Esperienze Formative

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

L’incarnazione, al cuore della rivelazione cristiana, afferma che Dio incontra l’uomo nel corpo e che il corpo è la vita dell’uomo per incontrare Dio. «Entrando nel mondo Cristo dice: “Tu non hai voluto nè sacrificio nè offerta per i peccati, un corpo invece mi hai preparato”» (Eb 10,5). Il cammino di Dio verso l’uomo, dall’atto creazionale e attraverso l’intera storia di salvezza, è il continuo tendere di Dio alla corporeità: «Il fine di tutto l’agire di Dio è la corporeità» (Friererich Oetinger).

Possiamo ancora sperare? Il Vangelo predica senza alcun imbarazzo la speranza e la fiducia. C’è un Dio buono che ci ha fatto delle promesse. E Dio le mantiene. Forse il nostra parlare da cristiani è talvolta troppo ingenuo, troppo pacifista e troppo d’un altro mondo.

La costituzione Sacrosanctum concilium è il primo frutto del concilio Vaticano II, l’unico documento nella storia dei concili che tratta della liturgia nella sua globalità in prospettiva teologica e pastorale, la magna charta del rinnovamento liturgico della chiesa cattolica.

Lo Spirito Santo.
Il "rifinitore"
di Giordano Frosini





Quando si ignora o si dimentica la presenza dello Spirito nella chiesa si paga un prezzo alto. Se il Vaticano II è stato una grande grazia dello Spirito, bisogna recuperarne la dottrina sulla comunione, la partecipazione, la corresponsabilità. Tra i punti da rivedere: l’ascolto del popolo di Dio, la nomina dei vescovi, la profezia, la creatività, il ruolo della donna.

Parlare dello Spirito Santo è navigare contro corrente. Egli è per noi l’inafferrabile, l’invisibile. il senza volto. Il Padre ha un nome e, se, vogliamo, anche un volto, quello dei nostri genitori: il Figlio è vissuto per alcuni decenni in mezzo a noi e ha parlato la nostra lingua; lo Spirito Santo è come il vento: «non sai di dove viene e dove va», anche se ne sentiamo la voce. Una navigazione difficile che la parola di Dio, i richiami della Tradizione, le aperture dei mistici, nonché le autentiche ispirazioni interiori devono sempre guidare e sorreggere per non attribuire allo Spirito pensieri che appartengono solo al mondo delle nostre incerte e tremolanti riflessioni.

Il dono dello Spirito è il fine dell’incarnazione del Verbo, l’ultimo atto della sua vita, della sua morte e della sua risurrezione. Senza di lui non c'è il cristiano, senza di lui non c'è la chiesa. Essa è il luogo di una pentecoste permanente. «Ubi ecclesia ibi Spiritus», dicevano gli antichi, in particolare sant’Ireneo, per il quale «dove è la chiesa lì è anche lo Spirito di Dio; e dove è lo Spirito di Dio lì è la chiesa e ogni grazia».

Una comune nascita

Ne abbiamo una riprova nella nascita del simbolo niceno-costantinopolitano, che fu composto in due tempi. Nel primo tempo, a Nicea, esso constava di due articoli, quello riguardante il Padre e quello riguardante il Figlio: lo Spirito Santo era appena nominato. Nel concilio di Costantinopoli del 381, si aggiungono le parole «Dominum et vivificantem, qui ex Patre procedit, qui cum Patre et Filio simul adoratur et conglorificatur, qui locutus est per prophetas». E subito dopo: «Et unam sanctam catholicam et apostolicam ecclesiam». E ancora: «Confiteor unum baptisma in remissionem peccatorum.Et expecto resurrectionem mortuorum et vitam venturi saeculi».

Nel simbolo più popolare della chiesa, lo Spirito Santo e la chiesa nascono insieme. Il che appare anche più evidente se prendiamo in mano il simbolo apostolico che, secondo alcuni, nella sua parte finale, andrebbe letto così: «Credo nello Spirito Santo, nella santa chiesa cattolica, comunione dei santi, per la remissione dei peccati, la risurrezione della carne e la vita eterna». Tre articoli, fra i quali il terzo sullo Spirito Santo assume una dimensione di grande portata, insieme ecclesiale ed escatologica. Lo Spirito Santo che si presenta in tutto il suo dinamismo e la sua ricchezza.

Già in queste prime riflessioni ci fanno capire quanto ingiusto sia stato il comportamento dei cristiani, specialmente occidentali, che praticamente hanno ignorato e messo in disparte lo Spirito Santo come se fosse un elemento inutile e superfluo. Si è parlato giustamente di una kenosi dello Spirito Santo. E noi cattolici siamo stati accusati di cristomonismo certamente con qualche ragione. Le conseguenze si sono viste e si vedono ancora.

Le due mani del Padre

Per capire la portata dell'accusa e rendersi conto della nostra situazione, abbiamo bisogno di rivedere i rapporti che intercorrono fra le tre Persone della santissima Trinità. Ancora con sant'Ireneo consideriamo il Figlio e lo Spirito come le due mani del Padre, con l’aggiunta che lo Spirito può essere a giusto titolo considerato come il complemento del figlio: l'altro Paraclito (etimologicamente "assistente") dice Giovanni; il completatore, il rifinitore, il telepois, dicono i padri greci; il consumatore, il dono della consumazione, dice Congar. Il Figlio comincia, lo Spirito completa. Senza lo Spirito Santo, il cristianesimo è monco, mancante di una dimensione che gli è essenziale.

Si ricordi il bellissimo testo del metropolita ortodosso Ignazio Hazim in cui si afferma che senza lo Spirito Santo «Dio, è lontano, Cristo rimane nel passato, il Vangelo è una lettera morta, la chiesa una semplice organizzazione, l'autorità è un dominio, la missione è propaganda, il culto un'evocazione e l'agire cristiano una morale di schiavi». Un autentico furto perpetrato contro il cristianesimo, un infedeltà e un tradimento. I pericoli minacciati non sono affatto ipotetici, le conseguenze previste sono realtà che ben conosciamo, la perdita dello Spirito si paga a un prezzo veramente alto. Tuttavia la riflessione teologica, senza sminuire la suggestività del testo ora citato, può specificare anche più chiaramente il pensiero ivi contenuto. Lo Spirito Santo, da Agostino in poi, è stato indicato come l'anima della chiesa, cioè il principio della vita, delle azioni e del movimento. O. Clément ci avverte che questa metafora non appartiene ai Padri greci, i quali preferiscono affermare che egli svolge nei confronti della chiesa, nuova creazione, lo stesso ruolo da lui svolto all'inizio del mondo: egli è il Soffio creatore, lo Spirito vivificante, il garante della vita. Il risultato è lo stesso.

Per lui, anche per lui, esiste la chiesa: egli di essa è un vero co-istituente. Per lui la chiesa è una, santa, cattolica e apostolica, sempre più una, santa, cattolica e apostolica. Per lui la Parola della verità risuona costantemente nel tempo con la stessa forza iniziale e la sua sempre rinnovata freschezza e attualità. Per lui i sacramenti donano la grazia che salva, redime, perdona, santifica, divinizza: non c'è sacramento senza l’invocazione dello Spirito Santo. È lui che distribuisce doni e carismi, che richiama la comunità cristiana ai compiti che lui stesso, regista della storia, fa balenare dinanzi ai suoi occhi. L'altro Paraclito che sostituisce e completa l'opera di Cristo.

Un compito permanente. Lo Spirito Santo non conosce soste e pause di attesa: la fede lo avverte sempre presente anche quando il suo vento soffia leggero fino a diventare quasi impercettibile. L'era dello Spirito Santo è cominciata il giorno della pentecoste e si svolgerà fino alla parusia. Sul tempo dello Spirito Santo si è tante volte discusso. Possiamo rifarci a un noto testo di san Gregorio Nazianzeno: «l’Antico Testamento ha chiaramente rivelato il Padre e oscuramente il Figlio. Il Nuovo ha rivelato con chiarezza il Figlio e ci ha fatto intravedere la divinità dello Spirito. Ora lo Spirito si trova tra di noi e si manifesta più chiaramente». La Trinità che entra progressivamente nella storia dell’uomo.

Il tempo dello Spirito può essere considerato come non tutto omogeneo. ma con possibilità di emergenze, sottolineature, evidenziazioni, accentuazioni particolari.

Nel corso dei millenni è possibile un tempo privilegiato dello Spirito Santo, che bussa più fortemente alle porte della chiesa e dell’umanità. Non sono pochi a pensare che il tempo che noi viviamo, il passaggio dei millenni, sia uno di questi momenti. Forse come non mai, lo Spirito Santo ora si manifesta più chiaramente. Non va forse letto in questo spirito il messaggio del concilio Vaticano II?

Potremmo dire, parafrasando ancora un testo dell’Apocalisse, che «questo oggi lo Spirito domanda alla chiesa». Il più grande concilio della chiesa, convocato dal papa più carismatico del nostro tempo, accompagnato da segni inconfondibili del progresso dell’umanità verso il compimento del Regno, come la globalizzazione, l’anelito della giustizia, la ricerca spasmodica della pace.

Torniamo al concilio

Quali allora i compiti della chiesa in questo tempo di emergenza e di straordinarietà?
Anzitutto un severo richiamo al concilio. «Dobbiamo tornare al concilio», ha detto Giovanni Paolo II. Tornare anzitutto al suo punto fondamentale che è quello della comunione, della partecipazione, della corresponsabilità. «Poiché la chiesa è comunione, deve esserci partecipazione e corresponsabilità in tutti i suoi gradi», ha affermato il sinodo straordinario dei vescovi a vent’anni dal concilio. Tutti, «in capite et in membris», hanno il dovere di riflettere attentamente su queste espressioni. Ricordando che, per questo, il concilio aveva anche dato vita agli organismi di partecipazione accanto al papa, ai vescovi, ai parroci.

La democrazia sta avanzando nelle nostre società: la chiesa ha già perso troppo terreno in questo campo. Come tutti i concetti desunti dal linguaggio umano, anche quello di democrazia non può essere applicato alla chiesa in senso univoco, ma analogo. Il che vuole anche dire che la chiesa non è una democrazia, soprattutto nel senso che le sue decisioni dipendono normalmente da coloro che la presiedono (un'affermazione, peraltro, più di carattere giuridico che teologico, su cui bisognerà ancora riflettere), ma insieme che è più di una democrazia, perché i fondamenti di questo sistema politico sano più chiari dentro di lei; perché tutti i suoi abitanti no pervasi dallo Spirito Santo; perché la stessa democrazia è nata sui fondamenti del cristianesimo, come hanno riconosciuto uomini come Maritain, Bergson e lo stesso Hegel.

Bisogna allora riscoprire il valore della prima categoria usata dal concilio per esprimere la natura della chiesa, cioè la categoria di popolo di Dio, perché lo stesso concetto fondamentale di comunione non venga frainteso o disatteso in tutta la sua portata. Che ne è del popolo di Dio? Che ne è del «senso della fede», del infallibilità nel credere, di cui parla la Lumen gentium? Che ne è della sua opinione specialmente nei momenti straordinari della vita della chiesa? Un solo esempio: la nomina dei vescovi. Si può ancora continuare così, praticamente ignorando del tutto o quasi del tutto l'opinione della chiesa a cui il vescovo viene mandato dall'alto? L’antica tradizione non è affatto in questa linea. Nel primo millennio le nomine avvenivano diversamente; diversamente avvengono anche nelle chiese ortodosse e protestanti. Si ricordano a questo proposito alcuni detti che provengono dal nostro passato: «Venga ordinato vescovo colui che è stato eletto da tutto il popolo. Con il consenso della comunità i vescovi impongano su di lui le mani» (Tradizione apostolica); «Non si imponga al popolo un vescovo che il popolo non gradisce»; «Nullus invitis detur episcopus» (papa Celestino, sec. V); «Colui che deve presiedere a tutti, da tutti dev'essere eletto» (san Leone). Dobbiamo riconoscere che la questione appare oggi molto complessa, ma dobbiamo anche riconoscere che il cammino delta chiesa non è stato sempre omogeneo e lineare.

A chi si meraviglia troppo di queste richieste, possiamo ricordare alcune espressioni di Giovanni Paolo I, che affermava: «Io sono il fratello maggiore dei vescovi, debbo a loro grande rispetto, devo e voglio essere in comunione di amore con loro... La collegialità tra il papa e i vescovi, resa viva e operante, diventa la prova, il sigillo della cattolicità... Nessun vescovo potrà essere scelto senza che vengano tempestivamente consultate le conferenze episcopali locali e i consigli presbiteriali. Il loro parere sarà tenuto in seria considerazione. Io mi sono trovato come presidente della Conferenza episcopale delle Venezie a leggere sull'Osservatore Romano i nomi dei vescovi assegnati alle diocesi venete» (C. Bassotto, Il mio cuore è ancora a Venezia. Albino Luciani, Venezia 1990, passim). Di pari passo andava anche il riconoscimento dell'opera dei teologi.

Un popolo di uguali

Un popolo di uguali e non una società di disuguali, come diceva ancora Pio X, dove tutti hanno la stessa dignità e dove tutti partecipano all’edificazione del corpo di Cristo che è la chiesa (cf. LG 32). Una uguaglianza che si riflette anche nei tratti esterni. È da tempo che si sta rilevando come l'unico titolo a corso legale nella chiesa sia quello di fratello e servo. Tutto il resto (padre, signore, maestro, eccellenza, eminenza) è polvere del secolo di cui bisogna sbarazzarci alla svelta. E polvere del secolo sono anche certo sfarzo e certe vesti.

Un popolo, ancora, quello cristiano, tutto intero sacerdotale, profetico e regale che ha per questo bisogno di essere riqualificato e rivalorizzato religiosamente nel contesto di una inter-relazione espressa chiaramente dal concilio (v LG 32). La grazia del vescovo e del presbiterio non è la sintesi del ministero ma il ministero della sintesi cioè della comunione, dell’amalgama di tutti i carismi di cui il popolo cristiano è portatore.

Fra questi va sottolineato il carisma della profezia. Ricordando che la chiesa è edificata «sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti» (Ef 2,20). Dov'è oggi il luogo riconosciuto della profezia? Qual è lo statuto a cui il profeta si può appellare in caso di contrasto col ministero degli apostoli? Una chiesa senza profezia è triste, monotona, senza slancio, pigra e sedentaria, anemica, dimentica della presenza vivificante e fiammeggiante dello Spirito Santo. Ricordando la lezione del concilio il quale, dopo aver detto che il giudizio dei carismi appartiene a coloro che detengono l’autorità della chiesa, si rivolge a questi e non ai primi ricordando che è loro dovere «non estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono». (LG 12).

Il discorso dello Spirito va verso l'infinito. Un meraviglioso testo riassuntivo della sua missione nella chiesa possiamo ritrovarlo in Von Balthasar, secondo il quale egli è «lo Sconosciuto al di là del Verbo»: appunto il completatore, l’in avanti, il trascinatore che attualizza e porta a perfezione l’opera abbozzata del Verbo. Niente al di fuori di Cristo, nulla senza di lui e, men che mai, contro di lui: lo Spirito è il testimone, il rifinitore, colui che da Cristo parte e a Cristo ritorna e riporta. Non si può mettere lo Spirito in contrasto col Figlio. Non c’è Spirito senza il Figlio, come non c'è Figlio senza lo Spirito. Una legge da non dimenticare mai, in nessuna circostanza e in nessun contesto. Nella duplice missione del Figlio e dello Spirito, quest'ultimo è «l'energia che esorcizza il fascino del passato o dell’origine per proiettare in avanti, verso un avvenire di cui è caratteristica principale la novità» (C. Duquoc, Un Dio diverso, Brescia l978 p. 116s).

Alla luce di queste espressioni possiamo collegare insieme le caratteristiche fondamentali dello Spirito Santo nella nostra vita e nella nostra storia.

La litania dello Spirito Santo

Egli è la novità. Non la novità della moda, ma la novità evangelica. Il Vangelo è il libro nuovo, il cristiano è l'uomo nuovo, la cristianità è il mondo nuovo, il mondo riconciliato che canta il canto nuovo. Nel ritorno al Padre, il figlio rappresenta in qualche modo il passato, lo Spirito il presente e il futuro: la chiesa vive dell'uno e dell'altro. Ma l'ultima parola spetta al futuro.

Noi siamo per definizione gli uomini della speranza; la nostra patria è nei cieli: la nostra navigazione tende alla Gerusalemme celeste, che è la città della pienezza,della vita e della gioia. Ma se è così, perché siamo così legati al passato, perché nella storia non c'è mai qualcosa di nuovo che trovi l'adesione entusiastica del popolo cristiano? Perché somigliamo troppo alla retroguardia stanca e sfiduciata e non all'avanguardia ardimentosa ed entusiasta? La marcia escatologica deve trovare costantemente i cristiani alla sua testa. L'affermazione che un mondo migliore è possibile, è sempre possibile, appartiene di diritto a noi. Ciò appare più chiaramente nei periodi di transizione, come il nostro. La ripetizione, l’abitudine, la monotonia sono i nemici mortali dello Spirito.

Egli è la creatività: «Spiritus creator». Come un giorno lontano, egli cova l'attuale creazione per portarla alla sua pienezza finale, in cui il male non avrà più luogo e il bene brillerà in tutto il suo splendore. Costruttori del futuro, costruttori del Regno, i cristiani sono al servizio dello Spirito, il regista della storia, il direttore della sinfonia cosmica che tende infallibilmente alla sua cadenza finale.

Egli e motore invisibile della storia. I «segni dei tempi» sono i suoi richiami e le sue indicazioni di lavoro. Chi disattende i segni dei tempi, oltre che perdere il treno della storia, sta contro lo Spirito Santo. I sentieri aperti dinnanzi a noi sono oggi la solidarietà, la giustizia, la pace, la salvaguardia del creato, l'ecumenismo, il dialogo interreligioso. «Omne verum a quocunque dicitur a Spiritu Santo est» dicevano gli antichi, fra cui anche S. Tommaso. Oltre che completatore, lo spirito è anche preparatore e antesignano del Verbo.

Egli è la bellezza. «La bellezza salverà il mondo», ha affermato Dostoevskij. Se il Padre nella creazione ha impresso il sigillo della potenza e il Verbo quello della sapienza, lo Spirito ha disseminato dovunque le suggestioni e gli incanti della sua infinita bellezza. Una chiesa dello Spirito è una chiesa bella, perché nella sua vita e perfino nelle sue apparenze esterne riflette le linee di un ordine trascendente. Siamo noi a deturparla, a renderla repellente con le nostre parole e i nostri comportamenti. «Cristo sì, la chiesa no» perché questa divaricazione? Perché la luce che splende sul volto di Cristo non si riflette anche nel volto della sua chiesa da lui stesso illuminato?

Sant’Ambrogio contemplava la chiesa nel lucore suggestivo delle notti lunari: «Veramente beata sei tu, o luna, che hai avuto il merito di tanto significato. Io ti credo beata non per il tuo novilunio ma perché sei tipo e immagine della chiesa». E San Giovanni Crisostomo ne ammirava in distanza le sue divine sembianze: «No, non separarti dalla chiesa! Nessuna potenza ha la sua forza. La tua speranza è la chiesa. La tua salvezza è la chiesa. Il tuo rifugio è la chiesa. Essi è più alta del cielo e più grande della terra. Essa non invecchia mai: la sua giovinezza è eterna». Lo Spirito è il dinamismo della chiesa, la quale “cresce” nel tempo fino al compimento finale (cf. DV 8). Cresce anche nella comprensione della divina rivelazione che le è stata consegnata. Seguire i suoi passi, assecondarli, promuoverli è ancora una forma di ubbidienza alle mozioni  dello Spirito.

Egli è l'universalità. Pentecoste è la risposta alla divisione dì Babele. Nello Spirito, che attualizza il comandamento di cristo, tutti gli uomini possono sentirsi fratelli. Per questo la globalizzazione è una vittoria dello Spirito sulla materia e sulla dispersione. L’impegno della comunità è semplicemente quello di assecondare questo movimento indirizzandolo verso le regioni della solidarietà e della condivisione. Lo Spirito sposta continuamente i confini della chiesa: la terra va percorsa tutta.

Egli è la libertà, perché «dove c'è lo Spirito del Signore c'è libertà» (2Cor 3,17). Ma è così la chiesa? C'è al suo interno la possibilità di dire il proprio pensiero senza il pericolo di venire messi in disparte? Esiste nella chiesa un’opinione pubblica capace di creare cultura e formare forti personalità? Non dice niente a questo proposito la crisi degli organismi di partecipazione? E il silenzio lungo e preoccupante della teologia? Anche l'eccessiva legislazione ha bisogno di essere confrontata e commisurata con lo Spirito di libertà. Su questo punto dobbiamo rileggere attentamente gli scritti dell'apostolo Paolo.

In qualche modo lo Spirito è anche la femminilità, colui che più delle altre Persone porta evidenti in sé i segni e il genio della  femminilità. Per questo quando Paolo enumera i suoi frutti, parla di timore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza. Una dimensione dello Spirito capace di assicurare nella chiesa un posto d'onore e di responsabilità all’universo femminile, che non ha ancora trovato la collocazione che si merita e che gli compete.

Si può finire affermando che lo Spirito è la follia della chiesa. La festa dello Spirito è la festa dei folli. Così egli debuttò nella pentecoste di Gerusalemme sotto il cielo terso della Palestina. La follia con cui fu designato Gesù, la follia del "discorso della montagna". La follia dell'amore folle di Dio: Verrebbe da dire: se siete semplicemente “normali”, che cosa fate di straordinario? La via che vi è riservata è quella dell'anormalità. Perché quello che è stolto agli occhi degli uomini è sapienza agli occhi di Dio.

Il sogno del terzo millennio

Come M.L. King, in questo inizio del terzo millennio, non possiamo coltivare un sogno. Se si abbandonerà allo Spirito, la chiesa del futuro sarà tutta chiesa libera, fraterna. Partecipata, amante del vero “nuovo”, proiettata verso il compimento della storia, lieve e leggera nel suo passaggio sulla terra, povera e serva, amica dell'umanità, una chiesa bella esposti all’ammirazione di tutti gli uomini. Una comunità alternativa rispetto alle altre organizzazioni umane, una comunità “scandalizzante” nel senso kierkegaardiano della parola, una comunità narrante. Che racconta con le parole la più bella fiaba che l'uomo abbia mai ascoltato; soprattutto che narra con la vita la meravigliosa avventura di cui è stata fatta partecipe e sacramento. Che riscrive a ogni generazione il «quinto Evangelo», il quale non esiste sulla carta e negli archivi. ma riluce attraverso la vita dei suoi figli come un annuncio di speranza e di pace. «La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei vostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini... una lettera scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori» (2Cor 3,2-3).

Questa lettera è nelle mani dello Spirito, ma anche nelle nostre mani.

(da Settimana n.15, 2004)
Mercoledì, 20 Aprile 2005 00:43

Il sangue (Ndjock Ngana)

Disumano è chi lo versa / non chi lo porta.

Domenica, 17 Aprile 2005 20:37

Convertirsi alla pace (Marcelo Barros)

Convertirsi alla pace
di Marcelo Barros


«Dobbiamo noi essere il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo» (Gandhi). Classico momento forte di metanoia, o cambiamento interiore, il quaresimale cammino verso la pasqua è per molti cristiani un'occasione di riflessione e di nuovi proponimenti.
Deve, però, anche essere l'occasione per verificare fino a che punto i vari messaggi di solidarietà e di pace che essi oseranno lanciare in pubblico sapranno influenzare il loro processo di conversione, sia personale che sociale.



Le succitate parole di Gandhi mi sono tornate alla mente, quando i vescovi brasiliani hanno lanciato la Campagna di fraternità 2005 che inizierà il prossimo mercoledì delle Ceneri. Quest'anno, la tradizionale iniziativa quaresimale cattolica sarà, per la seconda volta, "ecumenica", perché promossa anche da altre 7 denominazioni cristiane che fanno parte del Consiglio nazionale delle chiese cristiane del Brasile. Il tema sarà "Solidarietà e Pace". Mi domando: trascorreremo 40 giorni gridando "Viva la pace e la solidarietà", oppure trasformandoci in facitori di pace e creatori di solidarietà? La differenza è abissale.

Una campagna in favore della pace è oggi più che urgente in Brasile. L’Onu ha posto la nostra nazione al quarto posto per numero di omicidi per arma da fuoco. Nel dicembre del 2005, il parlamento ha approvato lo Statuto del disarmo, firmato dal presidente Lula: una legge che rende più difficile comperare e possedere un’arma. Dal luglio scorso, inoltre, il Governo ha lanciato una campagna nazionale di disarmo, con l'intento di togliere le armi dalle mani dei cittadini, i quali ricevono un compenso in denaro per ogni arma consegnata. L'iniziativa ha avuto un sorprendente successo: si parla di una riduzione di omicidi (30%) e di incidenti per arma da fuoco (50%) in tutto il paese. Tra qualche mese, i brasiliani dovranno pronunciarsi, attraverso un referendum, sul divieto di commercio delle armi e munizioni. Potenti lobby - sostenute dai fabbricanti e commercianti di armi - si sono mobilitare contro l'approvazione definitiva della legge. Il loro argomento è il seguente: «Il governo dovrebbe disarmare i banditi, non i cittadini che hanno armi solo per difendersi». Una sorta di ideologia della "violenza preventiva ": mi armo, sì, ma soltanto per prevenire la violenza. Intanto, però, i sondaggi rivelano che moltissime delle armi acquistate o possedute legalmente finiscono nelle mani di gang di spacciatori di droga.

Questo bisogno di armarsi per prevenire la violenza è allarmante... e avvilente. Davanti al rischio di essere una vittima, la persona si arroga il diritto di fare vittime. È la versione – un po’ ridotta, quasi a dimensione familiare – della "guerra preventiva" del presidente americano George W. Bush, dove la giustizia veniva risolta a suon di sparatorie.


 



Nella divisione del mondo in gente per bene e di buona famiglia, da una parte, e banditi reali o potenziali, dall'altra, è ovvio che gli unici ad avere il diritto (e il merito) di vivere sono i primi. Questa logica mortale viene seguita in varie parti del mondo. In Honduras, ad esempio. in un rapporto su questa nazione, il quotidiano francese Le Monde del 14 dicembre scorso riportava che, negli ultimi cinque anni, con il beneplacito di molti benpensanti, sono stati «eliminati come banditi ben 2.725 minori, alcuni tra i 3 e i 5 anni». Ma come si può guardare a un bimbo come a un "potenziale bandito"?

Nel messaggio del Papa per la celebrazione della Giornata mondiale della pace (10 gennaio 2005) è affermato:

«Per conseguire il bene della pace bisogna, con lucida consapevolezza, affermare che la violenza è un male inaccettabile e che mai risolve i problemi. La violenza è una menzogna, poiché è contraria alla verità della nostra fede, alla verità della nostra umanità. La violenza distrugge ciò che sostiene di difendere: la dignità, la vita, la libertà degli esseri umani. È pertanto indispensabile promuovere una grande opera educativa delle coscienze, che formi tutti, soprattutto le nuove generazioni, al bene».

Mi auguro che il cammino quaresimale verso la celebrazione pasquale della vittoria della vita sulla morte ci immerga tutti in una "campagna mondiale di disarmo", per fare emergere dalla tomba una cultura di pace e di non violenza attiva. Solo così ognuno di noi potrà pronunciare per il suo vicino questa antica benedizione irlandese:

Che il cammino sia lieve ai tuoi piedi
E la brezza soave alle tue spalle.
Che il sole illumini il tuo volto
E le piogge cadano serene sui tuoi campi.
Fino a quando ti rivedrò di nuovo,
Dio ti protegga
nel palmo della sua mano.



(da Nigrizia, febbraio 2005)

Domenica, 17 Aprile 2005 20:11

La Chiesa Ortodossa Etiopica (Mervyn Duffy)

Le Chiese dell'oriente cristiano
IV. Chiesa Ortodossa Etiopica
di Mervyn Duffy




Secondo una antica tradizione il primo evangelizzatore dell’Etiopia è stato San Frumenzio, un cittadino romano, proveniente da Tiro che era naufragato lungo il litorale africano del Mar Rosso. Conquistò la fiducia dell’Imperatore ad Aksum e portò alla conversione suo figlio Ezana che in seguito divenne imperatore, questi successivamente, intorno all’anno 330, introdusse il Cristianesimo in Etiopia come religione di stato. San Frumenzio fu ordinato vescovo da San Atanasio di Alessandria e tornò in Etiopia per continuare l’evangelizzazione del paese.

Intorno all'anno 480 i "Nove Santi" giunsero in Etiopia ed iniziarono la loro attività missionaria. Secondo la tradizione venivano da Roma, da Costantinopoli e dalla Siria. Avevano lasciato i loro paesi a causa della loro opposizione alla Cristologia di Calcedonia e probabilmente avevano risieduto per un certo tempo nel Monastero di San Pacomio in Egitto. La loro influenza, i relativi collegamenti tradizionali con i Copti, spiega probabilmente l'origine del rifiuto da parte della chiesa etiopica di Calcedonia. Ai "Nove Santi" vengono attribuiti, per gran parte, l’eliminazione del residuo paganesimo in Etiopia, l’introduzione della vita monastica, un sostanziale contributo alla sviluppo della letteratura religiosa in Ge’ez con la traduzione della Bibbia e con altri lavori religiosi nella lingua classica etiopica.

La chiesa etiopica raggiunse il suo massimo livello nel quindicesimo secolo quando si vide una copiosa e creativa produzione teologica e di spiritualità ed una Chiesa impegnata in una vasta attività missionaria.

L'esperienza molto negativa del contatto con i missionari cattolici portoghesi nel sedicesimo secolo è stata seguita da secoli di isolamento da cui la chiesa etiopica è emersa soltanto recentemente.

Questa chiesa è unica nel mantenere molte pratiche ebree quali la circoncisione ed il rispetto delle leggi riguardanti gli alimenti ed il sabato, per cui per loro i giorni liturgici sono il sabato e la domenica. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che la prima presenza del Cristianesimo in Etiopia sembra essere originaria dalla Palestina attraverso l’Arabia del Sud. Ma vi è anche una tradizione secondo la quale il Giudaismo è stato conosciuto e parzialmente accettato dagli Etiopi prima ancora dell’arrivo del Cristianesimo.



La Chiesa Etiopica ha avuto anche alcuni sviluppi cristologici insoliti. Una scuola di pensiero ha asserito ed insegnato che l’unione della natura umana e di quella divina in Cristo ha avuto luogo soltanto dopo il suo Battesimo. Ma questo insegnamento non è mai stato ufficiale e non ha avuto lunga durata.

La liturgia etiopica trae le sue origini da quella copta di Alessandria ed è stata influenzata da quella siriana. Essa è sempre stata celebrata nell’antica lingua Ge’ez fino a tempi molto recenti. Oggi una traduzione della liturgia in amarico è sempre più usata nelle parrocchie. Questa liturgia, perfettamente adattata all’ambiente, si caratterizza per l’uso di strumenti musicali, tipo i sistri ed i tamburi ed anche per un altro elemento, che crediamo renda la Chiesa Etiopica unica tra le antiche chiese cristiane: le danze liturgiche. Altro elemento caratteristico è il fatto, di sapore ebraico, che nello loro chiese in un luogo chiamato il Santo dei Santi viene custodito il Tabot, una specie di Arca dell’Alleanza , che viene particolarmente venerato nella Festa di Timkat (Epifania). L’interno delle chiese che è tipico, è delimitato in vari spazi: delle donne, degli uomini, di coloro che comunicheranno, del clero. Altra importante festa per il rito etiopico è quella del Maskal o Ritrovamento della S. Croce. E’ sempre viva la forte tradizione monastica.





Fin dai tempi più antichi tutti i vescovi in Etiopia furono egiziani copti nominati dal Patriarcato Copto e per molti secoli l’unico vescovo in Etiopia fu un Metropolita copto. All’inizio del ventesimo secolo la chiesa etiopica iniziò a fare pressione sul Patriarcato copto per una autonomia più ampia e per la possibilità di avere finalmente dei vescovi etiopici di nascita. Nel 1929 furono finalmente ordinati quattro vescovi etiopici che fossero di aiuto al Metropolita copto. Con l’aiuto dell’Imperatore Hailè Selassiè (che regnò dal 1930 al 1974), fu raggiunto nel 1948 un accordo con il Patriarcato Copto per cui alla morte del Metropolita Cirillo si sarebbe fatta l’elezione di un Metropolita etiopico. Così quando nel 1951 Cirillo morì un’assemblea di preti e di laici scelse come Metropolita un etiope Basilios, e votò per l’autonomia della Chiesa d’Etiopia.

Finalmente nel 1959 il Patriarcato copto riconobbe il metropolita Basilios primo patriarca della Chiesa Ortodossa Etiopica.

Una facoltà ortodossa etiopica di teologia, il Trinity College, ha funzionato come componente dell'Università di Addis Abeba fino a quando nel 1974 il governo ne ordinò la chiusura. Nello stesso anno la Chiesa Etiopica fondò ad Addis Abeba l’Università teologica San Paolo per la formazione dei candidati al sacerdozio. Per lungo tempo questa è stata il luogo della formazione per gli uomini ortodossi etiopici che aspiravano al sacerdozio. Un problema importante perché è stato valutato nel 1988 che nel paese vi erano 250.000 sacerdoti . Per fornire loro un livello di formazione sufficiente, sei centri di formazione del clero sono stati recentemente istituiti in varie zone dell'Etiopia. Ora si prevede che si arrivi anche ad avere per ogni parrocchia una Scuola Domenicale di formazione.

Specialmente negli ultimi anni, la chiesa etiopica ha assunto un ruolo attivo nel servizio di coloro che si trovano in condizioni disagiate e di povertà. Ha patrocinato sforzi , impegni e programmi a loro favore e sono stati anche realizzati a cura della Chiesa vari orfanotrofi.

La chiesa ortodossa etiopica è stata la religione di stato per il paese fino alla rivoluzione marxista del 1974; questa depose l’Imperatore e mise il colonnello Mengistu Haile Mariam a capo di governo. Molto presto la rivoluzione separò ufficialmente la Chiesa e lo Stato e nazionalizzò la maggior parte delle terre della Chiesa. Questo fu il segnale di inizio di una campagna contro i gruppi religiosi del paese.

A seguito del crollo del governo comunista nel mese di maggio 1991, il patriarca Merkorios (eletto nel 1988) fu accusato di collaborazionismo con il regime di Mengistu ed egli nel settembre in seguito a pressioni si dimise dalle sue funzioni di Patriarca. Il 5 luglio 1992, il Santo Sinodo Etiopico scelse l’Abuna Paulos come quinto patriarca della Chiesa Ortodossa Etiopica.

Egli era stato imprigionato per sette anni dalle autorità marxiste dopo che il patriarca Theophilos (deposto nel 1976 ed assassinato in prigione nel 1979) lo aveva ordinato vescovo nel 1975 senza l’approvazione del governo. Paulos fu liberato nel 1983 ed andò in esilio per alcuni anni negli Stati Uniti. Il Patriarca deposto, Merkorios, rifugiatosi in Kenia, ha rifiutato di riconoscere l’elezione di Paulos.

Nell’ottobre del 1994 il patriarca Paulos ha proceduto alla riapertura del College Teologico della Trinità nella capitale etiopica. Il College ha cominciato a funzionare con 50 allievi nei corsi di laurea e 100 che studiano per i diplomi in teologia.




I dati statistici segnalati sono stati forniti dal Consiglio Ecumenico delle Chiese. Ma alcune fonti credibili etiopiche asseriscono che i cristiani ortodossi etiopi dovrebbero essere circa 30 milioni, questo basandosi sul fatto che gli ortodossi etiopici sono circa il 60% su una popolazione totale di 55 milioni.

In Australia vi sono comunità ortodosse etiopiche in ciascuna delle capitali dei vari stati. Le tre parrocchie esistenti in Gran Bretagna sono state guidate dal Vescovo Yohannes fino alla sua morte nel mese di dicembre del 1997. Dopo di lui il Rev. Berhanu Beserat è stato chiamato a capo della Chiesa Ortodossa Etiopica in Europa.

Negli Stati Uniti, l’arcivescovo etiopico Yesehaq non ha riconosciuto l'elezione del patriarca Paulos e d ha rotto la comunione con il Patriarcato nel 1992. In risposta, il Santo Sinodo Etiopico lo ha sospeso dalle sue funzioni ed ha deciso di dividere la l’arcidiocesi esistente dell’emisfero occidentale in tre giurisdizioni (USA e Canada, l'America Latina ed i Caraibi, Europa occidentale). Ha nominato Abuna Matthias come nuovo arcivescovo degli Stati Uniti e del Canada. Successivamente il Canada è stato costituito come diocesi separata sotto la guida del vescovo Matthias che risiede a Londra, nell’Ontario. Tuttavia l’arcivescovo Yesehaq continua ad avere ancora un certo seguito da parte di molti etiopi ortodossi risiedenti in America. Complessivamente ci è sono oltre 100.000 ortodossi etiopici nell'emisfero occidentale, compreso un numero significativo di convertiti nell’India dell’ovest.






TERRITORIO: L'Etiopia, piccola diaspora.

GUIDA: S. S. Abuna Paulos Gebre Yhoannis (nato nel 1935, eletto nel 1992)

TITOLO: Echege della S. Sede di S. Tekle Haimanot di Debre Libanos, Arcivescovo di Axum

RESIDENZA: Addis Abeba, Etiopia

INSIEME DEI MEMBRI: circa 30.000.000

I due decaloghi nella Bibbia
di Olivier Artus *




Il termine decalogo (dieci parole) designa, nel Pentateuco, due testi legislativi pressoché identici nel contenuto, ma divergenti nel significato e nell’interpretazione teologica delle leggi che vi sono esposte: i versetti da 2 a 17 del capitolo 20 dell’Esodo e i versetti da 6 a 21 del capitolo 5 del Deuteronomio. Questi due testi possono essere letti indipendentemente dal loro contesto, perché costituiscono codici legislativi autonomi. Questa denominazione decalogo può apparire sorprendente perché il numero delle prescrizioni che vi si trovano riunite supera il numero dieci; il termine rimanda ad altre sezioni del Pentateuco che designano come «le 10 parole» il discorso che Dio rivolge a Mosè sulla montagna.  



In un primo tempo restituiremo i due decaloghi al loro contesto letterario, poi analizzeremo il loro contenuto sottolineando le differenze che li separano e alla fine preciseremo la funzione di questi due testi legislativi.

Il contesto letterario

Il decalogo del libro dell'Esodo (20,2-17) è collocato nel contesto del racconto della conclusione dell'Alleanza tra Dio ed Israele: il popolo uscito dall'Egitto (Es 14) giunge alla montagna del Sinai (Es 19,1) dopo un cammino attraverso il deserto(Es l5,22-l8,27). Questo testo precede un codice legislativo più esteso, il codice dell'Alleanza (Es 20,22-23,19), che è il più antico codice legislativo del Pentateuco (VIII sec. a.C.), e il racconto della conclusione dell'Alleanza (Es 24,1-11). Mentre il codice dell'Alleanza si presenta sotto la forma di un discorso rivolto da Jahvè agli israeliti at-  traverso l'intermediazione di Mosè, il decalogo si presenta come un discorso di Dio, senza destinatario immediato, valido in  ogni luogo e in ogni tempo, cosa che gli attribuisce maggiore autorità. 

Una lettura corrente del Pentateuco mostra che questo decalogo è il primo testo esclusivamente  legislativo che il lettore incontra: questa situazione di anteriorità rispetto agli altri codici legislativi del Pentateuco contribuisce ad accentuare ulteriormente la sua autorità. Sottolineiamo infine la nettissima cesura che lo separa da ciò che precede e che segue: il decalogo dell'Esodo viene in realtà ad interrompere, senza transizione, il racconto della teofania di Jahvè al Sinai: sembra dunque probabile che la sua redazione sia stata interpolata tardivamente in questo racconto.  Analogamente, il decalogo del Deuteronomio (5,6-21) è un discorso rivolto da Dio ad Israele.  Esso precede gli altri testi legislativi del libro del Deuteronomio, raggruppati nel codice deuteronomico (Dt 12-26): queste due caratteristiche gli conferiscono la medesima autorità del decalogo del capitolo 20 del libro dell'Esodo.
I due decaloghi sono dunque collocati in sezioni molto diverse del Pentateuco: il decalogo del libro dell'Esodo si colloca nel tetrateuco, un insieme letterario la cui composizione è di fonte sacerdotale. cioè appartiene al gruppo dei sacerdoti del Tempio di Gerusalemme, durante il loro esilio in Babilonia (587-538 a.C.), e poi al ritorno dall'esilio.

Il Deuteronomio invece è stato scritto da autori non sacerdotali. Il testo, nella sua forma attuale, data anch'essa al periodo postesilico.

Analisi dei due decaloghi

L'alternanza di comandamenti esposti sotto forma negativa (Tu non...), o sotto una forma positiva, permette di distinguere tre sezioni in ciascuno dei decaloghi. Queste sezioni sono precedute da un'identica introduzione: Jahvè si presenta che ha liberato il popolo d’Israele facendolo uscire dall'Egitto. L'identità di Dio si afferma dunque in storico a favore di Israele.

I sezione: Es 20,3-7 = Dt 5,7-11

L'analisi del testo ebraico fa emergere un gioco di parole che la traduzione italiana può mascherare: il sostantivo «schiavi» (Es 20,2 = Dt 5,6) deriva dalla stessa radice del verbo «servire» (Es 20,5 = Dt 5,9). Così il culto reso agli idoli è presentato come contraddittorio col culto di Jahvè che ha posto fine alla schiavitù di Israele in Egitto: l'idolatria farebbe cadere Israele in una schiavitù. In realtà il culto reso agli idoli è interessato, poiché essi rappresentano degli dèi che appartengono al pantheon dei popoli stranieri, forze della natura divinizzate percepite come minaccia e che bisogna conciliarsi attraverso sacrifici. A questa relazione «commerciale» che imprigiona chi la intraprende, deve sostituirsi il culto di Jahvè che si colloca nell'ambito della gratuità. Ecco perché i decaloghi proibiscono l'uso del nome di Jahvè nei giuramenti: Israele non può servire gli idoli, e non può servirsi del nome di Jahvè. I comandamenti la cui formulazione è negativa contribuiscono in realtà a definire uno spazio di libertà, di gratuità, in cui si allaccia la relazione tra Israele e il suo unico Dio: Jahvè.

II sezione: Es 20,8-12 e Dt 5,12-16

Questa sezione raggruppa i due soli comandamenti «positivi» del Decalogo, che concernono il sabato e il rispetto dei genitori. Queste due prescrizioni hanno in comune di mettere in relazione, nella loro formulazione, l'obbedienza dovuta a Dio e la cura del prossimo. Così, il rispetto del sabato ha motivazioni teologiche, ma anche conseguenze umanitarie: tutta la gente di casa può riposarsi, le stratificazioni sociali che prevalgono tutta la settimana (distinzioni tra padrone e servitore, tra nativi del paese e stranieri) scompaiono: tutti diventano uguali di Fronte a Dio in un medesimo riposo. Il confronto fra i due testi mette alla luce le divergenze e, in particolare, la motivazione teologica del comandamento del sabato: mentre il riposo sabbatico si riferisce, in Es 20,11 , all'attività creatrice di Dio, la sua motivazione si fonda, in Dt 5,15, sull'evocazione della storia della salvezza. La specificità teologica dei due decaloghi è così posta in rilievo: la teologia della creazione (cui fa allusione Es 20,11) è di fonte sacerdotale, mentre il riferimento alla storia della salvezza (Dt 5, 15) può essere attribuito a fonte deuteronomista.

III sezione: Es 20,13-17 e Dt 5,17-21

Le prescrizioni riunite in quest'ultima sezione hanno in comune di riguardare relazioni col prossimo: la loro formulazione negativa non deve nascondere ciò che qui è in gioco. La proibizione di questo o quel comportamento permette di ricavare uno spazio di libertà per il prossimo. L'omicidio, il furto, le false testimonianze sono l'espressione del desiderio, della cupidigia, della violenza che possono fare del prossimo uno schiavo. Così la libertà appare una delle poste maggiori dei due decaloghi, libertà e gratuità nelle relazioni tra Dio e Israele, libertà e gratuità fondate sulla memoria storica della liberazione dalla schiavitù d'Egitto. Libertà e gratuità non soltanto nelle relazioni tra l'uomo e Dio, ma anche nelle relazioni sociali: nei decaloghi, la relazione con Dio non procede senza la relazione col prossimo. I decaloghi raggruppano dunque prescrizioni che toccano sia il campo del culto sia quello dell'etica sociale in funzione di una medesima prospettiva: la liberazione offerta da Dio al suo popolo.

Perché due decaloghi?

I due decaloghi sono testi la cui composizione, nella loro forma attuale, può essere riferita il Periodo postesilico. Essi attengono a due teologie diverse, sacerdotale in Es 20 e deuteronomista in Dt 5. L'esistenza di questi due decaloghi riflette la diversità delle opzioni teologiche, al momento del ritorno dall'esilio, in Giudea. Solo una minoranza ha conosciuto l'esilio a Babilonia. La politica di libertà religiosa condotta dal sovrano persiano Ciro a partire dal 538, e poi dai suoi successori, permette il ritorno degli esiliati e la ricostruzione del tempio di Gerusalemme (cf Esd 1,2-4; 5,11 -17; 6,3-5). La lettura dei libri di Esdra e Neemia mostra anche come l'autorità persiana conceda un diritto particolare alle sue minoranze religiose (cf Esd 7,14.26). La composizione di questa legislazione propria dei Giudei porta alla formazione del Pentateuco, della Torà. È in questo testo che si esprimono l'identità e la specificità - giuridica e teologica - del popolo d'Israele, ravvisata in modo diverso dai circoli sacerdotali e dai gruppi «laici» deuteronomisti: mentre la fonte sacerdotale fonda l'identità di Israele sul culto celebrato al Tempio di Gerusalemme dai sacerdoti, è nella storia comune del popolo che gli autori deuteronomisti radicano la stia identità. La riflessione degli autori sacerdotali sfocia nella composizione del tetrateuco, mentre gli autori deuteronomisti pervengono alla redazione del Deuteronomio. Questi due insiemi letterari si fusero poi per formare la Torà.

La presenza, nel tetrateuco come nel Deuteronomio, di un medesimo testo legislativo - escluse le poche divergenze che abbiamo sottolineato - contribuisce a rendere manifesta l’unità della Torà, al di là dei diversi approcci teologici che vi si esprimono. Il Decalogo, preambolo legislativo che precede, nel tetrateuco, il codice dell'Alleanza e le leggi sacerdotali e che precede, nel  Deuteronomio, il codice deuteronomista, serve a  dare lo spirito delle leggi, e a proporne delle  chiavi di interpretazione. A questo proposito, si  possono avanzare due osservazioni principali: 

• In entrambi i testi, Dio è rappresentato come quello che prende l'iniziativa della relazione che lo lega ad Israele, liberando il popolo dalla schiavitù: l'obbedienza alle leggi appare come la risposta che Dio si attende da parte di Israele. Israele è invitato a esprimere la sua fede rispettando le leggi. 

• La relazione con Dio e la relazione col prossimo sono inseparabili l'una dall'altra: la dimensione cultuale della relazione con Dio non può essere separata dalla sua dimensione etica. Così, nel momento in cui Israele completa la redazione della Torà, il Decalogo è inserito nel cuore del racconto dell'Alleanza nel libro dell'Esodo, e come preambolo al codice legislativo del Deuteronomio: esso fornisce una chiave comune per interpretare i codici e le leggi così diverse, risalenti ad epoche differenti, che gli fanno seguito. Esso manifesta l'unità del popolo d'Israele, riunito dalla stessa fede nell'unico Jahvè. Esso dice, al ritorno dall'esilio, l'identità del popoìo ebraico costretto a coabitare in Giudea con altre nazioni, a stare accanto ad altre religioni.   


* Docente di Pentateuco  all’Institut Catholique di Parigi

(da Il mondo della Bibbia n. 51)

VI. La "Donna" dell'apocalisse
di Alberto Valentini



 

L'Apocalisse, pur facendo parte - secondo l'opinione più comune degli studiosi - della tradizione giovannea, pone problemi particolari e si presenta con caratteristiche proprie, che non è qui il caso di analizzare.

Le peculiarità e le oscurità di questo libro - unica apocalisse del Nuovo Testamento - sono presenti ovviamente anche nel capitolo 12, uno dei brani più studiati della letteratura neotestamentaria.

Anche qui, come a Cana e presso la croce, si parla di una "donna" (il temine vi ricorre otto volte), ma in maniera diversa. Certamente con si possono ritrovare in Ap 12 i legami esistenti tra l'episodio di Cana (Gv 2,1-12) e quello della Croce (Gv 19,25-27). Possiamo dire, con diversi autori, che, mentre nelle due scene del quarto Vangelo si parla anzitutto di Maria, la madre di Gesù, e poi della Chiesa, in Ap 12 il discorso è direttamente e principalmente ecclesiale, ma contempla indirettamente la figura di Maria. Le due linee, tuttavia, non sono esclusive, ma complementari. Mentre la donna-Chiesa conferisce senso pieno alla figura di Maria dilatandone la maternità in dimensione universale, Maria dà concretezza e fondamento cristologico alla maternità della Chiesa. "Non si capisce adeguatamente la donna-chiesa, osserva Vanni, senza rapportarla a Maria".


 



Chi è la donna


Chi è dunque la "donna" di Ap 12? Se ne comprenderà il senso esaminando il racconto.

Essa appare anzitutto come "un grande segno nel cielo" (Ap 12,1). E' una creatura celeste, rivestita dello splendore di Dio, al di sopra del tempo e della storia (la luna sotto i pedi) e con il capo incoronato di dodici stelle. La donna è figura celeste, ma simbolo del popolo dell'antica alleanza, di cui sono espressione le dodici stelle indicanti le tribù d'Israele.

Che si tratti del popolo di Dio, appare anche dalla simbologia dell'Esodo: la donna, a causa del drago (rappresentazione del Faraone) fugge nel deserto, in un luogo preparato da Dio, dove provvidenzialmente è nutrita (cf. v. 6). Il motivo del deserto ritorna in parallelismo progressivo nei vv. 13ss, nei quali si afferma esplicitamente che la fuga nel deserto è dovuta alla persecuzione del drago. Ma là interviene direttamente il Signore che prende la "donna" sulle sue ali di aquila (cf Es 19,4) e la trasporta miracolosamente nel luogo preparato per lei, nel deserto, dove viene nutrita per tre anni e mezzo, finché dura il tempo della persecuzione.

Il "grande segno" è dunque un simbolo complesso: è una figura celeste e terrestre al tempo stesso, gloriosa e perseguitata. E', comunque, il segno di una comunità vittoriosa

In Ap 12 non ci sono soltanto reminiscenze e simboli dell'Esodo, ma anche richiami più o meno espliciti alla Genesi. Di fronte alla donna c'è un drago, che nel v. 9 viene smascherato: non è solo un simbolo delle potenze mondane che combattono il popolo di Dio, ma è il serpente antico, chiamato Diavolo e Satana, colui che inganna tutto il mondo.

Come in Genesi, dunque, ci sono la donna e il serpente. Mentre però nel racconto delle origini il tentatore appariva sotto false spoglie a lusingare Eva, qui si presenta subito in atteggiamento minaccioso e con propositi omicidi.

La nuova donna (la comunità dei salvati), però non si lascia sedurre, e dà alla luce un Figlio, il "discendente" che gli schiaccerà la testa (cf G, 3,15; Gal 3,16).
Sotto i simboli dell'Antico Testamento, tuttavia, sono presenti le realtà nuove, inaugurate dal Signore Gesù. l'Apocalisse di Giovanni, è scritta per coloro che sono stati purificati e redenti dal sangue dell'Agnello e vivono nella grande tribolazione che precede il ritorno del Signore. La donna è la comunità della nuova alleanza, presentata quale "madre" del Messia (v. 5) e di coloro che "custodiscono i precetti di Dio ed hanno la testimonianza di Gesù" (v. 17). Il parto della donna - che genera nel dolore - indica la morte-risurrezione di Gesù, compresa, nella rilettura pasquale del salmo 2,7, come una nuova nascita: "Mio Figlio sei tu, oggi ti ho generato" (cf At 2,24; 13,32-34).
Sempre secondo lo stesso salmo messianico 2,8.9, questo Figlio è destinato a governare le nazioni con scettro di ferro. Alla sua "nascita" (nel mistero pasquale) le potenze del male sono sconfitte: "Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori" (Gv 12,31). La nascita dolorosa di Gesù, secondo Ap 12, è il tempo della sconfitta del maligno.



 

Una comunità vittoriosa, ma ancora nella prova


La Chiesa, grazie alla passione-risurrezione di Gesù, ha vinto il drago, ma non è affrancata definitivamente dalle insidie contro i suoi figli. Tra la risurrezione di Gesù, rapito presso il trono di Dio (v. 5) e il suo ritorno alla fine dei tempi s'interpone il periodo di tre anni e mezzo (un tempo, due tempi, la metà d'un tempo = 42 mesi, 1260 giorni) (v. 7; cf Dn 7,25: la fase della prova e della testimonianza da rendere al Signore Gesù.
La comunità in questo periodo di persecuzione (l'Apocalisse sarebbe stato scritta sotto Domiziano, verso il 95 d.C.) sarà protetta, come l'antico Israele, da Dio stesso.
Il drago, allora, visto che i suoi assalti contro la donna sono vani, se ne andrà con rabbia a far guerra al resto della sua discendenza (v. 17).

Le persecuzioni non solo non possono prevalere contro la donna, dato che i nemici sono stati precipitati dal cielo ed è giunta ormai "la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e il potere del suo Cristo" (v. 10), ma anche sono limitate nella durata: il diavolo è infuriato "sapendo che gli resta poco tempo" (v. 12). La persecuzione ha un limite, durerà "tre anni e mezzo", vale a dire la metà di sette, simbolo della totalità. E' un tempo imperfetto, già segnato da un termine e rinchiuso entro confini ben definiti, che non possono essere oltrepassati.

La donna di Ap 12 è la chiesa, già presente nel cielo e vittoriosa grazie al sangue dell'Agnello, ma sottoposta, sulla terra, anche per un po' di tempo alle persecuzioni e alle prove fino al ritorno del Signore Gesù.



 

La Chiesa e Maria


Il significato primo e diretto del grande segno è pertanto ecclesiale. Ma, si obietta, com'è possibile che la chiesa generi Gesù? essa non può svolgere un ruolo materno nei suoi confronti. E' vero il contrario: la chiesa è nata dal costato di Cristo. Normalmente si risponde che questa maternità va spiegata con quella della donna di Gv 16, 19-22. Là Gesù annuncia che la tristezza verrà sulla comunità dei discepoli, a causa della passione, come i dolori a una donna che deve partorire. La comunità sarà nel dolore per la passione di Cristo, ma sarà piena di gioia nella sua risurrezione, come la donna alla nascita del bambino.

E' una buona spiegazione, ma non esaustiva: è difficile infatti comprendere adeguatamente Ap 12 senza il ricorso, seppur indiretto a Maria. Del resto, proprio l'immagine di Gv 16, della donna prima nel dolore e poi nella gioia per la nascita di un uomo, viene chiamata in causa per illuminare la donna-Maria di Gv 19,26.
Secondo P. Grelot, l'Apocalisse non parla esplicitamente di Maria, "ma i grandi simboli del cap. 12 sono incomprensibili senza un riferimento al suo ruolo storico". Anzi, è proprio "nella persona di Maria che l'umanità antica si è trasformata in umanità nuova per dargli nascita. Maria entra dunque di diritto nella sfera del simbolo rappresentato dalla "donna"…; il simbolo possiede una duplice valenza: questo fatto sottolinea la relazione tra la chiesa e Maria".

Non pochi esegeti, specie negli ultimi, decenni, si pongono su questa linea: la donna di Ap 12 - come si è detto - indica innanzitutto la chiesa, ma indirettamente anche Maria. Dopo aver conosciuto la madre di Gesù e la "donna"-madre di Gv 19,26, non è pensabile si possa parlare di una "donna" che genera Cristo, senza un riferimento a lei. Staccare il simboli dalla realtà storica può rendere generico il simbolo stesso fino a farne dimenticare le origini e vanificarne la portata. Nella maternità di Maria non solo c'è la radice del simbolo della "donna"-Chiesa che genera Cristo, ma è proprio in lei che effettivamente la donna, la Chiesa, la stessa umanità hanno generato Cristo. Gv 19,25-27 infatti racconta che al momento della "nascita" pasquale di Gesù, presso la croce innanzitutto c'era sua madre. E proprio in quella circostanza, Maria - ella sola - viene chiamata "donna". Ella è la donna che prima d'ogni altra e a nome di tutti ha generato il Figlio nel dolore: e in quello stesso momento è divenuta madre di quella comunità dei discepoli (la Chiesa) che secondo Ap 12 - con simbologia rovesciata - "genererà" a sua volta il Messia.



 

Conclusione


In conclusione, ribadiamo che la prospettiva della "donna" di Ap 12 è diversa rispetto a quella della "donna" presso la Croce. In Apocalisse si indica anzitutto la Chiesa, nel quarto Vangelo in primo luogo Maria.

Se da un lato la presenza della Vergine sul Calvario fonda e giustifica la simbologia della "donna" di Ap 12, che genera nel dolore, questa, a sua volta, conferma ed esplicita la dimensione ecclesiale della figura di Maria presso la Croce. Tra le due scene non c'è contrasto, ma continuità e complementarietà.

Questa visione sottolinea e valorizza - secondo Vanni - la ricchezza multipla dei simboli, che solo di rado vengono pienamente sfruttati.

Il "grande segno" di Apocalisse non si esaurisce ella interpretazione ecclesiale. Anzi questa suppone la tradizione mariologica giovannea, senza la quale la "donna" perderebbe un punto di riferimento prezioso e una dimensione importante della sua valenza simbolica.


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Per tendere verso un approccio interculturale più positivo è importante prendere coscienza delle proprie zone sensibili e accostarsi delicatamente a quelle del proprio interlocutore.

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