Famiglia Giovani Anziani

Attenzione

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 65

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 126

Domenica, 22 Gennaio 2012 14:45

Educa una comunità che si lascia educare da Dio (Maurilio Assenza)

Vota questo articolo
(7 Voti)

Non è facile oggi parlare seriamente dell’educare. Comporta un’idea di uomo in un tempo in cui il soggetto si è frantumato ed è diventato “liquido”, comporta la capacità di coltivare quella che don Giuseppe Dossetti chiamava la «coscienza del fine» in un tempo in cui tutto si riduce a tecnica, comporta l’impegno a spendersi in tempi lunghi e in modo nascosto mentre prevalgono fretta e spettacolo.

Al tempo stesso è impossibile disinteressarsi dell’educazione nella misura in cui ci sta a cuore la crescita dell’umano e delle nuove generazioni. Ed è impossibile nella comunità ecclesiale, perché essa è comunità formativa nella sua identità più profonda[1]. Il documento dei vescovi italiani “Educare alla vita buona del Vangelo” rilancia tale identità e prospetta positivamente un tempo lungo (dieci anni) per una adeguata riflessione e un conseguente impegno. In quest’attenzione ecclesiale all’educare ci sono pure dei precedenti significativi. Già nel corso del suo ministero episcopale il card. Martini aveva dedicato al tema un biennio pastorale, consegnando una bella lettera in cui aveva anzitutto messo al centro l’azione di Dio che «educa il suo popolo», facendo ancora una volta gustare e capire l’importanza della Bibbia per rendere più veri e aderenti alla vita azioni e linguaggi. Pensiamo anche a grandi figure come don Lorenzo Milani o don Pino Puglisi, da riprendere al di là di facili luoghi comuni. Ci sono però anzitutto i problemi, accennati all’inizio, che non si affrontano solo rilanciando il tema, ma cercando di comprenderne la portata. Sarà il nostro punto di partenza. Per trovare quindi una via d’uscita guardando all’azione educativa di Dio e ai testimoni che aiutano se ripresi, non per un’esteriore imitazione, ma come un’ispirazione per sperimentare percorsi. Cercando di capire come questi possano concretizzarsi dentro la comunità ecclesiale per com’è, e non per come vorremmo solo idealmente che fosse.

 

1 Alcuni problemi e una prospettiva “radicale”

Un primo problema che rileverei è la mancanza di energia educativa. C’è nell’aria, ma anche nella comunità ecclesiale, la tendenza a rinunciare ad un impegno educativo serio che generi alternative vere e a ridurre tutto ad una serie di accorgimenti. Al fondo, penso, si ha paura di prendere coscienza che l’energia educativa non la possediamo, ma la riceviamo solo se noi per primi ci lasciamo veramente educare. Lasciandoci mettere radicalmente in discussione. Scommettendo su Colui che avvia una relazione educativa con noi senza subito mostrarci tutto il cammino. Cercando allora di capire come Dio ci educa, coltivando anzitutto fiducia. E imparando da Lui che la cosa più importante è seminare e provocare, senza fermarsi di fronte a insuccessi e fallimenti. Don Milani, da questo punto di vista, chiariva come ci sia una netta differenza tra quanti, calcolando, confidano nei risultati, e quanti si assumono un compito educativo con il fine di far crescere, entrando se necessario per questo anche in conflitto. «Dicesi commerciante colui che cerca di contentare i gusti dei suoi clienti. Dicesi maestro colui che cerca di contraddire e mutare i gusti dei suoi clienti»[2]. Il card. Martini ricorda che fa parte per questo dell’educazione anche la correzione, quella vera, diretta, franca, motivata dall’amore. L’energia educativa provoca spingendo in avanti perché emerga il meglio dell’umano, non si attesta alla mediocrità, non lascia nelle sabbie mobili. Per questa capacità di liberazione dell’umano però – e passiamo così ad un secondo problema – ci vogliono adulti, adulti veri, adulti appassionati. Chi è veramente adulto? Non certo chi si presume tale, ma solo chi lo diventa unendo polarità che permettono personalità forti e miti al tempo stesso, capaci di pensare (coltivando una fede adulta[3]) e così di guidare con sicurezza e pazienza. Da una parte, infatti, per diventare adulti è bene restare al fondo «come i bambini» per non cristallizzare la mente e il cuore, d’altra però è necessario assumersi ad un certo punto della vita – soprattutto se si diventa genitori, preti, catechisti, insegnanti, animatori – la responsabilità di mettersi al timone della propria vita e al timone della barca della vita comune, che ci ospita insieme a quanti sono da accompagnare perché ancora in crescita o con difficoltà di crescita. Dove sono oggi gli adulti? C’è una preoccupante carenza di persone capaci di mantenere la parola, capaci di disciplina (coltivata per sé e per gli altri), capaci di sapienza e coraggio. Anche molti educatori, ecclesiastici, genitori si caratterizzano piuttosto per una grande insicurezza, un eccesso di narcisismo, un’evidente immaturità. E bisogna dire chiaramente che, dietro tanti infantilismi, non c’è niente di spirituale come taluni pretendono! Mi ha colpito che già Sant’Ilario di Poitiers sentiva il bisogno di chiarire che «è necessario che noi siamo dei bambini in Cristo unicamente per quel tanto che fu detto, che noi siamo bambini in quanto privi di malizia, ma (poi è necessario essere) adulti nell’intelligenza e nella sapienza»[4]. Un terzo problema deriva dal fatto che, privi della statura di uomini adulti, ci si lascia prendere dalla facile tendenza all’attivismo, privilegiando ciò che è esteriore, immediato, facile. Come accade in tanta pastorale giovanile, che raduna adolescenti attorno ad attività e slogan operanti sull’immaginario, senza mai avviare cammini seri di riflessione e di servizio autentico (quello che si misura con i bisogni del prossimo e non con i propri). Così si sfiorano appena le ricerche serie, i dubbi radicali più o meno espressi, i disagi diffusi. E chi tra i giovani ha bisogno di un gesto liberante resta privo di presenza e di sostegno. Come denunciava don Pino Puglisi: «Buona parte dei giovani si è staccata dalle antiche sicurezze e, facendo salti mortali, tende le braccia in avanti in cerca di chi li accolga. Se due mani invocanti non trovano le due mani pronte ad afferrarle, il trapezista si schianta a terra. Per questo il nostro tempo è anche impegnativo: perché la comunità ecclesiale ha i suoi ritmi e i suoi problemi da risolvere, c’è il grosso rischio che i giovani non trovino le mani pronte ad afferrarli e ad accoglierli. Non c’è più tempo da perdere, c’è il pericolo che i giovani si sfracellino»[5]. Nel parroco di Brancaccio, insieme alla denuncia, emerge una prospettiva: riprendere una passione educativa capace di generare uomini, riprendere una passione educativa che nel Dio di Gesù ritrova il vero modello, il vero Padre (radicalmente differente dai padri padroni, presenza sicura nell’odierno vuoto di padri). Ne trarrei una precisa e radicale conseguenza: educa veramente una comunità ecclesiale che sa guardare in faccia le difficoltà, andare al fondo dei problemi e convertirsi, sintonizzandosi con il suo Signore che educa con energia, ci vuole adulti, continua a mandarci anzitutto ai poveri.

 

2. I verbi dell’educare

Se la comunità ecclesiale sa sintonizzarsi con il proprio Maestro – e questo avviene focalizzando tutto sulle cose essenziali della fede[6] – essa non solo riscopre energia e coraggio, non solo diventa capace di essere accanto veramente lungo le strade della vita, ma soprattutto permette che sia Dio, che sia la fede in Lui ad educare. Per questo il rapporto con le Scritture deve essere, come amava dire Dossetti, «sponsale». Per questo diventa necessario imparare, nella frequenza delle Scritture, i tratti dell’educare di Dio che troviamo sintetizzati, per riprendere un solo testo esemplare, in maniera molto bella nel cantico del Deuteronomio: «Dio trovò Israele in una terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo educò, ne ebbe cura, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio» (32, 10). Già questo testo diventa illuminante per ritrovare i verbi di un vero educare, di un vero trarre fuori per generare e far crescere uomini, per rendere liberi e formare comunità libere. C’è anzitutto da ritrovare… con il coraggio di farlo raggiungendo nelle lande solitarie veramente tutti. Per questo sarà necessario, da una parte lasciarci ritrovare noi per primi dal Signore, coltivando sinceri rapporti con lui senza paura delle nostre debolezze e angosce, dall’altra saper stare accanto veramente, avendo tempo per cercare e ascoltare, senza subito giudicare o mobilitare. Non è facile, siamo in presenza della prima «generazione incredula», di generazioni deboli, frutto di tante dismissioni educative. Non è facile ma è urgente, e ne va anche del futuro del cristianesimo nel nostro Occidente[7]. La tentazione è quella di restare nel nido, il rischio è quello di diventare infecondi, la chiamata del Signore e della storia invece continua ad essere quella di andare «al largo». Ricordando sempre che solo confidando nella Parola è possibile andare! Ritrovare anzitutto, quindi custodire… Se non si offrono scorciatoie ma si va per ritrovare, non avremo masse da raduno e però nemmeno il vuoto, avremo «resti di Israele»: avremo nelle nostre comunità ancora forse parecchi ragazzi, quindi solo alcuni giovani e alcune famiglie che veramente si sentiranno attratte dal Vangelo. Spesso però, soprattutto all’inizio, dovranno consolidare la scelta, non essendoci più nulla – nemmeno nei ritmi del tempo – che faciliti una vita cristiana seria (cosa diversa è l’effervescenza religiosa, che immunizza e attira folle, ma non genera nella maggior parte dei casi vita evangelica). Allora bisogna saper stare accanto non solo cercando e ritrovando, ma anche accompagnando. Aiutando nella perseveranza, essendo perseveranti anzitutto gli educatori (cosa non ovvia!) ed essendo la comunità cristiana capace di essenzialità, senza dispersione in attivismi e ritualismi. Essenzialità che sola permette al tempo stesso di nutrire veramente! Con il pane sostanziale, e non con surrogati. Continua il Deuteronomio: «Come un’aquila che veglia sulla sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali. Il Signore, lui solo lo ha guidato, non c’era con lui alcun dio straniero» (32, 11-12). Mi pare riceviamo altri importanti messaggi. Come l’invito a portare su ali di aquila, a dare forti testimonianze e a non tralasciare proposte radicali, nel senso letterale di ciò che va alla radice, relativizza ciò che non è importante, insegna a mettersi in gioco. La similitudine dell’«aquila che veglia sulla sua nidiata» dice ancora una volta l’affetto che comunque deve avvertirsi. Soprattutto, «non c’era con lui alcun Dio straniero»: diventa efficace, e veramente sintonizzata con il suo Signore, una Chiesa che non si allea con il potere e che non svende la grande eredità del Vangelo, creduto e testimoniato «sine glossa», per un misero «piatto di lenticchie». A che serve avere anche proprie opere educative se non si sa poi operare in modo veramente educativo? Penso che si possa applicare alla Chiesa ciò che un operatore della Casa di accoglienza don Puglisi di Modica (a cui resto legato come laboratorio di un educare che raggiunge anche i più sfortunati) dice spesso: «Prima che le nostre parole educano tutte le cose che facciamo, educa come le facciamo, educa anche ciò che non si vede, a partire da ciò che veramente ci dà sicurezza e genera in noi uno stile». Mi sovviene, come ulteriore puntualizzazione, che in tempi difficili e di volgarità dominante, conta la testimonianza certo, ma anche quello che Bonhoeffer chiamava il «senso della qualità»[8], con cui poter resistere e coltivare la «bellezza che salva».

 

3.Educati dalla fede, educati nella Chiesa

La fede educa, la fede genera uomini veri, possiamo dire. Ridona a noi e a quanti ci sono affidati la libertà dei figli, e aiuta ad educare senza forzature ma anche senza timidezze. La fede ancora ci fa popolo, non ci lascia massa. E ci permette di sperare senza ingenuità e svendita di dignità, contando su Dio e non su appoggi umani. La Chiesa educa allora veramente se mette al centro la vita di fede, se si appoggia solo al suo Signore, se ne cerca i tratti[9]. La fede quindi genera una vita nella carità, che dà corporeità all’educazione, ci lascia veri nei rapporti partendo – come Dio – anzitutto dai più poveri. La fede autentica ed apre la fraternità, rendendola educativa. Come rilevava Bonhoeffer distinguendo i rapporti spirituali (nella fede) da quelli psichici: «L’amore psichico vive di un’oscura brama incontrollata e incontrollabile, l’amore spirituale vive nella chiarezza del servizio ordinato secondo verità; l’amore psichico determina asservimento umano, vincoli di dipendenza, indurimento, l’amore spirituale genera la libertà dei fratelli nella sottomissione della Parola; l’amore psichico coltiva artificiosi fiori di serra, l’amore spirituale produce i frutti, che crescono perfettamente sani secondo la volontà di Dio a cielo aperto, esposti alla pioggia, alla tempesta e al sole»[10]. Più radicalmente, una Chiesa che si affida al Signore, lo genera. Lo genera per gli altri. Lo genera come Maria. C’è da rilevare che, non solo dobbiamo capire come la Chiesa educa, ma anche come noi nella Chiesa veniamo educati e siamo aiutati ad educare. Anzitutto restando “dentro”, malgrado limiti e peccati, perché questo ci aiuta a non dimenticare la madre che ci ha generati e ci permette di non perdere il respiro ampio del popolo di Dio. Restando dentro con la saggezza di una santa Teresa d’Avila, che consigliava alle sue monache di confessarsi con chiunque, ma di scegliere bene i predicatori: avendo quindi cura di selezionare ciò che nutre, sapendolo cercare, sapendolo apprezzare, ma anche riconoscendo ciò che sacramentalmente ci lascia nella grazia di Dio. Non incupendosi nell’astio e nell’amarezza rispetto ad esperienze particolari che possono risultare negative. Lasciandole quando diventano soffocanti o intristiscono radicalmente, poiché è possibile eleggere quella comunità in cui trovare il nutrimento adeguato a bisogni spirituali seriamente vagliati. Al tempo stesso senza girovagare, educandosi quindi alla presenza costante, “adulta”, in quella comunità in cui si sceglie di ascoltare la Parola, partecipare all’eucaristia, esercitare la propria corresponsabilità. Sempre coltivando lealtà e franchezza nei rapporti a tutti i livelli, senza costruire attorno a preti e vescovi «mura di carta e di incenso» ma anche senza pensarsi battitori solitari. Così, nella Chiesa e con la Chiesa, continua l’opera educativa di Dio e si offre un lievito educativo, contrassegnato da relazioni autentiche e dalla preoccupazione di non far mancare agli uomini la percezione del Vangelo come dono grande e bello. Ritorna per questo l’esigenza di puntare sempre sulla qualità, su un’intensa e calda umanità, sulla forza della povertà, sulla capacità di esporsi totalmente, come ricordava tempo fa, alla mia Chiesa, l’eremita fra Ugo van Doorne, chiarendo che «non è nella quantità delle cose da fare che sta il valore dell’azione pastorale, ma nella sua qualità umano – divina. Tanto più umana quanto più divina. Dove manca questa carica di umanità l’agire pastorale diventa simile a qualsiasi altra attività per cui si cerca di influire sugli altri dal di fuori, dall’esterno, dall’alto tenendosi a distanza. Il luogo dell’incontro con Dio è la persona stessa del credente, del ministro della Chiesa. Come Gesù, egli è la “porta” che dà accesso a Dio. Porta stretta quella di Gesù. Difficile da trovare anche per molti servi di Gesù. Infatti ha sapore di debolezza, di povertà, esige il personale coinvolgimento di una “carne umana”, cioè di un modo di vivere e di agire nella Chiesa che si affida senza riserve alle promesse di Dio che non smentisce (Eb 6, 13–20) piuttosto che all’efficienza delle opere o alla solennità delle celebrazioni»[11].

 

Maurilio Assenza

 

[1] Nella Dichiarazione Gravissimum educationis del Concilio Vaticano II (EV 1/821) leggiamo: «La santa madre Chiesa, nell’adempimento del mandato ricevuto dal suo divin Fondatore, che è quello di annunciare il mistero della salvezza a tutti gli uomini e di edificare tutto in Cristo, ha il dovere di occuparsi dell’intera vita dell’uomo, anche di quella terrena, in quanto connessa con la vocazione soprannaturale; essa perciò ha un suo compito specifico in ordine al progresso e allo sviluppo dell’educazione».

[2] L. Milani, Esperienze pastorali, Libreria editrice fiorentina, Firenze, 1957, pp. 137-138.

[3] «Ci sembra importante che la comunità sia coraggiosamente aiutata a maturare una fede adulta, ‘pensata’, capace di tenere insieme i vari aspetti della vita facendo unità di tutto in Cristo. Solo così i cristiani saranno capaci di vivere nel quotidiano, nel feriale – fatto di famiglia, lavoro, studio, tempo libero – la sequela del Signore, fino a rendere conto della speranza che li abita (cf. 1 Pt 3,15)» (Cei,municare il Vangelo in un mondo che cambia, n. 50).

[4] Cf. Ufficio delle lettura, quarta settimana del tempo ordinario, seconda lettura del lunedì “Dai trattati sui salmi” di Sant’Ilario di Poitiers, vescovo.

[5] Cf. F. Deliziosi, Don Puglisi.Vita del prete palermitano ucciso dalla mafia, Mondadori, Milano 2001, p. 153.

[6] «Spero che i cristiani nella parrocchia abbiano queste cose: un luogo in cui crescono in una vera gnosi cristiana; cioè un giorno, una sera la settimana, in cui si ritrovano attorno alla parola di Dio, e che possano crescere, esser cristiani adulti, maturi, con una pienezza, con una statura, una soggettività della loro fede. E che poi si ritrovino tutti la domenica per l’Eucaristia dove la koinonia non è solo con il corpo del Signore, morto e risorto, ma anche appartenenza comunitaria. Poi io a questi cristiani quotidiani chiederei una sola cosa: che trovino un momento al giorno per pregare nella maniera che suggerisce il Signore, ricordando che la preghiera ha una fonte che è l’ascolto della Parola contenuta nelle Scritture. E poi nient’altro. Facciano la loro vita di genitori fedeli nel matrimonio e capaci di ascoltare i figli; facciano una vita professionale seria aiutando la trasfigurazione di questo mondo; lavorino pensando che il frutto del loro lavoro può essere fonte di comunione e di grande carità, non di elemosina» (E. Bianchi, Se il giubileo si fa Vangelo in Rocca, Assisi 15 dicembre 1997).

[7] «Si tratta di ridefinire strutturalmente l’agire della Chiesa in un nuovo equilibrio tra l’urgenza della generazione alla fede e lo spazio/tempo dell’esercizio della fede. È finita l’epoca di un’evangelizzazione primaria sostanzialmente affidata alla famiglia e alla scuola e ha inizio quella di una comunità che si faccia carico sul serio della prima generazione incredula dell’Occidente, cui offrire una generosa ospitalità nei propri luoghi e soprattutto nel proprio cuore. È ancora l’ora dell’alleggerimento dell’apparato ecclesiale ed ecclesiastico, per una più nitida testimonianza all’amore del Regno e al Regno dell’amore» (A. Matteo, La prima generazione incredula, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, p. 83).

[8] «Dal punto di vista sociale significa rinunciare alla ricerca di posizioni preminenti, rompere col divismo, guardare liberamente in alto e in basso, specialmente per quanto riguarda la scelta degli amici intimi, significa saper gioire di una vita nascosta e avere il coraggio di una vita pubblica. Sul piano culturale l’esperienza della qualità significa tornare dal giornale e dalla radio al libro, dalla fretta alla calma e al silenzio, dalla dispersione al raccoglimento, dalla sensazione alla riflessione, dal virtuosismo all’arte, dall’esagerazione alla misura» (D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Paoline, Cinisello Balsamo, 1988, p. 70).

[9] Perché si conservino i tratti dell’educare di Dio, Padre e Pastore buono, nella Chiesa vanno evitati – come aveva chiaro il card. Roncalli, il futuro papa Giovanni XXIII – autoritarismo e paternalismo: «l’autoritarismo soffoca la vita, porta a una disciplina rigida, esteriore, a sistemazioni complicate e moleste. Arresta le legittime iniziative; non sa ascoltare; confonde la durezza con la fermezza; l’inflessibilità con la dignità. Il paternalismo è anch’esso una contraffazione della paternità. Tiene in tutela i sudditi per mantenere la superiorità delle sue funzioni di governo; fa sentire la propria liberalità con qualcuno, ma si dispensa dal rispettare i diritti dei propri subordinati. Parla con tono di collaborazione e non accetta la collaborazione. La vera paternità, per converso, innanzitutto è rispetto del diritto delle anime: è pronta disposizione a sviluppare nei suoi figli la vera e santa libertà dei figli di Dio» (Cf. Avvenire di mercoledì 12 maggio 1996).

[10] D. Bonhoeffer, Vita comune, Queriniana, Brescia 1991, pp. 29-30.

[11] U. V. Doorne, in La vita diocesana, Noto 9 aprile 1995.

Letto 5585 volte Ultima modifica il Giovedì, 07 Giugno 2012 14:43
Maurilio Assenza

Docente di storia e filosofia nel Liceo Scientifico Galilei di Modica e Direttore della Caritas diocesana di Noto.

Produzione, selezione e pubblicazione testi.

Search