Il Vangelo di questa seconda domenica di Avvento, è un testo molto complesso e delicato. Ci viene presentata la figura di Giovanni il Battista, l’uomo del passaggio tra Antico e Nuovo Testamento, tra la religione e la fede.
Giovanni invita all’accoglienza dell’amore che s’è fatto presenza, che s’è fatto vicino, accanto (v. 2), perché l’amore, per definizione, si può solo ricevere. Non è da capire, da studiare, da imparare. È presenza personale da accogliere nella gratuità, non da meritarsi vantando un’affettata religiosità, come credono i sadducei e i farisei, pii religiosi del tempo di Gesù, e in fondo, di ogni epoca. Essi credono di essere con la squadra vincente solo perché indossano quella casacca: «Non crediate di poter dire: ‘Abbiamo Abramo per padre’ (v. 9).
Dirsi cristiani non vuol dire ancora nulla, come l’essere battezzati, il partecipare alla Messa, recitare preghiere o ricevere i sacramenti. Il ‘dirsi’ di Cristo non vuol dire appartenergli, non funge da talismano contro le tempeste della vita, e neppure polizza assicurativa nei sinistri del quotidiano.
Non è entrare nelle fila di una religione a dire qualcosa del nostro vero essere, ma è il nostro essere fecondi ad affermare e testimoniare un’appartenenza al Dio della vita: «Dai loro frutti li riconoscerete» (Mt 7, 16).
Occorre portare frutto dunque (v. 8), anzi ‘buon frutto’ dice il Battista (v. 10b). E il frutto è sempre consequenziale all’essere, come il frutto scaturisce sempre da un albero ben radicato con le radici nel terreno da cui si traggono tutte le energie necessarie. La questione dunque è accogliere, entrare in contatto con la Vita, la sorgente interiore che dimora in noi, per sperimentare così l’essere trasformati, fecondi e in grado di dare buoni frutti.
Il Battista ci ricorda inoltre che la vita può anche conoscere il fallimento. È il fallimento di una vita infruttuosa, sterile, inconcludente perché sempre giocatasi ‘altrove’, distratta, in perenne evasione, non radicata nel terreno. Quella vita che non ha edificato sulla roccia (cfr. Mt, 7, 24), producendo non frutti ma solo paglia e detriti.
Ma il Vangelo di Gesù (ed è qui che si gioca la radicale differenza tra Antico e Nuovo Testamento, la bella notizia), afferma con forza che alla fine – non ‘dei tempi’ perché il tempo è già compiuto (cfr. Mc 1, 14), ma di ogni istante – il fuoco dell’Amore brucerà, dissolverà tutto ciò che non è stato edificato attraverso l’amore. Verrà estinta cioè in noi la conseguenza malata dell’inconsistenza, tutta la paglia prodotta dalle nostre illusioni, dai nostri inganni e il nostro male (v. 12a). E al contempo, il medesimo Amore raccoglierà la parte buona di noi, ciò che è stato edificato nell’amore, secondo la capacità di ciascuno, ossia quel qualcosa di talmente forte da resistere anche alla prova della morte (v. 12b; cfr. 1Cor 3, 10bss.).
“Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore,raddrizzate i suoi sentieri! “
il nostro essere fecondi ad affermare e testimoniare un’appartenenza al Dio della vita: «Dai loro frutti li riconoscerete» (Mt 7, 16).
Il brano del Vangelo di oggi, è uno splendido insegnamento su ciò che evangelicamente si deve intendere per religione e per fede.
Il fariseo della parabola rappresenta la religione, ossia il tentativo di ‘legarsi’ alla divinità attraverso un armamentario religioso fatto di pratiche, preghiere, adempimento di norme, regole e precetti. L’uomo ‘religioso’, ha dunque la presunzione di pensare che la propria giustizia derivatagli dall’assolvimento dei suoi doveri, sia sufficiente a ricevere il premio da parte del ‘suo’ Dio.
Come se Dio potesse premiare, magari con benedizioni, salute e grazie speciali, chi non manca di condurre una vita irreprensibile. Questa è la perversione della religione, che ha fatto del rapporto con Dio un commercio, arrivando ad identificare questo con la salvezza.
Il pubblicano invece rappresenta l’uomo di fede, principio autentico di salvezza. Paolo è chiarissimo su questo punto: «sapendo tuttavia che l’uomo non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge; poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno» (Gal 2, 16).
Non sarà mai la nostra ‘ricchezza’ religiosa a ‘legarci’ a Dio. Egli è già parte di noi a prescindere, è ‘l’anima dell’anima nostra’ (J. Green), per questo possiamo vivere riconoscendo ed accettando quel che siamo, con tutte le nostre debolezze, le nostre ferite, giungendo così a credere maggiormente alla sua misericordia che alla nostra miseria.
Il peccatore di questa parabola ci sta insegnando che il proprio “vuoto”, la propria pochezza e debolezza, può diventare – se lo vogliamo – la nostra ricchezza.
La mia miseria è misura della sua misericordia.
Dio è la presenza che riempie assenze.
“Il peccato è la nostra parte di Vangelo” (Silvano Fausti).
Ma un altro insegnamento interessante ci fa dono il Vangelo di oggi.
Il fariseo, nella sua presunzione si permette di giudicare il disgraziato che gli è accanto, dall’alto della sua giustizia. Ebbene, il riconoscerci per ciò che siamo realmente, accettare la nostra verità, ci sottrae dal giudizio dell’altro. Se faccio realmente esperienza del mio limite e insieme della misericordia del Padre, non potrò più giudicare nessuno, perché gli altri non saranno mai peccatori quanto lo sono io. Come Paolo, arriverò anch’io a riconoscermi come il primo di tutti i peccatori (1Tm 1, 15), ma un peccatore perdonato. Per questo saprò frequentare, da fratello, tutti i peccatori del mondo.
«Allora Cristo ci dirà: venite anche voi, venite, o ubriaconi! Venite, o deboli! Venite, o dissoluti! E ci dirà: esseri vili, siete creati ad immagine della bestia e siete segnati dalla sua impronta. Venite comunque anche voi! E i saggi diranno, e i prudenti diranno: “Signore, perché li accogli?”
Ed egli dirà: Se li accolgo è perché ciascuno di essi non se ne è mai giudicato degno.
E ci tenderà le braccia, e cadremo ai suoi piedi, e scoppieremo in singhiozzi e allora comprenderemo ogni cosa. Sì, allora comprenderemo tutto» (Dostoevskij, Delitto e castigo).
"chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato». ,
La mia miseria è misura della sua misericordia.
Il cristianesimo non è questione di adeguamento, ma di compimento.
Non siamo chiamati ad imitare Cristo, ma a dargli compimento in noi, concedere spazio al principio divino che ci portiamo dentro, entrarci in contatto sino ad esserne trasformati.
La nostra vita dunque non consisterà nell’adeguarsi a verità estrinseche a noi (la legge), ma nel portare alle estreme conseguenze la verità che siamo, il nostro essere umani.
Il Vangelo di oggi ci dona anche il segreto perché tutto questo possa compiersi: abbandonare tane, nidi e padri. Traducendo, potremmo affermare che è necessaria la ferma decisione di rompere anzitutto con l’immagine della madre; tane e nidi sono simbolo dell’utero materno, il mondo dei bisogni e delle sicurezze. Gesù invita a rompere con tutto ciò che ha a che fare con i nostri sogni, le nostre fiducie e certezze, di qualsiasi genere materiali, immaginifiche, religiose siano.
Ora, questa rottura non va letta come rinuncia fine a se stessa, bensì come possibilità per un’autentica libertà. È nel vuoto e nell’abbandono – ossia ciò che la mistica chiama puro silenzio – che il divino può finalmente compiersi in noi. L’io deve essere liberato non tanto da qualcuno o da qualcosa, bensì ‘per’ qualcuno, perché Lui possa compiersi in pienezza. Attenzione tane e nidi possono includere anche le nostre immagini di Dio, il nostro presunto rapporto con lui nel quale siamo soliti trovare protezione, comprensione, rifugio, aiuto. È interessante notare che solo nel momento in cui Gesù sulla croce grida: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?» (Mt 27, 46; Mc 15, 34), sperimenta anche l’unione massima col Padre, il compimento del suo essere umano, la risurrezione.
Gesù invita a rompere altresì con l’immagine del padre (v. 60), ossia col mondo di quegli affetti, di quei doveri, di quei rapporti che hanno il potere di determinarci, esercitare un forte impatto su noi, dominandoci. Proviamo a chiederci: quanto potere abbiamo concesso alle ‘personalità forti’ nella nostra vita, impedendoci di fatto di vivere in pienezza?
Occorre insomma abbandonare i morti (cfr. 60), slegarci da quei fantasmi che presumiamo essere capaci di donarci vita dall’esterno. No, l’essenziale per vivere abita in noi. Occorre solo crederci fino in fondo, prenderne consapevolezza e poi concedergli spazio e farlo crescere, fino alla nostra piena trasformazione.