Famiglia Giovani Anziani

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Venerdì, 26 Ottobre 2007 02:36

Lourdunathan Yesumarian (Djénane Kareh Tager)

Lourdunathan Yesumarian

di Djénane Kareh Tager

Il nostro incontro è fissato a Parigi, nella hall del CCFD (Comitato cattolico contro la fame e per lo sviluppo) che ha fatto arrivare padre Lourdunathan Yesumarian dalla sua India nativa per partecipare all’incontro nazionale del Comitato. Non c’è molta gente, questo pomeriggio, nella hall. Il prete mi viene incontro, scortato dall’addetto stampa, che lo presenta: "Padre Lourdunathan". Qualche secondo di silenzio. Lui incalza: "Sono un dalit". Mormoro un vago "sì". E lui insiste: "Un intoccabile". Gli tendo la mano. Lui la stringe, sorride. In questo preciso momento, ho come l'impressione che un muro di ghiaccio sia andato in frantumi…
"Intoccabile", questo gesuita, ma avvocato specializzato in diritto internazionale e portabandiera del movimento dalit, lo è nel senso proprio del termine. Così come lo sono duecentocinquanta milioni di suoi compatrioti indiani nati nella casta dei senza casta, degli impuri, degli "intoccabili", appunto. Esseri che le altre caste esitano a definire umani. E ai quali l’India non applica le carte e le altre convenzioni nazionali che affermano l’uguaglianza degli esseri umani, in particolare la Carta dei diritti dell’uomo, anche se sono state ratificate dal loro Paese.
Cerco di capire perché. "È semplice, spiega il gesuita. Secondo la mitologia indù, la casta dei bramini è nata dalla testa del Dio creatore, quella dei guerrieri dalla sua spalla, altre caste dal suo ventre o dai suoi piedi. Noi, i dalit, non siamo nati da Dio. Non siamo niente". Ovviamente mi sento obbligata a ricordare al padre Lourdunathan che egli è cattolico. Che dovrebbe quindi, secondo la logica, non sentirsi toccato da questo mito. La sua risposta è agghiacciante: "La religione è un vestito che si può cambiare. La casta è una pelle. Si nasce con la propria pelle, si muore con lei". E poi, soprattutto, si vive con lei nel quotidiano, come lo dimostra la sua storia personale…
"Sono l'ultimo di una famiglia di otto figli. Una famiglia di dalit, cattolica da tempo. Sono nato nel 1955, in un piccolo villaggio del Tamil Nadu, Stato del sud dell'India. Mio padre è morto quando avevo tre anni, mia madre ha lavorato duro per crescerci. Ho sempre saputo di essere un intoccabile, anche se la parola non era mai pronunciata apertamente. Ero alto come un soldo di cacio ma già sapevo che davanti alla drogheria dovevo stare nella coda riservata ai dalit. Attingere acqua alla fontana dei dalit. Sedermi a scuola o in chiesa sui banchi riservati ai dalit. Giocare solo con i dalit. Un giorno ho osato chiedere perché. La risposta di mia madre non si è fatta attendere: "Vuoi farti ammazzare?".
"Ho continuato gli studi, mia madre e i miei fratelli maggiori desideravano che diventassi prete. Sono sempre stato il primo della mia classe: era il minimo che potessi fare di fronte ai sacrifici che facevano per me. A diciannove anni mi sono presentato per entrare nel seminario della mia diocesi. Avevo bei voti, una forte motivazione. Ma sono stato rifiutato: ero un dalit, rischiavo di infangare o almeno di perturbare gli altri giovani che, come me, volevano consacrare la loro vita al servizio di Dio. Il Dio cristiano, del quale tutti siamo figli, e che ci ama tutti nello stesso modo. Avrei potuto voltare le spalle a quella religione che non mi voleva a causa della mia casta. Riconosco di essere un tignoso: dovevo assolutamente raccogliere la sfida. E lottare, dall'interno, contro quel sistema".
"Ho fatto domanda in altre diocesi, in altre congregazioni. I gesuiti hanno accettato di accogliermi. Mia madre mi ha accompagnato fino all'autobus per la città: due giorni di cammino sotto un sole cocente. Camminava con la testa scoperta, come una dalit. Evitavamo con cura di incrociare l'ombra di un bramino. Sa, l'ombra che facciamo quando c'è il sole. Schiacciandola con i nostri piedi, avremmo infangato un individuo di una casta superiore… Quando sono salito sull'autobus, mia madre mi ha detto: "Non voglio niente da te. Consacra tutte le tue forze ad aiutare i nostri". È l'unica volta in cui l'ho sentita fare allusione al sistema delle caste. Eppure ha dovuto soffrire la discriminazione, piangere vedendo i suoi figli considerati come impuri…".

Imporre le mani, quindi toccare

Lourdunathan è stato ordinato. Da un vescovo che ha accettato di procedere alla cerimonia di imposizione delle mani - che implica di toccare l'intoccabile, cosa alla quale non tutti i gerarchi cattolici indiani acconsentono automaticamente. Anche se testardo, è stato obbligato a piegarsi ad alcune regole. Per esempio, concelebrare la messa quando è fuori dalla sua parrocchia, in modo che i fedeli delle caste superiori possano ricevere la comunione da un prete della loro casta. Inumare i morti dalit nei cimiteri che sono loro riservati - altri cimiteri accolgono i non dalit. Ammettere - tollerare, precisa - che un prete che accoglie un omologo dalit nella sua parrocchia, per celebrare una messa, proceda in seguito ad una purificazione del calice insudiciato dalle mani impure.
Tutto questo è niente, dice, rispetto alle atrocità commesse nei confronti dei fuori casta, che siano indù, buddisti, sikh o cristiani. Padre Lourdunathan indica le cifre, implacabili: ogni giorno, in India, cinque dalit sono uccisi e cinquanta case dalit bruciate. Ogni ora, cinque donne dalit sono violentate - le relazioni sessuali non obbediscono alle leggi delle caste. Sono in seguito spesso uccise dai loro familiari, per lavare l'onore. "E tutto questo perché i dalit vogliono liberarsi dalla loro condizione. Essere considerati come umani. Più reclamiamo i nostri diritti, più la repressione è violenta. I nostri aggressori sono generalmente rilasciati senza processo".
Fuori dall'India, la discriminazione continua. Lourdunathan si ricorda del suo primo viaggio all'estero. Era in Francia, due anni fa. Una famiglia indiana cattolica lo aveva invitato a cena. Poi gli ha proposto di continuare la serata dai vicini, anche loro indiani, "per pregare tutti insieme". Per la strada, i suoi ospiti - che ignoravano di avere a che fare con un dalit - hanno cercato di rassicurarlo: "Non tema, i nostri vicini sono di alta casta". Senza dire una parola, il prete ha fatto dietro front e se ne è andato.

In prigione quattro volte
Le sue attitudini oratorie le esercita in India. Fra gli otto vescovi cattolici dalit - su un totale di 170 vescovi indiani -, quattro sono stati consacrati a causa della lotta portata avanti tamburo battente da questo gesuita che chiedeva alto e forte la loro ordinazione, al punto di mettere in imbarazzo tutta la gerarchia. Una lotta che l'ha portato quattro volte in prigione. La sua voce ha risuonato talmente forte che i gesuiti hanno finito coll'adottare "l'opzione preferenziale per i dalit" - del resto sono i gesuiti che, a partire dal 1970, hanno favorito il movimento di liberazione dalit. Si è abituato a difendere le cause perse, a vedere i processi trascinarsi per anni. Per esempio quello che riguarda una chiesa cattolica, chiusa da quando i parrocchiani dalit hanno chiesto di potersi sedere su qualsiasi panca - e non solo su quelle riservate. Cinque anni fa. Il vescovo del luogo, appartenente alla casta dei bramini, non ha alzato un dito.
Dalle autorità, i dalit non hanno niente da aspettarsi. Soprattutto se sono cristiani: in questo caso non beneficiano più della legge delle quote che riserva una certa percentuale di funzioni (o di posti a scuola o all'università) ai dalit. "La legge indiana non ha mai abolito il sistema delle caste, ricorda padre Lourdunathan. Ha semplicemente abolito l'intoccabilità - che tuttavia continua a perpetuarsi nella pratica". Perché non se ne parla mai nei cenacoli internazionali? "La parola indiana è stata a lungo confiscata dalle alte caste, che avevano accesso al sapere e alle funzioni superiori. I governi indiani successivi hanno, dal canto loro, considerato che la questione dei dalit era un affare interno. Visto che il mercato indiano è gigantesco, tutti gli altri paesi chiudono gli occhi. Per fare un paragone, il mercato sudafricano ai tempi dell'apartheid era molto più limitato, e il boicottaggio del Sudafrica non aveva sconvolto l'economia mondiale. Tuttavia il nostro sistema è più temibile di un apartheid. Perché la sua essenza stessa è religiosa: nasce dall'induismo e dall'induismo è giustificato".
Padre Lourdunathan continuerà la sua lotta. A rischio di ritrovarsi in prigione. "Non ho niente da perdere, tutto da guadagnare. Perché diavolo dovrei tacere?".



(da Adista, n, 14, 15 febbraio 2003. Questo articolo è comparso sul mensile francese Actualités des religions, gennaio 2003)

Pluralismo è più di tolleranza; il pluralismo è il riconoscimento che nessun uomo e nessuna cultura ha accesso alla totalità dell’esperienza umana, che nessuno di noi dal suo punto di vista può abbracciare tutto il reale (Raimon Panikkar).

Testimone e profeta del nostro tempo

Attualità di don Primo Mazzolari

di Sebastiano Cesca



LE TRACCE, L'EREDITA', L'ISOLAMENTO

A 40 anni dalla scomparsa del suo eccezionale "curato di campagna", Bozzolo, un paesino agricolo della bassa mantovana di 4000 anime, conserva ancora segni significativi della presenza di don Primo Mazzolari. Il visitatore che arriva nella chiesa principale del paese, la bella parrocchiale dedicata a S. Pietro, trova in testa alla navata destra una lastra tombale che reca semplicemente scritto PRIMO MAZZOLARI - SACERDOTE e due date: quella del battesimo (1890) e quella della morte (1959). Addossato al muro c'è il nudo bassorilievo ovale di un ramoscello d'ulivo innestato su un tronco. A pochi metri di distanza, oltre la sacrestia, si trova lo studio, ove per 27 anni dal '32 al '59, don Primo ha letto, meditato e scritto, attorniato da cumuli di carte e libri.
Oggi quei libri sono raccolti ed ordinati nella biblioteca della "Fondazione P. Mazzolari", sempre in Bozzolo, in un edificio ad essa dedicato ove sono sistematicamente catalogati anche i testi di centinaia d'articoli, saggi, discorsi prodotti lungo oltre un quarantennio d'intensa attività pastorale ed intellettuale. La Fondazione, costituita nel 1985 con decreto del presidente della Repubblica, è guidata da un comitato scientifico composto da docenti universitari, in prevalenza storici, sociologi e pubblicisti, fra i quali si segnalano G. Campanini, M.Guasco, A.Bergamaschi ed altri. Semestralmente è pubblicata, ormai da 10 anni, la rivista "IMPEGNO - Rassegna di religione, attualità e cultura", che si prefigge di presentare, analizzare, studiare il messaggio mazzolariano con il contributo, anzitutto, dei componenti del comitato scientifico, ma anche di giovani studiosi: oltre una settantina di laureandi ha attinto alla documentazione raccolta a Bozzolo per i lavori di tesi.
La Fondazione cura anche la pubblicazione di QUADERNI di documentazione che raccoglie testi d'articoli apparsi su giornali e riviste; inoltre mantiene i rapporti con gli editori che pubblicano le opere postume di don Primo.
Si tratta complessivamente di un lavoro non indifferente se si considera che i 20 volumi pubblicati tra il '32 e il '58 sono stati seguiti da altrettante opere postume tra il '60 e il '91. Si tenga conto, poi, che solo sul "Nuovo Cittadino" di Genova sono apparsi 67 articoli tra il '37 e il '49! Si tratta quindi di un'ingente mole di materiale che ben si presta ad analisi e connessioni con l'intensa produzione saggistica e letteraria francese di quegli anni (Maritain, Mounier, De Lubac, Bernanos, Mauriac...). Don Primo leggeva correntemente il francese ed anche il tedesco, così superava i limiti di un isolamento che il regime fascista riservava ai suoi oppositori. Egli, infatti, avversò decisamente il fascismo fin dal '25; nel '31 fu oggetto di un attentato - tre colpi di rivoltella sparati nella notte contro la finestra, dopo averlo chiamato - a Cicognara (MN), iniziale destinazione come parroco prima di Bozzolo.
Anche la cultura letteraria ufficiale lo ignorò per lungo tempo, ma fu soprattutto l'isolamento nella Chiesa che tanto amava - e dalla quale mai si allontanò nonostante i sospetti, i richiami e i provvedimenti - a costargli un'indicibile pena. Disse di sé stesso: "Pronto all'obbedienza, ma con la schiena diritta".

Ma prima di chiederci chi fu don Mazzolari, che cosa ci ha lasciato, lasciatemi dire di un altro segno della sua presenza colto a Bozzolo: la profonda emozione che ho avvertito nella sua chiesa quando ho ascoltato dal suo attuale successore - don Giovanni - un'omelia che echeggiava nei toni di voce, nell'essenzialità dei temi evangelici (si trattava del perdono nella vita di coppia durante una cerimonia nuziale), nella fine sensibilità psicologica, non solo lo stile, ma soprattutto l'anima, la passione apostolica di don Primo.

LA PRIMA CONTESTAZIONE E UN GIORNALE SCOMODO

Avevo conosciuto don Mazzolari attraverso il suo quindicinale "ADESSO" negli anni dell'università. Erano gli anni caldi della prima contestazione cattolica in impaziente attesa del rinnovamento conciliare che sarebbe sopravvenuto solo una decina d'anni dopo; ed era il tempo in cui Mario V. Rossi era presidente della Gioventù Cattolica - ex-GIAC - e don Arturo Paoli assistente centrale: entrambi, unitamente ad altri dirigenti del movimento - interpretando un certo disagio della "base" - si opponevano alle operazioni para-politiche di L. Gedda (fondatore e gestore incontrastato dei "comitati civici") che sostenevano l'alleanza coi fascisti nelle elezioni comunali di Roma (1951). Ma Gedda godeva di larghe approvazioni curiali e politiche, cosicché la sua linea risultò vincente ancora per un decennio. Naturalmente M. V. Rossi, don A. Paoli ed altri dirigenti centrali furono dimissionati. Molti "reduci" da quella battaglia si ritrovavano idealmente sulle pagine di "ADESSO", il giornale fondato nel 1949 da don Mazzolari che aveva fatta sua la frase del grande teologo svizzero Karl Barth "un cristiano con la Bibbia in una mano e nel cuore, e nell'altra il giornale" per esprimere un'attiva partecipazione ai processi culturali e agli avvenimenti del suo mondo. Il quindicinale aveva ripreso le pubblicazioni nel novembre del '51 dopo sei mesi di sospensione su richiesta del card. Schuster sollecitato dal S. Ufficio; ma poi lo stesso cardinale revocò la sospensione affermando che " il quindicinale fa del bene ai cattolici".
"ADESSO" era un foglio che si rivolgeva a chi avvertiva la necessità di una formazione socio-politica autenticamente cristiana e don Primo profondeva tutta la sua passione evangelica nel cogliere i limiti e le contraddizioni di un potere che si diceva cristiano, ma l'accezione era strumentale e trionfalistica. Quelli erano " gli anni dell'onnipotenza" democristiana, ma anche i tempi in cui René Voillaume pubblicava "COME LORO" (il titolo originale, ben più significativo, era "Au coeur des masses"), il testo della spiritualità dei Piccoli Fratelli di Ch. De Foucald, fra i quali sarebbero presto approdati Carlo Carretto (predecessore di M. V. Rossi alla guida della GIAC) e Arturo Paoli: anche questi sacrifici incruenti erano nel solco di quanto avveniva a Bozzolo.
Il piccolo gregge che si ritrovava attorno ad "ADESSO" viveva una vita sempre difficile. Mazzolari, infatti, come ha detto molto bene L. F. Riffato "inseguiva il sogno di una società autenticamente cristiana, pacifica, libera e solidale: una radicale rivoluzione sociale cristiana. Non un partito". Evidentemente il "sistema" non poteva accettarlo; a fatica lo tollerava. In questo contesto si sono prodotti gli undici richiami della Chiesa gerarchica a don Mazzolari, soprattutto per "ADESSO", che continuava ad essere un foglio di frontiera sul piano religioso e sociale; sul piano politico inseguiva tenacemente il centro-sinistra, un tabù per quell'epoca.

LA MISSIONE A MILANO

Ma i tempi dell'intransigenza (politica e dottrinale) stavano lentamente tramontando; di lì a poco. Alle soglie del Concilio, le opinioni su don Primo si sarebbero capovolte: "ha avuto ragione troppo presto", "ha anticipato i tempi del Vaticano II", che avrebbe recepito i suoi messaggi fondamentali. In realtà don Primo è stato non solo un pastore fedele al Vangelo, un educatore dei piccoli e degli adulti, un appassionato difensore dei deboli e dei valori democratici, un tenace cercatore di pace attraverso la comprensione delle ragioni altrui, un prete di vedute ecumeniche quando l'ecumene era ridotto ad un ambito ristretto; è stato un oratore affascinante ed anche un tenace polemista, un insistente annunciatore delle sue più profonde convinzioni, ma è stato soprattutto un "profeta degno di fede "(Sir. 36, 18).
Il futuro Paolo VI, allora arcivescovo di Milano, riconobbe nel 1957 a P.Mazzolari, D.M. Turoldo, E. Balducci, N. Fabretti, C. Del Piaz ed altri ancora, un'acuta capacità di discernimento, di cogliere i segni dei tempi, di saper dialogare col mondo contemporaneo: e li invitò tutti alla grande Missione cittadina. Per don Primo, come scrisse nel suo diario, "fu di grande consolazione la fiducia inattesa" espressa dall'invito di mons. Pignedoli a nome dell'arcivescovo.
Nel novembre di quell'anno ero divenuto fedele ambrosiano da pochi mesi; l'andare ad ascoltare don Mazzolari nell'ambito della Missione in via Torino, nella chiesa-tempio di S. Sebastiano, era impossibile; la folla traboccava in strada... A Bozzolo ho ritrovato i temi (le registrazioni!) di quegli incontri: sono titoli che esprimono tutta la sensibilità e la passione missionaria di don Primo: "La sofferenza nella Chiesa", "Il tuo volto, Signore, io cerco", "Il mistero dell'ingiustizia", "Il mistero del dolore","Zaccheo", "Il Padre nostro".
Un altro vertice don Primo lo toccò nell'omelia del giovedì Santo 1958, un anno prima di morire; parlò di "Nostro fratello Giuda", sul filo di una speranza che va oltre ogni limite perché fondata su un Amore sconfinato di cui egli riusciva a farci percepire l'incommensurabilità.Ma solo ascoltando le parole di don Primo si può comprendere che sorta di prete fosse:
"Io credo che se in questi giorni di Missione avessimo avuto il coraggio di aprire certe pagine del Vangelo (le voci che parlano del Padre), di ripetere certe parole, io credo che il primo a chiudere il libro sarebbe stato questo povero prete, che finora non ha avuto il coraggio di aprire con franchezza estrema, con spudorata chiarezza. Forse, vedete, la nostra Missione avrebbe un significato tremendo, qualcheduno di voi direbbe aggressivo.
E del resto, miei cari fratelli, se una verità non ha il coraggio di aggredire, vale a dire se non diventa una passione,se non ci crocifigge..."
"Quello che importa, per la mia fede e la vostra, se avete la forza di credere, è che il Figlio di Dio ci dà il volto del Padre, ci dà la misura umana della carità, perché altrimenti noi non saremmo riusciti ad accoglierla, ad accettarla ...Perché non dovete dimenticare che il mistero dell'incarnazione rappresenta l'"occupazione" dell'Amore, una delle più inimmaginabili maniere di occupare il mondo da parte di Dio...".
Ma non basta cercare il Padre: "Se noi non riusciamo, attraverso il Padre, a sentire il "fratello", niente conta. Se non troviamo il fratello, anche il volto del Padre non esiste più. Ed è qui, vedete, dove comincia la Missione. Voi direte qui comincia l'aggressività. Può anche darsi. Io però userei un'altra parola, userei la parola impegno. E' qui, vedete, la prova della nostra fede. E' qui la prova se il Padre ha una consistenza, ha una realtà... Chi è mio fratello?C'è la parabola,una di quelle parabole che non si possono leggere se non in ginocchio: la parabola del Samaritano. Tutti,tutti... E' qui, o miei cari, dove comincia la difficoltà d'essere cristiani".
Nel tradimento di questo rapporto di fratellanza ha origine il mistero del male e dell'ingiustizia: "La nostra implacabilità non viene, molte volte, da quello che è il senso o l'esigenza della giustizia; viene da un'attenuazione, o da un oscuramento di quello che è il senso della paternità, e se volete - per quello che riguarda noi, non per quello che riguarda Dio - della corresponsabilità...Non abbiamo mai misurato quello che c'è di nostro nel male. Ad un certo momento abbiamo l'impressione che sia fuori di noi, che non ci riguardi,che la nostra mano non l'abbia mai toccato: ma non c'è nessuna manifestazione del male, non c'è nessuna ingiustizia, o miei cari fratelli, non c'è nessun delitto che non porti una piena corresponsabilità... Cuore paterno, corresponsabilità fraterna: in fondo quando gridiamo, se abbiamo il coraggio di gridare, ricordatevi che in quel momento ci dimentichiamo che l'accusato siamo noi".
E infine le parole che attingono alle profondità della coscienza della propria ostinazione cristiana: "La storia che mantiene viva nella coscienza degli uomini il senso della giustizia, e che soprattutto dà forza alla coscienza è la parola del profeta, è la parola del resistente cristiano, del resistente umano, che non bada al costo della verità. Perché voi lo sapete, la verità non la si mette al mondo facilmente: costa tremendamente".

LA RIABILITAZIONE

Fece in tempo don Primo, prima di morire, - due mesi prima che l'ictus cerebrale lo colpisse durante la messa domenicale del 5 aprile '59 - ad ascoltare da Giovanni XXIII quella riabilitazione totale che coinvolgeva direttamente la sua persona e con lui quanti avevano atteso e invocato la stagione conciliare. Disse, in quella udienza indimenticabile, il "Papa buono": "Ecco la tromba dello Spirito Santo in terra mantovana". E il giorno dopo don Primo scrisse sul suo diario: "Ho dimenticato tutto!".
Don Primo, invece, non fu dimenticato dai successori di Giovanni XXIII; infatti, 11 anni dopo la sua scomparsa, Paolo VI, testimone sofferente di tante vicende curiali, diceva con lucidissima chiarezza ed altrettanto evidente pena:" Non era sempre possibile condividere le sue posizioni: don Primo camminava avanti con un passo troppo lungo e, spesso, non gli si poteva tener dietro; e così ha sofferto lui ed abbiamo sofferto noi. E' il destino dei profeti". Ed è quasi incredibile che Papa Luciani, nel suo pontificato di soli 30 giorni, abbia trovato modo di dire di lui :"Don Primo fu un uomo leale, un cristiano vero, un prete che cammina con Dio, sincero ed ardente. Un pastore che conosce il soffrire e vede lontano. Il suo giornale era la bandiera dei poveri, una bandiera pulita, tutto cuore, mente e passione evangelica".

L'EREDITA' SPIRITUALE.

Ma cosa ci resta di don Mazzolari? Dov'è la sua attualità?
Ci ha aiutato molto,durante la nostra visita a Bozzolo, il presidente della Fondazione don Giuseppe Giussani, a cogliere sinteticamente l'eredità spirituale di don Primo.
Qui,però, non posso non dire grazie all'Associazione "G. Lazzati" che ha avuto la felice idea di organizzare la visita a Bozzolo e di offrire tanti stimoli attraverso i ricordi incrociati dei presidenti dell'Associazione, della Fondazione e del suo segretario.
Ricordava don Giussani:

1. Il primato della Parola di Dio.
Il Concilio Vaticano II accoglierà questa intuizione, sviluppandola in profondità, nella costituzione "Dei Verbum", a suggello di un lungo percorso denso di studi, ricerche e prodigioso lavoro, ma anche di contrasti ed opposizioni all'inizio del secolo. Uomo di sofferta e profonda spiritualità don Primo disse:" Il Signore ha una maniera di fare e di dire che dà le vertigini perché Egli è la Parola che congiunge le vette dell'infinita misericordia con gli abissi della nostra sconfinata miseria".

2. La teologia della Croce.
Don Primo ha sperimentato di persona sofferenze pungenti, anche se incruenti, e la spiritualità che maturò fu davvero cristologica, centrata sul Crocifisso. Scriveva al card. Montini nel gennaio del '59 dopo altre drammatiche tensioni: "Nel 1954 mi fu tolta la parola e la penna per un "filocomunismo" che nessuno ha mai potuto provare, perché smentito dai fatti. Fui condannato senza essere interrogato nè prima nè poi, sotto banco e senza termine. Se non fosse intervenuta Vostra Eminenza,con una bontà di cui vi sarò sempre riconoscente, chiamandomi alla Missione di Milano, nessuno, e comincio dal mio Vescovo che avrebbe potuto spendere una parola per un suo vecchio prete, si sarebbe accorto che non si può condannare a vita un prete che ha sempre voluto bene alla Chiesa più che a sè stesso".
Ha scritto lapidariamente qualche anno fa "Civiltà Cattolica": "Mazzolari ha il diritto di essere inserito fra quelli che hanno fatto della loro vita una testimonianza eroica, talvolta anche clamorosa, di Cristo e del Vangelo".
Nei momenti di suprema asperità don Primo attingeva alla sua capacità contemplativa ; quando fu sospeso "ADESSO" scrisse :" Tutto è speranza perché tutto è fatica; tutto è grazia, anche il morire; tutto è testimonianza, anche il silenzio, soprattutto il silenzio. Chi vive con i poveri da quando è nato e si dà attorno per fermare la loro diserzione dalla Chiesa, può sbagliare nel por mano ai rimedi. La Madonna avrà misericordia di un vecchio prete che è riprovato senza misericordia". Amarezza, coscienza della giusta battaglia e speranza si fondono in alta spiritualità.

3. Una ecclesiologia ecumenica.
L'insegnamento della " Lumen gentium" e le aperture ecumeniche dei recenti pontificati,da Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II, hanno forti anticipazioni nelle intuizioni ecumeniche di don Mazzolari mutuate dalla Scrittura al di fuori - o meglio, oltre - l'ecclesiologia ufficiale del tempo, e dai contatti coltivati con pastori protestanti; in quegli anni simili aperture erano viste come indice di debole ortodossia.

4. La corresponsabilità dei cristiani laici.
E' stata largamente accolta nelle costituzioni conciliari " Gaudium et spes" e " Lumen gentium" per quanto riguarda, rispettivamente, gli aspetti "ad extra" e " ad intra" la cittadella ecclesiale. Su questi temi don Primo trovò grande sintonia con G. Lazzati che fece della promozione laicale un "leitmotiv" della sua alta testimonianza. E' significativo che don Mazzolari abbia collaborato col quotidiano cattolico milanese "L'Italia" quando Lazzati faceva parte della direzione del giornale. La stessa fondazione di "ADESSO" - e le battaglie condotte per la sua sopravvivenza - avvenne per realizzare una palestra di quella formazione socio-politica che doveva preludere all'assunzione diretta di responsabilità sociali da parte di laici evangelicamente ispirati.
Non dimentica la parrocchia don Primo e segue attentamente l'involuzione che - a suo parere - stava avvenendo nell'organizzazione laicale dell'Azione Cattolica; si legge su "ADESSO" del 1958:" L'invito del Pontefice ai laici perché escano dal loro stato di minorità è sistematicamente dimenticato proprio da coloro che dovrebbero esserne i più fedeli interpreti: clero ed Azione Cattolica".
Vivendo intensamente l'esperienza parrocchiale e scrivendone ripetutamente, fa della parrocchia la "casa dell'anima" e la vede "come base di un rinnovamento della vita religiosa". Essa è la cellula della Chiesa. Al suo interno vanno superati i pericoli di clericalizzazione del laicato che paventa come una sterilizzazione del tessuto ecclesiale. Scriveva: "Dalla parrocchia devono transitare le grandi correnti del vivere moderno, non dico senza controllo, ma senza pagare pedaggi umilianti e immeritati".
Nel 1938 don Primo pubblicava una cinquantina di pagine sul problema dei "lontani" dedicandole "Alle anime sofferenti e audaci". Non piacque il titolo e ancor meno i motivi che a parecchi parvero temerari. Vent'anni dopo si teneva presso l'Università Cattolica la settimana nazionale d'aggiornamento pastorale dedicata a "La comunità cristiana e i lontani" e l'analisi di vent'anni prima ("L'animo di colui che se ne va"- "Il metodo di conquista"- "Verso il mondo dei lontani" - "Il compito dell'intelligenza") fu considerata ancora attuale.
La preoccupazione per i cosiddetti "lontani" e lo sforzo di ricerca di un dialogo con essi fu una costante nella riflessione di don Primo, come testimoniano le pagine di "ADESSO".

5. La scelta dei poveri
fu in realtà, per don Primo, una condivisione delle condizioni di vita dei suoi parrocchiani, in gran parte agricoltori. Egli conobbe bene le condizioni di povertà del bracciantato agricolo fra le due guerre e reclamò ripetutamente e a gran voce maggior giustizia sociale per coloro che conservavano sempre la dignità di persone anche nell'indigenza. In questo "milieu" nacque e si sviluppò la sua grande passione sociale e politica sempre illuminata dalla Parola rivelata. Com'è noto, buona parte della "Gaudium et spes" affronta queste complesse tematiche che hanno indotto molte Chiese locali - come le comunità latino-americane - alla scelta radicale a favore dei poveri; analogo, rivoluzionario passo è stato compiuto da Ordini, Congregazioni, Istituti, Famiglie religiose sia di lunga tradizione (si pensi ai Gesuiti) che di più recente costituzione. Scriveva don Primo: " Occorre un grande amore per comprendere i poveri, per rinunciare a giudicarli. Dove non c'è amore il di più non c'è; dove c'è tanto amore tutto è di più, anche la propria vita. Chi ha poca carità vede pochi poveri; chi ha molta carità vede molti poveri; chi non ha nessuna carità non vede nessuno. Per impedire ai poveri di disperare basterà la parola pazienza? Senza una carità folle non si salva il mondo. Il mondo attende una nuova Pentecoste".

6. L'utopia della pace: " Pace nostra ostinazione".
Quante volte sono apparse queste tre parole sulle pagine di "ADESSO"! Tuttavia è singolare il percorso intellettuale e spirituale che don Primo fece a riguardo. Fu cappellano militare nella 1° guerra mondiale, interventista convinto, inizialmente persuaso che i travagli dell'umanità potessero essere risolti con lo scontro armato. Così pensando pagava un debito alla cultura ufficiale post-risorgimentale che permeava le nostre scuole e che vedeva nel compimento dell'unità un imperativo categorico. Ma gli bastò l'esperienza sul fronte e fra i reduci nel primo dopo-guerra e,successivamente, il dover respirare l'atmosfera falsa e bellicosa della prepotenza fascista, ed ancora, l'avventura della 2° guerra mondiale, per arrivare a condannare ogni guerra e scrivere, nel 1955, quel "Tu non uccidere" che fu per lungo tempo una delle più forti prese di posizione antimilitaristiche. Scriveva: "Per un cristiano il far morire è il colmo dell'atrocità. Ove comincia l'errore, l'iniquità, cessa la santità del dovere...incomincia un altro dovere: disobbedire all'uomo per rimanere fedeli a Dio".

7. L'orizzonte planetario.
Don Primo anche se vive tutta la sua vita confinato fisicamente entro il mondo agricolo della "bassa" padana, spiritualmente vive - anzi, anticipa con le sue intuizioni - la stagione nuova della Chiesa "percorrendo le strade di un paese, ma quel paese è uno spicchio di universo". Lungi da lui un'ottica provinciale,percepisce l'accorciarsi delle distanze sotto la spinta delle nuove vie di comunicazione e dello sviluppo di processi decisionali sovraregionali sempre più interconnessi, anche se tutt'altro che unitari. E' l'intuizione del " villaggio globale",dell'"uomo planetario" come dirà vent'anni dopo p. E. Balducci che investigherà a fondo questi temi con altro approccio ed altre finalità. In Mazzolari la prospettiva d'impegno è locale, mentre l'orizzonte intellettuale e spirituale è globale: un'ottica che è pressoché coincidente con quella dell'Associazione " G. Lazzati".
E' una notazione che dice, anche da questo versante, l'attualità di don Primo. Per cui il nostro andare a Bozzolo è stato - oltre che una riscoperta - un segno di gratitudine verso colui che è stato, ed è tuttora, punto di riferimento per chi fa della fede cristiana un impegno di vita.

L'OPINIONE DELLO STORICO E IL SUGGELLO DEL CARD. C. M. MARTINI

Molti storici hanno studiato, e stanno ancora vagliando, l'opera di don Mazzolari nei suoi molteplici aspetti. Don Lorenzo Bedeschi, storico all'università di Urbino, ha riferito di recente (1990) sull'attività giornalistica di don Primo, come si è manifestata sulle pagine del suo giornale. Riportiamo le conclusioni di quel lavoro come le ha espresse G. Vaggi, primo direttore del giornale: "ADESSO" ha rappresentato senza dubbio una voce originale ed inconsueta, voce impastata di passione cristiana e civile, di laicità schietta e di dialogo con le sinistre, di ostinato pacifismo e di sofferta lealtà evangelica. La pur cospicua componente polemica con quelli di casa non esauriva affatto la posizione di Mazzolari, benché abbia avuto una parte importante come parte critica nella linea di "ADESSO".
Vi si legava indissolubilmente una parte costruttiva che nella chiesa preconciliare diventava il vero nocciolo di aggregazione ideale per quanti non si riconoscevano nè nell'anticomunismo borghese,nè nell'associazionismo cattolico integrista,poichè cercavano un servizio responsabilmente libero. Suo grande assillo era di allarmare e di inquietare onde impedire la chiusura del mondo cattolico e delle sue meravigliose forze in un ghetto di marca clericale e falangista, senza alcun pregiudizio ed avversione per chicchessia, senza alcuna condanna dell'uomo onesto e sincero". Dopo le solenni parole di ben tre pontefici su Mazzolari -sopra riportate anche se datate- vi è stato molto di recente (aprile '99) il ricordo del card. C.M. Martini che appare come il commosso suggello di un vescovo alla tormentata vita di un prete idealmente suo: "Non ho avuto occasione di conoscere personalmente il parroco di Bozzolo. Ho però potuto cogliere qualcosa della sua statura di cristiano e di prete, leggendo alcuni suoi libri e numerosi articoli di "ADESSO". Don Primo fu profeta coraggioso e obbediente, che fece del Vangelo il cuore del suo ministero. Capace di scrutare i segni dei tempi, condivise le sofferenze e le speranze della gente, amò i poveri, rispettò gli increduli, ricercò ed amò i lontani, visse la tolleranza come imitazione dell'agire di Dio. Quello di Mazzolari è un messaggio prezioso anche per l'oggi".

(da Impegno cristiano, dicembre 1999, anno XIX n° 42)

Ahimsa: il sentiero della nonviolenza
di Thich Nhat Hanh



La parola sanscrita ahimsa, tradotta normalmente con 'nonviolenza' vuol dire letteralmente non danneggiare o anche innocuita'. Per praticare ahimsa, occorre innanzi tutto averne fatto esperienza interiore. In ognuno di noi sono presenti in una certa misura sia la violenza sia la nonviolenza. In base alla nostra condizione d'esistenza, la risposta alle situazioni sara' piu' o meno nonviolenta. Per esempio, potremmo anche essere orgogliosi di essere vegetariani, ma dovremmo in ogni caso renderci conto che l'acqua nella quale bolliamo le verdure contiene molti piccolissimi microrganismi.

Non possiamo essere completamente nonviolenti, ma col nostro essere vegetariani andiamo in direzione della nonviolenza. Se vogliamo andare a nord, possiamo usare la stella polare come punto di riferimento, ma non riusciremo mai a raggiungerla. Il nostro sforzo consiste unicamente nel muoverci in quella direzione. Chiunque puo' praticare la nonviolenza, anche i soldati. Alcuni generali dell'esercito, per esempio, conducono le operazioni militari in modo da evitare di uccidere persone innocenti: si tratta di un tipo di nonviolenza. Se dividiamo la realta' in due settori, quello violento e quello nonviolento, e ci schieriamo da un lato attaccando l'altro, il mondo non conoscera' mai la pace. Saremo sempre disposti ad accusare e condannare chi riteniamo responsabile delle guerre e delle ingiustizie sociali, senza riconoscere il livello di violenza presente in noi stessi. Se vogliamo che il nostro intervento sia efficace siamo tenuti a lavorare su noi stessi e a collaborare con chi condanniamo. Non porta mai a niente alzare una staccionata e allontanare chi consideriamo un nemico, persino se si tratta di qualcuno che agisce con violenza. Dobbiamo avvicinarlo con il cuore pieno di amore e fare del nostro meglio per suscitare in lui la pratica della nonviolenza. Non avremo mai successo se operiamo per la pace spinti dalla rabbia.

La pace non e' un fine. Non si puo' ottenerla con l'uso di mezzi non pacifici. Nel protestare contro una guerra, possiamo darci l'aria di essere una persona pacifica, un vero rappresentante della pace, ma questa nostra presunzione non sempre corrisponde alla realta'. Osservando in profondita', ci accorgiamo che le radici della guerra sono presenti nel nostro stile di vita privo di consapevolezza. Non abbiamo seminato a sufficienza la pace e la comprensione in noi stessi e negli altri, e quindi siamo corresponsabili: "Giacche' io sono stato in questo modo, ora loro si comportano in quel modo". Nella via dell'interessere troviamo un approccio piu' olistico: "Questo e' cosi' perche' quello e' cosi'". È questa la via della comprensione e dell'amore. Sulla base di questa comprensione, possiamo vedere con chiarezza e permettere al nostro governo di vedere con chiarezza. Poi possiamo partecipare a una dimostrazione e proclamare: "La guerra e' ingiusta, distruttiva e non e' degna di una grande nazione quale la nostra". Cio' e' assai piu' utile di un atteggiamento caratterizzato da una condanna rabbiosa del prossimo. La rabbia fa sempre peggiorare le cose. Sappiamo come scrivere lettere di vibrata protesta, ma dobbiamo anche imparare a scrivere al nostro presidente e ai nostri rappresentanti lettere con un grado di comprensione e un tipo di linguaggio che possano essere apprezzati. Se non ne siamo capaci, le nostre lettere potrebbero essere tutte cestinate, e non dare alcun contributo alla causa della pace.

Amare vuol dire comprendere. Non possiamo esprimere il nostro amore a qualcuno se non riusciamo a comprenderlo. Se non capiamo il nostro presidente o i membri del parlamento non saremo capaci di indirizzargli una lettera d'amore. Chiunque e' felice di poter leggere una buona lettera nella quale condividiamo le nostre intuizioni e la nostra comprensione. Ricevendo una lettera di quel genere, il destinatario si sente capito e presta attenzione alle nostre raccomandazioni. Potreste credere che si possa cambiare il mondo eleggendo un nuovo presidente, ma il governo non e' che un riflesso della societa', a sua volta e' riflesso della nostra coscienza. Per produrre un cambiamento sostanziale, siamo noi, i membri della societa', che dobbiamo trasformarci. Se aspiriamo a una vera pace, dobbiamo dimostrare amore e comprensione cosicche' i responsabili delle decisioni politiche possano imparare da noi. Tutti noi, compresi i pacifisti, custodiamo del dolore nel cuore. Ci sentiamo arrabbiati e frustrati e non troviamo mai nessuno che sia in grado di capire la nostra sofferenza. Nell'iconografia buddhista, c'e' un bodhisattva chiamato Avalokitesvara che possiede mille braccia e mille mani, e ha un occhio nel palmo di ogni mano. Le mille mani rappresentano l'azione, e l'occhio in ogni mano rappresenta la comprensione. Comprendendo una situazione o una persona, qualsiasi azione sara' d'aiuto e non causera' ulteriore sofferenza. Con un occhio nel palmo della mano, saprete sempre come praticare la vera nonviolenza. Immaginate cosa accadrebbe se anche ognuna delle nostre parole avesse un occhio. Per un artista e' facile dipingere un occhio nella mano, ma come mettere un occhio anche nelle nostre parole? Prima di dire qualcosa, dobbiamo renderci conto di cio' che stiamo per dire e della persona alla quale sono dirette quelle parole. Con l'occhio della comprensione eviteremo di pronunciare parole che finirebbero per far soffrire l'altro. Accusare e discutere sono forme di violenza. Se mentre parliamo soffriamo molto, le nostre parole saranno cariche d'amarezza, e non potranno aiutare nessuno. Dobbiamo imparare a calmarci e a diventare un fiore prima di parlare. È questa l'arte della parola amorevole.

Anche l'ascolto costituisce una pratica profonda. Il bodhisattva Avalokitesvara ha un grande talento per l'ascolto. Il suo nome in cinese significa 'ascoltare i lamenti del mondo'. Per comprendere la sofferenza degli altri dobbiamo saper ascoltare. Per far cio' dobbiamo svuotarci e lasciar spazio in modo da poter ascoltare con piena attenzione. Se inspiriamo ed espiriamo per rinfrescarci e svuotarci, saremo in grado di sedere con calma e ascoltare la persona che sta soffrendo. Chi sta soffrendo ha bisogno di qualcuno che ascolti con concentrazione senza giudicare o reagire. Se non trova nessuno disposto a farlo nella propria famiglia, potrebbe recarsi da uno psicoterapeuta. Con il solo ascolto profondo alleviamo gia' un bel po' di sofferenza. Questa e' una pratica di pace molto importante. L'ascolto e' fondamentale sia nelle nostre famiglie sia nella nostra comunita'. Dobbiamo ascoltare chiunque, specialmente le persone che consideriamo nemici. Se dimostriamo la nostra capacita' di ascolto e comprensione, chi ci sta di fronte sara' a sua volta disposto ad ascoltarci, e avremo una possibilita' di esprimergli il nostro dolore. È l'inizio della guarigione. Il pensiero e' alla base di ogni cosa. Dovremmo disporre un occhio di consapevolezza in ognuno dei nostri pensieri. Senza una corretta comprensione di una situazione o di una persona, i pensieri possono risultare fuorvianti e creare confusione, disperazione, rabbia oppure odio. Il compito piu' importante consiste nello sviluppo di una corretta comprensione. Se guardiamo in profondita' nella natura dell'interessere, se vediamo che tutte le cose 'inter-sono', non abbiamo piu' motivo per rimproverare, discutere e uccidere, e diventiamo amici di tutti gli esseri.

Abbiamo cosi' analizzato i tre campi dell'azione: il corpo, la parola e la mente. Oltre a cio', c'e' la non-azione, che spesso e' piu' importante dell'azione. Pur non facendo nulla, possiamo talvolta rendere le cose piu' agevoli semplicemente in virtu' della nostra presenza pacifica. Se una piccola imbarcazione si trova nel bel mezzo di una tempesta, e qualcuno resta calmo e stabile, gli altri non si faranno prendere dal panico, e sara' piu' facile che l'imbarcazione non faccia naufragio. Ci sono molte circostanze nelle quali la non-azione puo' essere molto efficace. Un albero non fa nient'altro che respirare, ondeggia i rami e le foglie e cerca di mantenersi fresco. Pero', se non ci fossero gli alberi non ci saremmo neppure noi uomini. Il non-agire degli alberi e' fondamentale per il nostro benessere. Se possiamo imparare a vivere prendendo esempio dagli alberi, mantenendoci cioe' vitali e solidi, calmi e pacifici, anche se non facciamo molte altre cose, gli altri trarranno beneficio dalla nostra non-azione, dalla nostra mera presenza.

Possiamo praticare la non-azione anche nell'ambito dell'uso della parola. Le parole possono creare comprensione e accettazione reciproca, ma possono anche causare sofferenza agli altri. A volte e' meglio non dire nulla. Questo libro tratta l'azione sociale nonviolenta, ma e' opportuno discutere anche la non-azione nonviolenta. Per chi desidera realmente aiutare il mondo, la pratica della non-azione e' essenziale. Naturalmente, la stessa non-azione talvolta puo' risultare dannosa. Se qualcuno ha bisogno del nostro aiuto e ci tiriamo indietro, potremmo farlo morire. Se per esempio un monaco vedesse una donna che sta annegando e non volesse aiutarla a causa dei voti che gli impediscono di toccarla, violerebbe il piu' importante principio della vita. La nostra non-azione di fronte all'ingiustizia sociale puo' causare ulteriori danni. Quando c'e' bisogno che facciamo o diciamo qualcosa e rifiutiamo di intervenire, possiamo renderci responsabili di un'uccisione proprio grazie alla nostra non-azione o al nostro silenzio. Per praticare ahimsa dobbiamo innanzi tutto imparare i metodi per trattare pacificamente noi stessi. Se in noi stessi c'e' vera armonia, sapremo anche come intervenire con i familiari, gli amici, i colleghi. Le tecniche sono sempre secondarie. La cosa piu' importante e' trasformarsi in ahimsa, cosicche' quando ci troviamo in determinate circostanze, evitiamo di causare altra sofferenza.

Per praticare ahimsa dobbiamo saper inviare delicatezza, gentilezza amorevole, compassione, gioia ed equanimita' ai nostri corpi, alle nostre sensazioni e agli altri. La vera pace deve fondarsi sull'intuizione e sulla comprensione, e per procedere in questa direzione e' necessario praticare una profonda riflessione, osservando in profondita' ogni atto e ogni pensiero della nostra vita quotidiana. Con la consapevolezza, e cioe' con la pratica della pace, possiamo iniziare a trasformare le guerre presenti in noi stessi. Per far cio' esistono tecniche ben precise. Una di queste e' la respirazione consapevole. Ogni qual volta ci sentiamo arrabbiati, possiamo interrompere le nostre attivita', astenerci dal dire qualsiasi cosa e inspirare ed espirare diverse volte, consapevoli di ogni inspirazione e di ogni espirazione. Se ci sentiamo ancora tesi, possiamo fare una meditazione camminata, mantenendo contemporaneamente l'attenzione sui nostri lenti passi e sul respiro.

Coltivando la pace interiore creiamo la pace nella societa'. Dipende da noi. Praticare la pace interiore vuol dire ridurre le guerre in corso tra le nostre sensazioni o tra le nostre percezioni, in modo da poter creare un'atmosfera di pace anche con gli altri, compresi i membri della nostra famiglia. Mi viene spesso chiesto: "Cosa fai se stai praticando l'amore e la pazienza e qualcuno irrompe in casa tua e cerca di rapire tua figlia o uccidere tuo marito? Come bisognerebbe comportarsi? È meglio sparare a quella persona o agire in modo nonviolento?". La risposta dipende dalle condizioni del proprio essere. Se si e' preparati, e' possibile reagire in modo calmo e intelligente, nel modo piu' nonviolento possibile. Per essere pronti ad agire in quel modo, con intelligenza e nonviolenza, occorre pero' essersi esercitati in precedenza. Potrebbero volerci dieci anni, forse anche di piu'. Se aspettate la situazione d'emergenza, potrebbe essere troppo tardi per porsi questa domanda. Una risposta schematica sarebbe del tutto superficiale. Nel momento decisivo, anche se sapete che la nonviolenza e' migliore della violenza, se tutto cio' non e' che una comprensione intellettuale, se non lo sentite con tutto il vostro essere, non riuscirete a reagire in modo nonviolento.

La paura e la rabbia presenti in voi vi impediranno di agire nel modo piu' nonviolento possibile. Per prevenire la guerra, per fermare in tempo la prossima crisi, dobbiamo cominciare subito. Quando e' scoppiata una guerra o ci troviamo nel bel mezzo di una situazione critica, e' gia' troppo tardi. Se noi e i nostri figli pratichiamo ahimsa nella nostra vita quotidiana, se impariamo a seminare la pace e la riconciliazione nel nostri cuori e nelle nostre menti, potremo davvero iniziare a creare la pace e cosi' facendo saremo in grado di prevenire la prossima guerra. Se poi, nonostante i nostri sforzi, arrivera' un'altra guerra, sapremo di aver fatto del nostro meglio. Sono sufficienti dieci anni per prepararci e preparare la nazione a evitare un'altra guerra? Quanto tempo ci vuole per respirare in consapevolezza, per sorridere e per essere pienamente presenti in ogni istante? Il nostre vero nemico e' la dimenticanza. Nutrendo la consapevolezza ogni giorno e innaffiando i semi della pace in noi stessi e nelle persone che ci circondano, avremo buone possibilita' di impedire la prossima guerra e di disinnescare la prossima crisi.

(da L'amore e l'azione, Ubaldini, Roma)

Invecchiare con sapienza

di Card. Aloísio Lorscheider

Il giorno in cui nasciamo, cominciamo a invecchiare. Il tempo passa; solo l’eternità non passa. Il tempo che ci è dato deve essere impiegato bene per il servizio di Dio e del prossimo. Anche l’età anziana è chiamata a portare i suoi frutti.
Il cardinale Aloisio Lorscheider, ofm, arcivescovo emerito di Aparecida (Brasile), giunto ormai all’età di 82 anni, essendo nato l’8 ottobre 1924, riflette sul significato dell’età anziana, proponendo alcuni spunti che qui riprendiamo.

Il 27 giugno 2005 Troyes ha reso omaggio solenne a Rashi, figlio del paese. Col suo irraggiamento fu il professore di quasi tutti i sapienti dell'Europa del Nord, ebrei e cristiani, e i suoi lavori hanno rinnovato profondamente il modo di interpretare i testi fondamentali.

Venerdì, 26 Ottobre 2007 00:50

Un vangelo copto di Giuda (Madeleine Scodello)

Un vangelo copto di Giuda

di Madeleine Scodello



Un vangelo apocrifo di recente pubblicazione fa di Giuda il contrario dell’apostolo traditore al quale i Vangeli canonici ci hanno abituati. Come ha potuto questo testo di ispirazione gnostica arrivare a un tale capovolgimento?

Si tratta di un manoscritto di una quindicina di foglietti di papiro, scritto in copto, la lingua parlata in Egitto nei primi secoli dell’era cristiana: il Vangelo di Giuda. Ritrovato nel Medio-Egitto (e non si sa esattamente dove) negli anni ’70 e in seguito inaccessibile, è stato ora messo a disposizione dei ricercatori. Il testo appartiene a un codice composto di quattro trattati di contenuto religioso, che risale al sec. IV (la datazione è confermata dall’analisi al carbonio 14), denominato “codice Tchacos”, dal nome dell’antiquario svizzero Frieda Tchacos, che lo acquistò nel 2000, dopo una serie di transazioni commerciali. Ma il codice aveva in precedenza subito gravi danni, dovuti in larga parte all’incuria dei venditori di antiquariato. Affidato da Frieda Tchacos per il restauro alla fondazione svizzera Maecenas, il prezioso codice ha trovato nuova vita grazie alla competenza degli specialisti, fra cui il professor Rodolphe Kasser, dell’università di Ginevra, che hanno proceduto alla difficilissima ricostruzione.

Generalmente le scoperte archeologiche e i ritrovamenti di testi molto antichi non sollecitano a tal punto l’attenzione del grande pubblico. Tuttavia la storia avventurosa di questo manoscritto si prestava bene a costruire un romanzo a effetto, in cui sono stati spesso confuse, se si legge la stampa internazionale, le peripezie moderne di un testo di grande valore con i danni che esso aveva certamente subito in tempi antichi.

Come catalizzatore ha agito il titolo del trattato. Un vangelo attribuito a Giuda, il traditore per eccellenza, conteneva in sé una contraddizione: il termine vangelo, in greco “buona notizia”, è inestricabilmente legato alla storia di Gesù, riferita dai quattro evangelisti, le cui opere costituiscono una parte del Nuovo Testamento. Ma come spiegare l’esistenza di un vangelo attribuito a colui che consegnò Gesù, rompendo il vincolo di fedeltà con lui e con la comunità degli apostoli?

Il Vangelo di Giuda evidentemente non è stato scritto da Giuda al tempo della vita di Cristo. È un apocrifo, cioè un testo che il suo autore, anonimo, ha attribuito a Giuda, per mettere il suo scritto sotto il patronato di una figura autorevole, anche se è quella di un personaggio negativo.Questo procedimento di attribuzione fittizia di un testo, già conosciuto nell’antichità greco-romana, è stato sovente impiegato da autori ebrei e cristiani che hanno attribuito i loro scritti a figure mitiche (Adamo, Set, Enoch) o a personaggi dell’ambiente di Gesù.

Ciò tuttavia non toglie nulla all’originalità del testo, né al suo interesse. Il Vangelo di Giuda appartiene con assoluta evidenza alla sfera d'influenza della gnosi. Alla fine del sec. II, Ireneo, vescovo di Lione e confutatore delle dottrine gnostiche, menziona un “vangelo di Giuda” che circolava in un gruppo di gnostici, detto “cainita”, che aveva in grande stima Caino (Contra haereses I, 31, 1). Questo vangelo era scritto sicuramente in greco, la lingua nella quale Ireneo aveva composto la sua opera polemica.

Il manoscritto copto del Vangelo di Giuda, più recente di due secoli, è la traduzione di un testo scritto in greco, attestata dalla presenza nel testo copto di termini tecnici teologici e filosofici. Il testo greco, perduto, deve essere stato composto durante il II secolo, come si può supporre dal contenuto del trattato. Si tratta allora di quello ricordato da Ireneo? L’ipotesi è verosimile, anche se i testi potevano subire modifiche e riscritture nel passare di mano in mano.

Il Vangelo di Giuda nel contesto dello gnosticismo

Il Vangelo di Giuda elabora una serie di temi e motivi gnostici, sia dal punto di vista della forma che da quello del contenuto.

Non è un vangelo nel senso che si dà ai vangeli canonici: narrazioni fatte da un apostolo, il cui scopo era di trasmettere il messaggio di Cristo e di raccontare gli eventi della sua vita. È invece un vangelo come lo intendono gli gnostici e nella tradizione di quelli che sono stati trovati a Nag Hammadi: vangeli che si focalizzano su un episodio, situato prima o dopo la Resurrezione, in cui Gesù rivela parole segrete ai suoi discepoli o, più spesso, a uno di essi. Tali parole cariche di mistero non possono essere rivelate che a un circolo ristretto di iniziati.

Nel Vangelo di Giuda l’insegnamento segreto di Cristo è inserito in un dialogo con i discepoli, tre giorni dopo la celebrazione della Pasqua, e che si prolunga per una settimana (33,1-4). Se le domande poste dai discepoli, e in particolare da Giuda, sono brevi, le risposte sono lunghe e costituiscono delle esposizioni dottrinali svolte bene e sulle quali dobbiamo ritornare per individuarne il contenuto.

I discepoli scelti dagli gnostici come depositari delle parole di Gesù non sono quelli che la tradizione della Chiesa ufficiale ha messo in valore. Sono invece delle figure relegate in secondo piano, come Filippo, Tommaso, Giacomo o Maria Maddalena, che ritrovano nella letteratura gnostica tutto il loro splendore.

La struttura dialogica non è propria solo a questo nuovo vangelo: la si ritrova a più riprese nella letteratura gnostica. Il Vangelo di Tommaso (Nag Hammadi, codice II, 2), la Sapienza di Gesù Cristo (Nag Hammadi, II, 4 e il papiro di Berlino 8502, 3), il Dialogo del Salvatore (Nag Hammadi, V, 3) o il Vangelo di Maria [Maddalena] (papiro di Berlino, 8502, 1) ne sono alcuni esempi. Il dialogo è anche presente in alcuni trattati di Nag Hammadi che hanno il titolo di “apocalisse” (in greco, “rivelazione”), per esempio le Prima Apocalisse e la Seconda Apocalisse di Giacomo.

Generalmente in questi dialoghi di rivelazione un discepolo si distingue sempre dagli altri ed è messo in evidenza per la sua comprensione del messaggio di Cristo, la sua capacità di porre domande giuste e poi di comprendere l’insegnamento. È il caso di Giuda nel vangelo omonimo. Le prime parole che rivolge a Gesù in forma di affermazione (“Io so chi tu sei e da dove sei venuto, Tu provieni dal regno immortale di Barbelo [entità femminile uscita da Dio in certi sistemi gnostici]” 35, 20-21) gli conquistano subito la considerazione del Cristo che gli risponde: “Allontanati dagli altri e ti dirò i misteri del Regno” (35, 23). A suo confronto gli altri apostoli non fanno bella figura, sono persino ripresi varie volte da Gesù, che rimprovera loro duramente la scarsa comprensione. Essi, anche se pensano di aderire alla verità rivelata dal Cristo, non si sono in verità distaccati dalle loro vecchie credenze e continuano a onorare il creatore del mondo, il demiurgo inferiore (34, 10-13). Se pretendono di conoscere chi è veramente Gesù, si ingannano, come lui stesso fa loro osservare con durezza: “Come mi conoscereste? Ve lo dico in verità, nessuna generazione di coloro che sono tra voi sarà in grado di conoscermi” (34,13-15). Gli apostoli saranno allora presi da collera, una collera che denota la loro schiavitù al demiurgo. La loro incapacità di “stare dritti” davanti al Signore (espressione che indica come l’uomo abitato dallo spirito è capace di elevarsi verso la conoscenza, di tenersi in una posizione eretta, grazie al suo intelletto, cosa che lo distingue dagli animali), contrasta con l’atteggiamento di Giuda che, solo, sta davanti a Gesù anche se non osa guardarlo negli occhi (35,23). Per questo sarà degno di ricevere la rivelazione dei misteri del regno.

Il Dio trascendente e il demiurgo

Il Vangelo di Giuda trasmette temi e motivi che si radicano nella dottrina gnostica e che possono ricevere luce da una lettura comparata con i testi di Nag Hammadi.La ricerca su questo nuovo trattato è ancora agli inizi, ma si possono indicare alcune linee di interpretazione.

La teologia del Vangelo di Giuda è costruita sull’opposizione fra il Dio trascendente e perfetto e un demiurgo, responsabile di una creazione difettosa, che egli ha realizzato imitando maldestramente il mondo divino. Il Dio trascendente è chiamato il Grande Spirito divino (47, 86). Il suo regno è senza limiti (ibid), eterno (45, 79), abitato da entità celesti da lui chiamate all’esistenza e da santi angeli (47,84-99). Le note sintetiche con le quali l’autore del vangelo descrive l’entità suprema trovano punti di confronto in trattati di Nag Hammadi, che presentano complesse esposizioni sulla trascendenza divina al modo della filosofia del medio platonismo, la corrente di pensiero che fiorì nel II secolo e che ha influenzato profondamente gli gnostici.

Subordinato al Grande Spirito invisibile si trova l’Autogenerato (46, 92). Adamas (48, 99), figura primordiale che preannuncia l’Adamo terrestre, si manifesta anch’esso, seguito da Set (48, 101), figura di riferimento, prototipo in certi ambienti gnostici di colui che possiede la conoscenza.

Il Dio supremo non ha svolto alcun compito nella creazione del mondo e dell’uomo. Il cosmo, chiamato anche “perdizione” (50,106), dipende da una entità chiamata El (51, 109), che chiama dodici angeli per regnare sul caos. Fra essi si distingue Nebro, “il ribelle” dal volto di fuoco e di sangue. Anche Saklas fa la sua apparizione. L’uno e l’altro sono accompagnati da accoliti che, pur se ricevono il nome di angeli, sono in realtà dei demoni.

Tutti i nomi trovano paralleli nei testi mitologici della gnosi o designano il demiurgo. Il nome El è con tutta evidenza un riferimento polemico al Dio della Bibbia (probabilmente una abbreviazione della parola ebraica Elohim che significa Dio; d’altronde “el” è il suffisso di divinità nei nomi degli angeli), al quale gli gnostici attribuiscono la creazione imperfetta del mondo.

A costui succede la creazione dell’uomo operata da Saklas e dai suoi angeli cattivi. Eva e Adamo vengono alla luce come creature legate alla catena della vita e delle generazioni (52,117-119). Questo tema centrale dell’antropologia gnostica, elaborato dettagliatamente da certi trattati di Nag Hammadi, è soltanto sfiorato nel Vangelo di Giuda, dato che probabilmente i suoi lettori conoscono altri opere che trattano l’argomento.

Adamo è sottomesso agli dei del caos che lo hanno creato. Tuttavia il Dio trascendente gli ha trasmesso, come anche ai suoi discendenti, la conoscenza, affinché gli “dei del caos e del mondo sotterraneo non abbiano potere su di lui” (54,126-128). L’autore del vangelo non si dilunga su questo punto, ma altri pensatori gnostici lo hanno fatto con dovizia. Anche nella decadenza della sua condizione umana, e pur essendo asservito ai suoi creatori, Adamo conserva una particella di conoscenza, che i suoi carcerieri non possono afferrare. Grazie ad essa egli potrà ritornare a Dio. Poiché lo spirito, l’anima vengono da altrove, il demiurgo si è limitato a fornire ad Adamo e ai suoi discendenti di un soffio di vita (53, 121-124)

Che ne è dunque del corpo? Il Vangelo di Giuda affronta tale problema in maniera sorprendente e drammatica, facendo sua la dottrina gnostica che concepisce il corpo come una prigione di tenebre nella quale lo spirito dell’uomo soffoca e, inebriato dal male e dalle seduzioni della carne, dimentica la sua vera origine. Il tema del corpo-prigione (di origine platonica) ha nutrito pagine e pagine della letteratura gnostica, di un pessimismo esacerbato ma di grande bellezza poetica.

Giuda o la fedeltà assoluta

Qui è posto in primo piano il corpo di Gesù, che può raggiungere la conoscenza suprema solo attraverso il suo annientamento. Così Gesù dice a Giuda: “Tu le sorpasserai tutte (intendiamo, le potenze negative dell’universo). Perché tu sacrificherai l’uomo che mi riveste” (56,136).. Si tratta del corpo carnale, dell'involucro, del vestito, secondo altre metafore correnti nei documenti gnostici, che, su invito espresso di Gesù, Giuda deve sacrificare. Così l’atto del tradimento supremo di Giuda nei confronti di Gesù è riletto, in una sconvolgente re-interpretazione, come l'atto di fedeltà assoluta del discepolo più amato a causa della sua capacità di conoscenza.

Sotto questa interpretazione troviamo la teoria del Cristo come entità divina pre-esistente. Il Cristo è un essere celeste che, secondo certi gnostici, non ha rivestito che un corpo apparente, e dunque non ha potuto soffrire la sua Passione. La sua uccisione, le sue sofferenze sulla croce non sono state che una finta di fronte alle potenze dominatrici del mondo, per convincerle di aver avuto causa vinta (temi elaborati per esempio nell'Apocalisse di Pietro di Nag Hammadi).

Nel Vangelo di Giuda, tuttavia, la prospettiva è un po' diversa: Gesù, come ogni individuo ha un corpo di carne che gli appartiene durante il periodo di vita sulla terra. Il suo ritorno al mondo divino avrà luogo dopo che avrà lasciato questo peso che gli è fondamentalmente estraneo.Giuda è il mezzo mediante il quale questa liberazione si realizza. Siamo qui ben lontani dall'atto di tradimento in cambio di un po' di denaro che ci viene narrato nei Vangeli canonici. Qui la consegna da parte di Giuda è una messa in scena decisa dallo stesso Gesù, cosciente, secondo il trattato, del peso di maledizione che peserà allora sulle spalle di Giuda : “Tu sarai maledetto dalle altre generazioni” (46,83). Maledetto agli occhi del mondo, ma Giuda riceve però una ricompensa immediata per la sua fedeltà: Gesù lo invita ad alzare gli occhi e a contemplare una nube di luce circondata di stelle. La stella più splendente è quella dell'apostolo (57,141-144).

Come spiegare questo rovesciamento totale della figura di Giuda in rapporto alla tradizione evangelica in un testo del II secolo, tradotto, e dunque letto, nel IV secolo dagli gnostici stabilitisi in Egitto? In alcuni estratti trasmessi dai Padri della Chiesa certi gnostici tendevano a rivalutare figure considerate come negative dalla Bibbia, fra cui Caino e gli abitanti delle città maledette, Sodoma e Gomorra. Ciò si spiega con il rifiuto della figura del demiurgo, divenuto ai loro occhi un dio cattivo, al quale questi personaggi, individui e collettività, avevano disobbedito.

Da questo punto di vista Giuda diventa dunque il simbolo di una resistenza esacerbata contro la Grande Chiesa che presto trionferà delle dissidenze nate nel suo seno.

(da Le monde des religions, 18, pp. 6-10)

Ricercatrice al CNS, Parigi IV - Sorbonne, dottore in lettere dell'università di Torino.

Ultimo libro pubblicato: Femme, gnose et manichéisme. De l'espace mythique au territoire du réel (éditions Brill, 2005)

L'ideale della pace
nelle religioni del mondo

INDUISMO

Chiunque oggi mi è amico sia in pace; chiunque mi è nemico sia lui pure in pace.
(Invocazione Veda).

I nostri cuori e i nostri sentimenti siano unanimi; le nostre intenzioni siano comuni; la nostra unità per la pace sia perfetta.
(Upanishad)


BUDDISMO



Colui che assedia e distrugge i villaggi e si comporta da predatore, sia considerato un paria. (...) Il Saggio che ricerca il bene e ha raggiunto la pace, come una madre verso il figlio, così ama ogni creatura vivente.

(Suttanipata)

BAHA’I

I pregiudizi religiosi, razziali, nazionali e politici, portano l’umanità alla rovina. Finchè essi perdurano, il timore della guerra continuerà. (...) Dio di bontà, unisci tutti gli esseri; stabilisci la pace suprema.
(Bahaullàh)


CONFUCIANESIMO

Quando lo stato è [ben] governato, tutto ciò che è sotto il cielo è in pace.
(Confucio)

Oh, poter fabbricare arnesi per i campi, non orribili spade! (...) torneranno gli uomini per mietere, le donne per filare e le dolci canzoni della pace.
(Tu Fu)


ISLAM


Se il nemico propende per la pace, propendi anche tu verso la pace e abbi fiducia in Dio.

(Corano, Sura 8,61)

Il saluto islamico è “as-salamu aleikum”, cioè “pace”. Il termine “musulmano” significa “pacifico”, perchè sottomesso a Dio.
(Anonimo).

TAOISMO



Se fossi re di un piccolo stato, veglierei perchè il popolo, anche se possedesse armi e corazze, non le usasse.

(Lao tse, Tao te-ching)

EBRAISMO




Giustizia e pace si baceranno.

(Salmo 85,11)

Lodate il mio Signore... poichè è il Dio che stronca le guerre.
(Giuditta 16,1-2)

SIKHISMO


Il tuo nome e la tua gloria siano in eterno nei cieli e, secondo la tua volontà, concedi pace e prosperità a tutti e a ciascuno nel mondo.

(Preghiera quotidiana)

Dio rappacifichi le menti delle persone, portando la pace.
(Sant Ajaib Singh)

GIAINISMO


Colui che tu hai intenzione di colpire, in realtà non è altro che te stesso. Sappi che la violenza è la radice di tutte le miserie del mondo: non dovrebbe cadervi chi crede nella pace.

(Preghiera giainista ad Assisi, 1986)

CRISTIANESIMO

Beati gli operatori di pace,
perchè saranno chiamati figli di Dio.

(Gesù in Matteo 5,9)

I cristiani non solo vogliono la pace;
essi sono chiamati a costruire la pace.

(Conf. Cristiana ad Upsala, ’83)


SHINTOISMO



I nostri antenati perseguivano l’alto ideale di unire il mondo come una famiglia, un mondo in cui le navi navigassero e ancorassero nei porti, ed ogni paese consolidasse e conservasse la pace.
(Preghiera shinto, ad Assisi, 1986)

INDIANI DEL NORD AMERICA

Pace non è solo il contrario della guerra... Pace è la legge della vita: agire con giustizia.
(Indiani irochesi)

O Grande Spirito, io alzo la mia pipa [segno di pace] verso di te, verso i tuoi messaggeri, verso la Madre Terra. (Preghiera indiana ad Assisi, 1986)


(da Cem/Mondialità aprile 2005)

Giovedì, 25 Ottobre 2007 01:26

San Francesco d'Assisi

San Francesco d'Assisi


La vita

ha diciotto o diciannove anni quando Assisi soffre la guerra civile (1199-1200) durante la quale, molto probabilmente, si schiera con i minori contro la nobiltà in gran parte rifugiata a Perugia. Poco più che ventenne, la guerra tra Perugia ed Assisi lo vede combattente, con i suoi sconfitto a Collestrada e prigioniero a Perugia. In carcere per un anno, e poi liberato perché malato di una malattia che si protrae fino al 1204. Ritornato ad Assisi, inizia un processo di conversione che la lunga malattia ha favorito. partecipa, per l’ultima volta, con gli amici a quelle feste cosi a lui care nella prima giovinezza. Quest’ultima festa vede Francescocon loro, ma arriva il momento in cui gli amici lo sentono assente mentre guarda il cielo: «A che pensi Francesco, a prendere moglie?» «Sì - risponde - ed è la donna più bella del mondo ». Il Dio della povertà, il Dio del dono infinito, il Dio dello svuotarsi per amore lo sta incantando. Poco dopo avviene l’incontro con un lebbroso nella piana di S. Maria degli Angeli. E lui, vincendo il ribrezzo avvicina il cavallo al malato, gli mette in mano un’elemosina e lo bacia sul viso.

Quel moto impulsivo di Dio nella sua anima si fa più esplicito in San Damiano. Mentre guarda il volto del Crocifisso glorioso e sanguinante, ode queste parole: «Va’ Francesco, ripara la mia casa che va in rovina” e lui subito risponde: «Volentieri». Ha inizio da quel momento il conflitto con il padre.

diffidato, quasi posto agli arresti familiari, citato in giudizio davanti alle autorità comunali, si appella al giudizio religioso davanti al vescovo, dichiarandosi ormai uomo dedito a Dio: nel clamore e nel silenzio di quella riunione, rinuncia all’eredità paterna e rende al padre anche i vestiti che indossa; ergendosi regalmente nel cammino interiore, esclama: « Ora posso dire davvero “Padre nostro che sei nei cieli”.

Appena rivestito dalla pietà del vescovo, vaga nella solitudine soffrendo il freddo di quell’inverno. Soffre in quell’inverno fame e freddo, sguattero in un monastero. A Gubbio, dall’amico Spadalonga riceve abito e alloggio e si allena assistendo i lebbrosi.

Con l’estate, il suo rientro ad Assisi, ormai in abito di eremita è l’inizio di quel restauro che Cristo gli ha chiesto: restaura San Damiano, elemosinando pietre in città, predicedendo in quel luogo la vita delle povere donne seguaci di Chiara; restaura San Pietro; restaura la Porziuncola, e proprio qui ormai nel 1208 ascoltando nella festa di S. Mattia il Vangelo del giorno, vede, interiormente, che si tratta di quella vita che Dio gli sta facendo intuire: decide di vestirsi di una tonaca rozza da contadino, di avere come cintura una fune, di camminare a piedi nudi, andando cosi ad annunciare la penitenza.

al mattino dichiara a Francesco . di voler condividere la sua vita. E anche l’altro autorevole amico Pietro Cattani decide come Bernardo di lasciare tutto per trovare tutto, come sta facendo Francesco C’è quell’immediatezza della forza d’amore che si apre in un destino di fraternità. Si chiama vocazione ed è cammino ascetico e mistico dove Dio, rivelandosi, attira a sé, come faceva con Cristo. In tre si rifugiano alla Porziuncola intorno alla chiesina restaurata, poi, aggiungendo per lui una capanna di frasche, accolgono il semplice Egidio colui che poi, grande contemplativo, illuminerà il mondo con i suoi Detti. Sono appena in quattro e già li aspetta il mondo. E’ la prima missione. Arriva l’estate. Filippo Longo e altri due si aggiungono. Con il tardo autunno la seconda missione a Poggio Bustone.

Si aggiunge a loro Angelo, il cavaliere. Sono ora in otto e, partendo da quella intimità quaresimale, sempre a due a due, vanno in missione con Francesco. nelle quattro direzioni del mondo.

Ritornando all’inizio dell’anno seguente alla Porziuncola, Francesco riceve altri quattro fratelli ed, essendo ormai dodici, decide di proporre al papa per l’approvazione la sua nuova forma di vita: orante, penitente e itinerante, cioè povera e piena di Dio, obbediente al mandato di restauro avuto da Cristo. Francesco scrive una breve Regola e con i suoi va da Innocenzo III (+ 1216). Il papa ascolta, approva e manda a predicare quella penitenza che viene vissuta da loro e che è ritorno e precisa obbedienza al Vangelo. Ritornano a Santa Maria degli Angeli, ma l’andare a predicare la penitenza porta Francesco ad imbarcarsi per la Siria. Costretto dai venti a ritornare in Italia, accoglie sorella Chiara.

Nel 1219-20, Francesco è in Oriente, predica ai crociati, incontra il sultano presentando Cristo, ottenendo da lui un rescritto che permette a lui e ai suoi di predicare Cristo. Rientrato in Italia, chiede un cardinale protettore dell’Ordine, che ottiene nella persona del card. Ugolino (+ 1241) da papa Onorio (+ 1227), perché vegli sulla crescita veramente evangelica di questa famiglia in impressionante espansione.

Nel 1223 Francesco. prepara a Greccio il presepe per «vedere con gli occhi del corpo come pativa il Cristo posato sul fieno e scaldato dall’asino e dal bue»,per poter festeggiare la sua venuta, perché nulla gli è più caro della umiltà dell’Incarnazione e della carità della passione.

Nella quaresima di San Michele del 1224, sale alla Verna, donatagli dal conte Orlando nel 1213, per l’ultima volta.

Nell’estate del 1224, sente particolarmente l’ispirazione e il desiderio di chiedere due grazie: «Che possa patire nell’anima e nel corpo mio, quanto è possibile ad un corpo umano, i dolori che patisti nella tua acerbissima passione» e l’altra: «Che io possa ricevere da te, quanto è possibile ad un essere umano, quell’amore che ti sosteneva a patire tanto per noi peccatori». Subito percepisce dentro di sè che il Signore lo ha ascoltato.

Una notte, intorno alla festa della Esaltazione della croce, frate Leone vede scendere dall’alto con un volo rapidissimo un serafino che va a posarsi su Francesco. La visione scompare e con essa la luce solare. Francesco si accorge di avere nelle mani i chiodi…... conforme al Cristo.

Dall’intimità con Dio Francesco si sente spinto alla missione concreta di «andare» nel mondo.

Dopo le stimmate, Francesco. si ammala sempre di più. Siamo nel 1225, e a San Damiano in una capannuccia addossata al monastero, con i topi e il male delle stimmate, il santo dice: « Signore prendimi » e il Signore: «Se il mondo fosse oro invece che pietre... non sarebbe un gran tesoro? Sto per darti una cosa che sorpassa tutti i brillanti e l’oro e questa è la vita eterna». Allora egli chiama frate Leone e gli detta il Cantico delle Creature. Sentendosi vicino alla fine si fa portare alla Porziuncola. E’ il 3 ottobre 1226 quando Francesco muore sulla nuda terra.

Gli scritti

Pochi ricordi restano della «prima regola», che fu certamente matrice del primo gruppo di scritti sicuramente suoi; le regole ed esortazioni.

Per vari anni si dedicò alla redazione della Regola non bollata, del 1221 (= Reg); è una regola ampia e severa piena di citazioni bibliche. Ben presto fu sostituita con la Regola bollata (= Reg. bol.) approvata da Onorio III il 29 novembre 1223. scritta con uno stile un po’ più curiale, ma pienamente conforme alle aspirazioni del Poverello. Verso la fine della vita, compose un Testamento (= Test.), che è un’ampia esortazione ad osservare fedelmente la Regola. Poco prima (maggio 1226) aveva scritto il cosiddetto Testamento di Siena (= 2Test.), poche righe di conforto ai frati che lo curavano.

Nella Regola delle clarisse sono riportate brevemente le ultime volontà espresse da Francesco sul primitivo ideale evangelico e sulla povertà. Raccolse poi in forma di florilegio certe massime, dette Ammonizioni (= Am.). temi costanti della sua predicazione.

La Lettera a tutti i fedeli (= L. fed.). indirizzata probabilmente a «penitenti viventi nel secolo» che si rifacevano al suo ideale (detti in seguito «terziari francescani»), nella quale insiste molto sull’eucaristia come luogo d’incontro con Dio. La Lettera a tutti i chierici (= L. ch.) in cui fa derivare alcune linee di spiritualità sacerdotale dell’eucaristia. Nella Lettera ai reggitori dei popoli (= L. pop.) richiama invece i politici alla vocazione evangelica e li invita a promuoverla tra i sudditi.

Anche la Lettera a tutti i guardiani (= L. guard.) e la Lettera al capitolo generale (= L. cap.) ritornano sull’eucaristia, sulle disposizioni interiori ed esteriori per comunicarsi, e sull’onore dovuto al sacramento.

Avrebbe scritto una lettera anche A donna Giacomina dei Settesogli. rispecchiante i singolarissimi affetti e consuetudini che lo legavano a questa nobile romana.

Giungiamo così al terzo gruppetto di scritti, le laudi e le preghiere.

Le Lodi di Dio (= Laudes), echeggiano. in versetti legati da assonanze, i pensieri dei precedenti scritti. Il breve Saluto a Maria (= Sal. M.) e una lode ritmata o Saluto alle virtù (= Laud. v.), intermezzano richiami ai vizi opposti.

Le Lodi prima e dopo le ore (del breviario) attingono a piene mani dalla Bibbia una serie di versetti rispecchianti la spiritualità di Francesco. L’ufficio della passione (= Llff.), composto con lo stesso metodo, fu tra le preghiere più usuali del Poverello, ed è scritto da Francesco intercalando parole proprie a versetti di Geremia (Lamentazioni), Isaia ed Esodo.

Queste matrici bibliche (non però ad litteram) si rilevano anche nel più noto fra tutti gli scritti di Francesco; il Cantico delle creature o Cantico di frate Sole, unico suo scritto in volgare ed espressione più completa e lirica dell’anima e della spiritualità del Poverello d’Assisi. In esso esplode il mistico Francesco, il quale. nella variegata molteplicità delle creature elementari di Dio, «vedeva» l’armonia incomparabile che sorpassa ogni melodia e concerto di quaggiù. Con questo incessante cantico sulle labbra egli, martirizzato da incredibili malattie, andò sino alla morte inaugurando l’era dei grandi poeti mistici, come Giovanni della Croce. Teresa d’Avila. Pietro d’Alcantara.

Mistica e vita spirituale

Nei suoi ricordi personali e nei suoi scritti, che sono un riflesso prolungante la sua esperienza spirituale, Francesco aspira ed esorta ad aspirare ad una vita che, in qualche cosa, si distingue anche dalla vita spirituale cristiana giunta alla sua perfezione: «Ora, dunque, dal momento che abbiamo lasciato il mondo, niente altro dobbiamo fare se non essere solleciti a seguire la volontà di Dio e compiacerlo….». (Reg. 22: F 57). «Specialmente poi i religiosi, che hanno rinunciato al mondo, sono tenuti a fare di più e a fare cose maggiori)) (L. fed 7: F 194).

Nel suo concreto aspetto, si tratta di una vita caratterizzata da costante e particolare consapevolezza del soprannaturale nell’uomo: in essa viene vissuta in modo del tutto peculiare l’unione con Dio a cui è chiamato ogni uomo e che è il culmine di ogni santità.

Ogni unione con Dio («unirsi a Gesù Cristo», dice anche Francesco) consiste per lui in atti di conoscenza credente e di amore, in atti di vita teologale in un contesto di evangelica penitenza: «su tutti coloro che avranno fatto queste cose e perseverato fino alla fine, si poserà lo Spirito del Signore e stabilirà in loro la dimora e l’abitazione; e saranno figli del Padre celeste...., e sono sposi fratelli e madri del Signore» (L. fed. 9: F 200); ma «tutti quelli che...., con l’anima servono il diavolo…., sono ciechi, perché non vedono il vero lume, il Signore Nostro Gesù Cristo. Costoro non hanno lasapienza spirituale, perché non hanno il Figlio di Dio in sé, che è la vera Sapienza del Padre…..» (L. fed. 10: F 203).

Ma, come vedremo via via, nelle sue parole s’avverte come un riflesso e prolungamentodella sua stessa esperienza mistica, del suo particolarissimo modo di vivere ed esperimentarequesta unione con Dio (cf. Reg. 17,12:F 48; Reg. bol. 10,10: F 104).

La «passività» della vita spirituale e la mistica

consapevole che l’intero suo itinerario spirituale, dalla conversione all’istituzione dell’Ordine al continuo anelito di santità e a tutti i carismi ricevuti, era tutta una mirabile operazione dell’amore di Dio in lui (Test 1-3: F 110; 17 F 116; Reg. bol. 10,10: F 104; L. fed. 6: F 194; 10: F 202). Egli sentiva che Gesù stesso era la sua forza e che la sua vita santa era una risposta a Dio esperimentato come Colui che si donava totalmente a lui, per essere Egli stesso la sua risposta (L. cap. 2: F 221). Negli scritti di Francesco colpisce questa costante esperienza, che tutto gli fa vivere come dono divino: non soltanto, come abbiamo visto, Dio gliha donato la «conversione», la sequela, la vita fra i lebbrosi, i discepoli o fratelli, ma anche la fede nella chiesa istituzionale, nei sacerdoti e nei sacramenti, il corpo e il sangue di Cristo, la parola, il silenzio, il lavoro, la vocazione per la missione tra gli infedeli e ogni altro bene. Perciò chi ha invidia «commette peccato di bestemmia, poiché invidia lo stesso Altissimo che dice e fa ogni bene nei nostri fratelli» (Am.i. 8,3-4: F 157). La povertà di Francesco è fondamentalmente gioia di «restituire» al Signore anche i suoi beni spirituali (Am.. 19,1-2: F 168).

Con questa passività. Francesco non esorta all’inattività. bensì a non concepire la propria vita spirituale come frutto di faticosa e meritoria prestazione. Passività è per lui un sentirsi mosso e guidato da Dio nell’aspro e faticoso cammino della perfezione. Tale impressione, tuttavia, che deve accompagnare ogni vita cristiana autentica, a volte si presenta in lui con una modalità del tutto particolare e con una singolare intensità. Essa domina a volte in modo così totale i suoi atti interiori, da ritorcersi persino su quelli esteriori, fisici, corporei. E tale estensione appare come eco dell’impossibilità che Francesco avvertiva, a causa del corpo in cui doveva pur vivere, di realizzare il suo desiderio di essere totalmente di Dio e di esperimentare tale totalità. Per questo chiede con passione che il Cristo si sostituisca a lui nel suo rapporto con Dio (Reg. 23: F 66).

In una parola, Francesco esperimenta una tale dipendenza dall’agire divino in tutte le dimensioni del proprio essere personale globalmente prese, che giunge quasi a sentirsi identificato con Dio (Reg. 23: F 69) e ancora esperimenta tale identificazione e relativa consapevolezza come supremo dono di Dio (Am.. 5: F 153-154).

«Semplicità» e mistica

Un riflesso della mistica di Francesco si riscontra anche nei suoi incitamenti a quella semplicità che rende così suggestivo e perennemente attuale il suo esempio. Nella sua mistica non si tratta soltanto della semplicità che è l’opposto della sapienza mondana con tutti i suoi vizi (Laud v. 1 e 10: F 256s) né si tratta soltanto di quella semplicità che è scelta radicale e sommo diletto in Dio solo. che è tutto il bene per lui (cf. Reg. 23: F 70; L. cap. 6: P233). Né si tratta di scelta di un comportamento difficile e saggio, derivato dall’essere contenti di Dio sommo bene e non si sottilizza più nelle parole, non ci si perde nelle curiosità e nell’ostentazione e si va sempre all’essenziale nelle cose. Ma si tratta di una semplicità, che deve caratterizzare globalmente tutte le dimensioni della persona, affinché possa passare da unavita di fede e di amore ancora tentennante e in perpetuo divenire (anche se affidata a ragionamenti e motivazioni esplicite soprannaturali) ad un contatto vissuto con Dio, visto e amato spontaneamente, permanentemente, semplicemente, senza travagli interiori, in una totale resa di tutto se stesso a Lui.

La peculiarità dunque di tale contatto è nel fatto che esso è avvertito non soltanto come presente nello spirito, ma è esperimentato in modo tale, che lo spirito è totalmente assorto, quasi afferrato e concentrato dall’interno, mentre a volte la possibilità di occuparsi o preoccuparsi di altre cose si riduce e scompare e persino l’attività esteriore, fisica, corporale, diventa più o meno difficile. E’ a partire da tale esperienza che Francesco può parlare ai suoi discepoli, con una grande facondia, sull’inabitazione dello Spirito santo per la nostra santificazione (cf. Reg. 12 e 22: F 38 e 61): ne esalta l’opera in noi (cf. Reg. bol. 10: F 104). indica le virtù che egli infonde in noi (cf. Sal M. 7: F 260), la vita che ci comunica (Am. 1,1: F 141), la purificazione, l’illuminazione e il calore che produce interiormente (cf. L. cap. 6,62: F 233).

Francesco descrive certamente questa sua straordinaria esperienza vissuta di contatto con Dio quando, esortando i frati alla semplicità, intesa come assenza di inquietudini interiori e di affannose ricerche di mediazioni che non siano il Cristo, lascia intravedere la sensazione di pienezza che anch’essi, come lui, gusteranno aderendo totalmente a Dio (cf. Reg. 23,27s: E 70; cf. L. cap. 6,62: F 233). La mistica vissuta e insegnata da Francesco comporta l’esperienza di un contatto tale con Dio che il mistico è totalmente «semplificato» e non avverte più nulla, da parte dello spirito e del corpo, che si frapponga tra lui e Dio (Reg. 23,3lss: F 71).

Questa caratteristica semplicità della mistica, che si presenta in Francesco come un sentirsi afferrato e unificato o semplificato appunto dall’interno, consiste dunque in un incessante ed esclusivo concentrarsi in Dio, vivendo tale concentrazione con la globalità di tutte le dimensioni della sua persona, in un’incessante «visione» di Dio; «puri di cuore sono coloro che disprezzano le cose terrene e cercano le celesti e non cessano mai di adorare e di vedere li Signore Dio, vivo e vero, con cuore e animo puro» (Am. 16,2 E 165). Tale assorbimento totale in Dio, esperimentato con tutto il proprio essere sino quasi a «vedere» Dio, suggerisce a Francesco, uomo attivo e contemplativo la messa in guardia contro un frenetico attivismo esteriore, scambiato a volte come apostolato, o, come egli dice, come «opere da fare e di aiuto da dare» (Reg. 22,l9ss.: F 59s).

La peculiarità mistica di questa «semplicissima» esperienza di Dio come unico Signore della propria vita, è avvertita là dove Francesco insiste nel dire che tutto il «resto», compreso il proprio corpo, è una limitazione di quella libertà della «semplicità», che sola permette all’uomo di vivere, supremamente ed esclusivamente, null’altro che il contatto con Dio.

La presenza divina interiore e la vita mistica

Quando il servizio, l’amore, l’adorazione e l’onore del Signore sono ormai l’espressione «di un cuore mondo e di un’anima pura», l’uomo non trova ormai più ostacoli tra sé e Dio, ignora cure e preoccupazioni interiori ed esteriori, e quindi esperimenta questo intimo contatto con Dio come una forza determinante per tutti gli aspetti del proprio essere umano. È allora che Francesco percepisce se stesso e la propria comunità fraterna come una «abitazione e dimora» per Dio (Reg. 22: F 61).

Francesco associa sempre la semplicità, l’umiltà e la purità con l’immagine dell’anima a cui Dio ha donato la consapevolezza di essere la sua dimora. Egli ha una certa impressione della presenza e dell’azione di Dio in tutto il proprio essere, Non soltanto egli lo «sa», ma ha il vivo sentimento di vivere un intimo rapporto con Dio a tutti i livelli della propria personalità. E’ questa una sensazione da Francesco stesso descritta con parole evocatrici dei più caldi sentimenti di un’esperienza d’amore sponsale, filiale, materno (cf. L. fed. 9,48: E 200).

Se prescindiamo da ogni altra considerazione, negli Scritti e nelle più antiche biografie di Francesco ci si presenta un’anima colma di fede in un Dio personale e vivente, la quale percepisce e intuisce una divina presenza, a cui sente di accostarsi e la cui azione benefica si ripercuote e si distende alla totalità del proprio essere. Di qui la consapevolezza di stare sempre con Dio e di potergli manifestare direttamente e immediatamente sentimenti di fiducia e di amicizia, arrendendosi a lui con tutto il proprio essere.

Nella vita e nell’insegnamento di Francesco è chiaro che la certezza e l’esperienza della presenza attiva di Dio può essere esperimentata nella pace e nella gioia, per il fatto che, al contatto vissuto con Lui, l’uomo non trova più ostacoli esteriori e interiori, nulla in tutto il proprio essere sembra ritenere più il Servo di Dio che si sente tutto posseduto da Dio.

Gli inviti di Francesco alla «letizia nel Signore». «ad essere giocondi e garbatamente allegri» (cf. Reg. 7,17:F 27). di una letizia che nulla ha a vedere con la vanità e la fatuità (Am. 21: F 120), sono lo specchio della pace e della gioia integrale, in cui egli vive, con tutto il proprio essere, l’esperienza mistica dell’attiva presenza di Dio in lui.

La letizia è, per lui, sorella della povertà volontaria, perché questa è anche assenza di preoccupazioni e dissipazioni esterne (Am. 27: F 177), e impedisce al corpo di appannare la sua esperienza con Dio. E così tutta la realtà esteriore, le creature visibili, gli eventi coinvolgenti il suo corpo («sora nostra morte corporale») non costituiscono per lui l’inevitabile condizione per «sporcarsi le mani». Si trasformano, invece, in fonti di letizia e di autentico lirismo nel Cantico delle creature, composto in un periodo di indicibili sofferenze. Vero mistico cristiano, com’egli è, non sente le creature come impedimenti al suo affetto per Dio. Esse vanno con lui verso la vetta mistica.

L’esperienza mistica di Francesco

Tutto ciò fa già intravedere le note decisive che determinarono. in modo progressivo e rilevante, il suo itinerario spirituale. Esso nel suo insieme, risultò costantemente guidato dai doni dello Spirito santo, verso il quale la sua anima, sempre più purificata e contemplativamente sospesa, diventò totalmente recettiva.

Nella sua mistica esperienza, si tratta in primo luogo di un’unione con Dio che diventò il cuore stesso di tutta la sua vita; in secondo luogo, in questa mistica unione si tratta di un’esperienza che egli stesso manifesta in espressioni tratte dai linguaggi amorosi umani, proprio perché essa coinvolge, oltre le facoltà spirituali, la globalità delle dimensioni personali e comporta anche un travaglio del corpo e sul corpo.

Francesco insegna poi che la multiforme mistica esperienza amorosa di Dio va vissuta anche nella vita della chiesa. Le sue distanze scrupolose da ogni errore ecclesiologico del suo tempo e l’incondizionato rispetto manifestato alle istituzioni ecclesiastiche anche le più «poverelle», non sono solo segno di obbedienza, ma indicano anche la mistica esperienza di Dio nel Cristo vivente nella chiesa (cf. Test. 10-12: F113 e 115.

Non solo la preghiera. ma tutta l’attività dell’uomo è proposta da Francesco come espressione di costante atteggiamento recettivo come un vivere sponsalmente uniti a Dio, diretti da lui, diretti a lui. A tale scopo egli esalta l’umiltà, la povertà, l’obbedienza, la penitenza e ogni forma d’austerità. I primi anni della sua vita «convertita» mostrano una mistica tensione. Ma solo con il tempo, sotto una specialissima grazia divina, la sua preghiera diventa una santa contemplazione affettiva, infusa, unitiva. Per questo alcune sue esperienze si presentano veramente come casi a parte in seno all’esperienza di Dio che accompagna normalmente ogni autentica vita spirituale.

I Sette Sentieri della Torah

di Rabbi Avraham Abulafia

Agli occhi di ogni uomo è chiaro che la Torah, che porta il nome di Libro del Giusto (2 Sam. 1.18), è un: "albero di vita, è per chi si aggrappa a lei, e chi la stringe è fortunato" (Prov. 3.18). È' risaputo per tradizione, in base al Libro di Razi'el, che il valore numerico della parola me'usar (fortunato)corrisponde a quella di Yisra'el "Israele"; da questo scaturisce la conoscenza di tutti i fenomeni delle vie dei segreti dei precetti e a lui andranno uniti desideri, delizie, insegnamenti, pensieri dotati di fede, speranze.

Perciò è opportuno far conoscere ai rettori delle accademie d'ogni dove tutto ciò che concerne le lettere ed i termini che istruiscono sulle varie realtà, maschili e femminili, singolari maschili e singolari femminili, plurali maschili e plurali femminili, per separare sottilmente in essi fra ciò che è bene e ciò che è male, e fra pensieri giusti e pensieri fallaci. Tutto questo si svela tramite i sette sentieri, in cui sono contenute tutte le sapienze, per ogni lingua e nazione.

Riassumerò dunque tali questioni in questa lettera, affinché sia per voi d'ammonimento.

I sette sentieri della Torà sono i seguenti:

1) Il primo sentiero racchiude la comprensione letterale della Torà "poiché l'interpretazione di un versetto non deve allontanarsi dal senso letterale". Questa è la via che si addice al popolo, uomini, donne e pargoli; anche se è noto che ogni essere umano, all'inizio della sua esistenza - fra infanzia e giovinezza - fa parte di questo gruppo. In seguito, ci sono persone che studiano e altre che rimangono del tutto senza istruzione sulla via della conoscenza delle lettere, ma d'ogni uomo è detto: Può divenire saggio pure l'uomo che è nato simile ad un giovane onagro selvatico (Giobbe. 11,12). È pertanto indispensabile che, a colui che è totalmente illetterato, si trasmettano alcuni elementi della tradizione, sì che diventi credente per fede ricevuta, resti nel proprio ambito e si mantenga entro la sfera del senso letterale. Sembrerà così che abbia studiato, e si atterrà a ciò che ha acquisito come vi si attiene chi ha appreso i significati letterali della Torà: in tal modo verrà sottomesso a questo primo sentiero.

2) Il secondo sentiero racchiude la comprensione del testo secondo molteplici commenti: ciò che li accomuna è il ruotare intorno alla sfera del senso letterale, che essi circondano da ogni parte. Così fanno la Mishnah ed il Talmud, che espongono il senso letterale della Torà. Si veda la questione della "circoncisione del cuore": la Torà prescrive di circonciderlo, come è detto: Circoncidete il prepuzio del vostro cuore (Deut. 10.16). Preso in senso letterale, questo precetto è assolutamente irrealizzabile: perciò esso richiede un'interpretazione, offerta dal versetto: Il Signore, tuo D-o, circonciderà il tuo cuore (Deut. 30.6), che segue l'affermazione: E tornerai al Signore tuo D-o (Deut. 30.2). Dunque, la circoncisione del cuore è propriamente l'imbocco della via del ritorno al Signore, sia Egli benedetto; la circoncisione dell'ottavo giorno, invece, è un'altra cosa, perché è impossibile interpretarla nel senso di un pentimento, come l'hanno intesa gli incirconcisi di cuore e gli incirconcisi di prepuzio. Dunque la circoncisione del neonato va necessariamente intesa in senso letterale, ed è di gran giovamento, come già ci è stato rivelato da alcuni, lode a D-o.

3) Il terzo sentiero racchiude la comprensione del testo sotto il profilo omiletico e narrativo, e comprende entrambi i metodi menzionati in precedenza; un esempio è offerto dall'affermazione dei nostri Maestri di benedetta memoria: "Perché nel secondo giorno non è detto che era buono?
Perché non era stata completata l'opera delle acque", e via di seguito. Questo metodo è denominato darashaggadah o haggadah ("racconto"), che ha in primo luogo la funzione di attrarre (tale è infatti il targum, che sa attirare i cuori verso la giusta via), e in secondo luogo quella di raccontare cose gradevoli che incantano chi ascolta. ("omelia", "ricerca"), a indicare che con esso si può indagare, inquisire e poi esporre in pubblico, di fronte a tutti; parimenti, è stato chiamato

4) Il quarto sentiero racchiude le parabole e le allegorie, che sono presenti in tutti i libri. È qui che certuni cominciano a separarsi dalla massa del popolo: la massa infatti comprenderà queste cose secondo uno dei tre metodi di cui s'è parlato. Alcuni le prenderanno in senso letterale, altri le commenteranno, altri ancora le intenderanno per via omiletica. Certuni invece arriveranno a capire che sono parabole e le sonderanno. Qui si troveranno ad affrontare le questioni degli omonimi che la Guida dei Perplessi (del Maimonide) ha già chiarito.

5) Il quinto sentiero è il solo che racchiude le vie cabalistiche degli insegnamenti biblici. I quattro metodi che vengono prima di questo sono accessibili a tutte le nazioni: alle masse i primi tre, ai sapienti il quarto, con o senza gli altri. Invece, questo quinto sentiero è l'esordio degli stadi della sapienza cabalistica, che è solo di Israele: è qui che noi ci separiamo dalle masse del mondo, dai sapienti delle nazioni del mondo e dagli stessi Rabbi sapienti d'Israele, che restano nella sfera dei tre metodi sopra ricordati e delle parabole.

Si coglie, ad esempio, lungo questo percorso, l'indicazione dell'insegnamento che la Torà ci impartisce con la sua prima lettera, che è la Beit di Be-re'shit, "In principio" (Gen. 1.1), che deve essere di dimensioni maggiori delle altre, così come devono esserlo le ventidue lettere che si trovano in ognuno dei ventiquattro libri; o ancora con la forma della lettera Cheit di we-charah (e si accenderà); o con le due Nun capovolte nel passo relativo al versetto: Quando l'arca si muoveva (Num. 10.35).

Molte di queste cose ci sono state trasmesse per tradizione interna ed esterna: grafie piene e grafie difettive, lettera avvinte e lettere storte e via di seguito: i casi sono molti. Nulla della loro veridicità è mai stato rivelato ad alcun popolo, se non alla nostra santa nazione: coloro che percorrono la via degli altri certo se ne befferanno, pensando che queste grafie siano insignificanti. Costoro sono tratti in inganno, e si sbagliano di grosso, mentre chi sa la veridicità di questi sentieri, ne riconosce la superiorità e chiarisce i misteri, che sono santi. Questo metodo costituisce l'esordio della sapienza generale della combinazione delle lettere, e non è consigliato se non a coloro che temono Iddio, e rispettano il Suo Nome.

6) Il sesto sentiero è profondissimo: chi lo troverà? Di questa via è detto: È più lunga della terra la loro dimensione, è più alta del mare (Giobbe. 11.9). Essa si addice a coloro di cui si è detto poco sopra, i quali si isolano nella propria volontà di accostarsi al Santo Nome, cosicché la Sua Opera, sia Egli benedetto, sia in loro stessi riconoscibile. Sono coloro che, nel loro agire, pervengono ad assomigliare all'azione dell'Intelletto agente. Dunque il nome di questo sentiero racchiude il segreto delle "settanta lingue" (shiv'im lesonot), espressione che equivale, numericamente a "combinazione delle lettere" (seruf ha-otiyyot). Tale percorso segna il loro ritorno verso la Materia prima, tramite l'evocazione e la meditazione che si articola nelle dieci sephirot senza determinazione, il cui segreto è santo. Ogni cosa che appartiene alla santità è in numero di dieci: non è forse Mosè asceso dieci volte, e la Shekhinà discesa altrettante?

Con dieci Detti non fu forse creato il mondo, e con dieci Comandamenti non fu data la Torà? E molte altre decine illustrano questo concetto. A questo metodo appartengono laghematria, il notariqon, le permutazioni, le sostituzioni, le permutazioni delle permutazioni, e le permutazioni delle permutazioni delle permutazioni. A causa della pochezza dell'umano pensare, le permutazioni si limitano a dieci, benché, in verità, esse siano illimitate, giacche sono paragonabili alle particolarità delle creature, che sono infinite: sebbene la loro materia sia unica, le loro forme mutano, e si manifestano in successivi segreti.

Con questo metodo si confuta l'opinione che Rabbi Avraham Ibn 'Ezra, di benedetta memoria aveva formulato nel commento alla Torà, a proposito del nome Eli'ezer e del suo valore numerico, che ammonta a 318 (trecentodiciotto). A proposito di lui è detto: Armò i trecentodiciotto suoi uomini addestrati, i nati della sua casa (Gen. 14.14): in realtà sta scritto: Il suo uomo addestrato, che corrisponde a Eli'ezer. Sebbene Ibn 'Ezra abbia affermato che la Torà non si esprime attraverso la ghematria - poiché se così fosse ognuno potrebbe mutare il male in bene, ed il bene in male - io non credo che egli fosse all'oscuro della cosa; probabilmente intendeva occultare il segreto, ed aveva ragione, proprio per quel che abbiamo detto a proposito delle prime tre vie, visto che tutto il suo libro è stato scritto per la massa. Fanno eccezione alcuni passi che egli segnala dicendo: "Questo è un mistero, e chi è dotato d'intelletto lo esaminerà e lo comprenderà, qualora ne sia degno".

(Il sesto sentiero) è quel glorioso e terribile sentiero tramite il quale si rivela un poco della conoscenza del Nome Ineffabile, al quale s'accenna nel Libro della Formazione al secondo capitolo, dove si trova detto che le ventidue lettere fondamentali sono tre madri, sette doppie e dodici semplici: "le incise, le intagliò, le soppesò, le permutò, le combinò e con esse formò l'anima di tutto il creato e l'anima di tutto ciò che è formato".

7) Il settimo sentiero è un sentiero particolare, che racchiude tutti i sentieri, esso è il Santo dei Santi, è riservato ai Profeti, è la ruota che tutto circonda. Chi lo comprende, comprende la parola che dall'Intelletto agente promana sulla facoltà verbale. Si tratta infatti dell'influsso che si propaga dal Nome, sia benedetto, alla facoltà verbale, tramite appunto l'intelletto agente, come ha detto il maestro (il Maimonide), di benedetta memoria, nella Guida dei Perplessi, libro secondo, al capitolo trentasei. Esso è il sentiero della veridicità della profezia e della sua essenza, della conoscenza dell'essenza del Nome Unico; solo un Profeta ne ha comprensione: giacche esso rappresenta il principio che ha creato il discorso Divino sulla sua bocca.

Non è opportuno descrivere le modalità di questo sentiero, che è chiamato sentiero Santo e santificato, in un libro, né è possibile trasmettere, riguardo a Esso, alcuna tradizione, neppure per sommi capi, a meno che, chi desidera conoscerlo, non apprenda prima, a viva voce, la nozione del Nome di quarantadue lettere e di quello di settantadue.


(tratto da Sheva' netivot ha-Torah)