Famiglia Giovani Anziani

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Giovedì, 21 Luglio 2011 09:56

Miti e illusioni dei quarantenni

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medioeval fall medioeval fall

Al primo posto: lavoro, carriera e autorealizzazione. Solo in seconda posizione amore, affetto, famiglia. E per di piu' nei "ritagli" di tempo. Una sintesi ardua, ma veritiera, che confina al capolinea i quarantenni di oggi, rapiti da un mito illusorio e disfattista, dove il proprio "io" non riesce a farsi fondare da un autentico "noi".

 

Una storia per cominciare. Quarant'anni appena suonati e - finalmente! - l'amore. L'amore veste i panni di un tipo solitario di 38 anni, che vive a 300 metri da lei, Claudia, scoperto in facebook. Lui, Alessandro, impiegato presso uno studio notarile, posto fisso, ma vissuto solo per la busta paga; il resto del suo tempo è tutto dedicato al basket, vero centro della sua vita. Lei, pure impiegata ma di prestigio, braccio destro del capo, proprietario di un cantiere navale, sa fare tutto, è diventata indispensabile, non calcola le ore, ma ha uno stipendio brillante. Da poco, si è regalata un hobby: ballo latino americano, tre sere a settimana.

Un amore a tempo

L'amore, finalmente! Passione, sesso, senso di esultanza; ma bastano pochi mesi che ambedue capiscono che nessuno si vuol trasferire nell'appartamento dell'altro. Quello di lui è sporco, con le tapparelle abbassate, perché non ci sono nemmeno le tende, e nell'angolo cottura ha un fuoco da campeggio: tanto lui è sempre fuori. Quello di lei è un gioiello, non solo di ordine e pulizia, ma anche di bellezza: lei vi ha giocato tutte le sue competenze e lo ha reso originale, con un arredamento in bianco e nero. Lì in questa sua casa, lui sembrerebbe un elefante e lei, a casa di lui, un terremoto, non lascerebbe nulla di intatto. Nessuno dei due è disponibile a dare "la sua casa" in mano all'altro.

Ciascuno dei due tira l'altro nei propri sacrosanti hobby. Lui la vorrebbe nelle trasferte che fa per il suo basket, ivi comprese le cene dopo partita: è orgoglioso di lei, la mostra in giro come un gioiello e lei è veramente elegante e deliziosa. Ma soprattutto questi dopo-cena, così triviali e poco eleganti fino alle ore piccole sono insopportabili, per lei. Lei vorrebbe che lui non solo sopportasse i suoi ritardi o i week-end che deve dare al lavoro, ma si ingaggiasse nel ballo latino americano, cosa che a lui sembra assurda, una perdita di tempo e nella quale, per giunta, si sente imbranato. Decidono, allora, di vedersi i week-end liberi rigidamente e alternativamente a casa dell'uno o dell'altro e di dividersi le spese, altrettanto rigidamente: sicché lei scopre che lui le fa pagare per intero l'etto di prosciutto che lui ha comprato in quanto l'ha mangiato solo lei; e lui scopre che deve pagare metà del costoso pasto al catering che "lui" non avrebbe mai ordinato. Tristemente, per ambedue.

Un rapporto d'amore ridotto al lumicino. Claudia si accorge che non può dire: ho un moroso, un partner, un convivente, un coniuge, ma ho l'amore a tempo, a ore. Niente di più. Ambedue si aspettano che l'altro "capisca le mie esigenze": lei non può ridurre il lavoro che le è costato tanta fatica per arrivare al punto dov'è, tant'è che ormai si può dire che lei diriga la ditta al posto del "vecchio"; lui -che lavora al minimo per lo stipendio - non può concepire che venga ridimensionata la sua carriera sportiva, sulla quale ha investito tutte le sue energie. Che dire di fronte alla tristezza di questa storia? Dire che i due non si amano abbastanza è dire troppo poco; esprimere il giudizio che i due farebbero meglio a non tenere in piedi una storia da week-end è solo tirar fuori un metro di giudizio che non li aiuta per niente1.

Guardiamoli invece con la lente interpretativa del potere del mito (lasciando in ombra altre variabili pure significative che ineriscono a questa storia). Claudia e Alessandro sono due prigionieri dei miti dei quarantenni di oggi. Il mito, nella prassi odierna, non è più la forza misteriosa che spinge a dare senso e significato ai nodi del vivere, non è più un tentativo di "dare unità" al mondo, di evocare l'inspiegabile, di fondare una patria o di radicare ciò che accomuna gli umani; mito è oggi – nel linguaggio comune - una forza di attrazione che modella il vissuto del singolo, lo incardina nel suo tempo come singolo, lo spinge - con maggiore o minore violenza - a vivere nel modo significato dal mito2. Dire di uno o di qualcosa «è un mito» significa dire: «dovresti essere così» e nel con tempo affermare: «non lo sarai mai».

Pensare al singolare

Come suona il mito che accomuna i nostri due? «Pensa a te stesso», cioè "pensa al singolare". Tutto il sistema culturale, sociale, psicologico ha insegnato ai quarantenni di oggi a pensare in "io". Il "noi" diventa una seconda scelta, plausibile soltanto finché mi permette di pensare in "io". «Che cosa vuoi dalla vita?» abbiamo chiesto alla giovane moglie scappata dal suo matrimonio soltanto sei mesi dopo la celebrazione delle nozze: «Voglio ciò che mi fa stare bene» risponde la sposa, con un'incrinatura di lacrime nella voce. Possiamo presumere che anche il relativo lui voglia dalla vita «ciò che lo fa stare bene».

Ma allora, possiamo intuirlo, nessun matrimonio è possibile. Se non si denuncia il mito, tutti gli sforzi per andare d'accordo, per cercare compromessi, per fare provvisorie concessioni («sono stata tutta la domenica in trasferta con lui, possibile che non capisca quanto mi sono sforzata?») non portano a niente. Ma come è possibile denunciare il mito a quarant'anni, se per tutta la vita un/a figliola si è sentito/a dire: «Studia, mettiti in mostra, non essere tra gli ultimi, datti da fare, fatti una posizione!». Tutto e rigorosamente per te stesso?! Naturalmente tutto il sistema produttivo, oltre che domestico, è improntato a questo mito: una laureata in biologia con posizioni di responsabilità in un laboratorio di ricerca s'è sentita dire: «Incinta per la terza volta in cinque anni è troppo, non sei più in grado di assumerti la responsabilità del laboratorio; ovviamente non ti licenziamo, ma dovrai recedere, anche se ti manteniamo (quale generosità!) lo stipendio!». Questa dipendente non è più pensata come persona (e men che meno come madre) ma come cellula del sistema produttivo, senza alcun valore residuo fuori da esso.

Il bene comune come antecedente al bene del singolo è crollato a picco, perfino - ci si permetta una digressione - nelle comunità religiose, dove il novizio o la novizia è imbevuto del mito (leggi: spinta normativa) di "star bene con sé stesso" e chiede anzitutto di veder rispettato il proprio angolino, le proprie zone franche, la propria "personalità", estrema maschera di questo mito perché significa: «io sono io ... e non ho nulla a che fare con gli altri». Ha ragione il sociologo De Rita quando dice che il bene comune è diventato (miseramente, aggiungiamo noi) "bene immune", autoprotezione dall'invadenza degli altri, come quando, in una multiproprietà al mare, io esigo dall'agenzia per il mio mese di uso di non trovare tracce di chi mi ha preceduto e di cancellare le mie, quando me ne sarò andato3

Le ricadute nella prassi

Un mito che si rispetti si frantuma in tanti piccoli miti che, al senso comune, sembrano sempre più evidenti da soli. «lo sono mia» diceva il femminismo di prima maniera; «l'utero è mio» dice la premessa al rifiuto del figlio; «mio figlio deve stare con me» dice il genitore in fase di separazione e giù giù fino a ... «le mie esigenze, i miei diritti, i miei spazi, i miei desideri, quando non anche le mie pulsioni»: come la mania di accendere la Tv esattamente nell'istante in cui entro in casa, indipendentemente da chi in quel momento la abita, fino a ... «io ho bisogno che tu smetta di pagare i 400 € a tuo figlio di 21 anni, se no non posso convivere con te ... ». «Io, cioè, è il criterio ultimo» prima e oltre il quale c'è il vuoto. Purtroppo, spesso, invece di denunciare il mito, si denunciano i legami come ostacoli, freni, palla al piede. Fa capolino il mito dell'essere irrelati4, cioè di concepire la relazione come provvisoria e funzionale ai bisogni del singolo.

L'Io quale criterio di realtà

Ma quale "io" si affaccia qui come criterio di realtà? L'''io'' sentito, l'''io'' emozionale, l'''io'' passionale che imperversa dal «sento che non mi ami più» al «io non provo più niente per te», o perfino afferma: «ti voglio bene, ma per sentirmi vivere ho bisogno di altre relazioni fugaci e fuggitive. Tu me le dovresti permettere, se mi ami». E su simili premesse, un giovane uomo di 45 anni ha lasciato moglie e quattro figli, perché lei "non capiva le sue esigenze". Abbiano perciò trovato il volto macabro del mito "pensare al singolare", perché questo "io" che pensa, che mette in primo piano le proprie esigenze non è l'io-persona stabile, ma l'io del momento (l'"io sentito", abbiamo detto poc'anzi); e perciò proprio l'''io penso" al singolare che mi doveva auto-fondare, che pretendeva di radicarmi nella realtà, è l'''io'' che mi lascia in balìa di me stesso. Più prendo sul serio il mito, più non sono consegnato a me stesso, come il mito pretendeva, ma all'agito, al sentimento del momento. L'''io penso" diviene traballante anche per me stesso, anche per me che ho il potere di propugnarlo nel rapporto («non pretenderai che rinunci al mio basket, ai miei super orari di lavoro, eccetera eccetera») e mi pianta in asso, cioè alle mie evidenze del momento, proprio quando, obbediente al mito, io pretendevo di non essere sballottato verso un "noi" sconosciuto, specie per i quarantenni di oggi: figli di genitori del '68, imbevuti di miti della preminenza dell'''io'' sulle gerarchie - tutte le gerarchie in blocco! - della vita.

L'autorealizzazione

«Mia madre che oggi ha 65 anni è stata una delle prime a praticare da giovanissima la coppia aperta - ci diceva una quarantenne - poi sono nata io, nel '70 e ... fine della coppia aperta, con grande sua nostalgia». Già, è proprio del mito produrre nostalgia, cioè sentimento della distanza tra ciò che si voleva e ciò che si è realizzato. Ma è l'ennesimo inganno: la nostalgia è rivolta soltanto a ciò che il mito aveva promesso ("pensa te stesso e sarai felice") e che mai avrebbe potuto portare in dono. Congruo al mito del "pensare a sé stessi", anzi: suo degno figlio, è il mito dell'autorealizzazione, parola quasi sacra oggi, intoccabile e pazientemente inoculata dai genitori. Al figlio, controllore di volo, che all'alba dei trent'anni si sta orientando verso una vocazione di vita religiosa fraterna, il padre scandalizzato dice: «Ma così non ti realizzerai mai! ». Ed è come se l'ansia paterna gli facesse intravedere un figlio menomato: "Sarai senza gambe, senza braccia ... ». E perché mai? "Perché ti ridurrai a obbedire ai superiori per tutta la vita». E il figlio è troppo preso nella gabbia emotiva del padre per "pensare" che ... il padre stesso ubbidisce nel suo lavoro a "superiori" ben più prescrittivi! «Autorealizzati!», è un comando che ha tutte le caratteristiche del mito post-moderno.

Né rinunce, né limiti

E cioè è un diktat che non ammette deroghe; si chiami posto di lavoro prestigioso, riuscita nel basket, autonomia abitativa o in molti altri modi: il fatto è che non bisogna rinunciarvi. Arrivato fin qui, non posso tornare indietro, nemmeno in nome dell'amore. Perché? Perché se rinuncio a qualcosa di ciò che ho realizzato mi autotradisco, mi auto-limito: non sia mai! Il rapporto d'amore allora deve infilarsi nei buchi che io gli lascio, se no, non reggo: ma questo non è realismo, ma è bieco romanticismo che sogna l'amore come tributo dell'altro a me stesso: «se davvero mi amasse ... rinuncerebbe al basket, agli assurdi orari di lavoro, a telefonare alla mamma due volte al giorno, eccetera eccetera». Se l'autorealizzazione diventa il criterio, l'amore non può nemmeno essere ... un neonato, uno - poniamo - che lui sveglia di notte e va in rotta di collisione con il mio bisogno di sonno. Tant'è che perfino la maternità e la paternità sembra che possano essere statisticamente pensate soltanto in termini di autorealizzazione e di diritto proprio, per cui si viene cercando un figlio alla soglia dei quarant'anni, quando posto di lavoro, casa di proprietà eccetera, sono beni realizzati e consolidati. Ma c'è di piu': il mito dell'autorealizzazione necessariamente vede gli altri come concorrenti: il mio bene è in contrasto con il bene altrui, o perlomeno sopporto il bene altrui quando non è in competizione con il mio, con ciò che è "mio diritto". Sappiamo bene quanto i matrimoni siano in bilico su questo "esercizio" dell'autorealizzazione.

«È da un quarto di secolo che servo te e i figli - dice una quasi cinquantenne - adesso finalmente devo pensare a me stessa!». Il che equivale, nel caso specifico, a uscire con le amiche senza dire dove, ad andare in discoteca da sola fino all'alba eccetera. Un simile programma non è esclusivamente femminile; anche i quarantenni maschi, di cui abbiamo portato esempi sopra, possono affacciarsi alla loro vita e sentirsi coartati dal legame precedentemente scelto. Né alle une, né agli altri viene in mente che la vita condotta fino a ora abbia a che fare con il mito dell'autorealizzazione, non li sfiora l'idea che "servire gli altri" sia un modo altro di auto realizzarsi! Tanto è il potere del mito.

L'autorealizzazione spinge inevitabilmente alla solitudine, a fondarsi su sé stessi, ad autocentrarsi: di nuovo si profila l'inganno che proviene dal cuore del mito e cioè: l'autorealizzazione non porta la felicità promessa perché mi costringe a barricarmi nel mio "io" e a far sì che l'altro non sia un "tu" a pieno titolo, bensì - detto in modo un po' brutale - "materiale per me". Anche quando mi autorealizzo, resto piu' solo di prima e - per riferirci alla nostra storia iniziale – mi rimane forse un week-end alternato da dedicare all'altro, con tutti i ma e i se che il peso della mia autorealizzazione comporta. E se l'altro si infila nei miei progetti («trova divertenti le trasferte per il basket», dice lui; «almeno mette le tendine alle finestre e mi lascia vivere la mia vita, balli compresi», dice lei) allora posso parlare d'amore (leggi di: maschera dell'amore, in quanto l'altro/a è per me).

Diventare sé stessi nel Noi

Nel discorso conclusivo ai vescovi italiani riuniti in sinodo, Benedetto XVI così si esprimeva, contrastando il falso concetto di autonomia che nasce dal mito che stiamo appunto considerando: «In realtà, è essenziale per la persona umana il fatto che diventa sé stessa solo dall'altro, l'io diventa sé stesso solo dal tu e dal voi, è creato per il dialogo. per la comunione sincronica e diacronica. E solo l'incontro con il tu e con il noi che apre l'io a sé stesso» (27/5/2010).

Si tratta di un programma tutto da riscoprire - e non soltanto nel decennio dedicato all'educazione - e quanto mai urgente perché i figli di questi quarantenni non si trovino ad aggravare la sottomissione a miti non smascherati e non denunciati: è la terza generazione (rispetto ai nonni e ai quarantenni di oggi) che di solito porta il fardello piu' pesante. Oppure che darà vita a una, finalmente benefica, rivoluzione.

Mariateresa Zattoni e Gilberto Gillini (Consulenti, formatori e docenti presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su matrimonio e famiglia)

Famiglia Oggi n. 5 settembre-ottobre 2010

Note

1) Zattoni M. Gillini G., Così lontani, così vicini. Crescere come coppia tra difficoltà e speranza, Edizioni Porziuncola, S. Maria degli Angeli (PG) 2009;

2) Galimberti D., I miti del nostro tempo, Feltrinelli, Milano 2009;

3) De Rita G., Il regno inerme. Società e crisi delle istituzioni, Einaudi, Torino 2002;

4) Magatti M., "Eccesso e crisi delle relazioni: una lettura sociologica", in: Botturi F., Vigna C. (a cura di), Affetti e legami, Vita e pensiero, Milano, pp. 109-122,2004.

 

Letto 3070 volte Ultima modifica il Venerdì, 29 Luglio 2011 14:42

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