Famiglia Giovani Anziani

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Martedì, 19 Giugno 2012 07:54

Laici e nuove problematiche familiari

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E’ veramente possibile donarsi l’uno all’altro? Una tale intenzione può durare tutta la vita? Che cosa ne sappiamo del nostro amore fra vent’anni? Nella realtà circostante sembra sempre più dominante la legge della provvisorietà e del disimpegno, con il conseguente rifiuto della definitività. ... La crisi del legame matrimoniale è questione complessa. La fine del legame coniugale non è sempre il risultato di processi volontari e intenzionali e non sempre le coppie che rimangono unite sono meno fallite delle altre che si separano.

 

di Luca Tosoni

Prima di affrontare il tema specifico, può essere utile considerare brevemente i profondi mutamenti socio-culturali che hanno interessato la concezione e l’esperienza della famiglia.

Di fatto, le recenti ricerche sociologiche mostrano una famiglia più instabile, che privilegia nuove soluzioni, nuove forme, nuovi assetti relazionali, nuovi partner, rispetto a valori più tradizionali come la stabilità, la fedeltà, la durata, l’impegno reciproco.

Innanzitutto, assumo come punto di partenza quello che è chiamato da molti studiosi il “paradigma della provvisorietà”. E’ certo che l’imposizione di questa realtà porta alla fine del valore della “durata delle cose”, con il conseguente rifiuto delle scelte “definitive e per tutta la vita”. Tutto diviene rimpiazzabile e sostituibile.

Sembra non esistere una verità oggettiva cui far riferimento, il metro di ogni verità resta il soggetto; ognuno costruisce la sua verità. Esiste frammentazione senza fondamento. Non esiste e non può esistere un principio unificatore, tutto è relativo e opinabile. La conseguenza più evidente è che si scambia il valore oggettivo e universale con il punto di vista soggettivo. Non esiste segno che lasci percorsi ben evidenti, ma tutto diventa traccia e come Pollicino c’è il rischio di perdersi e non ritrovarsi. Scrive L. Biagi:

“Nel momento in cui la storia non offre più come prima delle prospettive, non offre più una progettualità che richieda il nostro impegno, nell’ora in cui le incognite rischiano di prevalere sulle speranze, l’individuo viene semplicemente travolto dalla cogenza dell’attimo presente, si sente spinto a bere fino in fondo quel che si propone come istante presente, insegue ciò che immediatamente gli si propone come positivo, come piacere, come benessere”.[1]

L’esistenza assume, in questo modo, sempre più la fisionomia molecolare di tanti istanti che vanno colti per quel che sono, spremendone fino all’ultimo il possibile contenuto emotivo. Quando il passato è visto come qualcosa di “accaduto, terminato, compiuto”, come qualcosa di “chiuso e muto” nei confronti del nostro presente e il futuro si trasforma in serbatoio di minacce piuttosto che “luogo” di speranze e di progettualità, l’unica via percorribile rimane il presente. Si evidenzia, quindi, una cultura del “qui e ora” e del “tutto e subito”. Non ha senso, in questo contesto, il sacrificio del tempo presente sicuro e irripetibile per un futuro che diventa ignoto e oscuro.

Tutto questo porta al rifiuto di ciò che impegna, di ciò che diviene eterno. Si vivono situazioni frammentate e poco incisive.

Pensiamo, quindi, quanto sia difficile vivere la durata, l’impegno e la stessa progettualità.

E’ veramente possibile donarsi l’uno all’altro? Una tale intenzione può durare tutta la vita? Che cosa ne sappiamo del nostro amore fra vent’anni? Di certo queste domande sono in aumento. Nella realtà circostante sembra sempre più dominante la legge della provvisorietà e del disimpegno, con il conseguente rifiuto della definitività. La tensione verso gli impegni definitivi è in netto calo. Anche l’amore viene recepito in questa dimensione: tutto è provvisorio. Sembra essere assente l’idea del “per sempre”. Il criterio è quello del “carpe diem”: cogliere l’attimo fuggente, scartare l’idea di ipotecare il futuro, accettare la precarietà della sperimentazione amorosa.

A rendere più complesso il problema della costruzione dell’identità di coppia, oltre al contesto sociale intervengono altri fattori di tipo relazionale. La vita di coppia ha bisogno di trovare un equilibrio tra le aspettative reciproche e l’autorealizzazione. Quindi, se si entra in un rapporto con alte aspettative personali di autorealizzazione si è poco disposti a vivere la reciprocità, la solidarietà, la comprensione e la donazione, il rischio è quello di vedere tutto questo come un obbligo, come un dovere, si rivendica una propria libertà di agire, ci si sente stretti in un rapporto che sembra soffocarci: “Non ho più spazio per le mie cose, per fare ciò che mi piace e diverte”.

Il contesto attuale, inoltre, ha modificato sostanzialmente i valori culturali di riferimento, in special modo la posizione della donna. Essa si trova non solo a gestire la casa, ma è chiamata molto spesso a occupare un ruolo extra-domestico, con un evidente sovraccarico di compiti e di fatica fisica e psichica. Questo comporta un “ripensamento” dei ruoli familiari. Si tratta di riconoscere concretamente la pari dignità delle persone, pur nelle inevitabili differenze di genere, non con una rigida divisione dei ruoli ma con più flessibilità e disponibilità a farsi carico degli oneri familiari. La parità è confusa con la simmetria, con la negazione delle specificità personali.

La vita familiare è composta di vari momenti che hanno caratteristiche, necessità e dinamiche diverse. Possiamo dire, in questo senso, che la vita coniugale è costellata di mutamenti: prima si è in due, poi arriva un figlio, o più figli con le loro diversità, crescono e diventano adolescenti, si assiste ad una crescita personale e di coppia, si vive la tappa della vecchiaia ecc. Ogni momento costituisce un passaggio, un momento di cambiamento, che è necessario affrontare con flessibilità e stando uniti. Se manca questa caratteristica il rischio di conflittualità è alto.


Il dramma della separazione[2]

Per molte coppie, che hanno alle spalle sfibranti esperienze d’incomprensioni, conflitti, litigi, la separazione è sperimentata come una liberazione da una situazione divenuta ormai insopportabile. Essa comunque rimane un dramma, sia per i protagonisti, sposi e figli, sia anche per la comunità cristiana che nell'esperienza della separazione dei suoi figli vede venir meno il sacramento dell’amore di Cristo per la sua Chiesa, di cui il matrimonio dei cristiani è un simbolo reale. La sofferenza che sempre accompagna la separazione è anche la sofferenza della comunità cristiana.

Quando due giovani si uniscono con il sacramento del matrimonio, non rientra certo nei loro pensieri la prospettiva che il loro amore possa un giorno finire e fallire. Rientra nei piani di una coppia che si forma la progettazione di un futuro insieme per realizzarsi come persone, per vincere la solitudine, per amare e donarsi al proprio coniuge in maniera piena, per fare dell’amore coniugale la culla del dono della vita. Ma i bei progetti poi, non mancano di scontrarsi con le difficoltà della vita, con ciò che non si era ipotizzato, con la scoperta di aspetti inediti e sconosciuti del carattere e della personalità del proprio coniuge che solo con la convivenza vengono a galla. E allora tutto sembra crollare, il cammino progettato insieme, il desiderio di una comunione piena e la propria buona volontà. Tutto è messo alla prova dalle difficoltà impreviste. Esse, nei primi anni di matrimonio, sono spesso superate con l’entusiasmo, con la buona volontà, con il sacrificio. Ma poi, in alcune coppie che non vanno alla radice del disagio, i problemi rischiano di erodere progressivamente la reciproca fiducia e stima, fino ad una soglia oltre la quale il matrimonio entra irrimediabilmente in crisi. Quando questo accade – e purtroppo ciò avviene sempre più spesso e per un numero sempre maggiore di coppie – si arriva alla rottura del legame matrimoniale e alla decisione di separarsi presa per l’iniziativa di uno dei coniugi.

La separazione è un dramma dagli ampi risvolti. Esso va compreso in tutta la sua complessità e nelle sue fondamentali implicazioni.

Dal lato psicologico spesso capita, parlando con qualche amico o parente che ha provato la triste esperienza della separazione e del divorzio, ascoltare amare considerazioni: «Dove ho sbagliato? Mi sono fidato/a troppo? Ho affrontato il matrimonio con troppa facilità? Ho dato importanza ad alcune cose piuttosto che ad altre?». Intravediamo al di là delle parole una vita che si spezza, sofferenze che penetrano nel profondo, incomunicabilità con l’“altro” con il quale pur si era vissuto bene e che si era amato, pessimismo sul passato e pessimismo sul futuro. Non di rado subentra un senso di depressione e disistima, con la conseguente difficoltà a riorganizzarsi la vita, a mantenere il ruolo di genitore nonostante sia terminato quello di marito o moglie, a continuare come prima i rapporti con i parenti e amici.

Dal lato educativo se, nella coppia senza figli, l’esperienza della separazione provoca spesso il crollo della fiducia in se stessi e la riduzione della stima di sé, nella coppia con figli si aggiunge anche il venir meno dell’ideale di sé come genitori. Come rimanere genitori per i figli anche quando non si è più sposi? I problemi educativi si complicano ulteriormente quando si costruisce una nuova relazione con un nuovo compagno, il quale a sua volta ha anch’egli dei figli.

Inoltre, sotto l’aspetto sociale se la società moderna ha aperto a molte famiglie l’accesso a un certo benessere, quando avviene una separazione molti equilibri anche in questo campo si rompono. Chi si è separato ci testimonia la gran difficoltà a mantenere i medesimi impegni di prima. Si va incontro a nuove difficoltà economiche, ci sono mutui da finir di pagare, c’è il problema di una nuova casa, l’impoverimento delle relazioni sociali a seguito della crisi col proprio coniuge, la perdita spesso di efficienza nel proprio lavoro. Si deve correre per arrivare dappertutto dovendo fare da soli quello che prima si faceva condividendolo col coniuge.

Infine, dal punto di vista ecclesiale, talvolta, assistiamo da parte di alcuni a un atteggiamento che loro giudicano di chiusura e di giudizio da parte di chi si pensa a posto solo perché forse è stato più fortunato di altri nella vita matrimoniale e ha incontrato meno difficoltà. È vero che alcuni esagerano nel sentirsi giudicati ed esclusi. Ma, talvolta, quest’esagerazione è indotta da modi di fare che esprimono indifferenza, poca attenzione, disinteresse per queste situazioni.

 

Matrimoni in difficoltà e magistero: tra verità e carità

Ventuno anni fa Giovanni Paolo II dedicava il quarto punto della FC al tema concernente “la pastorale familiare nei casi difficili”. Le situazioni che in quel frangente furono prese in considerazione risultano ancora attuali (unioni di fatto, matrimoni per esperimento, unioni civili, separati, divorziati non risposati, divorziati risposati). Anzi, va detto che nel corso degli ultimi due decenni si sono diffuse e precisate nella loro problematicità. C’è una situazione che in realtà più degli altri impegna il Magistero nella sua riflessione: i divorziati risposati. Emblematiche le parole del Papa durante il Giubileo delle famiglia (24.10.2000):

"Di fronte a tante famiglie disfatte, la Chiesa si sente chiamata non ad esprimere un giudizio severo e distaccato, ma piuttosto ad immettere nelle pieghe di tanti drammi umani la luce della parola di Dio, accompagnata dalla testimonianza della sua misericordia. E' questo lo spirito con cui la pastorale familiare cerca di farsi carico anche delle situazioni dei credenti che hanno divorziato e si sono risposati. Essi non sono esclusi dalla comunità; sono anzi invitati a partecipare alla sua vita, facendo un cammino di crescita nello spirito delle esigenze evangeliche. La Chiesa, senza tacere loro la verità del disordine morale oggettivo in cui si trovano e delle conseguenze che ne derivano per la pratica sacramentale, intende mostrare loro tutta la sua materna vicinanza. Voi, coniugi cristiani, siatene certi: il Sacramento del matrimonio vi assicura la grazia necessaria per perseverare nell’amore scambievole, di cui i vostri figli hanno bisogno come del pane. Su questa comunione profonda tra voi oggi siete chiamati a interrogarvi, mentre chiedete l’abbondanza della misericordia giubilare".

 

L’espressione situazione irregolare, adoperata nei confronti dei divorziati risposati, non va in alcun modo equivocata. Essa non è stata coniata per esprimere un giudizio sulle persone soggettivamente considerate, ma soltanto per definire, dal punto di vista oggettivo, lo stato di vita di quei battezzati (conviventi, divorziati risposati, sposati solo civilmente) che vivono una relazione coniugale in contrasto col sacramento del matrimonio.

La prima affermazione del Magistero è che i fedeli divorziati si trovano in una situazione che contraddice oggettivamente l’indissolubilità del matrimonio. Divorziando e risposandosi civilmente, essi, sono venuti meno non solo ad una normativa ecclesiale, ma soprattutto alla verità cristiana che ad essa soggiace e che risale all’insegnamento stesso di Gesù. Una nuova unione civile non può sciogliere il precedente vincolo matrimoniale sacramentale. Dare i sacramenti ai divorziati risposati significherebbe porre in atto un linguaggio sacramentale che è contraddetto da quello esistenziale, sicché il segno sacramentale finisce per dire il contrario del suo vero contenuto, configurandosi pertanto come segno falso e falsificante.

Sebbene, questi fedeli vivono in una situazione, che contraddice il messaggio evangelico, essi sono e rimangono membri della Chiesa, non devono, come afferma il Papa “considerarsi separati dalla Chiesa, ma considerati a tutti gli effetti membri di essa”.

Che siano membri della Chiesa risulta fondamentalmente non solo “in forza del battesimo che imprime il carattere indelebile di membri del corpo di Cristo che è la Chiesa e in forza di una fede non totalmente rinnegata; ma in forza dei molteplici vincoli che, oltre il battesimo e la fede, permangono fra divorziati risposati e la Chiesa”. Per questo motivo i documenti magisteriali parlano normalmente di fedeli divorziati risposati e non semplicemente di divorziati risposati.

E’ questa realtà che costituisce il fondamento e la ragione dei loro diritti e doveri nella Chiesa e verso la Chiesa. La loro appartenenza, dunque, è ribadita non solo in negativo, perché essi sono canonicamente separati o scomunicati, ma soprattutto in positivo, in quanto chiamati a partecipare alla vita e alla missione della Chiesa, anche se con alcuni limiti[3].

"Siano esortati ad ascoltare la Parola di Dio, a frequentare il sacrificio della Messa, a perseverare nella preghiera, a dare incremento alle opere di carità e alle iniziative della comunità in favore della giustizia, a educare i figli nella fede cristiana, a coltivare lo spirito e le opere della penitenza per implorare così, di giorno in giorno, la grazia di Dio. La chiesa preghi per loro, li incoraggi, si dimostri madre misericordiosa e così li sostenga nella fede e nella speranza". (FC 84)

La comunità cristiana è invitata a non giudicare l’intimo delle coscienze e a manifestare una vera e propria sollecitudine pastorale mediante la stima, il rispetto, l’aiuto e la comprensione.

Siamo, dunque, di fronte, al superamento di una pastorale segregazionista, che mette al bando della comunità ecclesiale i divorziati risposati, solo per il fatto di essere tali.

Atteggiamento fortemente ribadito dal Direttorio di pastorale familiare al n. 215:

"Ogni comunità cristiana eviti qualsiasi forma di disinteresse o di abbandono e non riduca la sua azione pastorale verso i divorziati risposati alla sola questione della loro ammissione o meno ai sacramenti: lo esige, tra l’altro, il fatto che la comunità cristiana continua ad avere occasioni di incontro con queste persone, i cui figli vivono l’esperienza della scuola, della catechesi, degli oratori, di diversi ambienti educativi ecclesiali…".

Quale ruolo ha il laico?

  • Il laico non deve correre il rischio di mitizzare il passato e di ricostruirlo come un mosaico luminoso solo con i tasselli più colorati e belli, lasciando da parte quelli slabbrati e corrosi. Siamo chiamati ad immergerci nella complessità. Dovremmo riflettere in profondità Deuteronomio 32,10:

“Egli lo trovò in una terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo circondò, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio. Come un’aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le sue ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali”.

Se questo è il nostro Dio, che parte da un contesto in cui sembra impossibile qualunque azione educativa, che ha cura, che cerca l’uomo, che ridona speranza, come suoi figli non possiamo che rispondere con il coraggio dell’amore e con la fiducia che le nostre fatiche non andranno mai disperse.

 

  • La Gaudium et Spes ci ammonisce invitando tutti a calare la propria fede nel cuore del mondo, là dove regna la sofferenza: “le gioie e le speranze. Le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore…”. Essere fino in fondo coppia, significa anche essere con gli altri e imparare a giocare la propria esistenza personale e coniugale per gli altri.

L’essere porta[4] diviene il segno distintivo della coppia cristiana. Due sono i movimenti della porta: chiusura ed apertura. La porta preserva l’intimità, fa da scudo alle intemperie, protegge. I coniugi se vogliono effettivamente essere segno dell’amore di Cristo per la sua Chiesa, devono prima di tutto crescere nel loro amore, in un reciproco e totale dono di sé. E’ veramente importante che la coppia trovi, spazio, tempo e desiderio per una condivisione profonda: essere coppia è un dono che va custodito.

Ma d’altra parte la porta si apre ad una condivisione più ampia. Essere fino in fondo coppia, significa anche essere con gli altri e per gli altri imparando a giocare la propria esistenza personale e coniugale per gli altri. I coniugi non vivono la carità coniugale chiudendosi nel proprio mondo, ma operando dentro le realtà temporali. La santità non è da ricercare altrove o nonostante, ma proprio in e mediante la vita coniugale. Diviene importante, in questo senso, ascoltare la lacerazione interiore di chi “ha fallito”. In questo caso l'accoglienza non significa dare ragione ma comprendere la sofferenza dell’altro per aiutarlo a convivere con tale sofferenza. Non esprimere giudizi su quanto emerge e non schierarsi, divengono disposizioni fondamentali. L'accoglienza vera presuppone anche un atteggiamento che sia alla pari, in cui nessuno dei due ha preminenza sull'altro. Non prevale chi accoglie sentendosi il buono della situazione, ma non prevale nemmeno chi soffre, pensando che lo stessa sofferenza gli dia il diritto di guidare il rapporto.

  • Questa situazione interpella non soltanto la Teologia e il Magistero, ma anche, e soprattutto, la Pastorale. Per ‘pastorale’ non intendo qui tanto, o primariamente, la parte della scienza teologica che si studia nei Seminari e nelle Università Teologiche, ma l’impegno delle nostre comunità parrocchiali di tradurre nel concreto del vissuto quotidiano le esigenze del Vangelo di Gesù Cristo che rivela e annuncia ad ogni uomo di buona volontà’ la bellezza e la bontà del matrimonio. Il termine pastorale, prima di indicare cose da fare, suggerisce un atteggiamento e un modo di essere nel contesto sociale ed ecclesiale[5]. La pastorale, la cui intrinseca essenza è di essere al servizio del bene supremo dei fedeli, implica sia l’aspetto della testimonianza che quello dell’azione. La Chiesa è chiamata a diffondere il messaggio evangelico innanzitutto attraverso la sua testimonianza, la quale lo rende immediatamente credibile interpellando interiormente la coscienza dell’uomo a ‘leggere’ la propria storia alla luce della Parola di Dio. Nel nostro caso specifico si tratta di chiederci: come annunciare il Vangelo dell’amore e della vocazione coniugale?

Di grande interesse sono le parole di Giovanni Paolo II al n.4 dell’Esortazione apostolica Familiaris Consortio: “Poiché il disegno di Dio sul matrimonio e sulla famiglia riguarda l’uomo e la donna nella concretezza della loro esistenza quotidiana in determinate situazioni sociali e culturali, la chiesa, per compiere il suo servizio, deve applicarsi a conoscere le situazioni entro le quali il matrimonio e la famiglia oggi si realizzano. Questa conoscenza è, dunque, una imprescindibile esigenza dell’opera evangelizzatrice. E’, infatti, alle famiglie del nostro tempo che la chiesa deve portare l’immutabile e sempre nuovo vangelo di Gesù Cristo, così come sono le famiglie implicate nelle presenti condizioni del mondo chiamate ad accogliere e a vivere il progetto di Dio che le riguarda…”.

Il Papa ci invita ad incarnare il Vangelo nella realtà odierna con tutta la sua complessità, a impostare la nostra pastorale tra rischio e coraggio[6]. Il rischio di uscire dal tempio, dalle sicurezze, dagli schemi, dal comune sentire, per intraprendere sentieri inediti e non sperimentati, avendo il coraggio di parlare con chiarezza, di annunciare il Vangelo senza sconti. Il coraggio di muoverci quando gli altri stanno fermi, il coraggio di aprire nuovi spazi di dialogo affrontando temi scomodi ad un modo comune di sentire.

 

  • La prima forma di prevenzione è certamente una Pastorale del Fidanzamento più oculata e più adeguata ai cambiamenti culturali in atto[7], secondo i quali l’amore è pensato, proposto e vissuto senza un significativo riferimento a Dio[8] e nel contesto di una esperienza sempre più frammentata, in cui agli ideali romantici delle generazioni passate è subentrata, nelle nuove generazioni, la paura per un impegno che continua nel tempo, senza il quale è difficile attraversare indenni tutte le stagioni dell’amore che una coppia oggi è chiamata a superare[9].

A tale riguardo, l’affermazione del Direttorio di pastorale familiare è quanto mai perentoria: «Se questa è la situazione, non sono necessarie altre considerazioni per avvertire come la pastorale prematrimoniale, in ogni sua articolazione, costituisca uno dei capitoli più urgenti, importanti e delicati di tutta la pastorale familiare. Tale pastorale si trova di fronte a una svolta storica. Essa è chiamata a un confronto chiaro e puntuale con la realtà e a una scelta: o rinnovarsi profondamente o rendersi sempre più ininfluente e marginale. Di qui, in particolare, la necessità di una cura pastorale del fidanzamento che aiuti a riscoprirne e a viverne il senso umano e cristiano e di una preparazione immediata o particolare al matrimonio più attenta, puntuale e articolata» (n. 40).

Molti operatori e molti pastori si sono fatti la convinzione che molte delle cause che portano al fallimento di un matrimonio hanno la loro radice in problemi irrisolti durante il periodo del fidanzamento, quando andavano esaminati in ordine alla valutazione della idoneità della coppia e alla decisione di legarsi in maniera definitiva.

Si ha l’impressione che molti dei nostri corsi intercettano i fidanzati quando i giochi sono fatti, e poche sono le coppie che, alla luce dei contenuti che vengono approfonditi durante il corso, rivedono i criteri secondo i quali hanno deciso di sposarsi e per di più religiosamente. A motivo di ciò, la pastorale del fidanzamento dovrebbe muoversi dai corsi ai per-corsi, in cui i futuri sposi iniziano il loro cammino di preparazione al matrimonio all’inizio del fidanzamento e non al termine.

A questa che può essere definita prevenzione remota, vi è anche una prevenzione prossima. Si tratta di un’azione pastorale finalizzata a far sentire la vicinanza della comunità alle coppie che avvertono di avere difficoltà di relazione e il cui legame coniugale comincia a mostrare delle crepe. Spesso, molte coppie – che non danno molta importanza ai piccoli fatti che segnalano il sorgere di difficoltà che cominciano a minare la loro relazione – quando si accorgono che il loro rapporto è in seria crisi, solo allora si decidono di chiedere aiuto, ma è ormai troppo tardi.

La carenza di una salutare vicinanza alle coppie in difficoltà è frutto anche di una debole e insufficiente pastorale di accompagnamento delle coppie, specialmente di quelle giovani, che nei primi anni di vita devono superare la prova di un collaudo della loro stabilità che possa durare per tutta la vita[10].

Di un’azione d’assistenza e di prevenzione parla il Direttorio là dove rileva che la pastorale, affinché possa essere accogliente e misericordiosa, «dovrà comprendere insieme l’aspetto dell’assistenza e quello della prevenzione. Senza dubbio, è necessario intervenire nei casi di vera e propria crisi ed offrire contributi puntuali e specifici per cercare di risanare, o almeno di avviare ad un qualche miglioramento, le situazioni matrimoniali irregolari. Ma ancora più importante e indispensabile è svolgere un’azione preventiva: attraverso una sapiente e incisiva opera educativa, non disgiunta da congrue forme di intervento sulle strutture sociali, occorre promuovere le condizioni che possono garantire il retto sorgere e svilupparsi del matrimonio e della famiglia. In questo contesto appare quanto mai opportuna una seria preparazione al matrimonio» (n. 201).

 

 

La crisi del legame matrimoniale è questione complessa. La fine del legame coniugale non è sempre il risultato di processi volontari e intenzionali e non sempre le coppie che rimangono unite sono meno fallite delle altre che si separano. E’ ancora troppo diffusa l’idea che le nuove nozze siano segno di una vita dissoluta e irresponsabile e troppo spesso c’è un giudizio di condanna nei confronti di persone con matrimoni falliti alle spalle. Il fallimento di un matrimonio è appunto un fallimento: non vince nessuno, tutti perdono. La comunità cristiana e gli operatori di pastorale familiare devono saperlo affrontare con serietà, competenza e capacità di farsi carico delle situazioni da leggere e interpretare sempre alla luce di una concezione integrale della persona umana che ha nella Parola di Dio, nell’esempio e nella testimonianza di Cristo, il suo orizzonte di comprensione. Una pastorale che intende rispondere al dramma della separazione, deve essere quanto mai illuminata. I rischi da cui fuggire sono molteplici: c’è il rischio di assolutizzare un solo aspetto del problema e proporre soluzioni riduttive; c’è il rischio di cadere nello psicologismo che riduce tutto alla mancanza della comunicazione nella coppia; c’è il rischio del moralismo che vede soltanto errori e colpe; c’è il rischio dello spiritualismo che crede magicamente che il semplice ricorso alla preghiera possa risolvere tutto; c’è infine il rischio della rassegnazione al dato di fatto, prospettando una accoglienza senza nessun cammino di conversione.

Tutti hanno il dovere di impegnarsi per alleviare queste sofferenze e per aiutare queste persone a fare scelte che sono secondo il vangelo. La Chiesa intera, data questa realtà, si deve sentir chiamata, come afferma la Conferenza episcopale lombarda nella Lettera alle nostre famiglie: “ non ad esprimere un giudizio severo e distaccato, ma piuttosto ad immettere nelle piaghe di tanti drammi umani una luce della Parola di Dio, accompagnata dalla testimonianza della sua misericordia”.

In questo percorso che porta all’accoglienza diviene indispensabile accettare la diversità. Essa mette scompiglio nella nostra vita: il diverso provoca fastidio. Quando entra nel nostro spazio vitale, incomincia a diventare un problema; la reazione istintiva è quella di prendere le distanze.

La loro esperienza personale carica di dolore, di sdegno deve spronare le coppie cristiane a riflettere sul proprio matrimonio, sulla propria realtà, sulle piccole e grandi incomprensione: essere pronti a mettersi in discussione come coppie.

Indicativi, in questo senso, sono gli interrogativi posti dalla già citata Commissione episcopale francese:

"Alcune coppie stabili hanno tenuto perché non hanno incontrato delle grandi difficoltà. Altre, invece, che non avevano meno buona volontà hanno incontrato degli ostacoli: malattia, miseria, separazioni, che sono apparse a loro insormontabili. In simili circostanze, i primi avrebbero tenuto? Se fossero stati meno provati, i secondi non sarebbero rimasti fedeli? Sarebbe troppo semplice, e spesso anche ingiusto, separare le coppie in due gruppi: i buoni che sono rimasti insieme, i cattivi che si sono separati per passare a nuove nozze. Vi possono essere delle coppie stabili che vivono ripiegate su se stesse nell'indifferenza e nell'egoismo. Viceversa, vi possono essere delle coppie che, dopo il fallimento della loro prima unione, cercano di vivere nella loro seconda unione valori autentici di amore, di fedeltà di apertura verso gli altri e si sforzano di rispondere al vangelo secondo le loro possibilità attuali".

Luca Tosoni 

[1] L.BIAGI, Religioni, cultura e valori. Problemi e prospettive, in Religioni e bioetica, Editrice Gregoriana, Padova 1997, p.32.

[2] cfr. GRANDIS-TOSONI, Coniugi in crisi matrimoni in difficoltà. Teologia, magistero e pastorale si confrontano, Ed. Effatà, Cantalupa 2003, pp.106-112.

[3] I divorziati risposati non possono svolgere nella comunità quei servizi che esigono una pienezza di testimonianza : servizi liturgici (lettore, catechista, padrino per i sacramenti). Le azioni che si trovano a svolgere non sono puramente Tecniche e materiali, ma vanno a coinvolgere la coerenza della persona.

[4] L.TOSONI, Vivere e costruire l’amore. Itinerario cristiano di spiritualità coniugale, Ed. La Piccola, Celleno (VT) 2001, p.52.

[5] cfr. GRANDIS-TOSONI, Coniugi in crisi…op.cit. p.100.

[6] L.SEBASTIANI, A partire dai cocci rotti,, Cittadella Editrice, Assisi 2001, p.40.

[7] Cf a tale riguardo gli studi raccolti dall’Ufficio Nazionale per la Pastorale della Famiglia e per la Pastorale Giovanile: Cei, Il fidanzamento. Tempo di crescita umana e cristiana, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1998.

[8] Cf Muraro G., Amori senza Dio, in «Famiglia Oggi», 11(2002).

[9] Sulla paura di amare, cf Trentacoste N. (a cura di), Paura di amare nei contesti più problematici. Riflessioni ricerca prospettive, Cittadella editrice, Assisi 2002. Sulle possibilità, invece, di un amore a vita nella società del disincanto, cf Di Nicola G.P.,-Danese A., Amici a vita. La coppia tra scienze umane e spiritualità coniugale,Città Nuova, Roma 1997.

[10] «I primi anni di vita – avverte il Direttorio –, oltre ad essere determinanti per l’intero cammino coniugale e familiare, sono tempo di avvio e insieme di assestamento per quanto riguarda sia l’esperienza dell’amore coniugale sia l’incontro con la nuova vita del figlio» (n. 101).

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