Famiglia Giovani Anziani

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

«Lo spirito del Signore è su di me» (Is 61)

di Claudio Doglio

L'ultima parte del libro di Isaia sembra organizzata come una antologia concentrica, che ha il proprio punto focale nei capitoli 60-62. Questi testi rappresentano il nucleo fondamentale della sezione e rispecchiano perfettamente la predicazione consolatoria e promissoria dell'anonimo profeta che i moderni hanno chiamato Terzo-Isaia: la sua struttura può essere così sinteticamente rappresentata:

60,1-22 annuncio della luce per la nuova Gerusalemme;
61,1-11 vocazione e missione del profeta;
62,1-12 promessa del nuovo splendore di Gerusalemme.

Il centro di questo poema centrale, dunque, è costituito dal capitolo 61, in cui l'autore parla di sé e della propria missione.

Un messia sacerdotale

L'orizzonte storico in cui si muove l'autore è quello della comunità giudaica, ritornata nella terra di Israele dopo l'esilio: l'interesse è centrato sulla città di Gerusalemme che si trova in uno stato pietoso, ma alla quale viene predetto un meraviglioso futuro. Il tempio sembra ancora abbattuto o in via di difficile ricostruzione; i rimpatriati sono in preda alla sfiducia e alle lotte intestine; devono per di più affrontare difficoltà morali e religiose, dal momento che alcuni Giudei si sono abbandonati all'idolatria ed i capi del popolo sono inetti ed indifferenti.

Gli ultimi capitoli del libro di Isaia non sono un'opera unitaria, ma una raccolta di materiale che proviene da epoche diverse, sono composti con stili e linguaggi differenti e riflettono il pensiero di varie correnti religiose e spirituali: è difficile, quindi, parlare di un personaggio storico ed identificarlo con l'autore di tutti questi capitoli. Eppure la relativa unità dell'insieme permette di immaginare una figura storica di profeta post-esilico che abbia, per lo meno, svolto un'opera letteraria di raccolta e di compilazione redazionale. In tal modo il Terzo-Isaia può essere immaginato come una guida spirituale dei rimpatriati, pastore di anime e poeta di rinnovamento: con la sua opera letteraria egli vuole innanzi tutto risollevare gli animi oppressi dallo scoraggiamento.

Le affinità di stile con Is 40-55 fanno pensare ad un discepolo del Secondo- Isaia, suo grande ammiratore e tutto pervaso dello spirito del nobile maestro. Ritornato in patria egli avrebbe voluto continuare l'opera del maestro e indicarne in concreto la realizzazione. I rimpatriati, infatti, erano in crisi di fede, perché le promesse del profeta esilico non si erano realizzate: la tentazione era quella di leggere la squallida situazione presente come una controprova della fedeltà di Dio e quindi di abbandonare con disprezzo l'alleanza. In questa pericolosa situazione diversi autori cercarono, nel giro di poco tempo, di dare una nuova interpretazione alle antiche promesse di salvezza, rifacendo i alle varie tradizioni del patrimonio religioso di Israele. Un redattore, che possiamo identificare con il nostro profeta, raccolse questi oracoli, sia orali si stesi per iscritto, disponendoli secondo un suo piano, con l'intento di incrementare la fiducia di Israele nella fedeltà divina e rilanciare l'impegno di adesione all'alleanza con Dio.

Al centro della raccolta, il profeta-redattore ha collocato il poema autobiografico, in cui celebra la propria vocazione e presenta la sua missione di consolatore. Dai particolari di questo testo l'autore si rivela un "messia" sacerdotale, cioè un sacerdote consacrato con 1'unzione, che ha vissuto il propri ruolo cultuale soprattutto come messaggero di pace col compito di predicar un nuovo, grande «giubileo», come anno di misericordia voluto dal Signore. Secondo Pierre Grelot, (1) troviamo in questo testo il riferimento alla prima consacrazione di un sommo sacerdote dopo l'esilio ed il rientro a Gerusalemme: con una ipotetica, ma attendibile ricostruzione storica (2) si può pensare all'unzione sacerdotale di Ioiachim, successore di Giosuè, nell' anno sabbatico 511/510.

Un poema artisticamente composto

Non si tratta di un racconto di vocazione, come per Is 6,1-13, ma piuttosto di un poema autobiografico di investitura e presentazione, simile al canto del Servo che si trova in Is 49,1-6: «Il Signore dal seno materno mi ha chiamato ... ». Il richiamo stilistico a quel testo può essere un indizio di collegamento teologico: il profeta del post-esilio sente di vivere nella propria persona la continuazione dell' antica e unica missione profetica; nella concreta situazione del suo tempo egli sperimenta la chiamata divina e comprende il ruolo e lo scopo a cui è chiamato. Con abilità di artista compone questo poema, per tratteggiare le linee essenziali della sua missione ed i contenuti fondamentali della sua predicazione. Un'analisi attenta del testo rivela una sapiente organizzazione letteraria degli argomenti ed aver chiara la struttura dell'insieme ci aiuta non poco a comprenderne il messaggio. (3)

L'intero poema si può facilmente dividere in due parti: la prima comprende i vv. 1-3 e descrive il senso della consacrazione, mentre la seconda parte coi vv. 4-11 delinea il contenuto della predicazione.

La prima parte, introdotta dall'evocazione dello Spirito divino, presenta due azioni del Signore strettamente congiunte e rivolte all'autore stesso (mi ha unto - mi ha mandato). Tutta l'attenzione è così incentrata sulla missione del profeta che viene descritta con una successione lineare di sette infiniti, i quali nell'originale ebraico hanno la stessa forma grammaticale, tale da richiamare un insieme completo e organico:

  1. a portare una buona notizia ai poveri,
  2. a fasciare i contriti di cuore,
  3. a proclamare la libertà ai detenuti ...
  4. a proclamare l'anno gradito al Signore, ...
  5. a consolare tutti gli afflitti,
  6. a rallegrare gli afflitti di Sion,
  7. a dare loro ...

Il settimo elemento, vertice dell'elenco, viene ampliato con un nuovo elenco dalla struttura ternaria che annuncia un profondo cambiamento, contrapponendo tre realtà negative ad altre tre realtà positive:

  1. corona invece di cenere,
  2. olio di letizia invece di lutto,
  3. abito di lode invece di spirito abbattuto.

Questa prima parte, inoltre, è segnata dall'inclusione con la parola spirito: «Lo Spirito del Signore Dio ... - uno spirito (4) abbattuto».

L'ultima espressione del v. 3 ha un ruolo strutturale di collegamento fra le due parti: conclude la prima, riprendendone alcuni elementi linguistici evidenti in ebraico, con la proclamazione del nome nuovo che verrà dato alla comunità fedele ed introduce la seconda, anticipandone il tema della giustizia e l'immagine vegetale del germoglio rigoglioso.

La struttura della seconda parte è più complessa ed elaborata. Innanzi tutto possiamo riconoscervi tre sezioni, distinte da quella centrale che si differenzia nettamente dalle altre, perché introduce direttamente un oracolo divino:

l a sezione: vv. 4-7 (la novità della ricostruzione);
2a sezione: v. 8 (l'oracolo divino di conferma);
3 a sezione: vv. 9-11 (la gioia della ri-creazione).

Alla brevità della sezione centrale si contrappongono le altre due, molto più sviluppate e strutturate in modo simmetrico. Infatti la prima e la terza sezione sono composte entrambe in modo concentrico, avendo al centro di ciascuna un elemento stilistico nettamente distinto e agli estremi degli interessanti collegamenti linguistici: nel primo caso la distinzione è determinata dal passaggio dalla terza alla seconda persona, per ritornare alla terza, con il collegamento dato dal concetto di eternità ('ôlam); nella terza sezione, invece, al centro si pone chiaramente l'oracolo in prima persona dell' autore stesso, che si differenzia dagli altri due brani collegati dal concetto di seme (zera '),

Cerchiamo di chiarire l'insieme con uno schema di struttura:

1 a sezione:

v. 4 (essi) «costruiranno rovine perenni ... »
vv. 5-6 (voi) «sarete chiamati sacerdoti del Signore ... »
v. 7 (essi) «avranno una gioia perenne»

2a sezione: v. 8 (centro: oracolo divino)

3 a sezione:

v. 9 (essi) «sarà conosciuto il loro seme ... »
v. 10 (io) «gioisco nel Signore ... »
v. 11 (essi) «come la terra fa germogliare i semi ... »

Anche se si tratta, come dicono alcuni studiosi, di una composizione redazionale in cui sono confluite diverse unità bisogna tuttavia riconoscere che il redattore ha saputo organizzare sapientemente questo materiale, dando all’insieme una forma artistica, capace di aiutare a comprendere l'insegnamento teologico.

«Il Signore mi ha unto»

Il poema inizia con un'espressione solenne e potente: «Lo Spirito del Signore Dio (è) su di me». L'autore parla di sé e non esita a presentarsi in stretta relazione con l'azione di Dio ed il suo spirito (ruach): la formula adoperata crea un collegamento tematico con i canti del Servo, ma si richiama anche la profezia pre-esilica, per risalire fino alle più arcaiche manifestazioni d profetismo nel mondo biblico. Nell'oracolo di investitura, che chiamiamo primo canto del Servo, il Signore presenta il suo eletto, dicendo: «Ho posto mio spirito su di lui» (Is 42,1); il profeta Michea si contrapponeva ai ciarlatani del suo tempo rivendicando per sé l'autentica rivelazione divina: «Mentre io sono pieno di forza con lo spirito del Signore, per annunziare a Giacobbe le sue colpe» (Mic 3,8). In linea con questi testi l'autore di Is 61 presenta stesso, proclamando solennemente di essere l'inviato di Dio e, quindi, implicitamente si distingue da altri e sostiene di essere portatore della parola divina, come aveva cantato Davide («Lo spirito del Signore parla in me, la sua parola è sulla mia lingua»: 2 Sam 23,2) e come si raccontava dell'antico Balaam («Allora lo spirito di Dio fu sopra di lui»: Nm 24,2).

Come può affermare questo con tanta sicurezza? Lo dice egli stesso: «Perché il Signore mi ha unto». L'autore, infatti, interpreta il dono dello Spirito con I categoria sacerdotale dell'unzione: egli è stato consacrato con l'olio e, quindi, risulta evidente che lo Spirito si sia posato su di lui. Se nell'antichità Israele l'unzione era caratteristica soprattutto del re, dopo la fine della monarchia divenne prerogativa esclusiva del sacerdozio e l'unzione del somm sacerdote era sentita come un evento «sacramentale» di grazia che segnava l'inizio di una funzione importantissima ed assomigliava all'intronizzazione del re (cf Es 29,7; 30,22-33). In ebraico si adopera il verbo mašach, che ha dato origine al termine messia, cioè «unto»: quello che era un titolo tipicamente regale, nel posi-esilio diviene attributo sacerdotale. «È dunque un messianismo sacerdotale quello che porta la speranza del popolo per dargli gioia, liberazione, conforto e giustizia. In quest'epoca travagliata in cui c'è tutto d rifare, l'unzione del sommo sacerdote è gravida dell'avvenire radioso promesso alla città e al popolo in funzione della loro alleanza». (5)

Secondo l'antica tradizione religiosa il compito principale del sacerdote israelita doveva essere quello di osservare la divina parola e custodire la sua alleanza per insegnare i decreti e la legge di Dio a Israele (cf Dt 33,10): fedele a tale compito, il sommo sacerdote, autore di questo poema, ha presentato stesso come investito dallo Spirito di Dio e consacrato profeta, cioè portavoce di Dio in quanto sacerdote, suo mediatore per realizzare concretamente quelle circostanze storiche il progetto divino di salvezza e di giustizia. Egli si è sentito intimamente investito di questa missione e così ha delineato il programma del suo pontificato.

«Mi ha mandato a portare una buona notizia»

Il profeta-sacerdote indice il grande giubileo. Secondo la tradizione sacerdotale, codificata in Lv 25, l'anno cinquantesimo, ancor di più dell'anno sabbatico, doveva essere caratterizzato dalla remissione dei debiti, dalla restituzione delle terre e dalla liberazione degli schiavi: probabilmente queste norme non furono mai osservate realmente nell'epoca monarchica e rimasero come un'indicazione ideale di giustizia. Dopo l'esilio, quando la terra perduta ritorna in possesso di Israele, il profeta-sacerdote riconosce come segno dei tempi l'intervento di Dio per fare davvero giustizia: a nome suo, quindi, proclama «l'anno gradito al Signore, un giorno di rivendicazione per il nostro Dio». Questo compito occupa proprio la posizione centrale dei sette infiniti che esprimono la missione dell’autore: l'anno gradito è spiegato con l'espressione giorno del Signore, divenuta nel linguaggio profetico un termine tecnico per indicare il momento escatologico, vertice della storia della salvezza, in cui Dio realizzerà finalmente le sue promesse, punendo i traditori e premiando i fedeli. In questo senso si parla di vendetta (in ebraico naqam): noi, però, potremmo usare, come termine corrispondente e più comprensibile, rivendicazione. Il profeta, cioè, annuncia che il Signore sta intervenendo per realizzare concretamente nella storia gli impegni dell'alleanza, rivendicando i propri diritti: chi si è messo contro di lui ne avrà un grave danno, mentre per chi gli è rimasto fedele si tratterà del momento buono della retribuzione.

Questa è la buona notizia che egli è incaricato di portare al popolo. Il verbo ebraico bisser, reso in greco dai LXX con euangelìzesthai, è entrato nella tradizione cristiana ad indicare il «vangelo», la buona notizia per eccellenza, cioè l'intervento salvi fico di Dio: l'antico autore, consacrato con l'unzione, ha espresso con questo verbo il suo compito di annunziare l'opera del Signore che cura, libera, consola e rallegra.

Destinatari della buona notizia sono i poveri (in ebraico: 'anawîm), i prigionieri, gli afflitti. Non si tratta dei deportati in Babilonia, ma di quelli che sono già rimpatriati; tuttavia non è chiaro se l'autore, adoperando le immagini del giubileo, intenda proclamare un concreto intervento socio-amministrativo a favore dei diseredati, oppure voglia annunciare con delle metafore che la presenza del Signore determinerà un profondo rinnovamento nella misera condizione del suo popolo. (6) Il riferimento ai contriti di cuore orienta verso questa seconda ipotesi: l'espressione, infatti, appartiene al linguaggio religioso dell'autentico pentimento e la ritroviamo, ad esempio, nel salmo Miserere: «Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore contrito e umiliato, Dio, tu non disprezzi» (Sal 51,19). Il popolo degli esuli ritornati riconosce che alla radice della propria miseria c'è l'infedeltà all'alleanza ed il peccato che li tiene prigionieri; a chi ne prova un vivo dolore ed aspira all'autentica liberazione il profeta annuncia la buona notizia del cambiamento.

L'intervento di Dio che capovolge la situazione viene presentato con tre immagini poetiche di radicale sostituzione. La situazione presente è caratterizzata dalla cenere, il lutto e lo spirito abbattuto: tipici elementi di una liturgia penitenziale con cui il popolo ammette con dolore il proprio peccato. All'atteggiamento di chi riconosce la propria povertà Dio risponde con doni simbolici e liturgici, che caratterizzano la consacrazione sacerdotale: la corona, l'olio di letizia e l'abito di lode. (7) L'autore ha trasfigurato il rito della propria consacrazione come un simbolo capace di esprimere il rinnovamento di tu il popolo (8) ed è di notevole importanza l'inclusione letteraria che segna la p ma parte: allo Spirito di Dio dell'inizio si contrappone lo spirito umano abbattuto del finale. Il richiamo linguistico serve a creare un contrasto di immagini per sottolineare un messaggio teologico: «La parola del profeta scaturisce dallo spirito di Dio; perciò essa sviluppa la potenza che libera lo spirito umano dall'oppressione e lo innalza alla gioia della lode divina. Nella lode lo spirito dell'uomo sperimenta il giubileo dell'amore fedele e misericordioso del Signore e quindi riscopre le grandi possibilità della sua libertà». (9)

«Voi sarete chiamati sacerdoti del Signore»

Ai poveri di Sion il profeta-sacerdote attribuisce un nome nuovo: «Querce di giustizia, piantagione del Signore per manifestare la sua gloria» (61,3b). Nel passato di Israele c'erano stati giardini idolatrici e culti cananei della fecondità caratterizzati da alberi sacri: ora il popolo stesso, perdonato e rinnovato, viene designato con le immagini vegetali. Il resto fedele di Israele è la stirpe, cioè il seme, che YHWH ha benedetto e sarà proprio quello il seme che il Signore farà germogliare come giustizia e lode al cospetto di tutte le nazioni. Gli Israeliti sono detti «alberi di giustizia», in quanto appartengono al Signore, che è il Giusto, e sono stati piantati da lui per rendere gloria a lui, cioè per mostrarne nel mondo la presenza potente e operante; sono il germoglio «legittimo» a cui il Signore darà fecondità con la sua benedizione. Questa serie di immagini apre la strada alla grande affermazione teologica che segna uno dei vertici della seconda parte: «Voi invece sacerdoti del Signore sarete chiamati, ministri del nostro Dio si dirà a voi» (61,6a). A chi è rivolta questa parola? Enigmatico, infatti, è il cambiamento dalla terza alla seconda persona. Grelot pensa che il sommo sacerdote restringa il discorso a Israele, rivolgendosi solo ai suoi colleghi sacerdoti; (10) ma, data l'assenza di indizi testuali che giustifichino il cambiamento di destinatari, si può ritenere che l'autore sacerdote intenda estendere al popolo intero le caratteristiche sacerdotali. Sembra infatti, descrivere un utopico cambiamento sociale: gli Israeliti lasceranno lavori agricoli e pastorali agli stranieri per svolgere solo compiti sacerdotali «Si suppone che i pagani convertiti al monoteismo riconoscano la preminenza spirituale degli Israeliti, equiparati per la loro intimità con YHWH ai sacerdoti» (11) ma probabilmente l'autore teologo vuol dire di più. Egli vede il popolo eletto come autentico mediatore fra Dio e il mondo intero; immagina che il compito di Israele sia quello di creare comunione fra gli stranieri e YHWH; annuncia che sarà il Signore stesso a far germogliare il seme di Israele perché tutti i popoli possano unirsi alla sua lode.

«Mi ha rivestito delle vesti di salvezza»

L'oracolo divino che l'autore introduce improvvisamente al v. 8 offre la garanzia di realizzazione ed avanza l'impegno che Dio si assume di stipulare un'alleanza eterna: sulla scia di Ger 31 ed Ez: 36, anche il nostro autore esprime la convinzione di un intervento futuro del Signore per stringere un nuovo e definitivo rapporto di amicizia e comunione con il suo popolo. Proprio la dimensione sacerdotale ne costituisce l'elemento portante ed il simbolo sponsale ne esprime la carica esistenziale.

L'altro vertice della seconda parte, infatti, riprende con le immagini dei paramenti sacerdotali il tema della consacrazione: il profeta irrompe nell'insieme delle promesse con un grido di giubilo personale e, nello stesso tempo, si fa voce dell'esultanza sponsale di tutto il popolo. Le «vesti di salvezza» ed il «manto di giustizia» sono simboli festivi della dignità sacerdotale e rimandano al rito solenne di investitura: ancora una volta l'autore ripropone la scena della propria consacrazione come chiave simbolica di lettura per la situazione presente. Nella sua persona, infatti, il popolo riscopre la propria condizione di «sposa per il Signore» e l'immagine liturgica dei paramenti sacri evoca le tanto desiderate nozze con YHWH, dopo i tremendi anni del tradimento e dell'abbandono.

«Il passaggio sfumato dalla proclamazione del messaggero alla descrizione della salvezza ci fa vedere come il profeta, prima di scrivere, abbia meditato sul suo compito e sul modo di descriverlo. Si tratta, per quanto ne sappiamo, dell'ultima volta che nella storia di Israele il profeta esprime con tanta libertà e sicurezza la certezza di essere inviato da Dio a portare un messaggio al suo popolo». (12)

«Oggi, questa profezia si è adempiuta!»

Questa antica teologia sacerdotale si ritrova in modo altamente significativo all'inizio del ministero pubblico di Gesù: nella sinagoga di Nazaret egli, leggendo il testo di Is 61, lo proclama realizzato nella propria persona (Lc 4,14-21). Se è vero che Isaia ha aiutato a comprendere il ruolo del Messia nella storia della salvezza, è altrettanto vero per noi cristiani che la vicenda di Gesù Cristo ha permesso di capire in pienezza le parole dell'antico profeta. La stessa presenza di Gesù, in quanto Figlio di Dio, inaugura l'anno di misericordia del Signore ed annuncia l'euangelion della salvezza. La sua missione è proprio quella di proclamare la beatitudine ai poveri, agli afflitti, ai puri di cuore: egli si presenta come colui che libera i prigionieri e perdona i peccatori, capovolgendo in modo radicale la condizione dell'uomo. In lui si realizza l'autentica mediazione sacerdotale e grazie a lui si celebrano le nozze dell'eterna comunione fra Dio e l'umanità. Nel suo sangue il Signore ha stipulato l'eterna alleanza con il suo popolo e lo ha costituito come «organismo sacerdotale», perché sia sacramento di salvezza per il mondo intero.

(da Parole di Vita, n. 6, 1999)




1) P. GRELOT, «Sur Isaie LXI: la première consécration d'un grand-prètre», in Revue Biblique 97 (1990), 414-431.
2) La genealogia del sommo sacerdote Giosuè, ritornato da Babilonia col discendente davidico Zorobabele, si trova nel libro di Neemia (12,1-26).

3) Alcuni autori ritengono che il v. 10 sia fuori posto e lo spostano; penso tuttavia che l'insieme possa spiegarsi così com'è, senza bisogno di interventi di ristrutturazione. Il v. 7 risulta di difficile traduzione e si rende in genere a senso, giacché deve essersi verificato qualche corruzione nella trasmissione del testo: nella LXX ne manca metà! La traduzione che adopero è quella ufficiale italiana, ma con diversi ritocchi per rendere più fedelmente l'originale ebraico. 4) La traduzione italiana parla di «cuore», ma in ebraico c'è lo stesso termine ruach, cioè «spirito», che si trova all' inizio del v. 1.

5) H. CAZELLES, Il Messia della Bibbia, Roma 1981, p. 135.

6) «L’autore sta parlando di una restaurazione che deve avvenire in patria e che si apre al futuro. Essa comprende due elementi paralleli e complementari: all’interno deve trionfare la giustizia nelle relazioni civili, all’esterno devono cessare le ingiustizie e le oppressioni contro i giudei.» (L. ALONSO SCHÖKEL – J.L. SICRE DIAZ, I profeti, Roma 1984, p. 418)

7) Il termine ebraico tradotto con «corona» è pe'er, reso in greco con mitra, e designa un copricapo liturgico sacerdotale; inoltre offre un interessante gioco linguistico con la parola “cenere” che è 'eper. Lo stesso termine ritorna al v. 10 per indicare la corona simbolica dello sposo (non diadema!). L'espressione «olio di letizia» ricorre anche in Sal 45,8 per designare la consacrazione del re ed orienta ad un significato liturgico. Infine non si capisce perché il testo italiano parli di «canto di lode», quando l'ebraico adopera un termine che indica l'abito (in greco: katastolé, in latino: pallium).

8) Una scena simbolica di vestizione del sommo sacerdote Giosuè si trova nel libro del profeta Zaccaria (3,1-7), che con tale visione intende proprio significare il cambiamento della situazione dopo l'esilio.

9) G. ODASSO, «Isaia», in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato 1995, p. 1789.

10) P. GRELOT, «Sur Isaie LXI», p. 423: «La suite, dans le discours en vous, est evidedemment adressé aux membres du sacerdoce qui l’entourent».

11) S. VIRGULIN, Isaia, Roma 1977, p. 405.

12) C. WESTERMANN, Isaia. Capitoli 40-66, Brescia 1978, p. 438.


IL GIUBILEO

di Giuseppe Dell'Orto

Nel testo della vocazione di Terzo Isaia (Is 61,l-3a) si legge questa espressione letterale: «per proclamare ai detenuti l'amnistia e ai prigionieri la liberazione» (Is 61,l). Ora tale espressione trova un parallelo terminologico in Levitico 25,10: «Santificherete il cinquantesimo anno e proclamerete l'amnistia su tutto il paese per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo: ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia».

Inoltre, l'anno di grazia del Signore (Is 61,2) si riferisce alla grazia dell'amnistia e alla istituzione del riscatto (ghe 'ullah). Dunque, il Terzo Isaia considera il Signore come il vero Go'el, il Redentore, che opera il riscatto con la stessa modalità con la quale era stato annunciato dall' anno giubilare.

È il testo di Levitico 25,8-55 quello che presenta dettagliatamente le norme e il senso dell'anno giubilare. Diciamo, subito, che il termine «Giubileo» viene fatto derivare dall'ebraico jobel (che compare 27 volte), che sta per «il corno dell'ariete»: nel decimo giorno del mese di Tishri - ossia nel giorno della espiazione - veniva proclamato l'anno giubilare mediante il suono del «corno dell'ariete».

Il termine, però, può essere spiegato anche diversamente. Non mancano Autori che, rifacendosi al verbo jbl (= restituire, mandar via), sostengono che jobel si riferisca semplicemente alla restituzione delle persone o delle cose. Su tale base si spiega anche la scelta della LXX di rendere sempre jobel con afesis, cioè «remissione, rinvio, liberazione».

Vi è anche un terzo modo di spiegare il termine: poiché uno dei motivi teologici principali del «Codice di Santità» (Lv 17,1-26,16) è rappresentato dal riconoscimento di JHWH come unico Signore, jobel sarebbe la sintesi di una breve professione di fede che riconosce JHWH (prefisso Jo-) come il Bahal (= bel), vale a dire come il vero Signore e padrone. Non a caso la legislazione dell'anno giubilare inizia e si conclude con l'affermazione «Io sono il Signore vostro Dio» (Lv 25,17.55).

Il lungo brano di Lv 25,8-55 presenta sei microunità letterarie, così distribuite:

  1. data e celebrazione del giubileo (vv. 8-12)
  2. compravendita dei terreni (vv. 13-17)
  3. il riposo della terra (il maggese: vv. 18-22)
  4. il riscatto della terra (vv. 23-28)
  5. il riscatto delle case (vv. 29-34)
  6. il riscatto delle persone (vv. 35-55).

Al centro, dunque, della celebrazione dell'anno giubilare si trovano la persona, la famiglia e la terra con i loro diritti di sopravvivenza: appartengono al Signore e non possono diventare proprietà di nessun altro. Poiché l'anno giubilare è un anno «santo» (qadosh), attraverso la tutela delle persone e delle terre si diventa partecipi della santità di Dio, prima che mediante lo stesso culto riservato al Signore.

L'autore del libro del Levitico sembra dire che questa rappresenta la via principale per «diventare santi come Dio è santo» (Lv 19,2).

Edotta dalla disastrosa esperienza monarchica, quando fattori economici e sociali causarono gravi disordini e provocarono la catastrofe dell' esilio babilonese, la corrente sacerdotale del postesilio propose per il futuro un sistema ottimale, che si doveva realizzare in una società fraterna governata secondo il principio religioso, che Israele è unicamente servo di Dio.

Più che un testo legislativo di un'epoca passata, le prescrizioni giubilari sono un documento profetico avente una prospettiva escatologica.

I precetti dell'anno giubilare restarono in gran parte una prospettiva ideale, più una speranza che una realizzazione concreta, divenendo peraltro prophetia futuri, in quanto preannuncio della vera liberazione che sarebbe stata operata dal Messia.

Gesù, nella sinagoga di Nazaret, annuncerà l'«oggi» del compimento dell'«anno di grazia» (Lc 4,16-30).


«Consolate il mio popolo» (Is 40,1-11)

di Benito Marconcini




Il Secondo Isaia inizia con un prologo solenne che, mentre segna uno stacco netto con la tematica e il linguaggio dei capitoli precedenti, racchiude in sintesi i grandi temi dei cc. 40-55 che dalle prime parole sono stati chiamati «Libro della consolazione». L'introduzione tende a convincere il popolo sulla fine dell'esilio e sull'imminente ritorno in patria, verità che le cinque parti del libro progressivamente e in modo organico cercano di dimostrare: (1) i numerosi imperativi «consolate», «parlate», «preparate», hanno l'obiettivo di vincere ogni dubbio e incertezza sul realizzarsi dell'evento. Predomina il tema della Parola (2) (dire, parlare, gridare, voce, rispondere, parola, liete notizie, annunziare) ripreso inclusivamente alla fine del libro (55,10-11). La Parola risuona in un orizzonte cosmico che ne rivela il dinamismo.

Essa infatti parte dal cielo (v. 1) scende nel deserto (v. 3) testimone di eventi meravigliosi (v. 4) e di episodi di debolezza (v. 6), è udita sul monte alto (v. 9), prolunga il suo effetto in Gerusalemme, dove il Signore sta guidando, con forza (v. 10) e come un pastore (v. 11) il suo popolo. Il brano si snoda in quattro parti: fine della schiavitù babilonese (vv. 1-2), attraversamento del deserto (vv. 3-5), riflessione sulla fragilità umana (vv. 6-8) pellegrinaggio verso Gerusalemme (vv. 9-11) sostenuto da una certezza: «Il Signore Dio viene con potenza». Seguiamo le quattro parti, introdotte da Dio e da tre voci imprecisate, con uno sguardo alla ripresa della tematica nei capitoli seguenti.

Consolate il mio popolo

Questo imperativo include tutti i valori espressi nel prologo: la consolazione comporta infatti l'attraversamento del deserto, la sicurezza del permanere della Parola anche dopo la distruzione del popolo e la necessità dell'annuncio a Sion sul ritorno del Signore. La completezza del discorso richiederebbe anche l'ordine di partire, rimandato alla fine: «Fuori, uscite di là, uscite da Babilonia, purificatevi» (52,11). Tra i due ordini sta la predicazione del profeta che nel partire vede l'inizio della consolazione. La mancata identificazione degli esecutori dell'ordine (chi deve consolare? I profeti? I sacerdoti? Gli spiriti celesti?) dà risalto al messaggio stesso.

Il verbo «consolare» supera il pronunciare parole di affetto e di solidarietà e comporta la trasformazione di una situazione: la morte diventa vita, il dolore gioia, la disperazione speranza e - come qui - l'esilio si apre al ritorno in patria. Soggetto della consolazione è infatti Dio, anche quando ad agire immediatamente sono i suoi inviati. «Consolare» assume così il significato anche di «avere misericordia». «Questa concezione spiccata si trova ovunque quando YHWH stesso è il consolatore, perché nel suo volgersi alla consolazione Dio rinnova la comunione di grazia con colui dal quale si era allontanato nell'ira» (Is 12,1). L'incoraggiamento e l'aiuto divino che rendono concreta la trasformazione della situazione ritorna più volte nel Secondo Isaia. «Consolare» (nhm), in parallelo con «aver pietà» (riham: 49,13), esprime la trasformazione del deserto in Eden, della steppa in giardino, l'improvvisa comparsa in Sion di giubilo, gioia, ringraziamento, lode (51,3), (3) la liberazione del popolo dalla paura degli uomini (51,12), la sottrazione a una schiavitù presente nel parallelo «consolare il popolo/riscattare (gā' al) Gerusalemme» (52,9). Il verbo assume anche il senso debole di compatire (51,19; 54,11), non mai disgiunto dall'amore divino (54,10). «Il v. 1 è in germe per forma e contenuto la buona notizia del Deuteroisaia». (4)

Questo è confermato dalla triplice motivazione presente nel resto del versetto che dà contenuto e consistenza alla consolazione. I rapporti tra Dio e il popolo, turbati dall' esilio, sono stati ristabiliti, come chiarifica l'espressione «mio popolo/vostro Dio», evocatrice della tradizionale formula del patto «voi siete il mio popolo e io sono il vostro Dio», usata anche da Geremia per annunciare la «nuova alleanza» (Ger 31,31-34), inclusiva anche del ritorno in patria (cf Ger 31,41; Ez 36,24.28). Il ritorno comporta la fine della schiavitù, cioè quel lavoro faticoso, quel servire stressante e continuo che è stato l'esilio conseguente al debito contratto con Dio. Questo parallelismo, cioè la qualifica dell'esilio come lavoro forzato e come debito, pone il Secondo Isaia in continuità con i profeti precedenti: c'è stata una colpa del popolo (cf 50,1), le cui conseguenze finiscono quando Dio decide di condonare il debito con un perdono incondizionato. È sempre l'iniziativa di Dio a produrre cambiamenti nella storia, come afferma l'espressione «doppio castigo» per qualificare l'esilio. Pur dovuto ai peccati, il tempo del lavoro forzato appare eccessivo all'amore di Dio, impegnato in prima persona. È alla città amata che Dio parla come si fa con la sposa, l'amico, il fratello rivolgendosi a quella sede dei pensieri, della volontà, dei sentimenti, della vita morale, a quella radice delle decisioni, all'io profondo di ciascuno, che è il cuore.

Attraverso il deserto alla libertà

L'uscita da Babilonia e l'ingresso in Gerusalemme sono separati dal deserto, il cui attraversamento costituisce l'inizio della consolazione. Il mediatore di questa è lasciato volutamente imprecisato per far risaltare l'efficacia della Parola che non ritorna a Dio senza aver compiuto il suo desiderio (cf 55,11): «Nel deserto preparate la via del Signore / tracciate nella steppa una strada al nostro Dio».

Il tema della via è ripreso dall'esperienza di Babilonia, dove splendidi itinerari univano i palazzi reali con il tempio ed erano luogo di esaltazione della divinità. Qui la strada del Signore (meglio che al Signore) è preparata nel deserto che assume un duplice senso, geografico e teologico. Esso indica gran parte del vasto territorio tra le due capitali da affrontare con decisione e senza paura, poiché il popolo avrà come guida Dio stesso, capace di infondere più sicurezza di quella sperimentata dai padri nell'attraversare il Mar Rosso.

Questa tematica del secondo esodo sarà ripresa più volte nella profezia, sia paragonando la via del mare con quella del deserto (43,16.19), sia insistendo sul deserto rinnovato e fiorente (41,19-20; 48,21; 49,10-11). Il deserto è pertanto l'ostacolo perenne che si frappone ogni volta che si tratta di uscire da una schiavitù per entrare nella libertà, come nell'abbandonare l'Egitto per raggiungere la terra, Babilonia per entrare in Gerusalemme, o - come avviene nel terzo esodo - nell'uscire da se stessi per entrare nelle vie di Dio. (5)

L'attraversamento del deserto non è solo un segno della potenza divina, ma anche una tappa della storia salvifica. Come già la liberazione dalla schiavitù meridionale, dall'Egitto, anche la sottrazione alla tirannide settentrionale, a Babilonia, rivela il Dio di un popolo apparentemente sconfitto come il Signore della storia, i cui fatti egli predice perché capace di realizzarli. «I primi fatti, ecco sono avvenuti e i nuovi io preannuncio, prima che spuntino io li faccio sentire» (42,9; cf 41,4-4). Chiunque potrà vedere lo splendore divino racchiuso in quella presenza raggiante detta gloria (40,6) e constatare la conduzione amorosa del popolo verso la città.

Parola di Dio e realtà umana a confronto

L'insistenza sull'efficacia della Parola («la bocca del Signore ha parlato») apre un confronto con la fragilità umana, con la sfiducia e la depressione della gente incapace ad aprirsi all'annuncio della novità. «Veramente il popolo è come l'erba» riconosce la voce che invita all'entusiasmo e rivela il profeta solidale con il popolo. Sembra infatti proprio Dio la causa di questa situazione, come il vento caldo del deserto («il soffio del Signore») fa appassire il fiore. Il vocabolo hesed (bellezza/splendore, v. 6) esprime lo scoraggiante ripiegamento dell'uomo, così come kabôd (gloria/magnificenza, v. 5) aveva tradotto il raggiante apparire di Dio. È possibile - si chiede il profeta - unire le due realtà, la potenza divina e il fallimento umano? La possibilità risiede nell'efficacia della Parola che dinanzi al ripiegarsi di ogni realtà umana perdura, o meglio sta in piedi, si erge, producendo nella storia quel miracolo constatato nella natura che fa passare il fiore dalla morte dell'inverno allo splendore della primavera. «La Parola è la forza efficace che crea un momento imprevedibilmente nuovo nella storia, che dona vita dove regnava la morte, che consola chi è nella disperazione, che reca la presenza e la potenza di Dio, che chiude il passato di colpe e di castigo aprendo un futuro nuovo». (6) È la Parola la sola realtà che «tiene» davanti allo sgretolarsi dei poteri umani, anche degli attuali dominatori: dinanzi ad essa svanisce la differenza tra chi ha il potere e chi ne è privo, per cui gli esuli sono invitati ad aggrapparsi alla sola forza capace di ricondurli in patria. È una tematica che il Secondo Isaia richiama costantemente in sfumature diverse (44,24-28; 45,23-24; 50,4; 51,16) specialmente con la frequente espressione «così dice il Signore» (43,1; 44,6; 49,8; 50,1).

Il vangelo di Gerusalemme

Dopo la voce, è direttamente Sion/Gerusalemme, nella figura di una donna, a trasmettere alle altre città di Giuda la lieta notizia, dopo averla ricevuta per prima. Il termine usato è della più grande importanza: biśśar (evangelizzare).

L'annuncio che Dio sta venendo alla testa del popolo, considerato un trofeo di guerra, è la buona notizia, è «vangelo», (7) è certezza del ritorno a Gerusalemme. Il popolo quasi scompare dietro all'avvento del Signore, ritenuto tanto sicuro da essere considerato come già realizzato. «L'inno di lode al quale viene invitata Sion nei vv. 9-11 corrisponde alla forma letteraria, di importanza determinante nella predicazione del Deuteroisaia, dell'oracolo di salvezza, nel quale la liberazione promessa viene annunziata al passato, così che si viene a dire che la svolta causata da Dio è già avvenuta (40,1-2). Per questo l'oracolo di salvezza risuona anche alla lettera nell'invito a non avere paura, alla fine del v. 9». (8)

Il volto di Dio presenta in questi ultimi versetti due aspetti diversi e complementari. Esprime fortezza e decisione: «Il Signore Dio viene con potenza, con il braccio egli detiene il dominio» (v. 10). D'altra parte l'immagine del pastore presenta un volto pieno di tenerezza, attento alle necessità della singola persona con vocaboli toccanti: pascolare, radunare, agnellini, seno, piano piano, pecore madri. È un Dio che si fa vicino, per il quale il tutto esiste nel singolo, che si sente considerato nei propri bisogni, sostenuto e reso capace di camminare.

Conclusione

Is 40,1-11 è un prologo nel senso di introduzione e sintesi del Libro della consolazione sotto un quadruplice aspetto.

Letterariamente anticipa gran parte del vocabolario ripreso e sviluppato in tutti i capitoli, specialmente il linguaggio relativo alla Parola e fa largo uso dell'esortazione presente in modo particolare nei numerosi imperativi.

Teologicamente richiama un fatto, la presenza efficace del Signore nella storia, capace di superare ogni ostacolo, anche l'esilio definito con due categorie complementari, come duro servizio e conseguenza di un peccato: l'effetto prodotto dall'agire divino mediante la Parola è considerato «consolare» ed «evangelizzare». Il volto di Dio caratterizzato nei sedici capitoli con 23 titoli e 63 verbi riceve già qui una prima delineazione: è il Dio del patto, giusto e misericordioso, pieno di gloria e potenza, pastore forte e tenero, che ha scelto il suo popolo.

Da un punto di vista storico-salvifico questo prologo unisce, rileggendole, precedenti tradizioni come quelle relative all'alleanza, al deserto, alla Parola, alla teofania, a Sion/Gerusalemme, a Dio pastore (cf Ger 23; Ez 34) e prepara testi come le riflessioni sulla gloria divina, l'immagine di Dio pastore (cf Gv 10), la tematica della consolazione (cf il libro di Zaccaria), la concezione dell' evangelizzare.

Antropologicamente il prologo, con l'insistenza sull'efficacia della Parola, si rivolge ad ogni uomo che patisce una qualsiasi forma di esilio: oppressione politico-religiosa, esperienza della propria incapacità, difficoltà per un coerente cammino spirituale. L'uomo in ascolto della Parola è condotto a scegliere tra le apparenze ingigantite dalla propaganda e l'umile offerta di una Parola che nasconde la sua potenza nella povertà della fede e sfugge a evidenti verifiche umane, anche se quelle che offre sono sempre significative.

Per ritrovare qualcosa che assomigli a Is 40,1-11 bisognerà attendere il prologo giovanneo (Gv 1,1-18), introduzione e sintesi del quarto Vangelo.

(da Parole di Vita, 4, 1999)

Note

1) B. MARCONCINI, «La salvezza contemplata dal Secondo Isaia», in La Parola diventa preghiera. Parola, Spirito e Vita 25, EDB, pp. 53-57.

2) B. MARCONCINI, Il libro di Isaia 40-66 (Guide Spirituali all'Antico Testamento), Città Nuova, Roma 1996, pp. 33-39.

3) In 51,3 il verbo è tradotto nella Bibbia CEI ambedue le volte con «aver pietà» a differenza della più esatta e comune traduzione «consolare, confortare» e di quella più immediatamente comprensibile «mostrare bontà» de «La Bibbia in lingua corrente».

4) K. ELLIGER, Deuterojesaja (40,1-45,7) (BK.AT XI,1), Neukirchener Verlag, Neukirchen/Vluyn 1989, p. 13.

5) A. SPREAFICO, «Il terzo-esodo: schemi e immagini», in Rivista Biblica 28 (1980), pp. 129- 6) A. BONORA, Isaia 40-66. Israele: servo di Dio, popolo liberato (LoB 1,19), Queriniana, Brescia 1988, p. 32.

7) Il testo isaiano è tra i più importanti che hanno contribuito a dare il senso forte al termine «vangelo/evangelizzare» proprio degli scritti neotestamentari. Cf B. MARCONCINI, I Vangeli Sinottici. Formazione - Redazione - Teologia, San Paolo, Cinisello B. (MI) 1977, pp. 6-10. Il testo ebraico propende per una identificazione tra colei che annuncia e Sion/Gerusalemme, a differenza della traduzione CEI.

8) C. WESTERMANN, Isaia - Capitoli 40-66, Paideia, Brescia 1978, p. 61.
Lunedì, 30 Novembre 2009 23:25

Il tempo di Avvento

Ogni anno, la conclusione del ciclo liturgico invita a innalzare lo sguardo verso l’orizzonte ultimo della storia: il compimento del tempo e il giudizio finale che attende tutti gli uomini, la pedagogia della Chiesa prepara in tal modo, quasi senza soluzione di continuità, la liturgia dell’Avvento:

Martedì, 04 Dicembre 2007 23:04

I Nirvana del buddismo (Laurent Deshayes)

Se per il Buddha Shakyamuni, il nirvana è al di là di ogni concetto, dunque di ogni formulazione, le dispute interne hanno sempre animato gli ambienti religiosi. Allora, liberazione spirituale, totale, più ampia, più globale, o più ristretta?

Fasi della cultura europea d'oltralpe 
Conclusione


Abbiamo richiamato alcuni punti costanti di riferimento che hanno determinato la cultura d'oltralpe. Già Gasparo Contarini aveva sostenuto, in anteprima ma senza successo, la necessità del dialogo con i luterani. I tempi erano molto difficili e immaturi.

Lutero, Calvino e Zwingli avevano parlato di un "uso civile della legge", di una "religione pubblica" e di una "religione civile" validi per tutti, credenti e non credenti.

Sotto sotto si nascondeva il "socialismo ginevrino", quello della "città delle api" (a detta di Voltaire), che travasato e tradotto nel mondo laico si riassumeva, secondo Ugo Grozio fondatore del diritto internazionale, nella formula Etsi Deus non daretur. Bisognava cercare il più ampio consenso possibile e poi stare ai patti.

Kant aveva un occhio attento alla rivoluzione francese ed è considerato il filosofo del protestantesimo. Stabilì rigidamente i limiti della ragione che non ammettono travalicazioni verso il "soprannaturale" (diverso dal soprasensibile) e verso ogni sorta di metafisica di tipo aristotelico.

S. Kierkegaard non lesinava le sue critiche alla religiosità contemporanea perché senza il "paradosso" e il "salto" della fede si distruggono le basi stesse del cristianesimo.

Intanto nell'emisfero nord proliferano gli orientamenti socialisti che si sviluppano rapidamente e richiamano anche l'attenzione del modernismo cattolico. La teologia di K. Barth e di P. Tillich, che si pone come superamento della crisi della società borghese, ha una sua forte componente attenta al socialismo e alle esigenze del proletariato. Infine la prima metà del XX secolo si chiude con la testimonianza del martire D. Bonhoeffer in favore di un "cristianesimo adulto".

E Karl Barth? È certamente il teologo più conosciuto del nostro tempo. È difficile ignorarlo perché si presenta continuamente all'attenzione dei pensatori più avvertiti di tutte le confessioni cristiane. In realtà Barth è il filo rosso che costituisce il contributo offerto con queste pagine a chi si avvicina all'università. Come riassumerlo in poche righe?

1 - Dogmatica. "La cristologia deve occupare tutto lo spazio della teologia... è tutto o è nulla" (1954). Al cogito ergo sum (penso e quindi sono) di Cartesio, Barth contrappone il cogitor ergo sum (sono pensato quindi sono) della rivelazione biblica.

2 - Ecumenismo. Barth auspicava, tra cattolici e protestanti (1957), il delinearsi di nuove prospettive "nella separazione all'interno della stessa fede fra coloro che credono in modo diverso, ma non in un altro". La divisione della chiesa è una impossibilità ontologica.

3 - Politica. Iscritto al partito socialista tedesco di Bohn (1933), Barth si considerava in sintonia con la Seconda Internazionale e mezzo per muoversi a sinistra dei socialdemocratici, ma senza piegarsi alla guida moscovita. (Helmut Gollwitzer, Regno di Dio e socialismo. La critica di K. Barth, Claudiana, Torino 1975, p. 84).


RENZO BERTALOT, pastore valdese, licenziato in Teologia presso la Facoltà Valdese di Roma, Maestro in Teologia e Dottore in Filosofia presso la McGill University di Montreal-Canada, fondatore e per molti anni direttore della Società biblica in Italia, uno dei pionieri dell'ecumenismo in Italia, è autore di numerose pubblicazioni, fra le quali ricordiamo: Necessità del dialogo ecumenico, Morcelliana, Brescia 1964; Il mandato protestante, Claudiana, Torino 1967; Ecumenismo protestante, Gribaudi, Torino 1968; Paul Tillich, AVE, Roma 1971; Verso una morale della responsabilità, Dehoniane, Bologna 1972; Oltre l'appartenenza. Meditazioni bibliche, Libreria Sacre Scritture, Roma 1989; Per dialogare con la Riforma, LIEF Vicenza 1989; P. Tillich: Esistenza e Cultura, Claudiana, Torino 1991; Dalla teocrazia al laicismo, Università di Sassari, Sassari 1993; Religione e Diritto, Pazzini, Verucchio (FO) 1996; Per una Chiesa aperta. L'eco di Kant nel mondo moderno, Ed. Fedeltà, Firenze 1999. Ecco la Serva del Signore. Una voce protestante, Ed. Marianum, Roma 2002.

Martedì, 04 Dicembre 2007 22:39

Alla speranza (Luciano Luisi)

Luciano Luisi (Livorno, 13 marzo 1924) è un poeta, scrittore e giornalista italiano.

Sabato, 01 Dicembre 2007 23:28

Il rifiuto della guerra (Aldo Capitini)

Il rifiuto della guerra

di Aldo Capitini

Una prova della difficoltà o impossibilità da parte del riformismo e dell'autoritarismo di formare il "nuovo uomo" è nel fatto che l'uno o l'altro sono diposti ad usare lo strumento guerra. Si sa che cosa significa, oggi specialmente, guerra e la sua preparazione: la sottrazione di enormi risorse allo sviluppo civile, la strage di innocenti e di estranei, l'involuzione dell'educazione democratica e aperta, la riduzione della libertà e il soffocamento di ogni proposta di miglioramento della società e delle abitudini civili, la sostituzione totale dell'efficienza distruttiva al controllo dal basso.

Tanta è la forza spietata che la decisione bellica mette in moto che essa viene ad assomigliare ad una delle terribili manifestazioni della "natura", le più assurde e crudeli e spietate, e certamente ora le supera in numero di vittime.

E' difficile pensare che la natura possa distruggere in pochi minuti tante persone quante ne distrusse la bomba atomica a Hiroshima, riducendone alcune a una semplice traccia segnata sul muro. E quella bomba era di forza molto modesta rispetto alle bombe attuali!

Il rifiuto della guerra è perciò la condizione preliminare per parlare di un orientamento diverso, e se vedianno l'antitesi tra la natura come forza e la compresenza come unità amore, è chiaro che la guerra aggrava la natura, la sorpassa nella sua distruttività, nella sua spietatezza rispetto ai singoli esseri, alla cui attenzione la compresenza richiama costantemente.

L'indipendenza dalle istituzioni che possono preparare ed eseguire la guerra è garantita dalla posizione di apertura alla compresenza. A poco a poco la tendenza rivoluzionaria verrà a schierarsi da questa parte. Vi sarà tuttavia un momento intermedio, che è quello della guerriglia. Ma c'è guerriglia e guerriglia. Quella che si appo ggia a Stati fornitori di armi e protettori, con ulteriori e massime minacce ai repressori della guerriglia; ma in tal modo la guerriglia non è che una manifestazione o pre-manifestazione della guerra, il suo surrogato in alcune zone, come gruppi di assalto o di rottura, senza che si realizzi un superamento della guerra e dei suoi inconvenienti detti sopra. O la guerriglia non si appoggia a nessuna potenza e a nessuna industria, e non si vede come possa - a parte il suo valore come espressione di rivolta, di sacrificio, di eroismo - avere probabilità di modificare una situazione dominata da un potere fornito di mezzi moderni di strage.

La ragione del pacifismo integrale non è soltanto il fatto evidente che la guerra, una volta accettata, conduce a tali delitti e a tali stragi, specialmente oggi, che è assurdo presumere di farla e contenerla; ma è la vita della compresenza che si sceglie, il suo accertamento, la sua costruzione, la sua celebrazione quotidiana. Mentre si lavora per migliorare continuamente il rapporto di comprensione e di sacrificio verso ogni essere, non si può interrompere tale lavoro e mutare l'apertura in chiusura.

Ma c'è anche uma ragione di carattere organizzativo. E' chiaro che bisogna arrivare a moltitudini che rifiutino la guerra, che blocchino con le tecniche nonviolente il potere che voglia imporre la guerra. L'Europa ha sofferto per non aver avuto queste moltitudini di dissidenza assoluta , per es. riguardo al potere dei fascisti e dei nazisti.

L'omnicrazia deve prender corpo anche in questo modo: nella capacità di impedire dal basso le oppressioni e gli sfruttamenti: ma questa capacità delle moltitudini ha il suo collaudo nel rifiuto della guerra, intimando un altro corso alla storia del mondo.

Se davanti alle forze della Natura non ci si è mossi con il programma che la lotta e la loro utilizzazione fosse per tutti, "fra sé confederati" diceva il Leopardi, si è persa la tensione di trovare il punto della trasformazione della Natura al servizio di tutti, come singoli: chi dà la morte, non può rimproverare la Natura di preparare la nostra morte. Questo collaudo è necessario, perché tutte le volte che gli individui si accontentassero di ottenere qualche cosa nell'ambito della Natura, dello Stato, dell'Impresa, perderebbero l'acquistato se travolti dalla guerra.

Se nello Stato la lotta contro il potere assoluto ha ottenuto il regime parlamentare, tuttavia è rimasta la guerra a impedire un ulteriore sviluppo democratico. Se nell'Impresa i lavoratori sono riusciti a progredire e perfino ad imporre le socializzazione, poi la guerra, e la sua preparazione, li ha messi alla mercé di un potere autoritario, tutt'altro che omnicratico.

(tratto da Aldo Capitini, Omnicrazia potere di tutti, in Il potere di tutti, Firenze, La Nuova Italia, 1969, pp. 66-68)

Sabato, 01 Dicembre 2007 23:16

Danilo Dolci

Biografia

Danilo Dolci



Nato a Sesana (Trieste) il 28 giugno 1924 da Enrico, impiegato nelle Ferrovie dello Stato e da Meli Kontely, di origine slava. Studia in Lombardia diplomandosi presso il Liceo Artistico di Breva ed iscrivendosi successivamente alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano.
Nel 1943 è arrestato, a Genova, dai nazifascisti e imprigionato riesce a fuggire. Si rifugia nelle montagne abruzzesi per raggiungere da lì, successivamente, Roma. Conosce don Zeno Saltini e condivide con lui per qualche tempo l'esperienza di Nomadelfia, una comunità di accoglienza ai bambini privi di genitori, nata a Fossoli nell'ex campo di concentramento nazista non lontano da Capri, in Emilia.
Il padre era stato capostazione a Trappeto, il paesino in Sicilia, in provincia di Palermo. Nel '52 Danilo decide di tornare proprio lì, per le immagini di estrema miseria del paese che gli erano rimaste fin da bambino. In quel paesino comincia a tentare percorsi per creare occasioni di lavoro e superare lo stato di disoccupazione della zona.

Sposa Vincenzina, una vedova povera con cinque figli, e da lei ne avrà altrettanti (tra cui Cielo, che diventerà più tardi uno dei più noti suonatori italiani di flauto dolce, Libera, poi insegnante di scuola materna e Amico).

Nell’area dei comuni che si affacciano sul Golfo di Castellamare, vicino a Palermo, nel corso degli anni ’50 e ’60, svolge un’attiva opera di intervento sociale per il riscatto delle società locali dalle condizioni di miseria e l’avvio di un’esperienza di sviluppo endogeno orientata verso forme di auto-organizzazione. I principi che informano la sua azione sono sostanzialmente quello della nonviolenza attiva - digiuni, scioperi alla rovescia, “pressioni” sociali etc. - e quello educativo, teso a innalzare il tenore di vita della comunità e a favorire lo sviluppo della cooperazione e di azioni solidaristiche, attraverso la ricerca di un dialogo costante con la società locale.

Nel 1952, quando fonda il Borgo di Dio, il banditismo era al tracollo, ma i tassi di violenza che si registravano nel territorio da lui prescelto per la sua azione, erano tra i più elevati d’Italia. Un bracciante o un pescatore guadagnavano 400 lire per una giornata di dodici ore di lavoro, quando si riusciva a trovarlo. Nel quartiere Spine Sante a Partinico, su 330 famiglie 319 non avevano acqua in casa, i due terzi delle case non avevano fognature, il tasso delle malattie mentali era elevato. Se nel quartiere della Via Madonna il banditismo era apparso come il rimedio naturale alla impossibilità di trovare delle vie legali alla sicurezza sociale della popolazione, a Spine Sante non si registrava neanche questo atteggiamento ribellistico. Qui regnavano le malattie endemiche e la follia. Emblematica di questa condizione di diffusa miseria è la sua prima inchiesta sociologica nella zona di Palermo, ripresa poi in Fare presto (e bene) perché si muore (La Nuova Italia, Firenze 1954).

I suoi metodi di lotta nonviolenta, contrassegnati da approdi concreti, diventano ben presto famosi: il 14 ottobre 1952 Danilo inizia il suo primo digiuno sul letto di un bambino morto per fame; nel novembre 1955 un secondo digiuno a Spinesante (Partinico), mira a sollevare il problema della diga sul fiume Jato. Nel corso delle sue ricerche Danilo aveva scoperto che, per migliorare la situazione agricola ed economica della zona, era stato fatto un progetto che, da molti anni, giaceva sepolto in qualche ufficio ministeriale: una diga sul fiume Jato. Essa avrebbe permesso di creare un bacino per irrigare i campi delle zone vicine, risolvendo così uno dei più gravi problemi della zona, dato che, a periodi brevi di forti piogge, che slavavano il terreno, succedevano periodi lunghissimi di siccità che rendevano, a propria volta, i terreni quasi improduttivi. Ma la mafia si era coalizzata contro il progetto, perché temeva potesse rivoluzionare l’assetto politico-economico della zona, e l’aveva fatto affossare. Solo col digiuno del 1962, che sarà seguito da una grande manifestazione popolare, riuscirà a scuotere le autorità che faranno riemergere il progetto dal fondo dei cassetti e autorizzeranno l'inizio dei lavori, alla cui realizzazione Danilo collabora, con i fondi del premio per la pace e di tanti comitati di amici nati in Italia e all’estero, organizzando, in varie zone, servizi di assistenza agricola che dovevano aiutare i contadini a passare da una agricoltura senza acqua ad una che sfruttasse i benefici dell’acqua incanalata. E' in questa occasione che Danilo ed i suoi collaboratori, hanno a che fare con la mafia, e Danilo riceve anche qualche minaccia.

In cella, conosce dei banditi che avevano fatto parte della banda di Giuliano. Da quell'esperienza, ha origine un altro libro: Banditi a Partinico (1955).

Nel ‘55 pubblica su Nuovi Argomenti, la rivista diretta da Moravia e Carocci, dei racconti autobiografici di ragazzi che vivevano negli ambienti degradati di Palermo, il lavoro preliminare di Inchiesta a Palermo. Dolci subisce dal Ministero degli Interni, presieduto da Tambroni, il ritiro del passaporto, con l'assurda motivazione di avere con le sue opere diffamato l'Italia all'estero, e un processo a porte chiuse, più che mai immotivato, per pornografia. Troviamo a difenderlo Carlo Arturo Jemolo, lo storico della Chiesa, e accanto a lui avvocati di grido, intellettuali, comuni cittadini. Per il libro Inchiesta a Palermo Dolci otterrà nel ‘58 il premio Viareggio e lo stesso anno il Premio Lenin per la pace, i proventi del quale verranno utilizzati nella fondazione del Centro Studi e Iniziative a Partinico.

Il 30 gennaio del 1956 si colloca il digiuno dei mille" sulla spiaggia di San Cataldo (Trappeto), seguito il 2 febbraio dello stesso anno dallo sciopero alla rovescia a Partinico, nel corso del quale Danilo stesso e qualche centinaio di contadini della zona, avevano occupato una vecchia "trazzera" (strada vicinale tra i campi) e avevano cominciato ad aggiustarla, per mettere in evidenza il fatto che i lavori da eseguire da parte della collettività erano tanti e che i contadini avevano il diritto a lavorare, diritto riconosciuto loro anche dalla Costituzione Italiana, all’art. 4. Molti di loro, per sottolineare il carattere di protesta nonviolenta, avevano fatto anche un digiuno. La loro richiesta era che lo Stato non si proponesse in Sicilia solo in funzione di poliziotto, ma piuttosto, col volto di assistente sociale e di aiuto allo sviluppo. Fu "caricato" dalla polizia, denunciato come individuo con spiccate capacità a delinquere, messo in galera all'Ucciardone per due mesi con i sindacalisti che lo avevano appoggiato (Salvatore Termini, Ignazio Speciale e tanti altri), processato e condannato. Il processo che verrà intentato contro Danilo e i contadini, per occupazione abusiva di suolo pubblico, servirà a far conoscere al mondo il suo lavoro. Ne esce un vero e proprio "Caso Dolci" che vede numerosi intellettuali italiani e stranieri (Silone, Parri, Pratolini,Carlo Ho, Sereni, Moravia, Fellini, Cagli, Mauriac, Sartre) schierati in comitati di solidarietà e mozioni di protesta: si registrano inoltre le interrogazioni alla Camera di Li Causi, De Martino. La Malfa. Sono solidali con lui i suoi stessi avvocati (Carandini, Piero Calamandrei, Fausto Tarsitano ecc.) e altri studiosi di vari settori, come gli economisti Sylos Labini e Gunnar Myrdal, oppure il filosofo-pedagogista Aldo Capitini che gli sarà maestro ed amico.
Tutto l'iter processuale consumato dal 24 al 30 marzo a Palermo (vi intervengono, tra gli altri, in qualità di testimoni a difesa Carlo Levi, Elio Vinorini, Lucio Lombardo Radice) confluisce in un altro libro di una certa notorietà, Processo all'articolo 4, pubblicato da Einaudi nel `56.

In seguito al "Congresso per la piena occupazione" (1957), cui partecipano Alfred Sauvy, Bruno Zevi, Giorgio Napolitano, Paolo Sylos Labini, si verifica l'altro significativo, drammatico digiuno di Danilo e Franco Alasia a Cortile Cascino (é da ricordare in questa occasione la visita del celebre giornalista e scrittore Robert Jungk), per denunciare lo stato di miseria (da lui illustrato anche in Inchiesta a Palermo) in cui gli abitanti erano costretti a vivere, e per chiedere una politica della casa più coraggiosa. In seguito a questo digiuno ed al lavoro fatto in uno dei cortili più famigerati, il già citato Cortile Cascino, questo verrà risanato.

Il piano di interventi trova intanto nel 1958 il punto di coagulo progettuale e operativo nella fondazione a Partinico del "Centro Studi e Iniziative". Il Centro è frequentato da molti suoi amici: Elio Vittorini, Lucio Lombardo Radice, Ernesto Treccani, Antonio Uccello, Eric Fromm, Johan Galtung, Emma Castelnuovo, Clotilde Pontecorvo, Paolo Freire, e tanti altri. L’esperienza del Centro è sicuramente una tra quelle più rilevanti di sviluppo di comunità (insieme alle esperienze attivate dal Movimento di Comunità, promosso da Adriano Olivetti) sviluppatesi in Italia nell’immediato dopoguerra. Alla costruzione del progetto comunitario e di pianificazione organica fondata sulla partecipazione e promozione sociale, collaborano attivamente esponenti di diverse discipline (urbanisti-architetti, sociologi, agronomi, economisti etc.), tra i quali Ludovico Quaroni, Carlo Doglio, Bruno Zevi, Edoardo Caracciolo, Giovanni Michelucci, Lamberto Borghi, Paolo Sylos Labini, Sergio Steve, Giorgio Fuà, Giovanni Haussmann, Carlo Levi, Georges Friedmann, Alfred Sauvy.
All’interno di questa esperienza assume connotati peculiari sia il processo di pianificazione dal basso, che si fonda sul lavoro di gruppo e sull’interazione dialogica, sia la traduzione di obiettivi di sviluppo in concrete azioni, secondo una prospettiva pragmatistica ispirata al pensiero di Dewey.

Dopo le azioni di lotta per la diga sul Belice (digiuno a Roccamena del 29 ottobre 1963 e occupazione nonviolenta della piazza municipale), il 7 marzo dello stesso anno, Dolci dà vita alla sua espressa opera di denuncia delle connivenze politico-mafiose offrendo precisi documenti in un Convegno di Studi organizzato a Roma al Circolo della Stampa da alcune riviste ("Nuovi argomenti", L'Espresso. Astrolabio. Il Ponte. Cronache Meridionali).

Ciò provoca le dimissioni di Messeri da sottosegretario al Commercio Estero e l'esclusione di Mattarella dal terzo gabinetto Moro: in cambio il tribunale di Roma condanna lo scrittore per diffamazione a due anni di prigione su denuncia di Mattarella, dell'onorevole Calogero Volpe e di numerosi notabili siciliani indicati nella conferenza stampa come aventi rapporti con la mafia. Danilo digiuna ancora il 10 gennaio 1966 a Castellammare del Golfo. Qui vengono letti pubblicamente documenti antimafia, seguiti da discussione.

Sono poi del 1967 i duecento chilometri di marcia "per la Sicilia Occidentale e per un mondo nuovo": la protesta antimatia davanti al Parlamento a Roma e alla sede della Commissione antimafia; la "Marcia per la Pace nel Vietnam" , oltre mille chilometri da Milano a Roma e da Napoli a Roma.

Nel ‘68 viene fondato a Trappeto il Centro di formazione per la Pianificazione Organica che si mobilita per prestare soccorsi nella zona terremotata dal Belice e progetta, inviandolo alle autorità, un piano di ricostruzione e sviluppo della zona disastrata. Il 26 marzo 1970, dopo un giorno solo di vita, viene distrutta e sequestrata la "Radio libera di Partinico", fondata su iniziativa del Centro di Dolci per dar voce ai poveri cristi.

Danilo, per conto del giornale di Palermo, L’Ora, viaggia anche in vari paesi d’Europa e nell’Est, studiando forme di programmazione e le relative problematiche scrivendo molti articoli su questo argomento. Gli articoli saranno pubblicati in volume (Verso un mondo nuovo), e – tradotti in varie lingue all’estero – faranno apprezzare Dolci in molti ambienti progressisti interessati alla pianificazione economica e urbanistica.

Negli anni più recenti, dal 1970, Dolci appare volto più a fondo sul versante dell'impegno educativo, che si esprimerà concretamente nel Centro sperimentale di Mirto, nato nel 1974. Danilo orienta la propria azione sulla costruzione di un sistema educativo ispirato ai principi dell’attivismo pedagogico, alternativo a quello tradizionale e in questa direzione prosegue la propria esperienza di “valorizzatore” sociale.

Nel ‘75 gli viene attribuito il premio Etna-Taormina per la poesia. Danilo svolge in questi anni un’intensa attività in seminari a cui partecipano esperti come Paulo Freire, Johan Galtung, Ernesto Treccani e altri, e lavora alla elaborazione di un progetto poetico che riunisce tutte le sue precedenti raccolte, col titolo emblematico di Creatura di creature progetto che sottopone ad un continuo lavoro di rifinitura formale, rinnovamento e integrazione concettuale.

Continuo é il contatto con il mondo dei giovani, che lo porta dalle università di Princeton, Standford, Berkeley, Columbia, Georgetown, Chicago, Hiroshima, Ahmedabad, New Delhy, alle scuole medie ed elementari del sud e nord Italia.

Ma sarà a causa del Centro di Mirto e della sua attività educativa che Danilo avrà i maggiori ‘grattacapi’. Gli insegnanti della scuola infatti, probabilmente non pagati regolarmente per la difficoltà di trovare fondi tra i sostenitori i quali, dopo il primo periodo di grande entusiasmo, vanno progressivamente diminuendo, si coalizzano e gli intentano causa. La stampa italiana da' grande pubblicità a questo fatto, e Danilo, di cui ormai non si parla da molti anni, è presentato al pubblico italiano come sfruttatore e disonesto. Da allora, solo piccoli gruppi di insegnanti, particolarmente impegnati, interessati alla sua metodologia, a loro nota tramite i suoi libri (Dal trasmettere al comunicare, e Variazioni sul tema Comunicare), l’hanno chiamato a condurre seminari e incontri di formazione. A peggiorare la fama di Danilo, almeno per l’opinione pubblica del nostro Paese, è la separazione con Vincenzina, la madre di cinque suoi figli, e la decisione di convivere con una giornalista svedese, da cui ha altri due figli, ma che, dopo qualche anno, lo lascia.

In Scandinavia, nel 1981, viene proposto per il premio Nobel alla pace.

Nell’88 lancia un’iniziativa per la costituzione di un Manifesto sulla comunicazione, cui partecipai. Avverte i pericoli connessi alla cosiddetta "comunicazione di massa", ossia al dilagare della televisione e degli altri mass-media che non generano più un vero contesto comunicativo, ma soltanto trasmissivo, unilaterale. E' molto preoccupato dall’unilateralità del nuovo modo di comunicare, che influenza i destini relazionali, impedendo un rapporto diretto e immediato; ma più che altro ne faceva una questione di potere: chi controlla la comunicazione globale acquista un potere enorme, che va messo in discussione e controllato. Al manifesto sulla comunicazione prendono parte i suoi amici di tutto il mondo, grandi personaggi della cultura internazionale tra i quali Galtung, Chomski, Freire, scienziati come Rubbia, Levi Montalcini, Cavalli Sforza, protagonisti della cultura della solidarietà come don Ciotti e monsignor Bello in Italia e Ernesto Cardenal in Sudamerica.

Nel ‘91 contribuisce alla fondazione della Associazione per l’identificazione e lo sviluppo nonviolento della Calabria.

La salute di Danilo comincia quindi a peggiorare, per problemi di diabete, e infine un arresto cardiaco ne provoca la morte il 30 dicembre del 1997, a 73 anni.

(dalle biografie di Alberto L'Abate, Giuseppe Casarrubea, Giuseppe Fontanelli, S. Pennisi)

(tratto dal sito http://www.romacivica.net/anpiroma/larepubblica/repubblicabiografie5.htm)

Sabato, 01 Dicembre 2007 22:48

Nonviolenza violenta? (Enrico Peyretti)

Nonviolenza violenta?

di Enrico Peyretti




Tutto serve. Tanti anni fa, in Spagna, lessi su un muro «Los guerrilleros de Cristo Rey, somos la ley». Gesù guerrigliero, di estrema destra. A quando Gandhi alfiere dell’impero? Nella pubblicità, come Gesù, è già stato ripetutamente usato. Anche i suoi metodi possono servire a tutto, secondo l’articolo Nell’ombra delle “rivoluzioni spontanee”, di Régis Genté e Laurent Rouy, su «Le Monde Diplomatique» (gennaio 2005, p. 6). Nel ’99 in Jugoslavia, falliti i bombardamenti della Nato, si organizzano, e si finanziano bene, potenti manifestazioni popolari nonviolente e Milosevic (il quale se lo merita pure) cade. Serbia, Georgia, Ucraina: funziona! Il metodo è quello delle grandi rivoluzioni nonviolente dell’89 nell’Europa orientale. Certo, non è solo manipolazione, c’è una vera insorgenza popolare contro autoritarismi e dittature. Ma il metodo serve a qualunque scopo.

Aggiustare le elezioni

Dove un potere deve un po’ aggiustare le elezioni per legittimarsi – ma questo non è successo, almeno nel 2000, anche negli Usa, modello di democrazia da esportazione forzata? – si infiltrano, secondo gli autori dell’articolo, organizzazioni e fondazioni americane. Una, il National Democratic Institute, è presieduta da Madeleine Albright, quella che disse che le vittime della guerra del Golfo «valevano la pena». Un’altra, Freedom House, è diretta da James Woolsey, ex capo della Cia, già attivo in Serbia nel 2000. Vanno in aiuto a parti interne che «volevano far crollare il regime più che avere libere elezioni», come dice Gia Jorjolani, del Centro per gli studi sociali di Tbilisi, Georgia.

I media e i movimenti studenteschi (Otpor, Resistenza, in Jugoslavia) vi hanno grande parte. Seminari di «formazione per formatori» sono tenuti anche a Washington (9 marzo 2004), pare con la presenza di Gene Sharp, teorico della lotta nonviolenta e autore di un classico manuale in tre volumi, Politica dell’azione nonviolenta (Edizioni Gruppo Abele), molto usato anche dai nonviolenti italiani.

Quelle rivoluzioni nonviolente in Serbia e Georgia, a detta degli stessi politici che hanno preso il potere, sono state sostenute da forze contrarie ai precedenti regimi. Nelle recenti elezioni contestate e ripetute, sotto pressione popolare, in Ucraina, hanno avuto parte evidente la Polonia e l’Unione Europea. Personaggi ivi emergenti fanno parte della nomenklatura arricchitasi con le privatizzazioni. Non sempre ci guadagna la democrazia: un anno dopo la «rivoluzione delle rose» in Georgia, una militante per i diritti umani, Tinatin Khidasheli, scrive «La rivoluzione delle rose è appassita» («International Herald Tribune», Parigi, 8 dicembre 2004).

La politica estera americana, dunque, si servirebbe oggi non solo della guerra, ma anche di questi movimenti, non veramente spontanei, anche se attecchiscono grazie ai difetti, e a volte i crimini, dei regimi contestati. Pare che, oltre l’area ex-sovietica, punti ora ad applicare il metodo a Cuba, mentre nel Medio Oriente le possibilità sono scarse, anche per l’odio che gli Usa si sono guadagnati.

Democrazia: metodo e fine

Che dire, da parte di chi crede nella nonviolenza come metodo giusto per fini giusti? Anzitutto, proprio questo: non solo i mezzi devono non essere violenti, ma anche i fini. La Germania nazista e l’antisemitismo fascista, cominciarono la persecuzione degli ebrei, diretta allo sterminio, col boicottaggio economico, che in sé è un tipico mezzo nonviolento contro le economie ingiuste. Usare mezzi giusti per fini ingiusti è tanto ingiusto quanto usare mezzi ingiusti per fini giusti. La nonviolenza gandhiana è una speranza per l’umanità spinta sull’orlo della distruzione totale dalla ideologia della violenza: manipolarla per fini di dominio, uguali a quelli che si cercano con la guerra e la violenza, è falsificare un valore umano. La nonviolenza non è solo una tecnica utile, ma la cultura del rispetto dell’umanità in ogni persona e popolo. Come insieme di tecniche può servire al dominio incruento e sottile, ma non meno ingiusto. Come cultura e spiritualità non può farsi strumentalizzare dall’ingiustizia del dominio. Perciò, la ricerca della nonviolenza non può essere semplice attivismo, ma educazione morale profonda. Su di ciò i nonviolenti devono vigilare e approfondire il loro lavoro. Si sono già viste anche da noi forze politiche sbandierare Gandhi e poi rendersi utili ai potenti e persino alla guerra.

Certo, puntare al potere con la demagogia incruenta è qualcosa di meglio che con una guerra o un golpe sanguinario, mezzi usati senza scrupoli da chi ora si serve della nonviolenza, ma mai da Gandhi, da Luther King, da Badshah Khan. Così, la democrazia, ovviamente, è meglio della dittatura. Ma essa è vera se e quando le persone si educano a decidere secondo giustizia, e non soltanto perché si contano le teste invece di tagliarle. Non c’è vera democrazia là dove le teste decidono liberamente di tagliarne altre, o di opprimerle, o tacitarle. La democrazia che elegge Hitler è falsa democrazia, forma senza sostanza. Non c’è vera democrazia dove il principio di maggioranza instaura una dittatura della maggioranza, come sta accadendo in Italia. La democrazia è un metodo, ma soprattutto un fine: farci tutti più rispettosi della comune umanità. Perciò la nonviolenza dei mezzi e dei fini è l’aggiunta e il completamento della democrazia.

Gesù nella ricerca teologica odierna

di Bruno Secondin


La nostra è una stagione di studi cristologici numerosi e anche qualche volta notevoli. Nella riformulazione attuale della fede, il mistero di Cristo ha un posto centrale, come è logico che avvenga. Egualmente le prospettive teologiche in questo settore sono molto varie, come anche le finalità che ciascuno dei teologi si pone nell’affrontare il problema Cristo.

Del resto un pluralismo notevole lo si riscontra già all’interno del Nuovo Testamento, anche se il nucleo centrale di ciò che si annuncia e si vive è sempre lo stesso e unico, immutabile: cioè Gesù Cristo uomo perfetto - Figlio incarnato di Dio - salvatore e capo di tutto il creato - nel quale gli uomini sono solidali con tutta la storia e con tutto il mondo.

E’ questa l’«insondabile ricchezza» di Cristo (Ef 3,9) mai esauribile. Ma tutto questo è presentato con accentuazioni diverse, già nei libri biblici, per esempio:

- a partire dall’esperienza storica che si è fatta, da quello che si è visto e conosciuto, toccato, dall’aver incontrato il Risorto, Signore, datore dello Spirito;

- oppure dall’alto: cioè a partire dai testi sapienziali (manifestazione della Parola, sapienza, Spirito, giustizia), o liturgici (sacerdozio, sacrificio, rito, sangue), o profetici (messia, servo, figlio dell’uomo, redentore, re davidico...).

Persona e causa si fondono in vario modo a seconda delle esigenze della comunità e degli intenti dello scrittore: così abbiamo la così detta «cristologia dal basso» (o dalla fine) e la «cristologia dall’alto» (o dall’inizio), la cristologia epifanica, la cristologia funzionale, ecc.

Nelle varie cristologie attuali l’intento spesso cercato è quello di proporre una visione cristologica che risponda alla sensibilità odierna, alle nostre prospettive socio-culturali, al contesto specifico di provenienza del teologo o dei lettori. Possiamo considerare tipico esempio programmatico quello di B. Forte, Gesù di Nazaret, Storia di Dio, Dio della storia, (1)che si propone di collocare la sua riflessione nell’ottica della società e della chiesa del meridione d’Italia. Ma non tutti sono convinti che ci sia riuscito, al di là delle proclamazioni di principio.

E’ fuor di dubbio comunque che il contesto storico-socio-religioso ha influito e influisce profondamente nelle varie elaborazioni e anche nelle correnti di spiritualità. (2)

Note

1) Paoline, Alba 1981.

2) Per un primo riscontro bibliografico generale: B. MONDIN, Le cristologie moderne, Paoline, Roma 1979; A. SCHOLSON-W. KASPER, Cristologie, oggi, Paideia, Brescia 1979; PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, Bibbia e Cristologia, Paoline, Alba 1987. Per la spiritualità: C. RICHSTÂTTER, Christusfrömmigkeit in ihrer historischen Entfaltung, Kökln 1969; B. SECONDIN, Messaggio evangelico e culture, Paoline, Roma 1982.

ORTODOSSA

Non dobbiamo aspettarci novità rilevanti in questo settore. Sia nell’ambito dell’ortodossia geografica che in quello della diaspora (es. Meyendorf, Evdokimov, Florovskij, Losskij), in genere la prospettiva è quella della cristologia dall’alto: «Il Verbo si è fatto carne». Questo tema viene illustrato con particolare attenzione per la fedeltà verso la tradizione patristica e antico-conciliare (dei secoli d’oro della teologia orientale).

Importante è anche l’influsso del misticismo monastico e liturgico. Al centro è la divinità: nell’adorazione, contemplazione, partecipazione, redenzione come «indiamento» (sulla base di 2Pt 1,4: «participes naturae divinae») sta tutta la vita del credente. (3)

Interessante è anche la sua riflessione su Cristo «gloria del Padre» di P. Evdokimov, (4) per cui il volto definitivo di Cristo è quello glorioso della trasfigurazione e della risurrezione. Intende volto definitivo in senso ontologico di densità divina del Cristo. Anche J. Meyendorf, con la Cristologia ortodossa è un autore da ricordare: rifacendosi a Gregorio Palamas ripresenta la modalità della redenzione dell’uomo nel Cristo come partecipazione alla divinità. Tale partecipazione è essenzialmente nucleo centrale della natura umana e non solo dono divino.

Interessante è la linea della «sofia cristologica»: che ha radici fin dai primi secoli cristiani, ma che è stata ripresa e rivalutata in questo secolo da vari autori. «Le sofiologie dei teologi russi moderni si iscrivono nella linea della theòria physikè e della visione pasquale del mondo; loro scopo è di rendere spirituale la fisica dei nostri giorni, le scienze naturali e le teorie cosmiche che ne derivano».

Noi accenniamo a tre rappresentanti moderni.

V. Soloviev (+ 1900): ispirandosi al misticismo con tinte di origenismo e gnosticismo, e prendendo le categorie dell’idealismo tedesco (Schelling, Fichte), sviluppa una teologia «teandrica., concentrando la sua attenzione al momento dell’incarnazione di Cristo; l’incarnazione viene pertanto concepita come un evento che si realizza nel cuore dell’uomo.

Tale evento abbraccia tutto ciò che è umano, collocando la storia umana nella prospettiva dell’universale cristificazione.

«Così il Cristo-Dio-Uomo, si compie nel Cristo-Dio-Umanità. Quindi la sofiologia di Soloviev si giustifica in quanto collegata col teandrismo, ossia Dio che si fa uomo, il Logos che assume la natura dell’uomo e rende possibile la «sofiologia» divina che si fa presente nell’umanità»

Si può sottolineare, con Vladimir Losskij, che nella tradizione ortodossa la vita cristiana si definisce come «vita in Cristo» più che come «imitazione di Cristo». Cristo non è solo un ideale morale da riprodurre, ma la vita stessa dell’universo e il nodo di tutta l’esistenza.

P. Florenskij (+ 1943) scienziato, astronomo e teologo: sviluppa le idee di Soloviev, affermando che la “sofia” è la grande radice della creatura totale, e l’uomo che vuole mantenersi in uno stato vitale deve lasciarsi lavorare da essa che è «l’angelo custode del creato». Afferma con convinzione che l’ideale dell’ascesi cristiana non sta nel disprezzo del mondo, ma nella gioiosa sua accettazione e nello sforzo per rendere il mondo più ricco innalzandolo a un livello superiore fino alla piena trasfigurazione.

S. Bulgakov (+ 1944). La sua teologia gravita particolarmente attorno alla cristologia: «La Parola si è fatta carne». La sua riflessione sulla sofia divina e creata è di grande qualità teologico-spirituale.

Tra la sofia divina e la realtà creata esiste un nesso non solo di creaturalità: quella divina ha fatto dal nulla il mondo. Ma anche un’attrazione: nel senso che v’è nel mondo creato un divenire,un emergere, uno svilupparsi, un giungere alla sua conclusione, come un cammino verso la pienezza.

Il Verbo, come natura divina che si autorivela, assume la sofia creata, dalla carne incorrotta della vergine Maria e fa uscire la nostra sofia deteriorata verso lo stadio primigenio, la riporta verso la deificazione, cui la creazione tendeva per intrinseca esigenza già all’inizio, a prescindere dal peccato. Bulgakov vede l’inizio della storia della salvezza dell’uomo nel momento dell’annunciazione, quando lo Spirito santo non soltanto discende per la concezione e per il parto divino, ma resta in Maria con tutte le sue Virtù; resta con lei per tutti i secoli con tutta la forza dell’annunciazione ed eternamente.

Notiamo che nella chiesa orientale non c’è una theologia crucis ampiamente sviluppata (avvicinabile a quella luterana per es.). La croce infatti, è veduta essenzialmente collegata con la creazione, l’incarnazione e la risurrezione. Essa è parte di un processo globale in cui si pongono in grande evidenza gli aspetti soprattutto positivi.

Scrive Evdokimov:

«Se si penetra fino al cuore della spiritualità ortodossa, vi si trova anzitutto la sensazione viva dell’irruzione trionfante della vita eterna, della vittoria sulla morte, sull’inferno: è il soffio del messaggio evangelico portato dalla gioia pasquale (La novità dello Spirito».

Così il segno della gloria inonda la croce, la quale è presentata “gemmata”, indicando con ciò il trionfo e la trasfigurazione dell’evento del Calvario.

Pur con questo aspetto “ottimista”, notevole è il legame posto nella teologia orientale contemporanea tra Calvario e la Trinità: molto più che la tragedia dell’uomo, il Calvario appare come l’espressione della tragedia divina, il calarsi tra di noi del dramma intimo della Trinità, della passione dolorosa di Dio, per cui la croce è da un lato il prolungamento nel tempo dell’intimo mistero eterno del dolore di Dio; e dall’altro è l’eternizzarsi della sofferenza umana del Cristo.

Note

3) Per un primo veloce approccio: T. SPIDLIK, Gesù nella pietà dei cristiani orientali, in Gesù Cristo mistero e presenza, Teresianum, Roma 1971, pp. 385-406; L. GNILKA, Cristologie del mondo ortodosso, in Il Salvatore e la Vergine-Maria, Marianum-EDB, Roma-Bologna 1981, pp. 137-187; B. SCHULTZE, Pensatori russi di fronte a Cristo, 3 voll. Firenze, 1947-1949; D.I. CIOBOTEA, Jésus Christ, vie du monde. Une approche théologico-spirituelle orthodoxe, in « Contacts » 35 (1983), pp. 99-126.

4) Cristo nel pensiero russo, Città Nuova, Roma 1972.

PROTESTANTE

Tutta la teologia cristologica della chiesa protestante si radica nella centralità della croce di Cristo. Già Lutero aveva insegnato: «In Christo crucifixo est vera theologia et cognitio Dei». In quest’affermazione e nella teologia che ne deriva sta una verità certissima: la croce è il criterio della sequela autentica. Ma anche la risurrezione fa parte intrinseca dell’esperienza del dolore: la morte è vissuta fino in fondo, ma anche è vinta, nello stesso movimento.

Noi ci limitiamo a ricordare alcune delle posizioni cristologiche più rilevanti.

R. Bultmann (+ 1976). Per questo teologo centrale del nostro secolo, bisogna superare tutte le affermazioni dottrinali ereditate, per scoprire i meccanismi di mitizzazione della comunità primitiva, e arrivare alla convinzione che «storicamente» Gesù ci è praticamennte ignoto. Col metodo storico-morfologico (form-geschichtlich) Bultmann analizza i Vangeli, separa le pericopi che li compongono secondo i diversi generi letterari, le raggruppa poi nuovamente e ottiene, in tal modo, diverse raffigurazioni di Gesù, dettate dalle molteplici esigenze della comunità primitiva (esigenza catechetica, polemica, apologetica, esorcistica, missionaria, ecc.). Ma le strutture espressive sotto le quali la comunità primitiva ha sepolto il nucleo primitivo della fede sono tante: per ritrovarlo bisogna «demitizzare e demetafisicare». Fa parte del mito tutta la struttura supernaturalistica del Nuovo Testamento.

Quello che vale, e che la comunità ci ha voluto trasmettere, è l’incontro personale del credente con Cristo: solo chi assume una disposizione esistenziale può scoprire il vero nucleo della cristologia. Attraverso il kerigma si è interpellati, si è spinti verso il futuro, a decidersi, a capire/capirsi in Cristo e quindi ad abbandonarsi a lui con obbedienza sfiduciale.

La continuità tra Gesù e i credenti si spiega così:

- Da una parte Gesù non ha insegnato una dottrina sulla sua persona, ma ha messo l’accento sul fatto che la sua persona era un qualcosa di deisivo, portatrice della parola decisiva di Dio;

- Da parte della comunità: essa ha un legame storico con Gesù, ma il suo annuncio non è una speculazione sulla «persona» di Gesù, ma piuttosto «appello per una decisione esistenziale a favore di questa parola decisiva di Dio in Gesù».

H. Braun: radicalizza la demitizzazione, riducendo la cristologia ad antropologia. Per lui il centro del messaggio cristologico è una comprensione di se stesso che l’uomo continuamente fa: parlare di Cristo e annunciare Cristo (nella varia angolatura e novità) serve al convincimento per l’uomo che nei suoi rapporti di fraternità, nel suo non esaltarsi, non usare prepotenza, nel diffondere invece fraternità, Gesù continua ad operare come salvatore.

G. Ebeling: segue vari indirizzi, ma prevale quello esistenzialista. Egli si domanda: su che cosa si fonda la fede in Gesù Cristo dei primi? Altra preoccupazione sua è quella di ricondurre la cristologia esplicita a quella implicita , al Gesù storico, per scoprire cosa in Gesù fu espresso come Parola normativa. In questo punto è chiaramente contro il suo maestro Bultmann.

La salvezza si basa su un incontro fra persone sulla base della Parola, che spinge alla scommessa della fede.

K. Barth (+ 1977) A lui per certi aspetti si potrebbe accostare anche quanto dice Balthasar sul mysterium paschale: pur partendo da prospettive diverse, arriva a risultati simili con i suoi studi famosi, fra cui emerge Die kirchliche Dogmatik, iniziata nel 1932, incompiuta. A noi interessa specialmente I/I e 2.

Egli sostiene che non è possibile fare un discorso teologico se non a partire dall’evento Cristo. Sviluppare la cristologia implica un coinvolgimento dell’intero discorso trinitario: perché la professione cristologica pervade, forgia nel loro contenuto e valore tutte le affermazioni su Dio.

La teologia della manifestazione di Dio che si autoabbandona, postula necessariamente un’attenzione al rapporto Padre-Figlio, che è animato da amore e fedeltà fino alla totale obbedienza di kenosis.

H. Richard Niebuhr (+ 1962). Da non confondere col fratello Reinhold. Ricordiamo di lui specialmente Christ and Culture.

Egli colloca la sua riflessione teologica nel contesto esistenziale della storia. Dire che il Verbo si è fatto carne, cioè condizione umana fino in fondo, ciò vuol dire affermare che egli si è fatto storia. E la sua efficacia sarà reale se di fatto trasformerà la nostra storia: conoscenza storica di Gesù e storia cristocentrica della comunità dei fedeli sono fondamentali.

È Cristo che fonda sia l’unità di fede cristocentrica sia il pluralismo delle cristologie e delle immagini storiche che lo ricordano. Ma Niebuhr esclude un’interpretazione puramente storicistica del mistero di Cristo: per comprenderlo davvero non ci si può fermare alla storia «esterna», occorre il salto della «fede», che è salto nel cuore della storia di Gesù e nostra.

D. Bonhoeffer (+ 1945). Per questo teologo/pastore (5) la figura di Gesù che bisogna prediligere non è il wie(come), o il dass (il fatto), ma il wer (la persona): cioè la figura dell’uomo della carità spinta fino alla dedizione totale nell’esistere-per-gli-altri.

Si legge in una lettera dalla prigionia:

«L’esistere per gli altri di Gesù è la presa di coscienza della trascendenza. Dalla libertà da se stesso, dall’”esistenza per gli altri”, fino alla morte scaturiscono l’onnipotenza, l’onnipresenza, l’onniscienza. Fede è partecipazione a questo essere di Gesù (incarnazione es croce, risurrezione). Il nostro rapporto con Dio non è un rapporto religioso, con l’Essere più alto, più potente, più buono. Questa non è vera, autentica trascendenza; il nostro rapporto con Dio è una nuova vita nell’”esistere per gli altri, nella partecipazione all’essere di Cristo”».

A queste posizioni Bonhoeffer era giunto attraverso un’attenta considerazione dell’impatto di Cristo sulla vita attuale: solo un impatto «provocatorio» e impegnato può avere un senso in una storia che sembra la negazione del senso profondo della venuta del Redentore. Solo seguendolo nel dono totale agli altri può avere un senso credere in lui e parlare di lui. Altrimenti si riduce Dio al ruolo di Lükkenbüsser (tappabuchi) per bisogno di superare la insecuritas. In questa «theologia crucis» che indica l’impotenza di Dio in funzione della potenza dell’uomo - «nel Crocifisso Dio si depotenzia, per lasciare all’uomo la sua potenza» - Dio sembra dissolversi in una forza di liberazione storica, senza spazio né per la risurrezione, né per una qualsiasi «ecclesiologia» specifica.

W. Pannenberg (1925-). Possiamo chiamarlo il propositore della cristologia della risurrezione. Opera notevole: Cristologia. Rifiuta, con altri chiamati della «sinistra bultmanniana», lo scetticismo storico, rivendicando assoluta priorità all’elemento storico su quello esistenziale. Con più forza di Cullmann, afferma il carattere obiettivo della storia della salvezza.

Egli preferisce non muovere «dalle parole e dalle opere» (cioè l’attività) di Gesù, ma dalla sua risurrezione. Questo il suo ragionamento: il quadro della storia di una persona lo si comprende solo alla fine, quando tutti i frammenti si possono collegare in unità e si possono ricongiungere in un significato globale unitario.

O. Cullmann (1902-1999). Questo grande esegeta rifiuta e contesta la posizione di Bultmann, e sostiene clic la storia fa parte del nucleo essenziale della rivelazione cristiana: perché gli eventi storici sono il fondamento della salvezza evangelica. (6) L’evento centrale della rivelazione - egli preferisce chiamarla storia della salvezza (Heilsgeschichte): questo termine ha fatto fortuna dopo di lui - è Gesù Cristo. Egli dà senso a tutto quello che procede, ma non esaurisce tutto il percorso della storia: anzi dà piuttosto un nuovo «senso completo» ad essa, in quanto egli costituisce la vittoria definitiva.

Secondo Cullmann, per una, completa ed essenziale conoscenza della cristologia bisogna passare per certe tappe:

«La vita e la morte di Gesù; le sue allusioni alla propria consapevolezza; l’esperienza pasquale dei discepoli; l’esperienza del Signore presente; la riflessione compiuta, sotto la guida dello Spirito, circa i rapporti soteriologici delle funzioni di Cristo separate cronologicamente; le quali, dal punto di vista della rivelazione vengono fatte risalire fino alla creazione».

La sua è una cristologia essenzialmente storica, che rifiuta qualsiasi apriori filosofico e qualsiasi cristologia metafisica. Sembra però che lo studio delle azioni di Cristo, vada a scapito talora della considerazione sulla struttura ontologica di Cristo, cioè della sua persona, come Verbo incarnato.

Circa il prolungamento della storia della salvezza nel tempo della chiesa:

«L’attesa resta dunque come nel giudaismo. Si continua ad attendere dall’avvenire quanto ne attendevano gli ebrei. Ma il centro della storia non è più lo stesso. Il centro è raggiunto, ma la fine deve ancora venire.

J. Moltmann (1926-). Egli assumendo l’escatologia a principio ermeneutico della cristologia, (7) la sottopone ad una «rivoluzione copernicana»: essa non è più sviluppata alla luce del passato, ma del futuro; non in base a quanto è già accaduto, ma di quanto deve accadere. Croce e risurrezione sono i due pilastri successivamente messi in luce in chiave escatologica e di proclamazione pubblico-politica. La risurrezione - contrariamente al pensiero di Barth che pensava il futuro come svelamento di ciò che già c’era - non è solo svelamento, ma compimento finale. E quindi rimane un futuro in arrivo, una riserva definitiva che spinge alla trasformazione.

L’immagine autentica di Dio è quella di «potenza del futuro» inteso come dono e novità: questa immagine apre un dialogo tra fede cristiana e «speranze terrestri» (secolari). E un evento dato in promessa, ma rinvia alla vita e all’opera terrena di Gesù, specie alla croce.

Gesù non è tanto colui che è posto nella gloria, ma piuttosto l’annunciatore del futuro che è promesso e che verrà. Egli funge da conferma della pienezza ultima. Allora la croce si presenta come riassunto dell’intera vicenda di Gesù. Del resto così la prevedeva tutto l’AT; così si vede emergere dal contrasto con il potere del tempo e con gli schemi religioso-politici.

Ecco un suo testo significativo:

«Facendosi uomo in Gesù di Nazaret, Dio si immerge non soltanto nella finitezza dell’uomo, ma anche, con la morte in croce, nella situazione di abbandono da Dio che l’uomo esperimenta... Nessuno dovrà fingere, apparire diverso da quello che è, per cogliere la comunione che lo stringe al Dio umano. Potrà abbandonare tutte le finzioni e sembianze, e in questo umano diventare quegli che in verità è. Inoltre il Dio crocifisso gli si rende vicino nello stato di abbandono sofferto da ciascun uomo. Non esiste isolamento o reiezione che egli non abbia assunto sulla croce di Gesù. Non c’è bisogno di alcun tentativo di giustificazione, nemmeno di autoaccuse demolitrici per avvicinarsi a lui.

L’abbandonato da Dio e reietto può accettarsi là dove conosce il Dio crocifisso, che in lui già vive e che lo accetta. Se Dio si è assunta la morte in croce, ha pure assunto l’intera vita e l’esistenza concreta con l’intera e concreta sua morte. Senza limiti e condizioni l’uomo è accolto nella vita e nella sofferenza, nella morte e risurrezione di Dio, e prende vitalmente parte, nella fede, della pienezza di Dio. Non esiste nulla che lo possa escludere dalla situazione di Dio: dal dolore del Padre, dall’amore del Figlio e dall’impulso dello Spirito»

Certo che la verità di tutto questo sta nella luce della risurrezione e Moltmann lo nota chiaramente:

«La risurrezione non svuota la croce (1Cor 11,17), ma la riempie di escatologia e di significato salvifico».

Note

5) Si ricordi la sua opera Resistenza e resa (lettere dal carcere), Queriniana, Brescia 1971; Sequela, Queriniana, Brescia 1971; Wer ist und wer war Jesus Christus, Hamburg 1962.

6) Ricordiarno di CULLMANN, Cristo e il tempo, EDB, Bologna 1965; Cristologia del Nuovo Testamento, EDB, Bologna 1970; Il mistero della redenzione nella storia, EDB, Bologna 1966.

7) Si vedano le sue opere Teologia della speranza, Queriniana, Brescia 1970 e Il Dio crocifisso, Queriniana, Brescia 1973.






CATTOLICA

Anche in questo settore si deve dire che oggi si lavora molto per una riscoperta, una rilettura, una rivalorizzazione dell’umanità di Cristo, in parte oscurata in passato dall’enfasi sulla «divinità» di Cristo. Per qualcano ci troviamo perfino in uno sbilancio «cristocentrico», a scapito di un corretto equilibrio fra teocentrismo e cristocentrismo.

Il cattolicesimo rifiutando il divorzio tra fede e ragione, insisteva nei secoli recenti sul modo dell’unione della divinità e dell’umanità del Verbo incarnato. Lo shok della modernità ha avuto spazio vero nel cattolicesimo all’inizio del secolo con la crisi modernista. A partire dagli anni ‘60 la teologia cattolica e protestante dialogano strettamente. Un momento comunque di grande rilancio del ripensamento cristologico è stato il XV centenario del concilio di Calcedonia (451).

Le fratture mortali che avevano imbrigliato la cristologia fino ai tempi moderni erano:

- Frattura tra studio biblico e studio cristologico, che portava questo all’enfasi sulla riflessione metafisica e anche all’uso puramente strumentale dei testi biblici;

- Frattura tra rivelazione di Dio offerta in Gesù Cristo e la ricerca umana che si costituisce in autonomia assoluta;

- Frattura tra il Gesù della storia, Dio con noi e fonte della salvezza, e il Cristo della fede, che ha invece significato e valenze universali e attuali.

Molto articolato è il quadro epistemologico dell’odierna cristologia e soteriologia.

Si possono individuare otto categorie evidenti dell’odierna cristologia:

1. Dimensione biblica: precisione esagerata nel cercare le basi storiche e teologiche nei testi biblici;

2. Dimensione storico-salvifica pone in risalto gli eventi della vita di Gesù, in particolare quelli pasquali;

3. Dimensione pasquale: tutto gira attorno a questo punto cardine e tutto da qui si spiega;

4. Dimensione pneumatico-ecclesiale la continuità dell’evento Cristo nella chiesa attraverso l’opera dello Spirito santo e le vicende del tempo;

5. Dimensione esistenziale-personalistica: che chiama in causa la vitale comunione interpersonale col Cristo, fonte della salvezza totale dell’uomo;

6. Dimensione soteriologico-prassica che accentua quei contesti in cui la non salvezza emerge, e quindi l’impatto che la salvezza ha su di essi;

7. Dimensione ecumenica: ci sono dei sintomi fra cattolici e protestanti; rimane quasi nullo l’incontro con l’ortodossia;

8. Dimensione pluralistica: in quanto esprime una varietà di approcci e di ottiche (culturali, geografiche, linguistiche).

Se si vuole una enumerazione dello spettro delle cristologie Cattoliche contemporanee, si può ricordare: la cristologia cosmica di Teilhard de Chardin e quella trascendentale di K. Rahner; quella della dualità di P. Schoonenberg e quella estetica di H.U.v. Balthasar; quella politica di J.B. Metz e quella della liberazione di G. Gutierrez, L. Boff, J. Sobrino; quella cristiano-marxista di F. Belo, quella storica di W. Kasper e quella storico-biblica di L. Bouyer; quella metafisica-dinamica di J. Galot e quella metadogmatica di H. Küng e di E. SchilIebeeckx .

Teilhard de Chardin (1881-1955). Vuole armonizzare scienza e cristianesimo e ritrovare Cristo come centro organico di un universo in evoluzione. (8)

Secondo questo scienziato, filosofo e mistico, l’incarnazione deve essere legata alla stessa linea evolutiva della materia e della storia dell’uomo. Possiamo parlare di una cristologia nell’orizzonte della cosmologia. Secondo lui il cammino della scienza non può più essere quello dell’analisi, ma quello della sintesi, perché l’analisi porta alla frantumazione del pensiero. Si rende allora possibile e necessaria la convergenza su Cristo, perché lui appare come centro organico di tutto l’universo.

«Cristo rispetto al mondo non è un accessorio aggiunto, un ornamento, un re di quelli che facciamo noi, un padrone... Egli è l’alfa e I’omega, il principio e la fine, la prima pietra e la chiave di volta, la pienezza e colui che riempie. Egli è colui che completa e che a tutto dà consistenza. Verso di lui e attraverso di lui, vita e luce interiore del mondo, nel pianto e nella fatica, la convergenza universale di tutto il creato. Egli è il centro unico, prezioso e consistente, che brilla sull’apice futuro del mondo, sul polo opposto della zona oscura in eterna diminuzione in cui si avventura la nostra scienza quando scende per la strada della materia e del passato». (9)

Da questo punto di vista solamente la cristologia apre alla scienza il cammino per elaborare la cosmologia, per ricercare e trovare il senso intrinseco di tutta la realtà. E l’incarnazione ha un significato tutto particolare: «in quo omnia constant» (Col 1,17).

Anche se rimane sempre il sospetto di uno spiritualismo mistico e visionario, il suo influsso è stato sentito parecchio nella teologia dell’epoca conciliare

K. Rahner (+ 1984): possiamo parlare per lui di cristologia nell’orizzonte di una nuova comprensione dell’antropologia. La sua proposta è nota anche col nome di «cristologia trascendentale».

Per Rahner l’uomo mira all’appello salvifico dal suo interno: e porta l’esempio dell’amore mai soddisfatto, del morire, dello sperare. In Gesù queste aspirazioni si fanno pienezza: Dio si fa dono all’uomo aperto alla pienezza; e l’uomo si fa in Cristo un sì vero e obbedienziale al Padre, che è pienezza definitiva.

Si potrebbe essere del parere che Rahner cade nell’ontologismo e nell’idealismo. Ma egli è cosciente di queste possibili accuse e spiega che i suoi concetti di Salvatore-assoluto, Dio-uomo, Logos incarnato, sono possibili solo perché di fatto il cristianesimo riconosce già in Cristo la presenza di tale realtà.

«Nel delineare in maniera apriorica tale cristologia trascendentale eravamo coscienti che tale lavoro è storicamente possibile solo perché già esiste il cristianesimo, la fede effettiva in Gesù io quanto Cristo, solo perché l’umanità ha già fatto esperienza storica della realtà di questa idea trascendentale». (11)

Questo porta ad affermare che l’evento di Gesù di Nazaret dà luogo alla riflessione teologica trascendentale, e non il contrario: che sarebbe idealismo e astoricismo. L’esistenza concreta dell’uomo si deve definire come disponibilità all’ascolto e all’obbedienza verso Dio, ossia egli è «potentia oboedientialis» alla parola di Dio. Perciò se l’uomo si consegna a Dio liberamente, questo non diminuisce la sua libertà né il suo essere uomo, poiché Dio non è né estraneo, né concorrente all’uomo e alla sua libertà, ma è la garanzia alla sua libertà e sua meta.

L’antropologia figura quindi come «cristologia incompiuta», imperfetta, da realizzarsi in pienezza; mentre la cristologia appare come descrizione di un essere umano eccezionalmente completo e riuscito. La storia e la teologia della storia aiutano a concepire l’esistere come processo verso l’immediatezza di Dio, sostenuta dalla sua autocomunicazione liberamente donata. Dio può giustamente essere chiamato «il futuro dell’uomo».

J. B. Metz (1928- ). È il più noto rappresentante della teologia politica. Interessante è la parabola del teologo di Münster. Egli passa attraverso una triplice prospettiva, messa in luce successivamente. E’ importante notare che quando dice «teologia politica», per politica non si deve intendere un nostalgico ritorno all’integrismo, ma una teologia orientata all’azione, capace di sostenere un ruolo attivo nella «polis».

b. L’annuncio della salvezza come «memoria passionis, mortis et resurrectionis Jesu Christi». La fede è memoria, memoria della scelta per i poveri, che Gesù fece. Si tratta di attualizzare nel contesto storico, socio-politico in cui i cristiani vivono, tale forma di vita. La forma storica di Gesù di Nazaret vittima e vincitore, fa diventare il cristianesimo memoria pericolosa, liberatrice e redentrice di Gesù Cristo di fronte alla società. La chiesa dovrebbe essere un luogo di parola pericolosa e sovversiva, basata sulla «maniera storica della scelta di Dio per i poveri».

c. La salvezza come sequela della prassi messianica di Gesù. E questa l’ultima fase della parabola migliore di Metz. In essa convergono narratività e sequela, mistica e prassi «politica» nella struttura dell’esistenza cristiana, definita come sequela.

Non va dimenticata un’obiezione molto seria: le comunità cristiane primitive erano poco interessate alle condizioni sociali. Ciò che contava era la salvezza degli individui. L’atteggiamento di fronte al mondo consisteva in un «indifferentismo eroico» (Troeltsch). Paolo si potrebbe addirittura chiamare un tipico conservatore. Come inserisce la teologia politica questo fatto nella sua teoria?

La teologia politica sottolinea soprattutto la funzione della «sfida» (challenge). Oltre a questa esiste il compito del «conforto» che certamente ha una base evangelica. Il conforto è necessariamente congiunto con la ricerca del senso in situazioni inevitabili, e quindi ha un effetto anche «legittimante». Quale equilibrio intende stabilire la teologia politica tra comfort e challenge? Cioè tra legittimazione e profezia critica?

Altra osservazione è che alla «teologia politica» non è seguita una nuova militanza, ma nei fatti una rinascita del religioso e un bisogno nuovo di «sacro».

Un giudizio comunque globale su Metz e la sua «teologia politica» mostra che appare ridotta la valorizzazione dei gesti e detti del Gesù della storia - egli però valorizza molto I amore nella morte/risurrezione - e non è spiegata questa «sequela» in una società pluralistica e planetaria

Con queste ultime indicazioni di Metz e della sua proposta di «teologia politica», che ha trovato ampia eco e attenzione nella coscienza cristiana degli anni ‘70, si è venuta manifestando l’esigenza che la fecondità della rivelazione storica compiuta in Cristo sia di continuo rilanciata tra gli uomini dalla chiesa, con la sua testimonianza di vita, con la sua denuncia profetica con la sua riserva «critica» di fronte ai messianismi intramondani, con tutti i segni di amore e di carità, di servizio e di solidarietà di lotta per la giustizia e la liberazione. Questi «segni» saranno la messa in opera della vittoria della risurrezione su ogni violenza e ogni disperazione. La «memoria» che il cristiano conserva con tutta fedeltà è una memoria aperta al futuro, rivolta al futuro. Contro i trionfalismi facili essa ricorda la «morte» del Figlio di Dio in croce, in uno scontro insanabile fra differenti visioni e progetti di vita. Contro l’angoscia e la paura essa ricorda il rovesciamento misterioso della risurrezione, la libertà totale anticipata nella risurrezione del Cristo.


Note

8) Per una conoscenza più ampia, R. GIBELLINI, Teilhard de Chardin, l’opera e le interpretazioni, Queriniana, Brescia 1981; La spiritualità di Teilhard de Chardin, Cittadella, Assisi 1972; A. AMATO, La cristologia cosmica di Teilhard de Chardin, in Problemi attuali di cristologia, LAS, Roma 1975, pp. 95-123; I. BERGERON A.M. ERNST, Le Christ universel et l’évolution selon Teilhard de Chardin, Cerf, Paris 1986.

9) TEILHARD DE CHARDIN, Science et Christ, Oeuvres, IX, pp. 60s.

10) La bibliografia su Rahner non è poca. Un’ottima autopresentazione della cristologia di Rahner si ha alla voce Gesù Cristo, in Sacramentum Mundi, Morcelliana, Brescia 1975, IV, p. 181-223. Per gli studi: I. SANNA,Cristologia antropologica di Karl Rahner, Paoline, Roma 1970; M. GESTEIRA GARZA,La Cristologìa de Karl Rahner, in «Estudios Trinitarios», 21(1987), pp. 61-93.

11) Corso fondamentale sulla fede, Paoline, Alba 1977, p. 298.

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