Formazione Religiosa

Sabato, 17 Febbraio 2007 01:06

Quali sono i fondamenti biblici della legge morale? (Paul Beauchamp)

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La legge di Dio

Quali sono i fondamenti biblici della legge morale?

(estratti)
di Paul Beauchamp

Paul Beauchamp, gesuita, è autore di un'opera esegetica senza confronti: D’une montagne à l’autre. La loi de Dieu. Andando felicemente al di là del semplice resoconto storico-critico dei testi, l’opera sollecita tutte le dimensioni umane e culturali in gioco nella Bibbia, con l'intento di trascinare il lettore «fino al fondo delle Scritture», quando vivere si confonde col credere e il comprendere. In questo libro, Paul Beauchamp riprende l’insegnamento della «Legge di Dio», da Mosè sul Sinai sino alla bassa collina di Galilea del Discorso della Montagna. Siamo invitati a rileggere il Decalogo alla luce delle stesse Scritture. Come distinguere il bene dal male? Come vivere insieme? Non è possibile nessuna morale senza memoria narrativa, quella dei peccati, del male commesso, delle ingiustizie, ma anche della speranza che la Legge stessa fa emergere di una mancanza sempre riproposta. In questa mancanza, inerente a ogni legge morale, Paul Beauchamp rivaluta la portata detta lettura che dei «dieci comandamenti» fa Gesù.


Gesù toglie dai propri comandamenti le clausole, pur provenienti dalla Torà, che temperano o ritardano il compimento del Decalogo e lo interpreta sulla base di esigenza che la sua lettera non farebbe supporre. Ai suoi occhi, gli inizi del male sono passibili delle stesse pene che la loro estrema conclusione, ed egli propone gesti così sproporzionati che si espone al rimprovero di proporre un'utopia, anzi un'utopia così eccessiva che rischia di non far neppure iniziare il cammino. Non dimentichiamolo: chiunque parla si assume un rischio. Rischio di essere preso alla lettera quando non dovrebbe, di vedere le sue parole stravolte, sfigurate dalle tendenze meno buone di coloro che le ascoltano, incamerate dallo spirito già ribelle alla maniera in cui gli uccelli si impadroniscono dei semi appena seminati (Mc 4,4.15). Gesù non sfugge a questo rischio. La parola di Gesù, come avviene, del resto, di ogni parola, non fa che affidarci allo Spirito.

Dove rifugiarsi davanti alle sue parole? Non abbiamo rifugi da proporre. Ma raccogliamo grazie a questi versetti di Matteo un raggio di luce: indipendentemente dalla fatica che fa inevitabilmente lo storico a ricostruire le parole di Gesù attraverso gli scritti evangelici che è impossibile immaginare che la violenza che si esprime in un tale discorso sia imputabile a qualcun altro che a Gesù stesso. L’acquisizione di questa conoscenza non è priva di costi. Detto questo, si possono ravvisare parecchie risposte. Conosciamo il rifiuto puro e semplice, fondato sia su una diagnosi di mancanza di realismo, sia sul timore di un sovvertimento o del fanatismo. Critica indubbiamente più grave: i richiami di Gesù perverrebbero ad una dismisura che orgogliosamente non terrebbe conto dei limiti umani.

Precetti, o «consigli»?

Si può anche tentare di minimizzare la pressione dei precetti. Riconosciamo almeno che si dovrebbe smettere di qualificare come «consigli» questi comandamenti di Gesù. San Paolo, sì, dà un «consiglio» (I Cor 7,25) che porta al volontario celibato. Egli lo distingue formalmente da un ordine del Signore (cf 7,10), perché non vi sono su questo punto nè ordini… e neppure consigli del Signore da trasmettere. Altrove Gesù valorizza la condizione degli «eunuchi a causa del Regno dei cieli» (Mt 19,12). Questa condizione si fonda su un richiamo, ed anche su un «dono» personale, e non su un suggerimento rivolto a tutti. Bisogna sottolineare che il Discorso della Montagna non lascia alcuno spazio a questo indirizzo. Non ne lascia neppure all'effettivo abbandono di tutti i beni a favore dei poveri, invito che va distinto da un'esigenza universale. Al contrario, Matteo 5 si rivolge ad ogni discepolo ed è accolto anche dalla cerchia più vasta della folla. In conclusione si tratta del destino di questa folla. Le solenni parole che concludono il Discorso e valgono per la totalità del suo contenuto non lasciano spazio ad alcun dubbio: costruire altrove che su queste parole significa esporsi ad una «grande rovina» quando verrà la prova. Ciò che viene dettato allo scopo di evitare di perire in una catastrofe tutt'altro che ipotetica, non potrebbe essere chiamato un consiglio. Si tratta al contrario di condizioni sine qua non per il compimento del Decalogo. Chi non vuole andare oltre, non porterà mai a termine.

Il celibato definitivo, l'abbandono di ogni proprietà (a favore non della comunità - che ne diverrebbe ricca - ma dei poveri) sono indirizzi che la tradizione della Chiesa ha chiamato «consigli», perché sono aperti, per chiamata e dono di Dio, soltanto ad individui che, se formano tra di loro un gruppo, non vi entrano che per libera scelta. Bisogna cogliere che, nel Discorso della Montagna, è in gioco ben altro. Le sue prescrizioni non formano un programma opzionale proposto alla generosità di individui distinti da una particolare vocazione. Esse si rivolgono ad un popolo.

In realtà, l'istanza che qui si esprime parla allo stesso livello di quella che enunciava la Torà. La modestia delle circostanze - una «montagna» sotto i cieli temperati della Galilea, una folla attirata da un profeta e che fa circolo attorno a qualche discepolo - non basta a far dimenticare il contesto del Sinai, che riuniva un popolo, perché questo quadro sinaitico, se è soltanto suggerito nello scenario, è pienamente nelle parole pronunciate da Gesù. Certamente l'intero Israele non è riunito attorno alla piccola montagna, ma soltanto il «sale della terra», cioè poca cosa, ma colui che parla prende le distanze dalle autorità riconosciute del popolo, per poco aggressivo che sia, il momento, il suo discorso. I suoi precetti non sono delle semplici garanzie supplementari per ottenere il Regno: «Non entrerete» (5,20) egli dice, se non le metterete in pratica.

Cosa più profonda è che mettere in discussione il regime matrimoniale e il regime penale, è colpire la società là dove essa si trova. Gesù non propone una migrazione interna, come quella degli Esseni di Qumrân, o, più vicino a noi, quella dei Mormoni. Egli presuppone al loro posto il Tempio e il suo altare, il sinedrio e gli altri tribunali (5,22-25.40). Gerusalemme rimane «la città del gran Re» (v. 35), i suoi discepoli sono supposti esservi a casa propria. Non si tratta di un modo di vivere considerato superiore ad altri, ma del «Regno dei Cieli». L'espressione «Io sono venuto» (5,17) non può significare altro che l'apertura di un momento decisivo della storia «Non può rimanere nascosta la città collocata sul monte»: se questa città, invece di assumere il ruolo di un semplice paragone, era la città che la legge di Gesù si apprestava a reggere, e che splenderà davanti a tutti i popoli come annunciavano i profeti, allora sarebbero confermati gli altri indizi. È un'intera società che deve vivere secondo la legge di Gesù, è ad essa che egli pensa «vedendo le folle» (5,1); sono queste stesse folle che, già attratte verso la parola per aver veduto quello che egli aveva operato presso i malati (4,23-25) ed ora «vivamente colpite dal suo insegnamento» (5,28), lo «seguono» (8,1).

Come vivere

(...) Il lettore del Discorso della Montagna, portato inconsciamente dal vocabolario e dalle immagini, si accorge subito di respirare all'aria aperta, davanti al ciclo, la terra, la montagna, in mezzo alla pioggia, ai torrenti, ai venti che si scatenano, oppure sotto il sole che «splende per i buoni e per i malvagi». Il tratto stilistico che maggiormente colpisce in questo testo è senza dubbio la sua capacità di richiamare tutto ciò che tocca il corpo, i corpi fisici, il corpo sociale, così come il mondo in cui questo corpo vive. Parla di erbe che crescono spontaneamente, cardi e rovi, ma anche di uva e di fichi. Parla degli animali, che appartengono a tutte le specie: temuti come il serpente e il lupo, disprezzati come i cani e i porci, poco augurabili come la tignola o il verme, apprezzati come il pesce, l'agnello, l'uccello.

Non siamo sempre in campagna: una città è visibile di lontano perché s'innalza sulla montagna, è Gerusalemme, «città del Gran Re». Il santuario, le sinagoghe, il tribunale, il sinedrio: ecco le principali istituzioni. Lungo le strade e agli incroci, i grandi personaggi ostentano la loro preghiera, gli amici si salutano tra di loro, li si riconosce da questo. I debitori insolventi sono portati in prigione dalle guardie, ci si scambiano ingiurie: «idiota», «rinnegato». Nella città, la gente cammina sul terreno così com'è, con i suoi rifiuti, come per esempio il sale inutilizzabile. Nella casa c'è il mobile su cui brilla la lampada. La camera è segreta, con le sue tende tirate. Il granaio contiene ciò che l'uomo ha ammassato dopo aver raccolto ciò che aveva seminato. Il suo tesoro è al riparo: denaro, stoffe preziose ma deperibili. Il fumo si alza dal forno dove bruciano le erbe. Il padre dà ai suoi figli del pane. È l’universo del «pane quotidiano».

L’occhio: esso è la lampada del corpo, perché la lampada mostra la strada a chi cammina. È occhio destro o sinistro, sano o no, e può essere una lampada senza luce. Il «capello» basta per parlare all'uomo della sua dipendenza. L'aspetto di chi digiuna è tetro, a meno che si lavi e si profumi, perché vi sono due categorie di digiunatori come vi sono l'uno e l'altro occhio, l'una e l'altra mano, l'una e l'altra guancia. Vedere, è vedere con il corpo e con lo spirito, e in ciò sta la differenza.

Che l'effetto del testo, a chi si lasci penetrare senza pregiudizi da ciò che le parole dicono ai cinque sensi del corpo, sia di tale respiro non si deve spiegare esclusivamente con l'ipotesi di condizioni di vita, che sono rimaste o diventate poco tormentate, della comunità di Matteo, destinataria di questo vangelo. Tuttavia questa interpretazione completa un'altra lettura, che vede piuttosto in questo testo la commemorazione di una tappa della vita di Gesù: là c’è il suo primissimo discorso che è preceduto, in fatto di parola pubblica, da una sola frase («Da allora Gesù cominciò a medicare e a dire: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino”»: Mt 4,17)! Questa prima tappa, nel dispositivo di Matteo, non conosce ancora i confronti. Essa offre al desiderio degli uomini un progetto di vita, ma l'orizzonte di un mortale corpo a corpo con le forze del male rimane ancora invisibile. Compiere, è compiere sino alla fine. Ma questa «fine» rimane fuori campo. C'è stato un tempo in cui Gesù parlava così. L'inserimento del Discorso nel racconto obbliga a non perdere di vista questa dimensione. Torneremo su questo: l'analisi delle fasi della storia di una vita lascia ancora uno spazio libero per la croce. La prospettiva mantiene la croce in un avvenire indefinito. Fu così, per qualche tempo, nella vita di Gesù e dei suoi. Questa considerazione dà tutta la sua forza alla svolta intrapresa con il cammino verso Gerusalemme. Gesù non affronta l'avversario prima del tempo, e questo tempo gli è fissato dal Padre, in maniera tale che gli è percepibile nelle pulsazioni del suo stesso ritmo.

La considerazione del Gesù storico, se gli dà un potente rilievo, non esaurisce l'effetto del messaggio. Dopotutto il compimento non dà verità alla morte stessa che alla condizione di avere prima attraversato la vita. Nella comunità toccata dal Vangelo, come nelle nostre, non tutti certo morranno «a causa di Gesù», ma tutti dovranno vivere secondo quello che lui ha detto, e, se lo fanno e muoiono in tanta pace come i patriarchi, si dovrà proprio parlare di pienezza. Il nostro testo non glorifica né il martirio di Gesù né quello dei suoi.

Legge perfetta di libertà

In conclusione, ciò che in modo pressante invita a interpretare il Discorso della Montagna come una legge per un popolo, viene da più lontano che il ragionamento e la sapienza dell'esegesi. È la considerazione della storia umana. L'umanità può sì sopravvivere a metà del pendio nel suo richiamo verso la giustizia, e persino non può dire diversamente ma essa ridiscende se vi si ferma, e ridiscende verso la morte. Per pressanti che siano i precetti di Gesù, essa può sempre non ascoltarli. Ma tantomeno essa può chiudere le orecchie al grido di allarme sempre più chiaro che le invia il suo stesso pericolo di morte. La nostra umanità sa che cosa è avvenuto della violenza delle età primordiali e del primo diluvio, quello di Noè. Ella sa di essere tra la vita e la morte (ef Dt 30). Come l’esperienza di una morte universale dell’umanità precedeva l’insistenza stessa di Israele, così l'idea del rimedio non è offerta oggi soltanto a coloro che credono nel Dio della Bibbia. L'umanità sa che a proposito di guerre e di pace deve cambiare le sue leggi se vuole sopravvivere. In una misura non trascurabile, essa lo fa. Ma possono bastare le leggi?

Se i precetti di Gesù non sono consigli, sono delle leggi? Se fossero leggi come le altre, questo significherebbe che invece di essere incise sulla pietra le sole dieci parole del decalogo, le parole di Gesù sarebbero incise anch'esse sulla stessa pietra, ma inserite tra le righe delle due tavole.

Così il contenuto, l'enunciato sarebbe cambiato, ma non il veicolo, non la modalità, non l’enunciazione. È un fatto che molti intendono così la legge di Gesù. Quando essa non porta ad un rifiuto immediato, questa lettura nel senso materiale toglie tutte le forze necessarie per portarla a compimento. Le conseguenze possono essere ancora più perverse, e più mortali.

Già Geremia annunciava una nuova alleanza, nuova proprio in questo, cioè che le sue leggi non sarebbero scritte stilla pietra (Ger 31,33). Non voleva dire che esse sarebbero ormai scritte sulla carta, ma «al centro» dei destinatari nel loro profondo. Per questo motivo grandi dottori, come sant'Agostino e san Tommaso, hanno insegnato che i precetti del Discorso della Montagna valevano «per la disposizione di spirito». Essi non dettano i gesti che descrivono, ma pongono l'obbligo di andare, in caso di necessità, lontano come essi suggeriscono, senza conformarvisi materialmente. È una risposta di buon senso. Gesù stesso, che ha adempiuto la totalità della propria legge nella Passione, non ha fatto vedere nei suoi gesti la realizzazione letterale di ciò che aveva insegnato: colpito su una guancia, non ha teso l'altra guancia, ma ha domandato «perché mi percuoti?» (Gv 18,23). (...)

Senza coercizione esterna

I cristiani sono portati a lamentarsi! Essi hanno il diritto di gemere, non soltanto per l'evidente difficoltà di mettere in pratica ciò che Gesù vuole, ma della difficoltà, perfino, di comprenderlo. «Entrate per la porta stretta», dice Gesù (Mt 7,13), l'altra conduce alla perdizione. Ma non avendo nessuno mai trovato difficoltà particolari ad attraversare una porta stretta, non sarebbe per questo motivo che Gesù aggiunge: «pochi la trovano»? «Trovare» il passaggio, a tutti è potuto capitare di sperimentarne la difficoltà. Tale sarebbe dunque il problema, ed è questo al momento di cui occupiamo. Un'altra parola serve, secondo il nostro parere, allo stesso scopo.

Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi (7,6).

La Sapienza o i proverbi sono spesso paragonati a metalli preziosi (Prv 8,11; 20,15), e l'accostamento di un oggetto prezioso con un grugno di un porco associato alle immondizie è una incongruità ancora più grande in questo contesto letterario: «un anello d'oro al naso di un porco, tale è la donna bella ma priva di senno» (Prv 11,22). La migliore applicazione di Mt 7,6 varrà per le parole stesse del Discorso della Montagna, indicato qui come l'insegnamento che non si può sprecare, che non bisogna ostentare senza la protezione del pudore e di una relazione autentica, come parola che non può circolare a qualunque condizione: gli abusi sono fin troppo prevedibili. Esse possono servire a a rafforzare l’uomo, senza vantaggio per lui, la sua disperazione davanti alla legge. Ma vi è di peggio.

Il peggio è di ottenerne l’osservanza attraverso la costrizione. Quanto stupore hanno suscitato il grande spirito di sacrificio, gli oblii di sé collettivi suscitati, nel XX secolo come mai prima, dalle ideologie imposte a delle società per mezzo della forza e della paura, con efficacia ancora maggiore quando questa forza aveva saputo rendersi invisibile! La povertà, la castità, l'obbedienza hanno potuto sembrare praticate insieme e nello stesso momento da delle masse, per alcuni anni. Nelle fasi di attuazione della loro utopia, queste società offrivano, e prima di tutto a se stesse, la messa in scena di un «siate perfetti» anche sul terreno di queste virtù, al prezzo di un coraggio e di un eroismo che, quando non tentavano i cristiani, li inducevano per lo meno ad interrogarsi su se stessi. Ma come si sarebbe potuto applicare «che la tua mano sinistra ignori ciò che fa la tua destra» (6,3) in una organizzazione predisposta al contrario di questo precetto? La cosa più grave è proprio che la costruzione imposta in vista della dimostrazione pubblica delle virtù conduce inevitabilmente a fingerle. «Che alla tua destra come alla tua sinistra, il tuo prossimo possa sapere tutto di te!».

L'allarme è dato già nel Nuovo Testamento, e non è originariamente rivolto alla società civile, ma alla società celestiale. Una scena degli Atti degli apostoli è stata, riteniamo, scritta apposta per sottolineare come il legame della coercizione e della menzogna è svelato e denunciato in modo diretto e dall'alto, da questo stesso Spirito che è donato a Pentecoste. Era, per la prima comunità, il momento dell'utopia, realizzata prima di tutto attraverso la condivisione dei beni. «Nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, …quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l'importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli, e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno» (At 4,32-35). Ma due sposi, di nome Anania e Saffira, non depongono tutto il denaro della vendita, avendo messo da parte il resto e dissimulando questa sottrazione. Pietro designa allora in tutta chiarezza lo spazio in cui avrebbe dovuto agire lo Spirito. Questo luogo è la libertà: «prima di venderlo, non era forse tua proprietà e, anche venduto, il ricavato non era sempre a tua disposizione?» (5,4). La necessità di spossessarsi per condividere non era scritta sulla pietra, come lo era la legge del Sinai. I due disgraziati si credevano condannati da un'istanza immaginaria: il loro sentimento di colpevolezza confuso con lo sguardo altrui. Cercando la giustizia attraverso questa via, Anania si sentirà dire: «Tu hai mentito allo Spirito Santo» (v. 33). L'uomo allora è fulminato insieme alla moglie, cosa che ci permette di collocare il racconto nel suo posto preciso, cioè in simmetria con la legge della prima alleanza. Chi la trasgrediva moriva; chi la trasgrediva nei grandi momenti della sua fondazione poteva morire senza l'intervento degli uomini, colpito dal cielo. Le Spirito conduce fino ad un estremo che l'antica legge non formulava, anche se era, in fondo, l'anima. Ma questo estremo non può essere raggiunto che nella libertà, a tal punto che l'ostacolo alla libertà corrompe la legge di Cristo alla stia radice. Questa corruzione è sanzionata come lo era sul Sinai, poiché la Pentecoste, la venuta della legge nuova nello Spirito, è un nuovo Sinai.

Detto questo, l'aneddoto sconvolgente degli Atti resta un «racconto delle origini» con i limiti di questo genere, in cui tutto è fortemente organizzato intorno ad un solo asse didattico, cosa che oggi ci porta una luce indispensabile.

Lo schematismo non impedisce al racconto di lasciar trasparire i limiti della situazione. Possiamo domandarci perché la comunità adottò un principio di proprietà collettiva che non si fonda su alcun insegnamento del fondatore, nè quando questa pratica fu abbandonata. Il gruppo non l'abbandonò forse dopo aver preso consapevolezza della fragilità del suo fondamento? Non l'abbandonò dopo aver preso consapevolezza dei suoi effetti, scoperto il legame della pressione sociale con la menzogna? Sarebbe doloroso che questo passo degli Atti non fosse interpretato che a titolo di incitamento alla virtù della generosità. Tuttavia, volontariamente o no, lo storico Luca lascia filtrare qualche chiarimento. Già vedere tutto questo denaro «ai piedi degli apostoli» si fonda fortemente sull'immagine di un potere. Più precisa è l'informazione fornita sul primo uomo che rispose a questo impulso: «Giuseppe, detto dagli apostoli Barnaba... era un levita» (4,36). Essendo dato che della tribù di Levi era scritto: «solo alla tribù di Levi egli non diede eredità» (Gs 13,14; cf 14,3s) e: «il Signore, Dio di Israele, é la loro eredità» (Gs 13,33), il fatto che uno dei suoi membri dia il segnale della rinuncia individuale e della proprietà collettiva non è forse fortuito: i Leviti potevano considerarsi come chiamati ad essere segno, anche attraverso la loro situazione economica, del legame dell'«intero Israele». Se questo era il caso, ne conseguirebbe che questo tentativo di condivisione (senza futuro per ciò che concerne la Chiesa come tale) sarebbe più vicino ad una forma ispirata ad un giudaismo marginale, anteriore al Vangelo, che non all'insegnamento diretto di Gesù. La discesa dello Spirito, che diede alle comunità il potere di innovare, non poteva togliere loro la possibilità di tornare sui propri passi. È commovente pensare ai loro tentennamenti, alla loro ricerca.

Le posizioni di san Paolo in materia di mutua assistenza economica confermano la lezione dell'episodio di Anania e Saffira, e mostrano che la comunità di Corinto vive già sulla base di altri principi rispetto a quella di Gerusalemme: non la messa in comune di tutti i beni, ma «la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza» (2 Cor 8,14). Anche questo non è ottenuto sotto coercizione: «Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza perché Dio ama chi dona con gioia» (9,7s).

Conclusione... o transizione

Lo stile dei precetti di Gesù ha come conseguenza di impedire al soggetto della legge di iscrivere la propria osservanza nell'immagine proiettata da se stesso. Così il taglione espone come su uno schermo l'illusione visiva di una giustizia per equivalenza, mentre questa equivalenza, questa giustizia, non possono esistere che su questo schermo, nell'immaginario. Nelle parole «occhio per occhio, dente per dente», citate da Gesù, tutto si esprime a livello di immagine: il volto, immagine di Dio, il volto con gli occhi, con i denti. Volto al quale si rivolge l'odio che offende: «Io non posso più vederlo»... Volto su cui la giustizia crede di potersi soddisfare: che il suo occhio perduto rifletta, per il mio, il rifiuto che è nel mio sguardo! E molte volte, tracciando di noi stessi un'immagine che non raggiungiamo, la legge non ci mette nella tentazione di odiare noi stessi invece di odiare il male? Il nostro io ideale odia il nostro io reale. Noi siamo così cacciati, esclusi da questo centro, da questo inizio in cui Gesù ci insegna a vedere l'ingresso dentro di noi dell'opera divina. Nessun’altra perfezione ha senso, se non quella che ci colloca al posto giusto, come figli: questo significa «perfetti come il Padre vostro». Perfetti, di essere figli. Ma fuori da questo centro, da questo inizio che è la nostra identità perché esso è la nostra origine, la nostra resistenza, incapace di riconoscersi, si trasforma in menzogna, e usa la legge per accusare colui che, proprio come noi, non è all'altezza delle sue attese: essa usa la legge per accusare il fratello. Noi potremmo fare una glossa di quanto detto illustrando alcune parole della lettera di Giacomo. Ciò che egli chiama «la legge perfetta della libertà» (Gc 1,24) non acquista senso che per condurre a delle azioni. Chi evita di agire «...somiglia a un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio» (Gc 1,23). Ecco quest'uomo duplicato di fronte alla sua immagine, estraneo a se stesso per non aver trovato attraverso «la legge perfetta della libertà» il punto da cui questa libertà nasce. Una conseguenza insopprimibile del suo sdoppiamento è ciò che la rende accusatore. È radicalmente impossibile che egli sfugga a se stesso senza volgersi contro il vicino. Per quanto egli ammiri la legge nella quale si rispecchia, e senza che la sua cattiva coscienza lo guarisca, si potrà dire di lui con Giacomo: «Chi sparla del fratello o giudica il fratello, parla contro la legge e giudica la legge» (Gc 4,11).

Colui che sparla del fratello è anche colui che lo disprezza nel suo cuore perché lo vede lontano dal mettere in pratica i precetti di Gesù. L'eremita Antonio (il sant'Antonio delle celebri «tentazioni») ci ha lasciato a proposito di questo versetto una lezione più profonda della sua leggenda…

Dei fratelli si recarono presso l'abate Antonio e gli dissero: Dicci una parola, come essere salvi? Il vecchio disse loro: Voi ascoltate la Scrittura? È bene che lo facciate. Essi ripeterono: Ma noi vogliamo sentirla da te, Padre! Allora il vecchio disse loro: Il Vangelo dice: se qualcuno ti colpisce sulla guancia destra, porgigli anche l'altra. Essi dissero: Non possiamo fare questo. Il vecchio disse loro: Se non potete porgere l'altra guancia, accettate almeno che vi si colpisca su una guancia. Non possiamo nemmeno questo. Se voi non potete nemmeno questo, non restituite il male che avete ricevuto. Ed essi dissero: Non possiamo nemmeno questo. Allora il vecchio disse al suo discepolo: Prepare loro una piccola pappa di farina, perché sono malati. Se non potete questo e non volete nemmeno quello, io che cosa posso fare per voi? Voi avete bisogno di preghiere. (J.C. Guy, Parole des Anciens. Apophtegmes des P.P. du désert, Ed. du Seuil).

Antonio introduce così lo spirito di Gesù nella lettera di Matteo, imitando il suo movimento graduale per rovesciarlo verso il basso. Da parte sua, la lettera di Giacomo, benché risparmiando in modo sorprendente reminiscenze o evocazioni della persona di Gesù, costituisce un documento prezioso, perché è uno dei più vicini, nel Nuovo Testamento, all'ambiente di Matteo, al punto di fornirci alcune chiavi per meglio comprendere il Discorso della Montagna. La «legge perfetta» è la legge compiuta, cioè condotta a questo estremo che solo Gesù può farci raggiungere. Né Giacomo né Matteo ricorrono allo Spirito per darvi principio. Né l'uno nè l'altro costruiscono il loro progetto attorno al tema di una legge divenuta interiore. Per l’uno come per l'altro la legge richiede atti fisici, condizione perché «essi vedano le vostre opere buone...» (Mt 5,16). E ancora, né l'uno nè l'altro presentano la pratica della legge come il risultato di un dono gratuito di Dio. Sta all'uomo trovare in sé il punto d'origine della giustizia. Ad altri testimoni di Gesù, ad altri testi, anche in Matteo (11,25-27; 19,26), sarà dato di sviluppare le conseguenze: il punto di origine della giustizia è colui in cui la giustizia ci viene dall'esterno, e a titolo di dono. La discrezione di Matteo, in questa materia, è impressionante: solo un 'analisi particolareggiata della struttura (della struttura scritta) del Discorso permette di scoprire che il «Padre nostro» ne occupa esattamente il centro. Nel cuore dell'insegnamento di Gesù si fa sentire la chiamata rivolta ai figli perché domandino al Padre di «vivere sulla terra» il suo insegnamento. Che l'uomo ne sia capace con le sue sole forze resta un problema, ma non dobbiamo trattarne qui.

L’originalità delle parole di Gesù rimane insostituibile. Le sue parole rivestono di immagini azioni paradossali, come il servirsi di una mano prima per tagliare l'altra e poi per gettarla lontano. È così reso sensibile che la giustizia non è fatta per rimanere nel cuore, ma per diffondersi instancabilmente al di fuori. La forza degli imperativi rende impossibile confonderli con suggerimenti facoltativi; il surrealismo delle situazioni aumenta in noi il desiderio di inventare senza limite. Allo stesso tempo obbligazione e libertà, «legge della libertà», dice Giacomo. No, Gesù non ci dice chi noi dobbiamo salutare o non salutare per strada, né che cosa fare se uno ci schiaffeggia. Le sue iperboli sono, molto più di quanto si potrebbe credere, vicino al linguaggio di quei rabbini dallo spirito libero, e bisogna essere grossolani per non coglierla.

L'episodio di Anania e di Saffira, per il fatto che si colloca nel tempo e nel luogo stesso in cui è donato lo Spirito, cioè nel tempo di Pentecoste, non ci permette di chiudere gli occhi sulle nuvole cariche di tempesta che la piccola montagna di Galilea inevitabilmente attirerà. Impossibile dimenticare il rischio di essere esclusi dal Regno, l'orizzonte della geenna del fuoco, l'alternativa di perdizione o di vita. Coloro che trasmettono, come possono, le richieste di Gesù, si vedono rimproverare talora di attenuarle per timidezza, talora di non renderle più praticabili. Dimenticano, si dice loro in quest'ultimo caso, che Gesù ha detto: «Il mio carico è leggero» (Mt 11,30)? Ma ciò che si dimentica sin dal principio, è il carico schiacciante che, in ogni modo, l'umanità deve portare soltanto per vivere, poiché per vivere le è necessario vivere insieme. La legge è percepita come durezza. Ma ciò che le colpe dell'uomo infliggono all'uomo non è durezza, è orrore. Ed esso aumenta, e nello stesso tempo si rende più visibile sotto i nostri occhi. Chiamiamo follia ciò che Gesù ci domanda. Ma l’umanità non sarà salvata dalla sua follia se non da un'altra follia. Già ai tempi di Gesù, era troppo tardi perché l'umanità interpretasse il decalogo attraverso dei compromessi.

Troppo tardi. La portata del Discorso della Montagna apre soltanto quando la si mette a confronto. Dove crediamo che abbiano potuto scomparire, quando Gesù parla, gli splendori del tuono e dei lampi che, sul Sinai, riempivano Israele di terrore? La storia cambia. Lampi e tuoni sono passati dallo scenario all'interno delle parole dette. La prima legge era accompagnata dalla violenza: «Voi vi avvicinaste e vi portaste ai piedi del monte; il monte ardeva nelle fiamme che si innalzavano in mezzo al cielo; vi erano tenebre, nuvole e oscurità» (Dt 4,11). Dio, che è Uno, non dispone di due fuochi e, per lui, le due montagne sono una sola. Egli non ha ritirato il suo fuoco dalla modesta montagna di Galilea. Ma è per noi che questo fuoco è doppio, benché non possa che bruciarci. Per quanto noi restiamo fuori dalle parole di Gesù, il fuoco delle sue parole ci spaventa e ci può anche distruggere; per quanto, e nella misura in cui noi vi entriamo, il fuoco ci riveli la sua vera natura, il cui nome è pronunciato con tanta discrezione: il fuoco è amore, il fuoco è spirito. Il fuoco è uno, solo noi cambiano. Di violenze non ce ne è che una nell'uomo, pervertito o convertito.

(da Il mondo della Bibbia, 51)

Letto 4880 volte Ultima modifica il Venerdì, 24 Novembre 2006 00:16
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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