quadro di tutte le nuove conoscenze ed acquisizioni in materia di sessualità umana.

L’altare: cuore e centro della celebrazione
di Rinaldi Falsini

La riforma liturgica ha evidenziato la centralità dell’altare: in esso si rende presente il sacrificio della Croce ed è anche la mensa del Signore.

La discussione sull’altare verso il popolo (VP 10/2006, pp. 54-55) ha concentrato tutto l’interesse, mettendo in ombra le altre caratteristiche non meno importanti che la riforma liturgica ha riconosciuto all’altare cuore e centro della celebrazione liturgica. Si spiega pertanto la difficoltà di un’intesa su un aspetto che, nonostante la sua innegabile risonanza pastorale e culturale, appare secondario e meno ovvio nel complesso della sua natura e funzione. La soluzione di questo e altri problemi risiede primariamente nel prendere atto della posizione dell’altare alla luce delle recenti disposizioni che - possiamo aggiungere tra parentesi - si fondano anche sulla conoscenza dell’origine e dello sviluppo storico che qui non possiamo ricercare.

Il documento di riferimento è l’Ordinamento generale del Messale Romano (3ª ed., 2000, Ogmr), senza dimenticare per l’Italia L ‘adeguamento delle chiese alla riforma liturgica, 1996; mentre tra le trattazioni specifiche ricordiamo due numeri della Rivista di pastorale liturgica (158/1990 e 202/1997) e il magistrale studio L’altare mistero di presenza, opera dell’arte, a cura di G Boselli (Monastero di Bose, 2005).

Tralasciando le questioni storiche, scegliamo quegli aspetti messi in maggiore evidenza dalla riforma liturgica. Anzitutto partiamo da una premessa dottrinale, su ciò che avviene sull’altare come realtà oggettiva citando questa chiara affermazione dell’Ordinamento generale 296: «L’altare sul quale si rende presente nei segni sacramentali il sacrificio della Croce è anche la mensa del Signore, alla quale il popolo di Dio è chiamato a partecipare quando è convocato per la messa; l’altare è il centro dell’azione di grazie che si compie con l’eucaristia».

Sacrificio e banchetto eucaristico sono strettamente congiunti proprio in base alla comune mensa eucaristica ove si attualizza il sacrificio nei segni sacramentali di pane e vino e alla quale i fedeli sono convocati a partecipare comunicandosi al corpo e al sangue di Cristo: due aspetti fondamentali che emergono dalla centralità dell’azione eucaristica compiuta su quella mensa. Il tutto in un clima di azione di grazie e di festa, con l’accenno ai fedeli e ai segni di pane e vino.

Ecco una presentazione completa e originale del mistero eucaristico che si realizza sull’altare capace di superare ogni divisione e contrasto a cominciare da quanti hanno creduto che la celebrazione eucaristica sull’altare verso il popolo possa oscurare l’aspetto sacrificale, tutto a favore dell’aspetto conviviale. Un’idea priva di ogni fondamento, avanzata fin dal 1993 e riproposta di recente in un’intervista a un giornale italiano da Uwe M. Lang, autore del noto saggio Rivolti al Signore. L’affermazione dell’Ordinamento generale 296 merita di essere sottolineata anche nella stessa catechesi eucaristica a vantaggio del significato della comunione eucaristica ridotta a un semplice incontro con Gesù, trascurando ogni raccordo con il suo sacrificio della croce.

Il nuovo volto o meglio la figura rinnovata dell’altare è tratteggiata dal numero 299, completato da altri particolari del relativo paragrafo: «L’altare sia costruito staccato dalla parete, per potervi facilmente girare intorno e celebrare rivolti verso il popolo: la qual cosa è conveniente realizzare ovunque sia possibile. L’altare sia poi collocato in modo da costituire realmente il centro verso il quale spontaneamente converga l’attenzione dei fedeli. Normalmente sia fisso e dedicato».

Il testo, proveniente dall’istruzione Inter oecumenici (26.9.1964), elaborato quindi dalla Commissione preparatoria, viene ritenuto determinante per ridonare all’altare la sua “personalità” e la “centralità” dell’assemblea celebrante. Il distacco dalla parete è previsto per il rito della dedicazione da parte del vescovo e l’incensazione nella messa cantata o solenne.

Ma è la dignità dell’altare che richiede il distacco dalla parete per acquisire una propria autonomia. Mentre la sua posizione di centro ideale nell’assemblea, in modo da attirare l’attenzione “spontanea”, tende ad avvicinare clero e fedeli, favorendo la partecipazione, soprattutto per il valore simbolico di Cristo che gli viene attribuito dalla tradizione e dalla stessa dedicazione. Occorrerà non solo la vicinanza dei fedeli all’altare (il Canone romano parla di circumstantium), ma anche la scelta di una posizione visibile, alquanto elevata, ben illuminata.

Attorno all’altare ci sarà uno spazio aperto perché si possa celebrare rivolti al popolo e suscitare un clima familiare. Chi entra in chiesa deve sentirsi come chi entra nella propria casa: la tavola è la realtà che diventa centro e crea famiglia,consolidando i rapporti, senza per questo perdere sacralità, rispetto, venerazione, segno di Cristo e luogo in cui si compiono i misteri di salvezza. Il sacralismo preconciliare aveva creato la balaustra con la relativa comunione in bocca, ma la partecipazione dei fedeli alla mensa eucaristica non deve incontrare barriere di sorta pur nella consapevolezza del suo significato di fede.

È interessante l’accenno alla celebrazione rivolti al popolo, chiara e decisa, quasi ovvia, in una ritrovata unità e nel rapporto dialogico proprio della lingua parlata. Tutto è coerente e ordinato, anche se le modalità operative non sono sempre facili e soddisfacenti.

Il numero prosegue con il richiamo all’altare “fisso” e non mobile, trattandosi di una chiesa, con la mensa di pietra, come dispone l’Ordinamento generale 301, «secondo un uso e un simbolismo tradizionali nella Chiesa». Gli antichi altari sono di legno e hanno la forma di tavolo (mensa-trapeza) piccolo, a forma di ferro di cavallo; ma fin dal secolo IV era già comune l’altare di pietra soprattutto per influsso biblico, come metafora di Cristo, «la pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d’angolo» (cf Mt 21,42; 1Pt 2,4). Con questo passaggio si rafforza il significato cristologico arricchito dall’unzione nel rito della dedicazione, nel quale è detto che «con l’unzione del crisma l’altare diventa simbolo di Cristo». Così l’altare diventa simbolo di Cristo unico sacerdote, altare e vittima (come si legge nel prefazio pasquale V), assumendo in seguito una forma quadrangolare per indicare che esso è centro del mondo e poi della Chiesa.

L’altare - conclude il numero 299 - deve essere non soltanto fisso ma “dedicato”, mentre per quello mobile è sufficiente la benedizione. Non è questo il momento dell’analisi del rito della dedicazione, anche se la ricchezza simbolica evocata non può passare sotto silenzio. Ci limitiamo a segnalare lo studio di Paul De Clerck (nel volume citato. L’altare mistero di presenza, opera dell’arte, pp. 39-51) e il prefazio della dedicazione dell’altare: «Sacerdote e vittima della nuova alleanza / egli comandò di perpetuare nei secoli / il sacrificio a Te offerto sull’altare della croce. / Ti dedichiamo con gioia questa mensa / dove (…) ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio / per formare la tua Chiesa una e santa. / Alle sorgenti di Cristo, pietra spirituale, / attingiamo il dono del tuo Spirito / per essere anche noi / altare santo e offerta viva a te gradita».

Sulla suppellettile dell’altare rinviamo ai numeri rispettivi: si distenda sopra l’altare sul quale si celebra una tovaglia di colore bianco (cf Ogmr 304); i candelieri siano posti sopra o accanto all’altare (cf 307); la croce ben visibile sia ugualmente posta sopra l’altare ovvero a fianco (cf 308).

Un problema delicato, relativo all’unicità dell’altare nelle chiese già costruite e in quelle nuove, è affrontato con chiarezza al numero 303: «Nelle nuove chiese si costruisca un solo altare»; nelle vecchie «si costruisca un altro altare fisso» e il vecchio altare sia privo di ogni ornamento. Viene indicata come motivazione che un solo altare significa «alle comunità l’unico Cristo e l’unica eucaristia della Chiesa».

Aggiungiamo tra le “Precisazioni” della Chiesa italiana inserite nel Messale, il n. 14, che riassume alcune questioni aperte e ne offre la soluzione: «L’altare fisso della celebrazione sia unico e rivolto al popolo. Nel caso di difficili soluzioni artistiche per l’adattamento di particolari chiese e presbiteri, si studi, sempre d’intesa con le competenti commissioni diocesane, l’opportunità di un altare mobile appositamente progettato e definitivo. Se l’altare retrostante non può essere rimosso o adattato, non si copra la sua mensa con la tovaglia. Si faccia attenzione a non ridurre l’altare a un supporto di oggetti che nulla hanno a che fare con la liturgia eucaristica.

«Anche i candelieri e i fiori siano sobri per numero e dimensione. Il microfono per la dimensione e la collocazione non sia tanto ingombrante da sminuire il valore delle suppellettili sacre e dei segni liturgici».

su un gesto piccolo ma carico di un grande valore significativo, che il presidente di ogni celebrazione eucaristica compie, anche a nome di quanti rappresenta, all’inizio e al termine dell’azione: il bacio dell’altare.

Dal n. 49: «Giunti in presbiterio il sacerdote e il diacono e i ministri salutano l’altare con un profondo inchino. Quindi, in segno di venerazione, il sacerdote e il diacono lo baciano e il sacerdote, secondo l’opportunità incensa la croce e l’altare». Dal n. 90: l’ultimo rito di conclusione comprende «il bacio dell’altare da parte del sacerdote e del diacono e poi l’inchino profondo all’altare da parte del sacerdote, del diacono e degli altri ministri».

Attraverso il simbolo, il bacio va alla persona medesima di Cristo, ha scritto il compianto amico L. Della Torre: baciare una persona non è senza una profonda relazione con lui e senza coinvolgimento nei suoi riguardi. Poiché Cristo simboleggiato dall’altare, è il capo, il bacio è a lui dato per estensione a tutto il suo corpo.

(da Vita Pastorale, Novembre 2006)

Perché la riforma voli sempre più in alto
di Silvano M. Maggiani osm *


La prima settimana prese avvio nel 1957. Ne furono celebrate tredici, con una buona partecipazione di insegnanti ogni volta. Nel XII corso, a Ferrara di Monte Baldo (Vr), 1979, si maturò la consapevolezza di dover dare vita a una vera e propria Associazione dei docenti e cultori di liturgia. Nel clima associazionistico del tempo erano già nate le associazioni dei teologi, dei moralisti e degli storici della Chiesa. Ma soprattutto stava prendendo sempre più consistenza il dover rispondere al dettato della costituzione liturgica che prescriveva di computare la liturgia nei seminari e negli studentati religiosi, “tra le materie necessarie e più importanti” e nelle facoltà teologiche “tra le materie principali” (SC 16).

Per rispondere a questa istanza, da una parte, il dettato conciliare richiedeva per i professori di liturgia di “ricevere una speciale formazione” per tale compito in istituti a ciò destinati (SC 15) e, dall’altra, ci si rendeva conto che l’andare oltre una conoscenza rubricistica a favore di uno studio della teologia liturgica e dell’approfondimento di che cosa si celebra e come si celebra, sollecitata dai primi frutti della riforma liturgica, comportava un investimento di persone e di tempi che non potevano essere circoscritti a iniziative solitarie o meramente autonome. Lo statuto proprio del celebrare e per mezzo dei segni sensibili, per mezzo dei riti e delle preghiere il mistero del Signore Gesù, in Spirito Santo, esige una intelligenza per la sua comprensione e per la sua messa in atto che coinvolge necessariamente più competenze a confronto tra loro.

Così nel XIII corso organizzato dal CAL a Bergamo (1972) al termine della Settimana liturgica nazionale, il giorno 8 settembre fu costituita ufficialmente l’associazione, autonoma dallo stesso CAL, il quale perseguiva strade più pertinenti all’alta divulgazione e alle immediate scelte pastorali. L’associazione fu voluta aperta «a coloro che svolgono ricerche in discipline liturgiche o complementari, oppure sono incaricati per la liturgia nelle diocesi o negli istituti religiosi» (Statuti, art. 4).

Dal 1972 a oggi l’Apl ha organizzato 34 settimane di studio, di cui sono stati pubblicati gli Atti (quelli della 34ª Settimana saranno editati nel 2007). Essi sono i risultati più significativi e concreti della cura che i soci, tramite le assemblee annuali e i vari consigli di presidenza, hanno impiegato per attuare e rispondere allo scopo precisato negli Statuti, art. 2.

Esso è unico, ma dinamicamente vuole coinvolgere l’atto di fede e la fede in atto dell’azione liturgica, vuole primariamente «promuovere, aggiornare e qualificare lo studio e l’insegnamento della liturgia nelle facoltà teologiche, nei seminari e studentati religiosi o in altri istituti di scienze religiose, secondo lo spirito di SC 16 e di OT 16 e a norma della Ratio studiorum per i seminari», senza tuttavia tralasciare di «collaborare, nel suo specifico campo, alla promozione della vita liturgica nella Chiesa in Italia e favorire la formazione del clero in campo liturgico».

Perché si celebra


Un’attenta lettura diacronica degli Atti fa emergere, nella qualità dei contributi, l’attenzione posta ora più specificatamente a tematiche di fondo di liturgia sacramentale, di teologia liturgica fondativa; ora, più evidentemente, a tematiche di teologia pastorale liturgica con attenzione al contesto prevalentemente italiano ed europeo. Alla preoccupazione di approfondire il che cosa si celebra in Spirito Santo nella liturgia cristiana, nel trascorrere degli anni sempre più insistentemente si insinua la domanda del perché si celebra, domanda a cui si tenta di rispondere, di volta in volta, con l’attenzione a un metodo che coinvolga l’uso rispettoso delle cosiddette scienze umane. Anche gli altri contributi che assieme agli Atti costituiscono la collana “Studi di liturgia” (giunta al quarantottesimo volume, edita dalla Clv-Ed. Liturgiche, Roma) sono stati scelti, non solo per favorire le ricerche dei docenti o dei giovani studiosi di liturgia, ma anche per continuare a mantenere viva una problematica metodologica che permetta di approfondire il dato liturgico dal punto di vista storico, più propriamente teologico e antropologico, nel rispetto della realtà divino-umana che è la liturgia.

Con questa apertura, l’attenzione alle scelte proprie della pastorale liturgica, al come celebrare, rifugge da immediatezze contingenti, ma si preoccupa di offrire chiavi di lettura, prospettive che possono aiutare a far pensare i pastori, a liberarli dalla tentazione del “tutto o niente”, a confrontarsi con problematiche soggiacenti alle scelte pastorali, a volte disattese. Anche il manuale di liturgia Celebrare il mistero di Cristo (con i suoi tre volumi, di cui due pubblicati e il terzo in arrivo) e il sussidio Celebrare in Spirito e Verità (alla terza ristampa) sono strumenti programmati e realizzati per favorire personalmente le scelte pastorali a servizio del mistero celebrato e dei celebranti il mistero.

Di questa dinamica tra il teologico (studio-ricerca-insegnamento) e il pastorale sono garanti, se così si può dire al riguardo, i circa 270 soci, tra docenti e cultori, che seguono con interesse il cammino dell’ApI e vi partecipano, pur risentendo anche loro, globalmente, della crisi partecipativa odierna dell’associazionismo sia laico che religioso.

Molti di essi hanno avvertito e avvertono che attualmente, in un clima di complesse e composite e ambigue rimesse in questione della riforma conciliare e della sua attuazione, ad opera di persone e di gruppi pur ristretti, l’approfondimento che persegue l’associazione mira ad accogliere l’ethos della riforma per essere fedele allo spirito e alla lettera del concilio Vaticano Il, cosciente che lo spirito della liturgia e i linguaggi rituali propri della riforma conciliare coinvolgono, al di là dei limiti propri della condizione umana, un nuovo ethos di “sentire” la Chiesa e di viverla, di “sentire” il mistero e di viverlo, ben oltre il problema, assai isolato, di un’unica lingua che lo esprima, ben oltre una o l’altra orientazione del celebrante che presiede.

Nell’ottica del Vaticano Il


Lo stesso problema della partecipazione attiva, del canto-musica per la liturgia, delle dinamiche tra il sacro e il santo in sacramentaria, della ministerialità laicale, dell’inculturazione nelle Chiese di antica e nuova esperienza cristiana, dei problemi sollevati dal dialogo ecumenico, sono da leggere e da approfondire nell’ottica del rinnovamento avviato dal concilio Vaticano Il, con la continua attenzione alla parola di Dio attestata dalle Scritture e la consapevolezza di essere Chiesa in un’umanità culturalmènte variegata e in trasformazione, con rinnovata speranza e liberi da ogni paura, nel costante discernimento.

La riforma liturgica è da tempo decollata e la navigazione persegue una rotta nella fede e nella speranza, non timorosa delle turbolenze o rallentamenti o sobbalzi: nulla sarà più come prima, in una traditio dinamica, salva l’identità e l’assolutezza del dono della salvezza-redenzione che a noi si dona nelle dinamiche della incarnazione-risurrezione del Signore Gesù, nel suo Spirito Paraclito. La navigazione per l’Apl deve mirare a volare alto. Le settimane di studio annuali che si celebrano alternativamente tra il Nord, il Centro, il Sud e le Isole, e la sua Collana di studio, aperte a uomini e a donne che desiderano approfondire e confrontarsi, sono i suoi strumenti e mezzi privilegiati.

Il Notiziario Apl - Informazioni al suo 35° anno di vita con 83 numeri; il sito internet www.apl-italia.org, e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.; l’efficace segreteria presso l’Abbazia di Santa Giustina, via G. Ferrari, 2A —35123 Padova, tel. 049.82.20.431, fax 049.82.20.469 (ccp 17506353); sono mezzi e strumenti al servizio di una esperienza ereditata dal Movimento liturgico italiano, che con tenacia persegue il suo scopo, e con una risonanza ormai internazionale.


* preside della Pontificia facoltà teologica Marianum
e docente di teologia liturgico-sacramentaria

Bibliografia

Maggiani S., “Presentazione”, in Apl, Liturgia: itinerari di ricerca. Scienza liturgica e discipline teologiche in dialogo, Atti della XXV Settimana di studio ApI, 1996, Clv - Ed. Liturgiche 1997, Roma, pp. 5-12; Id., “L’opera ‘aperta’ dell’evento conciliare”, in Apl Informazioni 34 (2005) n. 83, pp. 5-10; Sartore D., “Associazione professori e cultori di liturgia”, in Sartore D. - Triacca A. M. - Cibien C. (a cura di) Liturgia, San Paolo 2001, Cinisello B., pp. 1379-1381; 1384-1385; Sodi M., “Il Decennale dell’Apl”, in Apl, Spirito Santo e Liturgia, Atti della XII Settimana di studio Apl 1983, Marietti 1984, Casale M., pp. 131-165.

Venerdì, 29 Dicembre 2006 20:33

Evangelizzare (il) postmoderno (Armando Matteo)

VIVIAMO IN UN’EPOCA NELLA QUALE NON È PIÙ OFFERTA ALL’UOMO OCCIDENTALE UNA TAVOLA CONDIVISA DI RIFERIMENTI E DI VALORI

Evangelizzare (il) postmoderno
di Armando Matteo


Bisogna abitare questo tempo come Gesù ha vissuto il tempo di Nazaret, luogo in cui è possibile “imparare” Dio, il suo nome e il suo stile. Il segno più evidente della “postmodernità” è il venir meno di una visione religiosa della vita. Della postmodernità occorre evangelizzare l’atteggiamento antimetafisico, il tratto antisacrificale e la dimensione antiideologica.

Sconvolge la dismisura esistente tra i trent’anni passati da Gesù nel più profondo anonimato a Nazaret e la brevità della sua missione pubblica. Di quel periodo gli evangelisti ci riportano solo brevi notizie, ma quello è stato il tempo di un fecondo apprendistato presso l’uomo del suo tempo, che ha consentito a Gesù di individuare, al momento opportuno, la giusta chiave d’accesso al cuore e alla mente dei suoi contemporanei. Gli ha permesso quella profonda compartecipazione alla storia dell’uomo della porta accanto, quella lucida presenza di spirito alla vita concreta, spicciola, così che mai le sue parole risuonarono astratte, distratte, indifferenti, semplici luoghi comuni, intellettualistiche o enigmatiche.

Basta, infatti, sfogliare qualche pagina dei vangeli per afferrare la straordinaria misura con la quale Gesù ha saputo scendere dentro i dettagli della vita quotidiana degli uomini e delle donne del suo tempo, con una concretezza e una precisione che hanno preservato il suo insegnamento, che resta la sua prima e fondamentale opera di evangelizzazione, da qualsivoglia deriva dottrinalistica e ideologica.

La scuola di Nazaret

La lunga sosta di Nazaret -  vera incarnazione nell’incarnazione - gli ha consentito di insegnare agli uomini a riconoscere la presenza di Dio nel cibo che non manca ai piccoli del corvo e nella bellezza non artificiale dei gigli dei campi. E soprattutto in quel di “più” con cui l’Abbà - Padre suo e Padre nostro - si prende cura della creatura umana, che arriva sino all’impensabile della conoscenza del numero dei capelli che portiamo in capo!

innestato nell’ambiente umano del suo tempo. discepolo anonimo dei suoi stessi discepoli futuri, diventa unparadigma fecondo per pensare in termini precisi il metodo e lo stile dell’evangelizzazione contemporanea.

Come Gesù, bisogna abitare questo tempo, cercando di definirne i contorni e i motivi profondi. Specificatamente. Si tratta di cogliere le linee congiunturali che segnano l’oggi della storia e misurare gli spazi di accoglienza che potrebbero riservare alla verità dei misteri cristiani. Si tratta insomma di imparare ad evangelizzare il postmoderno, evangelizzando postmodernamente, con uno stile di annuncio capace non solo di parlare del e al mondo (= destinatari) postmoderno, ma il mondo (= sintassi) postmoderno.

Ciò postula la decifrazione dei marcatori più forti della postmodernità e una loro intensa interrogazione. Solo sostando su di essi, si possono cogliere quegli spiragli capaci di indirizzare efficacemente l’opera di evangelizzazione.(1)

‘‘Non c’è più religione’’

Non è certamente semplice “dare nome” alla nostra epoca, nella quale siamo chiamati a ridire la bellezza e la pertinenza umana della parola del Vangelo, ma è un’operazione indispensabile.

Ci sembra opportuno partire da un’espressione molto comune, la cui analisi ci può aiutare a cogliere il volto del nostro tempo: “non c’è più religione”. Essa è frequentemente usata per nominare gli inediti contorni di un mondo che non risponde più ai comandi di una saggezza antica, informata essenzialmente all’immagine religiosa dell’esistenza offerta dal cristianesimo. Trattasi di bizzarri abbigliamenti, di nuove forme gergali, di improvvise interruzioni di scelte di vita una volta definite ‘”per sempre” (matrimonio o consacrazione religiosa), di scandali che coinvolgono persone sino allora al di sopra di ogni legittimo sospetto, il colto e il semplice trovano proprio nella locuzione citata - “non c’è più religione” - lo strumento più adeguato per manifestare il proprio disorientamento e disagio di fronte al tempo che vivono.

L’espressione, però, dice molto di più di quanto non si creda in prima istanza: coglie in semplicità e pertinenza la risultanza complessiva di quella svolta, mutamento, rivoluzione, che chiamiamo avvento della postmodernità. Con esso, infatti, accade il tempo in cui non è più possibile istituire una qualche forma di visione religiosa sulla propria vita e sul mondo. Siamo nell’epoca della fine della religione, nella quale non è più offerta al soggetto umano una tavola condivisa di riferimenti, di valori non negoziabili e gerarchicamente strutturati, con la quale valutare e ordinare l’esercizio della sua libertà e alla quale legare il proprio desiderio di una vita buona e felice.

Con le parole di F. Lenoir possiamo dire: «Ci troviamo chiaramente in presenza di una nuova fase della modernità, ancora più radicale di quella precedente, il che giustifica l’espressione “ultramodernità”. Nella precedente tappa si è verificata la separazione (formale o de facto) del potere religioso e di quello politico, nonché l’estromissione di ogni trascendenza della religione dallo spazio sociale globale. La fase ulteriore che stiamo vivendo oggi consiste nell’espulsione di ogni trascendenza, assoluto, carattere sacro o intangibile, che tenderebbe ancora a legittimare un’istituzione o una pratica sociale. Nel mondo tradizionale, il criterio dell’assoluto e dell’intangibile proviene dalla religione. Nella modernità, tuttora legata ai “grandi discorsi”, viene trasferito in un ordine sociale e naturale che mantiene un’impronta religiosa attraverso il carattere assoluto del loro fondamento estremo. Nell’ultramodernità non vi è più alcun assoluto. alcun ordine che si imponga a tutti» (2)

Ecco qui indicata la cifra con la quale possiamo nominare il nostro tempo: ci troviamo un tempo definitivamente post-religioso, un tempo nel quale vengono a cadere le condizioni di possibilità perché possa darsi qualcosa come una “religione”.(3)

La nostra è l’epoca della fine della religione. Questo rilievo sintetico intende segnalare quella destrutturazione cui è sottoposta la concezione classica dell’uomo, dei legami familiari, della società, dell’etica e della politica, e ovviamente del cristianesimo, che non rende più possibile un’organizzazione strutturata del cosmo interiore del soggetto in corrispondenza con l’ordine socio-culturale vigente e in vista della sempre difficile missione di dare un nome al proprio mestiere di vivere.

Più concretamente: l’imporsi di un’ontologia del finito e l’abbandono della metafisica, l’affermarsi di una visione ‘‘vitalistica” dell’esistenza e il crollo dell’immaginario sacrificale, l’avvento di una mentalità profondamente democratica e pluralistica e la diminuita forza di credibilità delle istituzioni pubbliche (che tocca profondamente il valore dell’insegnamento magisteriale della chiesa, nel senso della sua fatica a innescare nei credenti comportamenti inerenti alle istruzioni offerte) sono i nomi delle cause che segnano la scomparsa della religione.(4)

oramai diffuso, si può e si deve parlare di definitivo tramonto della cristianità. (5).Con le parole trasparenti dei nostri vescovi, possiamo dire: «Da tempo la vita non è più circoscritta, fisicamente e idealmente, dalla parrocchia; è raro che si nasca, si viva e si muoia dentro gli stessi confini parrocchiali; solo per pochi il campanile che svetta sulle case è segno di un’interpretazione globale dell’esistenza. Non a caso si è parlato di fine della “civiltà parrocchiale”, del venir meno della parrocchia come centro della vita sociale e religiosa. Noi riteniamo che la parrocchia non è avviata al tramonto; ma è evidente l’esigenza di ridefinirla in rapporto ai mutamenti, se si vuole che non resti ai margini della vita della gente». (6)

Ecco il punto nodale: la difficoltà che il cristianesimo oggi soffre è esattamente quella di presentarsi come un’interpretazione globale dell’esistenza, cioè come una religione. Ciò non manca di manifestarsi negativamente nella vita delle persone,le quali, private di un orientamento globale di senso, spesso non restano solo ai margini della vita ecclesiale, ma ai margini della vita tout court.

Ha scritto lucidamente C. Magris: «In Italia, e anche in altri paesi, folle devote riempiono ogni tanto con fervore le piazze e grandi occasioni rituali destano il momentaneo interesse della gente e dei media, ma le chiese si svuotano ogni giorno di più, sacramenti come il battesimo e il matrimonio religioso cadono sempre più in disuso e soprattutto sparisce la cultura cristiana e cattolica, la conoscenza elementare dei fondamenti della religione e dei passi evangelici, come si può constatare frequentando gli studenti universitari. Si tratta di una mutilazione per tutti i credenti e non credenti, perché quella cultura cristiana è una delle grandi drammatiche sintassi che permettono di leggere, ordinare e rappresentare il mondo, di dirne il senso e i valori, di orientarsi nel feroce e, insidioso garbuglio del vivere». (7)

Come, allora, poter annnunciare il liberante messaggio dell’amore di Dio all’uomo contemporaneo?

Evangelizzare il tratto antimetafisico della postmodernità

La presenza dell’uomo nel mondo è oggi guidata da una decisa opzione per la finitezza dell’esistenza. Non si crede più al mondo platonico delle idee, all’esistenza dl valori trascendenti e normanti l’esperienza della libertà, non si allarga più lo sguardo oltre la morte. Tutto ciò che è, è finito.

Ma cosa comporta questa svolta antimetafisica della cultura occidentale? Certamente ci sono i risvolti legati all’affermarsi di una cultura sensibile-sensuale, che promette a tutti l’immediato godimento della vita e l’illusione di non sprecare alcuna occasione, con i tanti esiti tragici di cui spesso siamo impotenti testimoni; ma non c’è solo questo. La svolta antimetafisica comporta, per esempio. anche una precisa rivalutazione del finito quale luogo degno dell’umano, luogo cioè abitabile dall’uomo. Non si deve più “disprezzare” il finito, il limitato, per onorare la vocazione trascendente (la sua ex-sistentia) dell’uomo. E cosa non dire poi del tema della corporeità, degli affetti e dei legami, e infine della sessualità, sottoposti qualche volta ad un trattamento non generoso da parte della tradizione platonico-cristiana?

Come può ora il cristianesimo intercettare questa affermazione così decisa dell’umana abitabilità del finito? Come può ancora parlare di Dio e di trascendenza in questo contesto?

La provocatorietà e l’irritazione connessa alla presa di coscienza della svolta antimetafisica devono spingere la teologia a riscoprire la grammatica trinitario-kenotica dell’evento dell’incarnazione. Non si tratta certamente di una scoperta dell’ultima ora: il cristianesimo è fondamentalmente segnato dalla logica del già e del non ancora. Si tratta piuttosto di cogliere il tempo presente come un invito a porgere l’annuncio del volto cristiano di Dio lasciandosi maggiormente istruire dalla scuola di Nazaret.

Il Dio che noi annunciamo, infatti, dichiara per primo non solo l’umana abitabilità del finito, ma anche e più sorprendentemente la divina abitabilità del finito. Nell’evento dell’incarnazione ne va della verità cristiana: è quello il luogo in cui imparare Dio, il suo nome e soprattutto il suo stile. Dio è, per i cristiani, secondo Gesù! Il cristianesimo è esperienza di Dio secondo Gesù: credere è assumere lo stesso sguardo di Gesù relativamente a Dio, all’uomo e al mondo. Gesù mostra a noi il volto del Dio-Trinità, dal cui abbraccio infinito prende origine la tenerissima cura con la quale Dio accompagna la faticosa avventura della singolare esistenza di ognuno di noi.

Di più: Gesù è il volto di Dio che sa abitare il finito e che non si presenta sulla scena della storia umana con i segni di una gloria cui nessuno saprebbe resistergli. Egli rivela ed è, e rivela perché è, un Dio cui l’uomo può sfuggire. Dio sa abitare la distanza che la libertà dell’uomo impone: Dio non è irresistibile. Si offre alle nostre mani. Accetta la logica del finito: la logica della libertà, sino in fondo, sino alla croce. Ma, nello stesso tempo, svela che ciò che è finito è più che finito. Proprio nell’evento dell’incarnazione, infatti, Gesù rivela anche l’ampiezza (il di più) della nostra libertà: possiamo accogliere o rifiutare Dio stesso. Ed è sulla formidabile pertinenza umana della prima opzione che il cristianesimo è chiamato a giocare la sua partita,

Evangelizzare il tratto antisacrale della postmodernità

Nel tempo passato, segnato da numerose situazioni di miseria e di bisogni non sempre soddisfatti, l’esercizio della libertà era molto compresso e compromesso. Basterebbe pensare al limitato raggio di azione nella scelta dell’uomo o della donna da sposare, del tipo di mestiere da esercitare o anche semplicemente del luogo dove abitare. Per questo si veniva iniziati al mistero della vita attraverso la sofferta indicazione che l’esistenza è fatta di sacrifici. Questa elementare catechesi era già una forma di iniziazione al grande catechismo ecclesiale del sacrificio di Cristo per meritare la salvezza dell’uomo. La postmodernità è invece caratterizzata da una decisa sospensione del valore positivo del sacrificio: la vita è fatta di occasioni e di possibilità.

Oggi nessuno accetta come verità elementare la necessità del sacrificio quale condizione di una vita buona e degna dell’uomo. Anzi tutti si sentono sempre vittime, perseguitati, privati di qualcosa che doveva essere loro concesso, per cui il senso di tolleranza nei confronti della violenza, che comporta il solo evocare l’idea di un sacrificio, è bassissimo.

Questo tratto della mentalità contemporanea provoca una forte tensione quando si discute di evangelizzazione. Sembrerebbe quasi che sia impedita qualsiasi parola circa il mistero della croce di Cristo, qualsiasi accenno al lato agonico dell’esistenza, qualsivoglia riferimento al tema evangelico del “perdere la vita”. Come interagire con tutto ciò?

Intanto la teologia, oggi, ci invita a non assolutizzare la lettura sacrificale della croce di Cristo. È il Crocifisso che rende preziosa la croce. Al cuore dell’evangelo si trova infatti il dono della vita da parte di Gesù come ultima insuperabile testimonianza che solo l’amore di e per Dio salva l’uomo - ieri come oggi.

La concezione corrente (“vitalistica”) dell’esistenza, difatti, non è priva di contraccolpi per il soggetto postmoderno: la maggiore disponibilità economica, l’aumento della qualità e della quantità dell’offerta sanitaria, la logica del politicamente corretto hanno fatto esplodere l’ambito della libertà umana, ma resta il problema della sua configurazione. Come essere all’altezza della propria libertà? Come scioglierla dalla dipendenza di una rincorsa ossessiva dietro ogni occasione e dalla frustrazione continua di non aver afferrato quella migliore? Come liberare, infine, la libertà dalla deriva verso la depressività e dalla ricerca ansiosa di “cirenei” cui affidare questo peso: psicoterapeuti, guru, scrittori famosi e fumosi, leader carismatici di ogni tipo?

La fede cristiana promette esattamente una configurazione della libertà del soggetto umano che gli faccia conquistare il mondo senza perdere la propria anima. Afferma, infatti, che solo nella misura in cui facciamo nostra la fede in e di Gesù, accogliendo e ricambiando l’amore di Dio, evitiamo l’illusione di cercare negli altri, ma invano, quel riconoscimento del nostro essere amabili che solo l’Abbà di Gesù invece concede. Ecco perché solo Dio deve essere amato con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutta la forza. L’amore di e per Dio è la garanzia per un esercizio riuscito della libertà umana. Sorretti da questo amore, possiamo generosamente amare il prossimo.

Evangelizzare il tratto antiideologico della postmodernità

Un ultimo consistente tratto della postmodernità è dato dal crollo delle ideologie e dei partiti unici, che non concedevano spazio al nemico, al diverso, all’altro. E’ la vittoria della democrazia come sistema socio-culturale della convivenza non violenta dei diversi. E questa è una conquista che nessuno oggi si sognerebbe di mettere in discussione. Con essa accade una riabilitazione della libertà, del libero acconsentire da parte del soggetto a ciò che gli si offre come vero. mentre perde credibilità il profilo di una verità che si imporrebbe a tutti costi.

Da qui sorge quel tratto antiistituzionale tipico del nostro tempo che, mettendo in crisi i luoghi pubblici di mediazione, invita i singoli ad accedere autonomamente alla questione del senso. Ciò rende ragione della difficoltà di molti di riconoscere e di accettare la singolare mediazione ecclesiale-cristologica della verità. La chiesa viene normalmente allineata alle altre istituzioni umane e viene decifrata quale corpus di strutture, di regole, di funzioni e di funzionari. Tramite i media poi passa l’immagine di una chiesa quale istituzione assoluta- dai tratti quasi astorici - in grado di decifrare a priori la soluzione (non condivisibile ovviamente) di ogni problema, e quindi I ‘immagine di un’entità remota, distante, fredda, lontana dalla pratiche contemporanee di confronto e dialogo democratico.

E’ una situazione che richiede la massima accortezza e attenzione. La lezione che l’ascolto di questo tratto della mentalità postmoderna impone alla teologia è severa e parte dalla comprensione che la chiesa oggi si trova a vivere un’esperienza di debolezza, che va assunta con coraggio. Non si tratta semplicemente di riflettere sulla crisi numerica, bisogna invece riconoscere che qualche volta la chiesa stessa indulge in una posizione di rappresentanza e di istanza totale, correndo il rischio di giocare il ruolo di un “oggetto fittizio”, che ricorda il mondo moderno dell‘epoca della religione, carino e simpatico anche da visitare, ma scollegato dalla vita degli uomini e delle donne. Cosa fare dunque?

Serve il coraggio per la ,minorità: «Del resto non è in qualche modo la chiesa destinata a essere normalmente, nel suo cammino verso il Regno, in una condizione di minorità, chiamata ad andare sempre oltre il presente, a crescere non solo nel cuore degli uomini, ma pure nell ‘intelligenza di sé e del suo mistero. e nell’apertura alla novità di un Dio sempre più grande (“Deus semper maior”)?».(8)

Ci piace concludere con le parole davvero ispirate dal Card. Martini: “il riconoscere con serenità di essere piccolo gregge, di essere seme e lievito nella città, implica un ethos preciso. Un ethos di umiltà, di mitezza, di misericordia, di perdono, di riconoscimento delle proprie colpe anzitutto all’interno della chiesa (…). Una chiesa che è conscia della sua “minorità” ha più vivo il senso della testimonianza, coglie meglio le differenze in sé e attorno a sé, è più aperta al dialogo ecumenico e interreligioso, vive con più scioltezza la sinodalità e la collaborazione tra le chiese locali, instaura un rapporto più autentico con la chiesa universale in stretta comunione con il vescovo di Roma. Questo ethos interno ha anche un influsso sul modo con cui la chiesa si rende presente nel quadro sociale e politico di una nazione e sul modo con cui i singoli cristiani operano, a nome proprio e con propria responsabilità, nel campo politico? Certamente sì e vorrei richiamare qui alcune conseguenze. Esso 1) esclude una riduzione dell’impegno dei cristiani nel campo sociale e caritativo; 2) induce a un ‘‘pensare politicamente” che sia veramente tale, rifuggendo dalle soluzioni puramente settoriali; 3) contribuisce a creare un tessuto comune di valori; 4)promuove le regole del consenso dei cittadini. Il percorso di un cristiano cresciuto in una chiesa “piccolo gregge”. che ha colto la sua missione di essere seme e lievito, è dunque complesso ed esigente»(9)

(da Settimana, Ottobre 2006)

Note:

(1) Le considerazioni qui sviluppate sonopensate soprattutto per il contesto culturale occidentale. (2) Lenoir F., Le metamorfosi di Dio. La spiritualità occidentale, Garzanti,Milano 2005 (ed. or. 2003),. 182-183. Contrariamente al pensatore francese, preferiamo il termine “postmodernità”.

(3) Con Werbick anche noi intendiamo con il termine “religione” «un’opzione di base di tipo orientativo, permeata talvolta da un notevole grado d’insicurezza e connessa a numerosi iinterrogativi, volta a collocare l’esistenza dell’uomo in una prospettiva semplicemente identica a quella da cui ci si può aspettare che abbiano un senso il mondo, il cosmo. la vita in genere in tutte le sue fasi evolutive» (“Il futuro della religione in Europa” Regno-attualità 50 (15 settembre. 2005] 558.)

(4) Per una descrizione più dettagliata della postmodernità, ct. “Postmodernità e futuro del cristianesimo”, in Sett. N. 42/05, 8-9.

(5) Altamente istruttivo sulla questione è C. Torcivia, La chiesa oltre la cristianità, EDB. Bologna 2005.

(6) Conferenza episcopale italiana. Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia (30 maggio 2004), n. 2

(7) Magris C.,” Quando scompare il senso religioso”, in Corriere della Sera, 12.6.2004,1. Il fenomeno, pur vistoso, del contemporaneo risveglio del religioso - trova la sua ragion d’essere sia nell’eccessivo peso che l’esercizio della libertà comporta, sganciato da riferimenti valoriali sovraindividuali, sia nel bisogno di fuga dall’attuale cultura ipertecnologica avvertita come oppressiva.

(8) Martini C. M., Il seme, il lievito e il piccolo gregge. Discorso per la vigilia di S. Ambrogio, 5 dicembre 1998 (il testo è rinvenibile sul sito: www.chiesadimilano.it)

(9) lvi.

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