Famiglia Giovani Anziani

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

I fondamenti teologici del dialogo
nell’ambito delle culture segnate dalla non-credenza
e dall’indifferenza religiosa

di Bruno Forte


1. Gli scenari del tempo

a) Il sogno della modernità e l’“assassinio del Padre”

La metafora della luce esprime nella maniera più intensa il principio ispiratore della modernità, l’ambiziosa pretesa della ragione adulta di comprendere e dominare ogni cosa. Secondo questo progetto - che sta alla base dell’Illuminismo in tutte le sue espressioni -comprendere razionalmente il mondo significa rendere l’uomo finalmente libero, padrone e protagonista del proprio domani, emancipandolo da ogni possibile dipendenza: l’“emancipazione” è il sogno che pervade i grandi processi di trasformazione storica dell’epoca moderna, nati a partire dal “secolo dei lumi” e dalla rivoluzione francese, dall’emancipazione delle classi sfruttate e delle razze oppresse a quella dei popoli del cosiddetto “terzo mondo”, a quella della donna nella varietà dei contesti culturali e sociali. Il sogno di un’emancipazione totale spinge l’uomo moderno a volere una realtà completamente illuminata dal concetto, in cui si esprima senza residui la potenza irradiante della ragione. Dove la ragione trionfa si alza il sole dell’avvenire: in tal senso si può dire che il tempo della modernità è il tempo della luce. L’ebbrezza dello spirito moderno sta precisamente in questa presunzione della ragione assoluta di poter vincere ogni oscurità e assorbire ogni differenza.

L’espressione compiuta di questa ebbrezza è l’“ideologia”: la modernità, tempo del sogno emancipatorio, è anche il tempo delle visioni totali del mondo, proprie delle ideologie. Esse tendono ad imporre la luce della ragione alla realtà tutta intera, fino a stabilire l’equazione fra ideale e reale: è inseguendo questa ambizione che le “grandi narrazioni” ideologiche tendono ad edificare una “società senza padri”, dove non ci siano rapporti verticali, ritenuti sempre di dipendenza, ma solo orizzontali, di parità e reciprocità. Il sole della ragione produce libertà e uguaglianza, e proprio così anche fraternità, egualitarismo fondato sull’unicità della luce del pensiero, che governa il mondo e la vita: “liberté, égalité, fraternité” sono il frutto del trionfo della ragione. La critica alla figura del “padre - padrone” sfocia così nella pretesa della radicale negazione di Dio: come non deve esserci in terra alcuna paternità che crei dipendenza, così non può esservi in cielo alcun Padre di tutti. Non ci sono “partners” divini, non c’è un altro mondo, c’è solo questa storia, quest’orizzonte: l’unica idea del divino che può restare dinanzi al tribunale della ragione adulta sembra quella di un Dio morto, insensato, inutile (“Deus mortuus, Deus otiosus”). L’assassinio collettivo del Padre si consuma nella convinzione che l’uomo dovrà gestirsi la vita da solo, costruendo il proprio destino soltanto con le proprie mani: le ideologie moderne, di destra o di sinistra, hanno inseguito la meta ambiziosa di emancipare gli abitatori del tempo in modo così radicale, da renderli da oggetto soggetto esclusivo della loro storia, al tempo stesso origine e meta di tutto ciò che accade.

Non si può negare che questo progetto sia grandioso e che tutti ne siamo in qualche misura eredi: chi vorrebbe vivere in una società che non sia passata attraverso il processo dell’emancipazione? E tuttavia, questo sogno ha prodotto anche effetti satanici: proprio a causa della sua ambizione totale l’ideologia diventa violenta. La realtà viene piegata alla forza del concetto: la “volontà di potenza” (F. Nietzsche) della ragione vuol dominare la vita e la storia per adeguarle al proprio progetto. Il sogno di totalità si fa inesorabilmente totalitario: il tutto - così come è compreso dalla ragione - produce totalitarismo. Non a caso, né per un semplice incidente di percorso, tutte le avventure dell’ideologia moderna, di destra come di sinistra, dall’ideologia borghese a quella rivoluzionaria, sfociano in forme totalitarie e violente. Ed è precisamente l’esperienza storica della violenza dei totalitarismi ideologici a produrre la crisi e il tramonto delle pretese della ragione moderna: “La terra interamente illuminata - affermano Max Horkheimer e Theodor W. Adorno all’inizio della loro Dialettica dell’Illuminismo - risplende all’insegna di trionfale sventura". (1) Il pensiero senza ombre si risolve in tragedia: lungi dal produrre emancipazione, genera dolore, alienazione e morte. La moderna “società senza padri” non genera figli più liberi e più uguali, ma produce dipendenze drammatiche da quelli che di volta in volta si offrono come i “surrogati” del padre: il “capo”, il “partito”, la “causa” diventano i nuovi padroni, e la libertà promessa e sognata si risolve in una massificazione dolorosa e grigia, sostenuta dalla violenza e dalla paura. L’assassinio collettivo del padre non ha impedito, insomma, la prolificazione di “padri - padroni” sotto mentite spoglie...

b) La società senza padri e il “secolo breve”

Il sogno di emancipare il mondo e la vita sembra dunque essersi infranto contro l’inaudita violenza che l’epoca dell’emancipazione ha prodotto, di cui sono segno eloquente le guerre, le pulizie etniche, i forni crematori, la Shoà e tutti i genocidi del nostro secolo, fino all’eccidio per fame che ogni giorno si consuma nel mondo. È questo il frutto della ragione adulta? Dove sono i cieli nuovi e le terre nuove che le grandi narrazioni ideologiche avevano promesso? Sta qui il dramma con cui si chiude il XX secolo: un dramma morale, una crisi di senso, un vuoto di speranza. Se per la ragione moderna tutto aveva senso all’interno di un processo totale, per il pensiero debole della condizione post-moderna - naufrago nel grande mare della storia dopo il fallimento delle presunzioni ideologiche - nulla sembra avere più senso. In reazione alle pretese fallimentari della ragione forte si profila un tempo di naufragio e di caduta: la crisi del senso diventa la caratteristica peculiare dell’inquietudine postmoderna. In questo tempo di “notte del mondo” (Martin Heidegger) ciò che trionfa sembra essere l’indifferenza, la perdita del gusto a cercare le ragioni ultime del vivere e del morire umano. Si profila così l’estremo volto del secolo che volge alla fine: il volto del nichilismo.

Il nichilismo non è l’abbandono dei valori, la rinuncia a vivere qualcosa per cui valga la pena di vivere, ma un processo più sottile: esso priva l’uomo del gusto di impegnarsi per una ragione più alta, lo spoglia di quelle motivazioni forti che l’ideologia ancora sembrava offrirgli. Ciò di cui si è più malati oggi è la mancanza di “passione per la verità”: questo è il volto tragico del post-moderno. Nel clima del nichilismo diffuso tutto cospira a portare gli uomini a non pensare più, a fuggire la fatica e la passione del vero, per abbandonarsi all’immediatamente fruibile, calcolabile col solo interesse della consumazione immediata. È il trionfo della maschera a scapito della verità: perfino i valori sono spesso ridotti a coperture da sbandierare per nascondere l’assenza di significato. L’uomo stesso sembra risolversi in una “passione inutile” (secondo la formula proposta con inquietante anticipo sulla fine dei mondi ideologici da Jean-Paul Sartre: “l’homme, une passion inutile”). Si potrebbe dire che la malattia più profonda dell’epoca che chiamiamo post_moderna sia la definitiva rinuncia a un padre-madre verso cui tendere le braccia dell’attesa, e dunque il non avere più la volontà o il desiderio di cercare il senso per cui valga la pena di vivere e di morire.

Orfani delle ideologie, si rischia di essere tutti più fragili, più tentati di chiudersi nella solitudine dei propri egoismi. È per questo che le società post-ideologiche stanno diventando sempre più “folle di solitudini”, in cui ognuno cura il suo interesse particolare secondo una logica esclusivamente egoistica e strumentale: di fronte al nulla del senso ultimo, ci si aggrappa all’interesse penultimo, alla cattura del possesso immediato. È questa la ragione del trionfo del consumismo più sfacciato, della corsa all’edonismo e all’immediatamente fruibile, ma è anche questo il motivo profondo dell’emergere e dell’affermarsi delle logiche settarie, etniche, nazionalistiche o regionalistiche, che si sono diffuse con inquietante virulenza nell’Europa di fine millennio. Quando non si hanno orizzonti grandi di verità, si affoga facilmente nella solitudine egoistica del proprio particolare e la società diventa arcipelago. Proprio questo processo mostra però come tutti abbiamo bisogno di un padre _ madre comune che liberi dalla prigionia della solitudine, che dia un orizzonte per cui sperare e amare: non un orizzonte violento, asfissiante com’era quello dell’ideologia, ma un orizzonte liberante per tutti, rispettoso di tutti.

Se dunque la “società senza padri” ha inseguito il sogno dell’emancipazione e per emanciparsi ha pensato di uccidere il padre, proprio il frutto amaro di un’emancipazione totalitaria e violenta e il vuoto che essa ha lasciato fa avvertire un nuovo bisogno di un padre_madre accogliente nella libertà e nell’amore. Non è certo la ricerca del padre_madre che sia il padre_partito, il padre-padrone, capo indiscusso e indiscutibile, o il padre-denaro, il padre_capitalismo, ma è la nostalgia di un padre_madre che fondino al tempo stesso la dignità di ogni persona, la libertà di tutti, il senso della vita. Ciò di cui c’è insomma soprattutto bisogno davanti all’indifferenza e alla mancanza di passione per la verità dell’epoca in cui ci troviamo è il volto del padre_madre nell’amore: è la nostalgia del Totalmente Altro, di cui Horkheimer e Adorno parlavano prevedendo la crisi delle ideologie. È la nostalgia del Volto nascosto, il bisogno di una patria comune che dia orizzonti di senso senza esercitare violenza. È quanto emerge dall’intera parabola dell’epoca moderna, dal trionfo della ragione illuministica, che tutto voleva abbracciare e spiegare con la sua luce, all’esperienza diffusa della frammentazione e del non-senso, seguita alla caduta degli orizzonti forti dell’ideologia. È il processo che ha caratterizzato il secolo XX, il cosiddetto “secolo breve” (“the Short Twentieth Century”: Eric Hobsbawm) (2) segnato dal trionfo e dalla crisi dell’ottimismo totalitario dei vari modelli ideologici.

La perdurante violenza, gli odi etnici, la cecità dei pregiudizi contro il diverso mostrano come forse troppo presto si sia voluto cantare il “requiem aeternam” delle ideologie e come esse si siano presa la rivincita rispuntando con tutta la virulenza dei loro meccanismi di autogiustificazione e di demonizzazione dell’altro nella sofferenza inflitta a popolazioni inerti, nel genocidio, nella propaganda delle parti contrapposte, nella vendetta terroristica. La metafora della “notte” sembra veramente la meno inadeguata ad esprimere la condizione presente, nonostante il ritorno delle ambizioni ideologiche tese a comprendere tutto col “lume” della ragione. Eppure, paradossalmente, è proprio da questa perdurante e conclamata negazione della fraternità fra gli umani che si leva più forte il grido del bisogno di una fraternità ritrovata, quale solo un padre-madre di tutti può fondare. Si profilano alcuni segnali di attesa: c’è una “nostalgia di perfetta e consumata giustizia” (Max Horkheimer), che si lascia riconoscere proprio nelle inquietudini del presente come una sorta di ricerca del senso perduto. Non si tratta d’“une recherche du temps perdu”, di un’operazione della nostalgia, ma di uno sforzo per ritrovare il senso al di là del naufragio, per riconoscere un orizzonte ultimo su cui misurare il cammino di tutto ciò che è penultimo e fondare eticamente la prassi. Si assiste ad una riscoperta dell’altro, constatando che il prossimo, per il solo fatto d’esistere, può essere ragione del vivere, perché è sfida a uscire da sé, a rischiare l’esodo senza ritorno dell’impegno d’amore per altri. Il nuovo interesse al più debole, specialmente allo straniero in fuga da situazioni di miseria e povertà d’ogni genere, la crescente coscienza delle esigenze della solidarietà a livello locale e universale, l’urgenza di una globalizzazione solidale, possono profilarsi - pur fra molte contraddizioni - come altrettanti segnali di questa ricerca del senso perduto.

Al tempo stesso, sembra affacciarsi una ritrovata nostalgia del Totalmente Altro, una sorta di riscoperta del sacroGaudium et Spes 31). Si intravede in queste parole il ruolo di una fondamentale mediazione paterna-materna, di una sorta di paternità-maternità del senso, che possa riscattare il futuro dalla caduta nel nulla e dalle sue seduzioni. L’Altro - fondamento ultimo delle ragioni del vivere e del vivere insieme - sembra offrirsi come l’oggetto della domanda più vera e profonda aperta dalla crisi del nostro presente, e la nostalgia del Suo volto nascosto sembra delinearsi come quella di un padre-madre che accolga tutti nell’amore... rispetto ad ogni rinuncia nichilista. Si risveglia un bisogno, che potrebbe definirsi genericamente religioso: bisogno di un orizzonte ultimo, di una patria che non siano quelli manipolanti e violenti dell’ideologia. Nelle forme più diverse si profila un “ritorno del Padre”, quantunque non sempre privo di ambiguità e perfino di nostalgie ideologiche. In realtà, se la crisi del moderno è fine delle presunzioni del soggetto assoluto, i segnali del suo superamento - al di là del nichilismo - vanno tutti in direzione di una riscoperta dell’Altro, che offra ragioni di vita e di speranza. Lo aveva intuito con singolare profondità il Concilio Vaticano II nell’affermare: “Legittimamente si può pensare che il futuro dell’umanità sia riposto nelle mani di coloro che saranno capaci di trasmettere alle generazioni future ragioni di vita e di speranza” ((Gaudium et Spes 31). Si intravede in queste parole il ruolo di una fondamentale mediazione paterna-materna, di una sorta di paternità-maternità del senso, che possa riscattare il futuro dalla caduta nel nulla e dalle sue seduzioni. L’Altro - fondamento ultimo delle ragioni del vivere e del vivere insieme - sembra offrirsi come l’oggetto della domanda più vera e profonda aperta dalla crisi del nostro presente, e la nostalgia del Suo volto nascosto sembra delinearsi come quella di un padre-madre che accolga tutti nell’amore...

2. Gli scenari del cuore

a) “Gettati verso la morte” o aperti al Mistero

La domanda che abita al centro del nostro cuore, quella che ci fa inquieti e pensosi, è la domanda dell’infinito dolore del mondo, l’interrogativo ineludibile della morte e della fine di tutto. Se non ci fosse la morte non ci sarebbe neanche il pensiero, tutto sarebbe una piatta eternità, almeno per la nostra limitata capacità di pensare: in questo senso, vivere è anche imparare a morire, educarsi a convivere con la sfida silenziosa, resistente e perseverante della morte. È inutile cercare evasioni o facili consolazioni nella presunzione epicurea di dire: “Quando ci sarà la morte io non ci sarò e finché io ci sono essa non c’è”. Queste parole sono inganno e apparenza, perché la morte non è solo l’ultimo destino o l’ultimo atto, ma è soprattutto una presenza che incombe ogni giorno della vita nella fragilità e nella caducità dell’esistere. Diversi per nascita, possibilità ed esperienze, gli abitatori del tempo sono solidali nella povertà, in quanto sono tutti allo stesso modo “gettati” verso la morte, inesorabilmente diretti verso il “vallo estremo”, avvolto dal silenzio. La vita pare risolversi nell’inesorabile viaggio verso le tenebre: perciò la fatica di esistere è impastata di malinconia e la dimora del tempo appare fasciata dall’abisso del nulla. È sulla vertigine del nulla che si affaccia la situa­zione emotiva dell’an­goscia: sospeso sui silenzi della morte, l’essere umano si fa inquieto riguardo al suo destino.

La ripulsa del nulla suscita - come per contraccolpo - la potenza del domandare: l’uomo diventa domanda a se stesso, interrogativo davanti al quale si schiudono ambiguamente i sentieri di ciò che potrà essere o non sarà mai. Fedele compagna della vita si affaccia la domanda - evasa o accettata, nascosta o cercata - che la morte imprime come ferita nel più profondo del cuore umano. È così che il pensiero nasce dalla morte, la coscienza dalla passione di chi non s’arrende al finale trionfo del nulla. La lotta contro la morte si profila nelle domande che nascono nel cuore come ferite lancinanti, spesso improvvise o inattese: che ne sarà di me? che senso ha la mia vita? dove vado con il bagaglio delle mie pene, delle consolazioni e delle gioie? E quando avrò finalmente conquistato ciò che desidero, che cosa ancora potrò desiderare se non l’ultima vittoria, la vittoria sulla morte? Giunti a considerare il fondo verso cui andiamo, proprio da esso ci viene il bisogno di lottare per vincere l’apparente trionfo della morte. Proprio il fatto che la morte ci rende pensosi e che sentiamo il bisogno di dare significato alle opere e ai giorni è il segno che nel profondo del cuore i pellegrini verso la morte sono in realtà chiamati alla vita. Nel profondo del cuore si affaccia un’indistruttibile nostalgia del volto di Qualcuno, che accolga il nostro dolore e le lacrime, che redima l’infinito dolore del tempo. Quando siamo soli o disperati, quando nessuno sembra volerci più e noi stessi abbiamo ragioni per disprezzarci o rammaricarci di noi, ecco profilarsi in noi la nostalgia di un Altro che possa accoglierci e farci sentire amati al di là di tutto, nonostante tutto, vincendo l’ultimo nemico che è la morte. È quanto esprime Agostino, aprendo le Confessioni: “Fecisti cor nostrum ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te” - “Hai fatto il nostro cuore per Te ed è inquieto il nostro cuore finché non riposi in te”.

Nella domanda che ognuno si porta nel più profondo del cuore va dunque profilandosi l’immagine del padre-madre nell’amore, metafora per dire il bisogno di qualcuno cui affidarsi senza riserve, quasi un’àncora, un approdo dove far riposare la nostra stanchezza e il nostro dolore, sicuri di non essere rigettati nell’abisso del nulla. Questo bisogno dell’altro, che sia madre_padre accogliente, quest’attesa profonda, ciascuno può riconoscerla in sé, se solo ha il coraggio di non mascherarsi dietro le proprie presunte grandezze o difese. In quanto tale, la figura del padre-madre nell’amore è il grembo, la patria, l’origine in cui rimettere tutto ciò che noi siamo. Se nel profondo del cuore tutti siamo abitati dall’angoscia della sfida suprema della morte e se questo ci rende pensosi, allora l’immagine paterna-materna dell’amore accogliente è quella che più risponde a ciò di cui tutti abbiamo infinitamente bisogno.

b) Il rifiuto e l’attesa del Padre

Non possiamo allora non chiederci: perché, se questo è vero, sorge in tanti un rifiuto perfino viscerale della figura del padre? perché prima o poi nella vita tutti viviamo un momento di contestazione dell’immagine paterna-materna? Questa palese contraddizione tra il bisogno di un’accoglienza che vinca l’angoscia e il rifiuto di essa, può essere rischiarata dall’analisi del cuore umano: quante volte il rifiuto del padre nasce dal bisogno di affrancarsi da una dipendenza! Quante volte la paternità diventa possessività, schiavitù, dominio! Ecco allora che si profila la condizione drammatica, espressa dalla metafora dell’“assassinio del padre”. L’“assassinio del padre” è una sorta di gesto rituale, un atto volto ad affermare la propria indipendenza e autonomia. Esso è inseparabile dal senso dell’angoscia: se una delle cause profonde dell’angoscia è l’affacciarsi incombente della morte, eliminare la figura del padre_madre che ci accolga vuol dire esporsi ancor più radicalmente all’abbraccio del nulla. È come sperimentare un’infinita orfananza, accendendo di conseguenza ancor più acutamente la nostalgia del padre e della madre accoglienti nell’amore. Ne nasce un comportamento paradossale: da una parte fuggiamo dalla figura paterna-materna per essere liberi e indipendenti come il figliuol prodigo, che sceglie di avere le sue sostanze e gestirsi da solo la vita; dall’altra cresce in noi lo struggente bisogno di qualcuno che ci riveli il volto di un padre_madre nell’amore che non ci faccia sentire schiavi. Veramente abissale è il cuore dell’uomo e lacerante il peso delle sue contraddizioni!

Un padre_madre che ci ami rendendoci liberi è qualcuno che non sia il concorrente della nostra libertà, ma il fondamento di essa, la garanzia ultima della verità e della pace del nostro cuore: qualcuno che sani l’angoscia con la medicina dell’amore, ma sani anche la paura che abbiamo di perdere la nostra libertà facendoci sentire amati in un modo che non crei dipendenze. Di questo padre materno ha bisogno il cuore dell’uomo, assetato di un grembo che avvolga, custodisca e generi instancabilmente alla vita. La scelta che ne consegue è quella urgente e decisiva fra il vivere come pellegrini alla ricerca del Volto nascosto, lasciandoci guidare dalla mano paterna - materna dell’Altro, o il chiuderci nelle nostre paure e nelle nostre solitudini. La vita o è pellegrinaggio o è anticipazione della morte. O è passione, ricerca e quindi inquietudine, o è lasciarsi morire ogni giorno un po’, fuggendo in tutte le evasioni possibili di cui è malata la nostra società, utili per stordirsi e non porsi le domande vere. Occorre prendere una decisione: “Mi alzerò e andrò da mio padre!”. Occorre aprirsi all’ascolto e all’invocazione. È questa la scelta di cui hanno particolare bisogno le donne e gli uomini di quest’epoca post_moderna. Per aiutare i loro compagni di strada a fare questo passo i credenti dovranno essere i primi ad alzarsi e andare verso il Padre, ritornando sempre di nuovo a farsi pellegrini, vincendo la stanchezza e la frustrazione che a volte prende, specie quando sembra che non ci siano risultati. Il credente sa di non essere in questo mondo per vedere i frutti, ma per gettare il seme. Afferma Lutero: “Se anche sapessi che il mondo finirà domani, non esiterei a piantare un seme oggi”. Per chi crede in Dio l’importante non è il raccolto, l’importante è la semina: essa darà i suoi frutti a suo tempo quando e come Dio vorrà. Il no alla frustrazione deve unirsi allora al sì alla passione per la verità che porta a sollevare le vere domande del cuore degli uomini perché cerchino il Volto nascosto, il Volto del padre_madre nell’amore, senso della vita e speranza del mondo...

3. Per il dialogo fra fede e non credenza

Come può la rivelazione, compiutasi in Gesù di Nazaret, Signore e Cristo, parlare alla crisi prodotta dal tracollo delle false sicurezze dell’ideologia e alla dolorosa assenza di ragioni per sperare in grande, caratteristica del nichilismo post-moderno? Come possono credenti e non credenti incontrarsi e dialogare nella verità a partire dalle sfide degli scenari tracciati? La risposta a queste domande non può non segnalare come ai cristiani, impegnati a vivere ed operare in questo mondo in cambiamento, sia richiesto oggi più che mai di render ragione della speranza che è in loro, con dolcezza e rispetto per tutti (cf. 1 Pt 3,15). Sul piano personale ed ecclesiale ciò esige che essi siano discepoli dell’Unico, servi per amore e testimoni del senso nella sequela del loro Signore. Al tempo stesso, nel rapporto fra fede e non credenza - cui le avventure dell’ateismo moderno e l’inquietudine della post-modernità nichilista rendono particolarmente attenti - ciò richiede il superamento di ogni riduzione del cristianesimo a ideologia e la sincera attenzione all’altro in tutta la sua dignità, qualunque sia la sua convinzione. Si scopre così che l’ateo, il solo ateo che sia possibile concepire con radicale serietà, abita forse proprio nel cuore del credente, perché solo chi crede in Dio e ne ha fatto esperienza come del Padre - Madre accogliente nell’amore, può anche “sapere” che cosa sia la Sua negazione e quale infinito dolore comporti la Sua assenza. Il non credente, insomma, non è fuori di chi crede, ma in lui: e questo determina una peculiare caratterizzazione della stessa vita di fede, vissuta non nella presunzione del possesso, ma nella coscienza dell’umile e sempre nuovo bisogno di mettersi al servizio della verità, e di farlo non con avventure individuali, ma nell’indispensabile comunione della Chiesa dell’amore, suscitata e nutrita dallo Spirito.

a) L’ateismo di chi crede

Il credente è il prigioniero dell’Altro: proprio così egli può portare al pensiero la verità della fede, il lasciarsi far prigionieri dell’invisibile, non immediatamente disponibile e certo. Il credente perciò non ha un pensiero totalizzante, luminoso su tutto, ma vive in una sorta di pensiero notturno, carico di attesa, sospeso tra il primo e l’ultimo avvento, già confortato dalla luce che è venuta nelle tenebre e tuttavia ancora assetato di aurora. Il pensiero della fede, non ancora pienamente illuminato dal giorno che appartiene ad un altro tempo e ad un’altra patria, è tuttavia sufficientemente rischiarato per sostenere la fatica di conservare la fede: pensiero umile, appeso alla Croce, che è e resta nella notte del mondo il punto di riferimento del discepolo di Cristo, la stella della redenzione, la rivelazione del Dio accogliente nell’amore. A sua volta, il non credente, che abbia attraversato il guado della modernità, quando è veramente e fino in fondo tale, quando lo è, quindi, non per una semplice qualificazione esteriore, ma per le sofferenze di una vita che lotta con Dio senza riuscire a credere in Lui, vive in una medesima condizione di ricerca e di attesa. La non credenza non è la facile avventura di un rifiuto, che lasci l’uomo come l’ha trovato. La non credenza seria, pensosa, non negligente davanti alle domande vere, è sofferenza, passione di chi paga di persona l’amaro coraggio di non credere.

Non credere in maniera responsabile significa avvertire il lacerante dolore dell’assenza, sperimentando il senso di un’orfananza infinita, di un abbandono totale, quale solo la morte di Dio può creare nel cuore dell’uomo e nella storia del mondo. Perciò, il non credente pensoso, come il credente non negligente, lotta con Dio. “Mi religion es luchar con Dios”: secondo la confessione di Miguel de Unamuno, il testimone del “sentimiento tragico de la vida”, la religione sta tutta in questo “lottare con Dio”. E poiché, non di meno, “vivir es anhelar la vida eterna”, il vivere è inesorabilmente segnato dalla tragicità di dover sostenere l’impari lotta. È nel rispetto di questa dignità del non credere, emersa in tutta la sua luce dopo l’ubriacatura tragica dell’ateismo ideologico e della sua fine, che il credente è chiamato a interrogarsi sulla sua fede e, nella fede pensata, a trovare gli abissi del non credente che è in lui.

Questa compresenza di fede e non credenza è radicata nella stessa condizione umana: nel più profondo delle sue domande, di fronte all’ineludibile ferita del dolore e della morte, l’uomo non si presenta come qualcuno che sia arrivato alla meta, ma come un cercatore della patria lontana, che si lascia permanentemente interrogare, provocare e sedurre dall’orizzonte ultimo. L’uomo che si ferma, sentendosi padrone della verità, l’uomo per il quale la verità non è più Qualcuno, da cui essere sempre più profondamente posseduti, ma qualcosa da possedere, quell’uomo ha cancellato in se stesso non solo Dio, ma la propria dignità di essere umano. La condizione umana è una condizione esodale: l’uomo è in esodo, chiamato permanentemente a uscire da sé, a interrogarsi, in cerca di una patria, intravista, ma non posseduta, in cerca del Padre - Madre accogliente nell’amore... Se l’uomo è costitutivamente un pellegrino verso la vita, un “mendicante del cielo” (Jacques Maritain), la vera tentazione è per lui quella di fermare il cammino, di sentirsi arrivato, non più esule in questo mondo, ma possessore, dominatore di un impossibile “istante eterno”. L’illusione di sentirsi arrivati, il pretendersi soddisfatti, compiuti nella propria vicenda, è la malattia mortale.

Tutto questo vale analogamente per la via di Dio: anche nella vita della fede la grande tentazione è fermarsi. In quanto il cristiano è chiamato alla sequela della Croce, dove Dio ha parlato nella silenziosa e conturbante eloquenza della passione, egli è posto costantemente davanti alla grande scelta: crocifiggere le proprie attese sulla croce di Cristo o crocifiggere Cristo sulla croce delle proprie attese. Proprio così, la Croce è il vangelo della libertà, come mostra l’esodo di Gesù da sé di scelta in scelta, fino alla consegna dell’estremo abbandono! Nell’esperienza quotidiana della vita, come nel cammino della fede, l’uomo è chiamato alla libertà attraverso il prezzo doloroso della continua, ineludibile scelta, che lo pone sempre sulla soglia, sfiorato dalla vertigine dell’una o dell’altra possibilità radicale...

b) La fede come lotta, scandalo, resa

Nel suo permanente uscire da sé per lottare contro la morte e camminare verso la vita, l’uomo è stato raggiunto dalla Parola che viene dal Silenzio, da quel Dio, cioè, che - secondo la fede cristiana - “ha avuto tempo” per l’uomo. Dio esce dal suo eterno silenzio perché la nostra storia entri nel Silenzio della patria e vi dimori. L’incontro dell’umano andare e del divino venire, l’alleanza dell’esodo e dell’avvento è la fede. Essa è lotta e agonia, non il riposo di una certezza posseduta. Chi pensa di aver fede senza lottare, rischia di non credere in nulla. La fede è come l’esperienza di Giacobbe al guado dello Yabbok (cf. Gn 32,23-33): Dio è l’assalitore notturno, l’Altro che viene a te e lotta con te. Se tu non conosci così Dio, se Dio per te non è fuoco divorante, se l’incontro con Lui è per te tranquilla ripetizione di gesti sempre uguali senza passione d’amore, il tuo Dio non è più il Dio vivente, ma il Dio morto, il “Deus otiosus”. Perciò Pascal affermava che Cristo sarà in agonia fino alla fine del tempo: questa agonia è l’agonia dei cristiani, cioè la lotta di credere, di sperare, di amare, la lotta con Dio! Dio è altro da te, libero rispetto a te, come tu sei altro da Lui e libero rispetto a Lui. Guai a perdere il senso di questa distanza e, dunque, di questa sofferenza della non identità! Credere è “cor-dare”, secondo l’ingenua e bella interpretazione dei Medievali, un “dare il cuore” che implica la continua lotta con l’Alterità che non si lascia “risolvere” né “arrestare”. Dio è l’altro da te. Ecco perché il dubbio abiterà sempre la fede.

Solo per chi non sa questo è scandalosa la parola del Battista, che al tramonto della vita, evidentemente inquietato dal dubbio, manda a chiedere a Gesù: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?” (Mt 11,3). Questa è la prova della fede: lottare con Dio, sapendo che Lui è l’Altro, che sfugge alle nostre certezze e non si lascia addomesticare dalle nostre pretese. Perciò la fede è scandalo: infinite sono le testimonianze di questo scandalo. San Giovanni della Croce lo presenta nella metafora ambivalente della “noche oscura”: “In una notte oscura / con ansie di amor tutta infiammata, / o felice ventura!, / uscii, né fui notata, / stando già la mia casa addormentata. / ... / Notte che mi guidasti! / oh, notte amabile più che l’aurora / oh, notte che hai congiunto / l’Amato con l’amata / l’amata nell’Amato trasformata". (3) La notte oscura è il luogo dello scandalo e il luogo delle nozze: Dio non si trova nella facilità del possesso di questo mondo, ma nella povertà della Croce, nella morte a se stessi, della notte dei sensi e dello spirito. È lì la gioia più grande! La tenebra è il luogo dell’amore, della fede come lotta e come scandalo: Cristo non è la risposta alle nostre domande. Cristo è anzitutto la sovversione di esse. E solo dopo averci portato nel fuoco della desolazione, egli diviene il Dio delle consolazioni e della pace.

Infine, la fede è resa: quando nella lotta capisci che vince chi perde e perdutamente ti consegni a Lui, quando ti arrendi all’assalitore notturno e lasci che la tua vita venga segnata per sempre da quell’incontro, allora la fede si fa abbandono, oblio di sé e gioia della consegna nelle braccia dell’Amato. La fede è affidarsi ciecamente all’Altro. “Tu mi hai sedotto, o Signore, ed io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso... Mi dicevo: ‘Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!’ Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo” (Ger 20,7. 9). In queste parole di Geremia troviamo una testimonianza fra le più alte della resa della fede: egli è un uomo che ha vissuto la lotta con Dio, ma che lottando ha saputo conoscere la capitolazione dell’amore al punto da essere pronto a consegnarsi perdutamente a Lui. Così la fede diventa anche un approdo di bellezza e di pace. Non la bellezza che il mondo conosce, la seduzione di una verità totale, che spieghi tutto, ma la bellezza dell’Uomo dei dolori, la bellezza dell’Amore crocifisso, dell’offerta totale di sé al Padre e agli uomini.

Se la fede è tutto questo, se è inseparabilmente lotta, scandalo e resa, allora il credente non cercherà dei segni volgari che esibiscano la fedeltà del Dio in cui crede. Allora crederà in Lui anche quando la risposta alle domande vere del dolore umano resterà custodita nel Suo silenzio. Perciò, il credente è in fondo un ateo che ogni giorno si sforza di cominciare a credere e il non credente, che soffre dell’infinito dolore dell’assenza di Dio, è forse un credente che ogni giorno di nuovo si sforza di cominciare a non credere. Se il credente non vivesse ogni giorno lo sforzo di cominciare a credere, la sua fede non sarebbe altro che una rassicurazione mondana, una delle ideologie che hanno ingannato il mondo e determinato l’alienazione dell’uomo. Contro ogni ideologia, la fede va concepita e vissuta come un continuo convertirsi a Dio, un continuo consegnargli il cuore, cominciando ogni giorno, in modo nuovo, a vivere la fatica di credere, di sperare, di amare: perciò la fede è preghiera, e chi non prega non vivrà di fede! Ma se il credente è un ateo che ogni giorno si sforza di cominciare a credere, non sarà forse l’ateo, il non credente che ha attraversato le avventure della modernità e della sua crisi, un credente che ogni giorno vive la lotta inversa, e cioè la lotta di cominciare a non credere? Non l’ateo banale, ma chi vive la lotta con coscienza retta, chi, avendo cercato e non avendo trovato, patisce il dolore dell’assenza di Dio, non sarà questi fratello di chi crede?

Da qui derivano alcuni “no” e alcuni “sì” per il dialogo responsabile fra credenti e non credenti: il primo “no” è alla negligenza della fede, ad una fede indolente, statica, abitudinaria, fatta di intolleranza comoda, che si difende condannando perché non sa vivere la sofferenza dell’amore. A questo “no” si congiunge il “sì” ad una fede interrogante, anche dubbiosa, capace ogni giorno di cominciare a consegnarsi perdutamente all’altro, per vivere l’esodo senza ritorno verso il Suo Silenzio, dischiuso e celato nella Sua Parola. Da quanto detto viene però parimenti il “no” ad ogni ateismo banale, a ogni negazione ideologica di Dio e del mistero santo, come ne deriva il “sì” all’incessante ricerca del Volto nascosto, del Silenzio al di là della Parola, e della Parola crocifissa dove il Silenzio si apre accogliente alla ricerca del cuore. Forse, in questo tempo di penuria di speranze in grande più che mai la vera differenza non è tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti, tra uomini e donne che hanno il coraggio di vivere la sofferenza, di continuare a cercare per credere, sperare e amare, e uomini e donne che hanno rinunciato alla lotta, che sembrano essersi accontentati dell’orizzonte penultimo e non sanno più accendersi di desiderio e di nostalgia al pensiero dell’ultimo orizzonte e dell’ultima patria. Qualunque atto, anche il più costoso, è allora degno di essere vissuto per riaccendere in noi il desiderio della patria vera, e il coraggio di tendere ad essa, fino alla fine, oltre la fine...

Perciò il credente fa sua - anche a nome di chi non crede - la preghiera con cui Sant’Agostino chiude la più bella, la più pensata, forse la più tormentata delle sue opere, i quindici libri De Trinitate: “Signore mio Dio, unica mia speranza, fa’ che stanco non smetta di cercarTi, ma cerchi il Tuo volto sempre con ardore. Dammi la forza di cercare, Tu che ti sei fatto incontrare, e mi hai dato la speranza di sempre più incontrarTi. Davanti a Te sta la mia forza e la mia debolezza: conserva quella, guarisci questa. Davanti a Te sta la mia scienza e la mia ignoranza; dove mi hai aperto, accoglimi al mio entrare; dove mi hai chiuso, aprimi quando busso. Fa’ che mi ricordi di Te, che intenda Te, che ami Te!". (4) E, forse, per le stesse ragioni il non credente pensoso avverte il paradossale fascino dell’invocazione, cui non sa sottrarsi: “Concedici, o Signore, i paradisi del nulla, i giardini della tua primavera. Signore che fai della notte un mattino, il mattino che paghiamo con le monete luminose degli astri, astri della notte, guide degli erranti, degli erranti verso l’infinito: cos’è il cielo se non l’infinita via verso il nulla? Che è il nulla se non un ritorno, il tuo ritorno? Che è l’infinito se non un ritorno?". (5) Nell’inquietudine della domanda, la fede di chi crede può incontrarsi con l’invocazione di chi vorrebbe credere: sul fondamento della comune povertà e della comune ricerca, ma anche sull’ascolto dell’altro che abita nel più profondo di ciascuno dei partners dell’incontro, il dialogo fra credenti e non credenti si offre come una sfida fra le più alte ed arricchenti nelle culture segnate dalla non-credenza e dall’indifferenza religiosa, che sono in particolare quelle dell’Europa del nostro tempo postmoderno. Saremo pronti come credenti e come Chiesa a raccogliere questa sfida e a viverla senza paura, con spirito e cuore, fiduciosi nella fedeltà di Dio? Su questa domanda siamo chiamati a misurarci e a operare le scelte del nostro impegno nella sequela del Signore Gesù, come singoli e come Chiesa.

Note

1) M. Horkheimer - Th. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966, 11.
2) E. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1995. 199816.
3) S. Giovanni della Croce, Noche oscura, Strofe 1 e 5: “En una noche oscura, / con ansias, en amores inflamada, / ¡oh dichosa ventura!, / salí sin ser notada, / estando ya mi casa sosegada. / ... / ¡Oh noche que guiaste! / ¡Oh noche amable más que el alborada! / ¡Oh noche que juntaste / Amado con amada / amada en el Amado transformada!”.
4) De Trinitate, 15, 28, 51: PL 42,1098.
5) A. Emo, Le voci delle muse, a cura di M. Donà e R. Gasparotti, Marsilio, Venezia 1992, 75.

di Gianfranco Ravasi

(abstract)

In cammino con Dio

Massa e Meriba: la crisi della fede

di Antonio Nepi

«Ascoltate la sua voce: "Non indurite il Cuore, come a Meriba, come nel giorno di Massa nel deserto, dove mi tentarono i vostri padri: mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere"» (Sal 95,8-9). Posto dal salmista sulle labbra di JHWH, il «giorno di Massa e Meriba» resta scolpito nella memoria del Primo e Secondo Testamento come paradigma della crisi di chi è chiamato a camminare con Dio, nella tensione tra il già della liberazione e il non ancora del «riposo» nella terra promessa: il rischio di contestare Dio e le sue «vie», di non ricordare le sue misericordie, e di attaccare il cuore ai «doni di Dio» anziché a Lui che dona; più profondamente, di mettere in dubbio la sua compagnia nel cammino: «il Signore è in mezzo a noi sì o no?».

Nella storia fondativa del Pentateuco troviamo due narrazioni complete di questo «giorno» fatidico (Es 17,1-7; N m 20,1-13), nonche vari richiami nel libro del Deuteronomio e nei Salmi. Ci soffermeremo sul testo di Es 17,1-7.

La vocazione d'Israele come vocazione di Dio

Il libro dell'Esodo racconta un evento di importanza capitale: la liberazione d'Israele e la sua nascita come popolo. Per la prima volta il Dio della creazione, dei singoli patriarchi, ha interpellato una collettività in schiavitù, dimentica delle sue radici, facendosi conoscere con il suo «vero» nome JHWH (Es 3,14). Fedele alle sue promesse, le ha rivelato la sua paternità, la sua solidarietà di parente più prossimo (go'el) e l'ha chiamata ad entrare in alleanza con lui, ad essere la sua famiglia, la sua sposa (Es 6,2-8).. Si tratta di una scelta gratuita di Dio, dettata da un innamoramento (Dt 7,7-9). Il passaggio del Mare dei Giunchi è stato una nuova creazione: il «battesimo» di Israele come popolo. Ogni nuova creazione, come ogni liberazione, è coincidenza di morte e vita: libertà da una schiavitù ('abodah) disumana, libertà per un servizio ('abodah); morte ad una non identità e dispersione in Egitto, vita per una nuova identità e per una inedita vocazione. JHWH ha liberato Israele, perché solo da libero può scegliere di aderire al suo progetto di alleanza e di servizio. È al Sinai che Israele saprà cosa Comporti questa alleanza e questo servizio (cf Es 19,5-6): JHWH vuole fare di questo popolo la sua peculiare proprietà (segullah), un regno con la missione sacerdotale di rappresentare Dio dinanzi all'umanità e l'umanità dinanzi a Dio; una nazione (che avrà quindi terra e legge) chiamata ad essere santa, cioè a vivere e far trasparire la stessa vita e lo stesso stile di Dio. La vocazione d'Israele è la vocazione di Dio. Israele è ancora ignaro del dono e del compito che lo attende. Dinanzi ai suoi occhi il deserto, orrido ed ignoto.

La via del deserto

Perché Dio sceglie per Israele la strada del deserto, quando poteva condurlo per una strada più comoda (Es 13,17)?

Dt 8,2-5 risponde che è stato un test pedagogico della paternità di Dio. Nel linguaggio sapienziale del passo, il percorso del deserto è stato una scuola di sapienza e di correzione, dove il Padre «mette alla prova» il figlio, per togliergli le maschere del cuore, per educarlo alla ri-conoscenza (intesa nel suo duplice senso di riconoscimento e gratitudine). Nel deserto (midbar), cifra esistenziale dell'ambiguità e dei miraggi, Israele è stato chiamato a distinguere la Parola (dabar) dalle parole, a sperimentare la propria fragilità, la sconfitta delle proprie sicurezze per rendersi conto che la vita dipende unicamente da JHWH.

Dt 32,10-12 rilegge il cammino esodico come il tempo dello svezzamento premuroso:

«Egli lo trovò in una terra deserta... lo circondò, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio. Come un'aquila che veglia la sua nidiata... lo sollevò sulle sue ali».

Il deserto è stato il momento della crescita di un popolo neonato (per Ez 16 di una bimba trovatella), che prende coscienza della sua liberazione, e deve imparare a muovere i primi passi non solo verso «la terra», ma «alla presenza di Dio», accogliendone le direttive. In tutto il libro del Deuteronomio, il deserto si configura come una palestra di solidarietà, in cui si impara a diventare «fratelli», a condividere quanto viene offerto da Dio e a difendersi insieme.

Questi due testi, però, presentano una visione retrospettiva del cammino, che ha il respiro di chi è alle soglie della meta. Ma l'Israele presso il Mare dei Giunchi questo non lo sa. Il deserto si spalanca minaccioso davanti ai suoi occhi come morte, desolazione, come luogo inospitale e invivibile, spazio degli agguati e dimora degli spiriti maligni, dove bisogna avere i beni vitali essenziali, saper gestire bene le proprie forze per poterne uscire. Certo, nel cuore d'Israele c' è la memoria euforica della prodigiosa liberazione e il futuro delle promesse. Ma restano, non del tutto rimossi, due inquietanti interrogativi; il primo suggerito da Faraone, il secondo dal popolo: «II deserto bloccherà Israele?» (14,3); «Mosè, che ha fatto uscire Israele dall'Egitto, lo farà morire nel deserto?» (14,12). Alle spalle la morte di Egitto, davanti la «morte» del deserto. Parafrasando K. Barth, il deserto è come una porta: dietro si può trovare Dio o il diavolo. Israele è chiamato ad una scelta: saprà affrontare il rischio della sua libertà giovane e prepararsi a divenire quel che è? Saprà fidarsi di Mosè e di JHWH, che lo ha liberato e credere che si tratta di un tempo intermedio, ma obbligatorio, perché momento di nuda e necessaria verità? Oppure la difficoltà, la vertigine di questa libertà, ridesterà l'illusione e il rimpianto della falsa sicurezza della schiavitù? Nel primo caso il deserto può essere la chance della più completa intimità fra i partners, e della provvidenza di doni impensati nell'ottica di Dio; nel secondo, il deserto diventa lo spazio dell'insofferenza, della protesta, dello smarrimento. È per questo che nella memoria profetica d'Israele, il deserto sarà un simbolo ambivalente: in un certo filone (Os 2,16; Ger 2,2) viene letto in chiave ideale e positiva come il tempo del «fidanzamento»; ma in un altro filone profetico, il deserto non è stato altro che il tempo di una continua e crescente ribellione: «Ma gli Israeliti si ribellarono contro di me nel deserto; essi non camminarono secondo i miei decreti, disprezzarono le mie leggi, che bisogna osservare perché l'uomo viva» (Ez 20,13). Nel racconto dell'Esodo e dei Numeri, pur con differenze, ritroviamo quest'ultima pessimistica conferma: dal Mar Rosso al Sinai (Es 15-17) ed anche dopo il dono della Legge (Es 32; N m 11-12; 13-14; 16; 20; 21,4-9;

25,1-5) Israele non ha saputo cogliere questa chance.

Dal Mar Rosso al Sinai

Nel libro dell'Esodo, il cammino di Israele verso il Sinai si apre con Mosè, che leva l'accampamento presso il Mar Rosso (Es 15,22) e si chiude con l'accampamento davanti al monte (19,2). Il racconto del viaggio nel deserto si configura come un intreccio di episodi (Es 15,22-18,27) narrativamente autonomi, in luoghi non facilmente identificabili, di cui prospettiamo la sequenza:

a) 15,22-27 la mormorazione aMara

b) 16,1-36 le quaglie e la manna nel deserto di Sin

c) 17,1-7Ia mormorazione di Massa e Meriba a Refidim

d) 17,8-16 il combattimento contro Amalek a Refidim

e) 18,1-27 incontro di Mosè e Ietro - istituzione dei giudici a Refidim.

L'unità narrativa di questo intreccio è data dal «deserto», dagli attori Mosè, Dio, il popolo, presenti in tutti gli episodi, contornati di volta in volta da altri personaggi.

Una sorta d'inclusione c'è tra il primo episodio dove Dio «istruisce» (yrh) e impone delle direttive (hoq + mispathoq + torot 18,16.20). Sin dall'inizio c'è la compagnia di una istruzione che sarà codificata al Sinai, nella Torah. 15,25-26) e l'ultimo, dove il compito di Mosè è farle conoscere (

Ogni episodio presenta generalmente lo stesso schema: c'è una mancanza di un elemento vitale (acqua amara, carne-pane, acqua, difesa dai nemici, amministrazione della giustizia), e la soluzione di questa mancanza, per la mediazione di Mosè (gesto e/o invocazione), che assume un ruolo sempre più determinante.

JHWH appare sullo sfondo del racconto; parla direttamente solo con Mosè (ed Aronne), che è il suo portavoce. In ogni episodio la mancanza vitale fa emergere un suo «titolo» (il Medico 15,26; il Saziatore 16,29; il Vessillo 17,15; il Liberatore - Più grande di tutti gli dei 18,10-11; a Massa e Meriba appare invece sotto l'interrogativo del v.7).

Il popolo, particolarmente attivo nei primi tre episodi, non sembra far altro che «mormorare» (15,24; 16,2.7.8; 17.3), «mettere alla prova» (17,2.7) e «protestare» (17,2.7). Questa protesta scompare completamente negli ultimi due episodi.

Come un sinistro e seducente basso continuo in ogni episodio compare il termine «Egitto/egiziani», che ha un tono diverso sulle labbra degli Israeliti (15,26; 16,3; 17,3) e sulle labbra di Mosè, del narratore e di Ietro (16,1.6;18,1.8.9.10.11).

Massa e Meriba

Nel libro dell'Esodo l'episodio di Massa e Meriba (17,1-7) appare al centro del viaggio verso il Sinai. Si tratta di una tappa che ricapitola e costituisce il culmine delle reazioni negative del popolo dinanzi alle mancanze vitali, che si sono finora susseguite. Nel contempo, le conclude, perché sempre a Refidim, si svolgeranno, a quanto pare, gli altri due ultimi episodi del viaggio (combattimento contro Amalek e l'incontro con Ietro), senza alcun accenno di reazioni negative.

Il racconto attuale costituisce un'unità autonoma, delimitata stilisticamente dall'inclusione tra «l'assenza» ('yn) di acqua nel v.1b e la domanda sull'assenza ('yn) di Dio in mezzo al popolo nel v. 7. Appare una spiccata fraseologia giuridica di lite.

La sequenza narrativa assomiglia a quella dei precedenti episodi: a) quadro: il popolo si accampa a Refidim (v. 1); b) complicazione: manca del tutto l'acqua e il popolo spinto dalla sete protesta e mormora (vv. 1b-3); c) la «svolta»: Mosè invoca il Signore, che interviene, ordinandogli il percuotere la roccia con il bastone per far sgorgare acqua: Mosè esegue l'ordine (4-6); d) conclusione: il narratore offre un' eziologia e la chiave interpretativa dell'episodio.

La mormorazione d’Israele

Israele continua il suo viaggio. Quasi per ironia, nell'assonanza dell'ebraico, ogni tappa (ms') si è rivelata una prova (msh) di Dio. Si tratta di un test, che trova in una direttiva il proprio riferimento. Proprio nella prima difficoltà a Mara, Dio aveva dato a Mosè una «istruzione», che è nel contempo un limite (hoq). La bussola è una Parola, che finora si è dimostrata fedele; rispettarla è garanzia di protezione e di rotta ed impedisce di ricadere nella logica degli Egiziani. Mosè è il portavoce privilegiato di questa parola salvifica. Nel deserto Israele può fare solo questo: se non conosce la pista concreta, ha però una rotta precisa: ascoltare la voce del Signore e prestare orecchio ai suoi ordini (15,26). Sorge ancora una volta il problema di una mancanza vitale, che nel deserto è la mancanza per antonomasia. L'assenza totale d'acqua sembra tradire l'assenza di JHWH (cf v. 1 e v.7). La reazione del popolo è progressiva: la sete scatena la «protesta» e cresce in una «mormorazione» contro Mosè. La mancanza sfocia in un conflitto.

Soffermiamoci su questa reazione del popolo. Israele «protesta» contro Mosè. Il verbo usato (ryb) oltre ad avere un senso generico di protesta, scontentezza, rimprovero, che rivendica un diritto, è squisitamente termine tecnico giudiziale, il verbo della contesa bilaterale, dove i due contendenti devono risolvere la lite senza l'intervento di un terzo giudice. È lo stesso verbo che ritroviamo sulle labbra di Geremia e di Giobbe, che citano Dio in giudizio (Ger 12,1; Gb 9). Qui Israele mette sotto processo Mosè.

Israele «mormora» contro Mosè. Il verbo usato (lwn) ha il senso di brontolare, biasimare qualcuno, specie se è un capo; Israele critica la guida di Mosè. Ma processare e criticare Mosè, in realtà, è un processare e criticare Dio; Israele lo dimentica, il lettore lo sa dalle pagine precedenti (16,7-8); Mosè qui lo ripete, smascherandolo come un «mettere alla prova» (nsh) JHWH.

Forse uno dei testi più densi, in una situazione analoga, che riassume questo «mettere alla prova Dio», si trova nel libro di Giuditta. La città di Betulia è assediata dagli Assiri e il popolo è demoralizzato per la mancanza d'acqua; in preda all'esasperazione mette sotto processo il re e preferisce diventare schiavo degli Assiri, consegnando la città al saccheggio, se entro cinque giorni il Signore non interverrà. Dio appare come «colui che li ha venduti» (7,25) per farli morire di sete e di mali. A questo punto è Giuditta, a richiamare i capi alla saggezza:

«Chi siete voi che avete tentato Dio in questo giorno, evi siete posti al di sopra di lui, mentre non siete che uomini ? Certo voi volete mettere alla prova Dio onnipotente, ma non ci capirete niente, ne ora ne mai. Se non siete capaci di scorgere il fondo dell'uomo ne di afferrare i pensieri della sua mente, come potete scrutare il Signore, che ha fatto tutte queste cose, e conoscere i suoi pensieri o comprendere i suoi disegni? No, fratelli, non vogliate irritare il Signore nostro Dio. Se non vorrà aiutarci in questi cinque giorni, egli ha pieno potere di difenderci nei giorni che vuole o anche di farci distruggere. E voi non pretendete di impegnare i piani del Signore Dio nostro, perché Dio non è come un uomo che gli si possano fare minacce e pressioni come uno degli uomini. Perciò attendiamo fiduciosi la salvezza che viene da lui, supplichiamolo che venga in nostro aiuto e ascolterà il nostro grido, se a lui piacerà» (8,12-17).

Tentare Dio significa prendere il posto di Dio ed insegnargli il mestiere, pretendere una manifestazione tangibile del suo potere, ed imporgli le proprie scadenze. La fiducia di Giuditta nasce dalla sapienza di chi sa che Dio ha i suoi ritmi e le sue scadenze imprevedibili per l'uomo, ma a cui resta puntualmente fedele, come Egli stesso ricorda (Sal 75,3; Is 5,19; Ez 12,21-28).

Nel nostro testo «tentare Dio» significa ribaltare i ruoli, perché solo lui può «mettere alla prova» Israele (15,25; 16,4) donando un'istruzione e una «strada» in cui Israele deve camminare (16,4.28). Questa prova è un atto di amore secondo Sir 2,1-18, che mira a purificare il cuore e a crescere nel «timore di Dio», inteso non come paura, ma come rispetto reverenziale e fiducia in Lui, come unico Signore.

«Tentare il Signore» si traduce nel «mormorare». Mormorare contro Dio significa assenza di memoria. Israele dimentica JHWH, Signore unico della vita, che ha rivelato il suo potere sul cosmo in Egitto, che ha protetto i figli e il bestiame d'Israele (Es 9,3-4; 11,7; 12,12.31) ed ha trasformato il mare in terra asciutta; così come dimentica che è stato lui, nelle tappe precedenti, a trasformare le acque amare in acqua potabile, a donare carne e pane nel deserto.

Ma mormorare significa soprattutto rinnegare l' esodo, traviare il senso dei fatti. Ciò emerge nella domanda sarcastica: «Perché ci hai fatti uscire dall'Egitto nel deserto, per farci morire di sete?» (17.3). Israele legge l'Esodo come cammino verso la morte, non verso la vita: come già era accaduto (14,11-12;16,2) perde di vista la terra promessa, vede il deserto non come luogo di passaggio, ma come «sepolcro» per sempre, beffa, o tradimento di un Dio sadico, o impotente (N m 14,15-16; Gs 5,9). Riemerge nel termine «Egitto» il cuore schiavo d'Israele, la nostalgia del passato, il rifiuto della libertà del presente e della vocazione futura: in altre parole significa ripiombare nella logica di Faraone. Se ripensiamo a Es 16,2 il popolo, come Elia, Geremia, Giobbe e Giona, preferisce morire, anziché accettare e dare ragione alla logica di Mosè e di Dio.

La svolta avviene con il grido-querela (s'q) di Mosè, che fa intervenire Dio, come a Mara (15,25). È un grido che nasce non soltanto dalla paura di essere lapidato; in gioco non c'è soltanto la sua vita, ma anche il nome di Dio ed il senso dell' esodo. La preghiera di Mosè è la reazione antitetica alla mormorazione e nasce dalla fiducia nell'intervento di Dio. Dio ordina a Mosè di percuotere la roccia, con lo stesso bastone con cui aveva percosso il Nilo. È uno strumento che fa memoria di una salvezza già avvenuta e disponibile. Mosè deve passare «davanti» al popolo, mentre Dio starà «davanti» a Mosè sulla roccia nell'Oreb. In questa posizione Mosè appare come «sacerdote», unico intermediario tra il popolo e JHWH. Il prodigio in se non viene descritto, ma si dice brevemente che Mosè eseguì l' ordine sotto gli occhi degli anziani, testimoni privilegiati e rappresentanti ufficiali del popolo. Diversamente dal racconto di Nm 20, non si accenna a nessuna reazione di fede, o incredulità del popolo, ne a qualche punizione o castigo.

«Il Signore è in mezzo a noi sì o no?»

Il racconto termina con una chiosa del narratore che spiega i toponimi Massa (= prova) e Meriba (= contestazione), ricapitola l'episodio e ne interpreta il senso con l'interrogativo: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?». Se si legge il testo, ci accorgiamo che gli Israeliti non hanno mai fatto questa domanda. Non è la prima volta che il narratore esplicita parole mai dette dal popolo (cf 14,12). L'interrogativo rimette in discussione i precedenti titoli positivi di Dio compagno e aiuto nel cammino, il nome stesso di JHWH e della sua presenza in mezzo al popolo: nome che significa capacità di agire (3,12-15; 8,8). Il narratore lo lascia volutamente aperto ed è un invito a rileggere il racconto: perché e per chi? Per i lettori di sempre, dell'Israele che rilegge la storia e di noi che la rileggiamo oggi. Ecco allora che nel racconto dell'Esodo, «il giorno di Massa e Meriba» diventa un tragico anticipo del peccato di Es 32 (il vitello d'oro) e trascende un preciso momento storico per abbracciare tutta la storia e giungere al cuore della questione capitale del rapporto tra Israele e Dio. In questa parabola sapienziale il narratore retroproietta tutte le domande, i «deserti» e le «seti» dei momenti più drammatici di Israele, soprattutto la domanda e il deserto dell'esilio: «E forse la mia mano troppo corta per riscattare, oppure io non ho la forza per liberare?» (Is 5,20). Non si tratta di un quesito filosofico, né tantomeno della domanda di un ateo. È la domanda del saggio o dello stolto, ambedue in difficoltà nel capire l'eloquente «silenzio» di

Dio. Il lettore viene chiamato a decidere, a dirimere la «lite» tra JHWH e il popolo alla luce di quanto è accaduto e sa; è sempre il lettore che deve riconoscere la «presenza» di JHWH nell'«assenza» dell'acqua e nell’agire di Mosè. La risposta è sapienziale, perché riguarda due giudizi di valore: quello del popolo che stravolge il senso dell'esodo, interpretandolo come cammino di morte, strategia di un Dio sadico o assente. Quello di Mosè e degli anziani per cui Dio continua ad essere presente nell'assenza, a ripetere i suoi gesti salvifici. La scelta è anche fra due atteggiamenti dinanzi allo stesso bisogno o assenza: protestare contro Dio o supplicarlo come Mosè. I due atteggiamenti possono coincidere, come per Giobbe, Geremia, Abacuc (Ab 1,2): è possibile chiamare in causa Dio in una querela, che nasce dalla fede e si fida, pur inquieta, del suo disegno. Implicitamente il lettore è invitato ad avere gli occhi di Mosè e degli anziani e a far loro riferimento. Nell'abbandono della fede, come per Giobbe, è possibile approdare da una «conoscenza per sentito dire» di Dio ad una visione o esperienza fatta sulla propria pelle (Gb 42,5); ma questa sapienza passa inevitabilmente per la «lotta» di Giacobbe con l'Altro (Gn 32,23-33).

Il NT ha riletto il cammino del deserto come paradigma dell'esperienza cristiana: la prova autentifica la vocazione dei figli di Dio (cf 1 Cor 10). In particolare, nel sermone agli Ebrei, Massa e Meriba diventano paradigma del rischio e della crisi del credente, tra il già del battesimo e il non ancora della meta. Nel «viaggio», abbiamo il viatico e la bussola di una Parola viva ed operante, che chirurgicamente mette a nudo la verità del nostro cuore (Eb 3,7-4,13).

È in Gesù che troviamo risolto il ryb, la contesa tra il popolo e Dio. Figlio di Dio e Figlio dell'Uomo, nel corso del suo ministero si presenta con i titoli di JHWH: è il Medico (M c 2,17), il Saziatore (M c 6,41), l'acqua viva (Gv 4,13), nonché il vessillo salvifico (Gv 3,14) e la giustizia di Dio (1 Cor 1,30). Ma è soprattutto il Dio in mezzo a noi, l'Emanuele (Mt 1,22; 18,20; 28,20). Anche lui subisce le mormorazioni della gente, che contestano la sua Parola e Il suo modo di agire, fino a metterlo sotto processo.

Gesù ha sperimentato il deserto, accettando la prova (Mt 4,1-11). Ma è sulla croce, che ha avuto sete (Gv 19,28). Se al Getsemani ha lottato come Giacobbe (Lc 23,44), sul Golgota Gesù non solo attraversa, ma diventa il deserto stesso di Dio. Il suo grido-protesta «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,45; Mc 15,34) si traduce in fiducioso abbandono al Padre: «Nelle tue mani consegno il mio spirito/gola» (Lc 23,45). Ed il Padre lo trasforma in sorgente di acqua viva per l'umanità (Gv 19,34).

(da Parole di vita, 4, 1997)

In cammino con Dio

Es 15: Il canto del mare

di Guido Benzi

Il Canto del Mare segue immediatamente la narrazione del passaggio miracoloso del mare dei Giunchi da parte degli Ebrei. Si tratta di un inno epico, nel quale si fondono i temi della vittoria e della salvezza operate da Dio in favore del suo popolo, onde poterlo far giungere alla «santa dimora». Il Canto del Mare segue immediatamente la narrazione del passaggio del mare, ma se ne discosta, anzi si innalza, e questa sua prospettiva dal respiro epico travolge tempi e momenti: essa parte da un «qui» ed un «ora» (15,1) che è il momento in cui Israele ha passato il mare e le acque hanno travolto l'esercito egiziano, ma enumera poi in una rapida carrellata i popoli (Filistei, Edom, Moab, Canaan) che lo separano dalla meta, fino a intravedere questa meta, il «monte della tua eredità», il «santuario che le tue mani hanno fondato» (v. 17), dunque più in là del Sinai, più in là del Giordano, sulla soglia del Tempio.

Possiamo veramente dire con alcuni commentatori moderni che il Canto del Mare è come lo srotolarsi di un tappeto rosso che dal fondo del mare entra nel cuore del Tempio di Gerusalemme. Dunque inno epico, nel senso che fa di un evento una figura capace di interpretare l'intera storia di un popolo, e dell'umanità. Figura in movimento di danza, con la voce di Mosè, in contraccanto a quella di Miriam, ed il suono dei cembali. Figura di un popolo perennemente in cammino tra il Santuario e la Croce, come magistralmente ha interpretato Marc Chagall, nel suo «Le passage de la mer Rouge». Poema che diviene visione dell'intera storia vissuta da Israele, non solo nel suo Esodo dall'Egitto, o nel suo vagare nel deserto, ma in ogni tempo. Momento di sosta, respiro lungo, esplosione di gioia e ringraziamento dopo la tensione raccontata dalla narrazione dell'Esodo. Celebrazione di un atto di fede che ha per contenuto la coscienza di una vocazione: essere popolo, popolo di Dio, da Lui salvato, educato, «piantato» come segno per tutta l'umanità dell'amore di Dio, perché «il Signore regna in eterno e per sempre!».

1. Un testo che sfugge ad ogni classificazione

In effetti il Canto del Mare è un testo «sfuggente» nel senso che da un lato è molto chiara la sua funzione, quella di celebrare in senso poetico il passaggio del mare, lasciando poi che l'ombra di tale evento capitale si prolunghi su tutta la storia di Israele, dall'altro però tale testo non si lascia del tutto catturare dagli strumenti, anche i più sottili, dell' analisi esegetica. Non è questa la sede di pignole discussioni filologiche, ma non può essere passato sotto silenzio il fatto che già solo la considerazione dei tempi verbali di questo inno pone molti problemi irrisolti: il maggiore dei quali sta nel passaggio continuo dai passati ai futuri (le cui forme nell'ebraico sono assimilabili). Questo avviene soprattutto nel v. 9 e nei vv. 16-17 ed è in quest'ultimo passaggio che si pone un interrogativo: l'entrata nella terra promessa è concepita come un evento futuro o passato? Si tratta di un canto «profetico», o di una celebrazione molto posteriore? Gli studiosi sono incerti, anche se è chiaro che, comunque vada, nel momento in cui il Canto è stato redatto, Israele ha già piena coscienza della sua identità di popolo di Dio, da Lui salvato e costituito.

Anche dal punto di vista dell'analisi della forma letteraria del Canto non troviamo unanime consenso. Inno, salmo d'intronizzazione, litania, salmo di vittoria, salmo di ringraziamento: ognuna di queste denominazioni trova almeno un riscontro nel testo, e tuttavia il Canto del Mare nella sua interezza non ne rispecchia con chiarezza nessuna. Certamente il Canto contiene elementi innici con particolare riferimento alla grandezza di Dio (6-11). I versetti di apertura sono tipici del salmo di ringraziamento. Vi sono ripetizioni che sarebbero ritornelli litanici. La formula «II Signore regna» è tipica dei salmi di intronizzazione. E certamente si tratta di una celebrazione di vittoria. Il contesto globale suggerisce dunque che il Canto sia nato originalmente come inno di vittoria e che poi si sia ampliato in nuove e successive utilizzazioni di tipo celebrativo e cultuale, e tuttavia non ci sono argomentazioni forti per appoggiare tale teoria.

Nemmeno la sequenza dei fatti narrati nel Canto offre uno spunto di organizzazione. Essa non segue affatto la narrazione di Es 14, anche se ne conserva qualche spunto nei vv. 8-10. Considerando questa «libertà» del Canto esso si avvicina di più alle rievocazioni storiche fatte dai salmi (78, 105, 106), anzi ne sarebbe il prototipo.

Dunque, la denominazione scelta in questo articolo, di inno epico, non si basa su considerazioni di tipo formale, ma su considerazioni di tipo contestuale: di fatto il Canto del Mare, così come 10 si trova oggi nella narrazione dell'Esodo, ha un valore rievocativo che decisamente supera i confini ristretti della storia e delle forme in cui è nato.

Quanto detto pone anche il problema (pure questo irrisolto) della datazione di questo inno. Tralasciando ogni indicazione di data (che comunque anche nei più noti autori è alquanto vaga: essi oscillano infatti tra il XIII ed il V sec. a.C.) possiamo valutare gli argomenti a favore o contro di una tradizione antica o alquanto recente. Di fatto possiamo affermare con Childs che il Canto del Mare appartenga alla tradizione dell'Esodo, cioè che si inserisca nell'ambito di una tradizione narrativa già sviluppata sebbene esso presenti l'evento del mare come una vittoria sugli Egiziani piuttosto che l'uscita dall'Egitto. In secondo luogo va registrato che il Canto presenta la tradizione del mare connessa alla tradizione della conquista della terra promessa, che va presupposta.

Riguardo al rapporto tra la tradizione del mare descritta in Es 15 e quella descritta in prosa, va notata una certa differenza (segnata anche dal genere diverso tra prosa e poesia) ma si deve affermare comunque una consonanza. Il Canto descrive una doppia azione del mare. Le acque si ammassano al soffio di Dio (v. 8) e poi sempre per il soffio di Dio ricoprono il nemico (v. 10). L'effetto del vento è quello di «congelare» le acque. Appaiono anche i due elementi presenti nella narrazione delle fonti J e P cioè il vento e la muraglia d'acqua (14,21-22). In che rapporto sta Es 15 con J e P? Es 15 apparterrebbe ad una tradizione parallela al più antico racconto di J e questo manifesterebbe la antichità della tradizione del mare. A testimoniare una datazione assai antica concorrono anche argomenti di tipo filologico i quali forniscono una base abbastanza certa. Si può certo pensare ad arcaismi, normalmente presenti nel linguaggio poetico, ma la coerenza delle ricorrenze starebbe a testimoniare una certa genuinità.

Un particolare non di poco interesse è il rapporto tra il Canto del Mare, attribuito a Mosè, e la strofa attribuita a Miriam nel v. 21. Alcuni commentatori (Noth, Boschi) ed in generale la scuola tedesca, hanno pensato che si tratti del primo nucleo del Canto, di datazione assai antica, di tradizione E. Altri studiosi, di scuola anglosassone, seguendo Albright, hanno sostenuto che si tratti semplicemente del titolo del Canto, o eventualmente del ritornello. Con Childs notiamo che tali disquisizioni si affidano a degli argomenti congetturali assai deboli.

In conclusione anche dalla complessità della storia redazionale e testuale del Canto del Mare, notiamo la sua importanza nell'ambito della narrazione dell'Esodo, ed anche nell'ambito della celebrazione cultuale del prodigioso intervento di Dio in favore del suo popolo.

2. Struttura e ritmo

Anche la struttura di Es 15,1-21 è stata assai studiata. Certamente il v. 1 ha un suo posto particolare, sia per l'uso della prima persona singolare, sia per la sua ripresa al v. 21, che conclude questa sezione dei due canti.

Anche il v. 18, ha una sua particolarità, e richiama le acclamazioni cultuali del tempio o il grido di celebrazioni di intronizzazione.

Il brano in prosa del v. 19 sembrerebbe una cucitura redazionale ad opera del redattore sacerdotale (P), il quale richiama l'evento del mare per saldare i due inni al racconto di Esodo.

I vv. 20-21 restituiscono il contesto narrativo e il testo del Cantico di Miriam.

Rimane da esaminare la struttura di 2-17. Molte sono le strutturazioni proposte: Boschi propone una strutturazione di tre stanze divise in quattro strofe l'una. Noth nota un punto di cerniera nei versetti 12-13 ponendo in sequenza i tre atti redentivi di Dio: stendere la destra, guidare, condurre alla meta.

Sembra comunque assai saggio notare che il Canto si divide tematicamente in due grandi ante: il prodigio del mare e il passaggio di Israele tra i popoli. Così va preferita la suddivisione più semplice suggerita da Alonso Schökel: 1-3 introduzione innica con elementi specifici e generici; 4-12 sconfitta degli Egiziani nel mare ad opera dell'azione di Dio (va notata l'inclusione del tema della «destra» in 6 e 12); 13-18 Israele passa tra i popoli fino alla visione del Santuario. Si tratta di un dittico assai espressivo: come le acque all'intervento di Dio si ergono a muraglia, così i popoli «restano immobili come pietra».

Resta da dire qualcosa sul ritmo poetico adottato: si tratta prevalentemente di un ritmo binario, scandito anche dall'uso di ripetizioni.

3. Da canto di vittoria a professione di fede

Il contesto in cui è collocato il Canto del Mare è chiaramente un contesto di vittoria sugli Egiziani. Tuttavia abbiamo visto come questa vittoria si arricchisca via via di tutti gli elementi del cammino di Israele fino alla terra promessa e alla visione del Santuario. Abbiamo notato come la storia della redazione di tale testo sia una storia complessa, che non va trascurata, ma che neppure va enfatizzata a discapito della sua collocazione attuale nel libro dell'Esodo. Notiamo un elemento di continuità ed uno di discontinuità che danno a pensare.

La continuità sta nel fatto che il Canto del Mare è appunto presentato come canto di vittoria, appena passato il Mare dei Giunchi. Canto di vittoria, ma anche di scampato pericolo. Esso sostanzialmente ripete ciò che il racconto in prosa ha già fissato, ma lo ripete in modo poetico, cioè dal «di dentro» del sollievo e della gioia che esplode di fronte alla salvezza. Esso dunque ha un effetto «corale» molto interessante, perché esprime, attraverso una sorta di ripiegatura all'interno del racconto, il «sentire» di coloro che sono impegnati nello svolgimento della narrazione.

Ma proprio qui sta l'elemento di discontinuità. Di lettura in lettura, di passaggio in passaggio, il Canto del Mare si è arricchito (ed ancora in qualche modo si arricchisce) della voce di coloro che lo leggono, anzi di coloro che lo recitano nell'assemblea del Signore. Per cui non è solo più vittoria sull'Egitto, ma diviene vittoria sulla Filistea, su Moab, Edom, Canaan. Diviene un inno alla vittoria perenne che Dio opera in favore del suo popolo.

Nella sezione introduttiva di 1b-3 e nella sezione che narra la vittoria sugli Egiziani (4-12), predomina il costante attributo della vittoria a Dio. Scompare ogni attore (Mosè, Aronne, il popolo), Dio solo è colui che opera il prodigio e la vittoria. Anche il nemico viene citato in modo specifico solo in un punto (v. 4: riferimento ai carri, esercito, capi del faraone) mentre nel resto del Canto lo si cita genericamente. Dio, padrone del cosmo, al quale si piegano in obbedienza gli elementi della creazione (acque, vento, fuoco, pietra), è anche colui che salva, colui che abita la storia, che dona vittoria al suo popolo.

Nella sezione che narra la vittoria sui popoli, si canta Dio come il pastore del suo popolo (al v. 13 va preferita la traduzione di Boschi «l'hai condotto al suo pascolo santo»), che lo guida con la sua provvidenza, alla terra promessa e al Santuario.

Di fatto va notato come questo canto di vittoria abbia tutte le caratteristiche di una professione di fede come sottolinea anche il v. 14,31: Credettero a Dio e a Mosè suo servo. Si tratta dunque di una vera e propria interpretazione della storia alla luce dell'azione di Dio, una azione di salvezza, che ancorata in un momento preciso della storia di Israele (14,30 Quel giorno...) si estende a tutto il futuro, fino all'eternità (Ap 15,3).

(da Parole di vita, 4,97)

Martedì, 18 Settembre 2007 01:38

Lezione Dodicesima. L'esperienza dell'esilio

Lezione Dodicesima

L’ESPERIENZA DELL’ESILIO

 



«Dopo la caduta di Gerusalemme
fui trasferito in Babilonia
e là Israele fu
quale nave senza nocchiero»

(Poesia di chiusura della Megillà di Puru)

1. L’Evento storico

Sotto il nome di esilio si designano le deportazioni in Babilonia dei notabili del popolo d’Israele, vinto ed assoggettato militarmente dalla potenza caldea. Questo fenomeno era comune nell’Oriente antico: la deportazione delle classi dominanti dal punto di vista economico, politico e spirituale, era una misura preventiva contro eventuali insurrezioni (cfr. Am. 1).

Teologia africana.
E continuiamo a interrogarci

di Benoît Awazi Mbambi Kungua

Una carrellata sulla teologia africana ci rivela come questa disciplina abbia fin dall’inizio trovato il suo senso fuori dalle biblioteche, là dove il cammino di liberazione dei popoli africani cerca di aprirsi un sentiero.

1956. Esce in libreria Des prêtres noirs s’interrogent (Éditions du Cerf), lavoro collettivo di un gruppo di preti neri, africani e haitiani che a Roma stavano approfondendo la loro formazione teologica. Avevano voluto affrontare apertamente, per iscritto, la questione della loro identità nella chiesa cattolica romana. Erano consapevoli di come l’impiantazione della chiesa nell’Africa subsahariana fosse andata di pari passo con il processo di colonizzazione militare, politica ed economica. La collusione storica e tragica fra l’impresa colonizzatrice e l’evangelizzazione aveva determinato in grande misura la ricezione del cristianesimo da parte degli africani. Quel libro - pubblicato alla vigilia delle indipendenze politiche formali - svelava la fonte e l’orientamento teologico-politico ed emancipatore del “discorso teologico neroafricano”.

A cinquant’anni di distanza, il pensiero teologico neroafricano contemporaneo può essere individuato in alcuni assi principali che andiamo a esaminare concisamente.

Nel 1960, anno dell’indipendenza dell’attuale Repubblica democratica del Congo, nella capitale Léopoldville (oggi Kinshasa) si svolse una pubblica disputa tra un giovane sacerdote, Tharcisse Tshibangu Tshishikuiku - attualmente arcivescovo di Mbuji-Mayi - e un suo professore belga, padre Alfred Vanneste. Oggetto del contendere era la possibilità scientifica di un discorso teologico neroafricane autonomo, culturalmente nonché politicamente e socialmente incarnato. Era una possibilità che il giovane prete difendeva con fermezza e che il suo oppositore escludeva con altrettanta decisione. Per Vanneste, la cattolicità della chiesa comportava ipso facto l’adozione pura e semplice delle elaborazioni teologiche, canoniche e dogmatiche europee e romane.

Sostenere quest’ultima posizione era, all’epoca, perfettamente comprensibile; non lo è più oggi, quando una pluralità di teologie neroafricane hanno voltato le spalle alle “tenebre” e agli appesantimenti dell’etnocentrismo occidentale e coloniale.

Nell’attuale congiuntura mondiale è più che mai necessario interrogarsi seriamente sulle alternative teologiche e spirituali provenienti dalle giovani chiese d’Africa, Asia e Sud America: qui si sperimenta una rapida crescita demografica e un’evidente vitalità della loro prassi teologica, liturgica, politica, sociale ed ecclesiale. Nelle alternative teologiche neroafricane va riconosciuta una netta volontà di resistenza spirituale e culturale alle ideologie nichiliste, consumistiche e atee propagate anche da certe reti occulte che controllano i movimenti dei capitali e del sapere su scala planetaria.

L’opera che ha saputo ripercorrere con talento e genialità le grandi tappe del processo di riappropriazione neroafricana del cristianesimo è indubbiamente Discours théologique négro-africain del congolese Oscar Bimwenyi-Kweshi: edita a Parigi da Présence Africaine nel 1981, mise il punto finale al dibattito sulla legittimità di una teologia africana autonoma.

Le cristologie

Il Nome - con il connesso processo del nominare - rappresenta in tutte le culture una modalità ontologica di conoscere l’altro e di penetrarne il mistero. Nelle tradizioni neroafricane, dove la scrittura non ha lo stesso significato filosofico e politico che riveste nelle culture occidentali di radici greco-latine, la parola viva, orale, pronunciata su una persona permette di iniziare un dialogo e una relazione di conoscenza reciproca. Per chi si sia preso il tempo di osservare con attenzione le società africane nella loro quotidianità, la preponderanza delle relazioni interpersonali e orali appare come un’evidenza. Il primato del relazionale, dell’orale e dell’invisibile costituisce un criterio epistemologico importante per capire dall’interno le culture neroafricane.

L’etnografia coloniale ha a lungo diagnosticato questa propensione all’oralità come un mero deficit di filosofia, civiltà, cultura e pensiero scientifico. L’assenza di tracce scritte assimilabili a quelle esistenti nelle civiltà europee è servita da base “scientifica” agli ideologi della colonizzazione, con le conseguenze catastrofiche che sappiamo. Si rivela, perciò, particolarmente importante prestare interesse alle elaborazioni teologiche e orali delle chiese afrocristiane e terapeutiche “del risveglio” (di derivazione evangelica) che si vanno sviluppando. Cristo diventerà africano nella misura in cui riceverà dei Nomi culturalmente, spiritualmente e teologicamente significativi, probanti e pertinenti per le culture neroafricane.

Le cristologie rappresentano, dunque, dei tentativi originali e popolari di rendere familiare e comprendere il mistero del Dio fatto uomo, crocifisso e risorto, e di entrare in relazione con esso. Per questo, gli africani chiamano Cristo “Proto-antenato”, “Maestro d’iniziazione”, “Capovillaggio”, “Liberatore”, “Salvatore”...., Il titolo più utilizzato dalle comunità carismatiche e terapeutiche del risveglio per definire Cristo è, invece, “Esorcista” e “Taumaturgo”. Il rilievo dato dai cristiani africani delle chiese carismatiche, pentecostali e terapeutiche alla guarigione divina costituisce una dimensione primordiale ed esemplare nelle cristologie africane contemporanee.

Liberazione

Non si darà vera liberazione teologico- politica senza la volontà tenace degli africani di guardare in faccia la propria storia. La disintegrazione totale delle strutture istituzionali, sociopolitiche e religiose impiantate dalla colonizzazione nel 19° e 20° secolo è il sintomo palese dell’aggravarsi della crisi postcoloniale.

Il teologo che più di altri ha espresso e incarnato questa storia tragica - nella sua azione, nell’impegno intellettuale, sacerdotale, artistico e sociopolitico, nella sua stessa vita - è Engelbert Mveng. Lui, che vedeva con lucidità come il complesso di cause della crisi neroafricana si collocasse a livello antropologico e ontologico, visse tutta la sua vita cosciente del destino tragico che attende ogni profeta. Denunciò - a tempo e fuori tempo, come una sentinella - le potenze di morte che stanno alla base delle strutture capitaliste e militari internazionali che strangolano i paesi africani. Fu assassinato il 23 aprile 1995, nella sua abitazione di Yaoundé (Camerun): gli furono esportati gli organi genitali e il cervello, senza dubbio utilizzati in qualche rito satanico e magico.

Siamo qui nel baricentro del discorso teologico neroafricano. Il futuro del cristianesimo nel continente si sta giocando sulla capacità delle chiese di gestire in modo lucido, teologico e responsabile la vasta e problematica questione della stregoneria e dei riti magici, in evidente recrudescenza. Quale cristologia promuovere per attrezzare teologicamente e politicamente i cristiani africani costretti a esercitare la loro storicità in società guidate da regimi apertamente cannibali, diabolici e macabri?

A proposito di questo orientamento profetico della teologia neroafricana della liberazione, è giusto fare memoria dei vescovi che hanno obbedito alla loro vocazione profetica con audacia e intrepidezza, fino al dono della vita. Christophe Munzihirwa ed Emmanuel Kataliko, per esempio, due vescovi congolesi che non hanno indietreggiato davanti alla tirannia sanguinaria del dittatore ruandese Paul Kagame - sostenuto da una impressionante logistica, garantita dalle potenze occidentali - nel suo tentativo di annettersi il Kivu, la ricca regione orientale della Repubblica democratica del Congo, i cui minerali sono tanto necessari alle industrie occidentali.

Alla stregua di Mveng, Kataliko e Munzihirwa sono figure di primo piano della patristica neroafricana.

Ed è nell’atmosfera sociopolitica e culturale di proliferazione e banalizzazione della stregoneria e delle pratiche magiche che va salutata l’audacia profetica e teologica delle cristologie carismatiche e mistiche promosse dal gesuita camerunese Meinrad Hebga. Con l’aperto incoraggiamento dato a una cristologia terapeutica e mistica della liberazione, il teologo hanno anticipato con perspicacia, fin dai primi anni Ottanta, la questione della gestione teologica dei problemi legati alla stregoneria nei grandi agglomerati urbani.

Il completo controllo esercitato dalle società esoteriche e occulte internazionali sulla quasi totalità dei paesi africani rende urgente la promozione di una cristologia terapeutica della liberazione teologico-politica. E’ la sovranità assoluta, escatologica e terapeutica di Dio sulle potenze della morte che viene invocata dai teologi esorcisti come Hebga e Milingo. Le nuove chiese del risveglio nelle loro liturgie praticano abitualmente l’esorcismo e la preghiera di guarigione spirituale. Siamo davanti a un turbine nel quale si sta già giocando l’avvenire del cristianesimo nelle società neroafricane: non solo nelle megalopoli del continente, ma anche nelle diaspore europee (Londra, Amsterdam, Berlino, Losanna e Bruxelles, Parigi e Roma…..) e dell’America settentrionale (New York e San Francisco, Chicago, Ottawa, Quebec...).

Ma non possiamo chiudere questa pagina dedicata alla teologia della liberazione senza segnalare l’opera prolifica e profetica di Jean Marc Éla, teologo camerunese in esilio a Montréal. Da trent’anni Éla incarna una tendenza vigorosa e iconoclasta della teologia dell’emancipazione teologica, politica ed economica delle classi popolari. La sua teologia è una lettura neroafricana del libro dell’Esodo a partire dalle preoccupazioni teologiche, spirituali, terapeutiche, politiche ed economiche degli emarginati e dei più poveri, che rappresentano la grande maggioranza delle società africane. E’ una teologia che stigmatizza la dominazione politica, economica, ideologica e teologica che continua a essere esercitata dalle chiese occidentali sulle chiese locali d’Africa in nome di una visione e di una pratica eurocentriche ed etnocentriche della cattolicità.Jean Marc Éla ha consegnato la sintesi della sua teologia in una sorta di summa, uscita due anni fa: Repenser la théologie africaine (Karthala).

Ben più che un cenno fugace meriterebbe la critica teologica e filosofica al cristianesimo coloniale operata da Fabien Eboussi Boulaga, anch’egli camerunese. Di cui citiamo almeno due opere: La crise du Muntu (Présence Africaine, 1977) e, per lo stesso editore, Christianisme sans fétiche (1981). Melchior Mboninmpa ha attualizzato il pensiero di Eboussi Boulaga in Défjs actuels de l’identité chrétienne (L’Harmattan, Paris,1996).

Ricostruzione

È il pastore luterano congolese Kä Mana il principale esponente della teologia della ricostruzione in ambito francofono. La problematica della “ricostruzione” è nata fra i teologi protestanti della Conferenza delle chiese di tutta l’Africa (Aacc/Ceta), nell’intento di proporre un nuovo paradigma - epistemologico, pastorale, etico, politico e teologico - ai cristiani africani, in una situazione in cui i paesi africani hanno raggiunto una sovranità politica formale e in Sudafrica è stato smantellato l‘ultimo bastione del razzismo e del totalitarismo, il compito fondamentale della teologica africana oggi non è più tanto quello di inculturare la fede cristiana o di liberare gli africani dal giogo del razzismo colonialista, ma di ricostruire, a livello teologico, etico, politico, economico, sociale e culturale, le società acefale e senza legge dell’Africa postcoloniale.

La ricostruzione s’ispira al modo in cui Dio gestisce le grandi crisi dell’umanità nella Bibbia (la caduta originale, l’espulsione dall’ Eden, l’esodo, la liberazione dalla schiavitù d’Egitto, l’esilio, il ritorno e la riedificazione del tempio...). Questa teologia sollecita gli africani a scuotersi da un torpore secolare e a dare vita a società politicamente, economicamente e moralmente viabili, capaci di far fronte agli attacchi della globalizzazione neoliberista, i cui criteri di competitività, di produttività e di crescita marginalizzano e indeboliscono considerevolmente le società neroafricane contemporanee.

Le opere fondamentali di questa corrente teologica sono quelle di Kä Mana: da LAfrique va-t-elle mourir? (Karthala, 1991) a Bousculer l’imaginaire africain (Cerf, 1993), seguite da Théologie africaine pour un temps de crise, Christs d’Afrique, La nouvelle évangélisation de l’Afrique (tutte per Khartala, fra il 1993 e il 2000).

In Africa occidentale

Dovendo scegliere tra i numerosi teologi di questa regione del continente (Éfoé-Julien Pénoukou, Anselme Titianma Sanon, Jean-Claude Djéréké…), ci soffermiamo su Barthélemy Adoukounou, che ausculta dall’interno la religione vodù, con un’analisi al contempo etnologica e teologica.

Il vodù del Benin riconosce l’esistenza di un Dio sovrano, trascendente e creatore di tutte le sfere ontologiche. Gli adepti dei vodù lo chiamano Mahou. Ma poiché Mahou è lontano dalle vicissitudini quotidiane degli uomini e distante dalla trama storica e cosmica della loro vita, ha delegato il potere di giurisdizione sugli affari umani a dei - o spiriti - subalterni: i vodù, i loa…... Ogni vodù controlla una porzione cosmica e ontologica. Esiste così un dio del fulmine, un dio della pioggia, del fuoco, della fecondità, della guerra…... Gli uomini devono offrire loro dei sacrifici animali e umani per assicurarsene il favore.

E qui che Adoukounou ingiunge agli adepti del vodù che si convertono al cristianesimo di troncare con i sacrifici sistematici di bambini in occasione delle cerimonie occulte di purificazione del re di Abomey, che hanno luogo a settembre, quando inizia l’anno nuovo. L’opera fondamentale del teologo beninese a questo soggetto è del 1980: Jalons pour une théologie africaine - Essai d’une herméneutique chrétienne du Vodun Dahoméen (Lethielleux &Culture et Vérité). Analoghe letture sono applicate anche al vodù di Haiti: Dieu dans le vaudou hatien, di Laënnec Hurbon (Maisonneuve &La- rose, 2002), e Le vodou haïtien: reflet d’une société bloquée, di Fridolin Saint-Louis (L’Harmattan, 2000).

Prospettiva storica….

Dopo avere insegnato teologia alle facoltà cattoliche di Kinshasa, Alphonse Ngindu Mushete vive oggi nella sua diocesi di origine, Mbuji-Mayi, nella Repubblica democratica del Congo. Appartiene alla generazione dei pionieri della teologia africana. insieme con MvengTshibangu Tshishiku, Meinrad Hebga. Vincent Mulago, Eboussi Boulaga, BimwenyiKweshi, Adoukounou…..

È stato l’avvocato della causa della teologia neroafricana attraverso numerosissimi articoli pubblicati sulle più prestigiose riviste internazionali di settore: “., Concilium, Bulletin de Théologie Africaine, Spiritus…. . . La sua tesi di teologia verteva sulla conoscenza religiosa in Lucien Laberthonnière, filosofo cattolico messo all’indice durante la controversia modernista a cavallo tra 19° e 20°secolo. Ngindu Mushete è uno dei primissimi teologi ad avere tentato, dopo quell’anno 1956, una presentazione sistematica e panoramica delle ricerche teologiche africane. In italiano è apparso un suo importante titolo, La teologia africana in cammino (Edizioni dehoniane, Bologna, 1988), oltre a diversi articoli.

….Biblica….

Paulin Poucouta, biblista del Congo Brazzaville, dopo aver insegnato in diversi seminari maggiori, è attualmente professore di esegesi all’Università cattolica dell’Africa centrale a Yaoundé (Camerun). Aveva fatto i suoi studi all’Istituto cattolico di Parigi e alla Scuola biblica di Gerusalemme. Sta gettando le basi per una lettura decisamente neroafricana della Bibbia. Si dedica, in particolare. alla ricerca del significato dell’Apocalisse per le chiese dell’Africa d’oggi e all’attualizzazione teologica del profetismo biblico in chiave neroafricana. Di lui la Queriniana ha pubblicato nel 1999 Letture africane della Bibbia.

…..E metodologica

Il camerunese Eloï Messi Metogo s’interroga sulle questioni di metodologia, sulla scia di Bimwenyi-Kweshi, Tshibangu, Nathanaël Yaovi Soédé, Syvain Kalamha Nsapo.... Ma la sua tesi principale - e anacronistica - consiste nel sostenere l’esistenza dell’ateismo nelle società neroafricane. E una tesi dal carattere inconsistente, fantasioso, ideologico e concordista, totalmente montata su istigazione dei circoli “africanisti” parigini che credono di poter continuare a controllare indefinitamente la riflessione di carattere teologico, religioso e antropologico sulle società neroafricane contemporanee.

La battaglia pubblica e accanita, che su questo terreno si combatte fra gli africanisti eurocentrici di Parigi e gli egittologi africani, avrà sicuramente delle ripercussioni di prim’ordine sullo scacchiere teologico neroafricano. Ho già chiaramente espresso nel mio libro, Panorama de la théologie négro-africaine contemporaine (L’Harmattan, 2003), una ferma ed energica opposizione alla tesi artificiale dell’ateismo in Africa, che non resiste alla prova dell’esuberanza religiosa e spirituale che osserviamo oggi nel continente e nelle diaspore nere d’Europa,dei Caraibi e delle Americhe

I messianismi politico-religiosi

I messianismi. che hanno proliferato in Africa centrale e occidentale nel periodo coloniale e postcoloniale, sono tentativi radicalmente endogeni, africani, di riappropriazione teologica, metafisica, mistica e politica del cristianesimo coloniale da parte dei ceti popolari delle società coloniali e postcoloniali. sotto la guida di profeti taumaturghi ed esorcisti come Simon Kimbangu, André Matsoua, William Harris, Albert Atcho... Questi messianismi costituiscono il vero atto di nascita della teologia della liberazione, negli anni Cinquanta-Sessanta e anche prima.

E, dunque, tempo di correggere un errore monumentale, abitualmente commesso negli ambienti teologici universitari europei, dove si considera l’America Latina la culla della teologia della liberazione. Occorre avere il coraggio e l’onestà di tornare all’empiricità, alla positività e alla storicità di fatti che resistono a ogni lambiccata Costruzione ideologica. La teologia della liberazione è nata in Africa, con l’irruzione e l’esplosione dei messianismi politico-religiosi di chiaro orientamento mistico e terapeutico.

Domande all’egittologia

Non è questo il luogo di enumerare i presupposti teologici, filosofici, politici e storici che sottendono le erudite opere di grandi egittologi africani come Cheikh Anta Diop. Théophile Obenga, Mubabinge Bilolo, Jean Charles Gomez, Kotto Essomé, Kangue Ewane….. i quali reperiscono nella civiltà egizia origini radicalmente neroafricane. Ci limitiamo a segnalare l’esistenza della rivista di egittologia Ankh, pubblicata da Présence Africaine e diretta dal congolese Obenga, direttore del dipartimento di studi africani all’Università di San Francisco. Un documentato punto della questione si può inoltre leggere nell’opera di Doue Gnonsea, Chcikh Anta Diop, Théophile Obenga - Combat pour la Renaissance africaine (L’Harmattan, 2003).

Ora, nei contesto di un dialogo teologico e critico fra cristologia neroafricana della liberazione teologico-politica ed egittologia faraonica, ci appare necessario porre con franchezza due domande agli egittologi: a) in che cosa e in quale forma il modello dell’Egitto faraonico può servire da archetipo all’organizzazione sociopolitica ed economica attuale delle società neroafricane, corrose al loro interno da dittature militari sanguinarie, autocratiche e corrotte?; b) per un cristiano africano che si interessi intellettualmente nonché spiritualmente alle ricerche filosofiche e teologiche sull’antico Egitto, come è possibile articolare l’universalità e l’unicità della rivelazione trinitaria di Dio nel mistero pasquale, con le numerose divinità (astrali, cosmiche, animali…..) degli antichi egizi?

Come possono i cristiani africani - che vivono in società dove proliferano stregoneria e culti magici e occulti - riferirsi alle magie egiziane in una dinamica di liberazione teologica e politica globale?

Sinodo africano

Il sinodo svoltosi a Roma nel 1994 ha cristallizzato le energie e le riflessioni teologiche, politiche e pastorali delle chiese cattoliche dell’Africa postcoloniale. Dagli anni Settanta, teologi come Mveng, Eboussi Boulaga, Pénoukou, il cardinale Joseph Malula, rivendicavano un concilio in cui le chiese d’Africa potessero riflettere in piena libertà e responsabilità sul loro avvenire. Com’era prevedibile, Roma ha concesso solo un “sinodo romano per le chiese d’Africa”, sotto l’alta e paterna vigilanza della curia. Al cuore dei dibattiti e delle deliberazioni dei padri sinodali stavano la democratizzazione politica, la giustizia e la pace, i mass media, le guerre…. Ma, soprattutto, il sinodo ha promosso l’ecclesiologia della “famiglia di Dio”. La sintesi più completa e pertinente di tale ecclesiologia africana si trova nel libro del congolese Augustin Ramazani Bishwende, Eglise-farnille-de-Dieu (L’Harmattan, 2001).

(da Nigrizia, febbraio 2006)

Riaffermazione di principi o dialogo?

di Giordano Muraro

Premessa.

Il documento Famiglia e procreazione umana porta la data del 13 maggio 2006, ma è stato presentato ufficialmente il mese dopo a Roma, finito il convegno del Forum delle associazioni familiari (12 maggio) e prima del convegno internazionale sulla famiglia a Valencia (1-9 luglio). In novantasei pagine si propone di rintuzzare gli attacchi che oggi vengono mossi con estrema violenza alla famiglia e alla procreazione. È stato accusato di durezza e intransigenza, e soprattutto di un linguaggio che non ammette dialogo. Dopo aver dichiarato erronee e fuorvianti le proposte alternative alla famiglia tradizionale e alla procreazione, presenta in modo preciso e accurato la dottrina della Chiesa su questi argomenti. Ma il tono è assertivo e ha l’atteggiamento di chi dice: «Tu sbagli», ma non si confronta. Non prende sul serio chi pensa in modo diverso, ma lo liquida sbrigativamente mettendolo tra quelli che camminano nelle tenebre e hanno bisogno di luce per scoprire la verità. Il documento si preoccupa di fornire questa luce, presentando una sintesi chiara del pensiero della Chiesa.

Non segue lo schema invalso dopo il concilio Vaticano II, che invita a discernere nella storia “luci e ombre” e che ritroviamo, per esempio, nella Familiaris consortio; nel mondo vede solo tenebre e nella dottrina della Chiesa la luce che fa chiarezza. E’ un metodo che oggi viene rifiutato in partenza, perché la mentalità di oggi ritorna - anche se con altro spirito - al principio antico che nella discussione e nel confronto non ha valore il «chi lo dice», ma il «che cosa dice» (non a quo dicitur, ma quid dicitur): un principio che sembra più adatto alla mentalità di un mondo in cui - come si dice nel documento - l’individualismo frammenta la società e perde sempre più valore l’argomento ex auctoritate. Oggi si chiede il dialogo, anche se la richiesta spesso è più nominale che reale. Si è capito che il monologo di chi è certo di possedere la verità e non ha la pazienza di confrontarsi, genera solo isolamento o contrapposizione e conflitto, che radicalizzano le posizioni di ognuno.

Un’utile sintesi dottrinale, ma non aiuta incerti e deboli di fede

Una seconda accusa viene mossa al documento. La dottrina della Chiesa sulla famiglia e sulla procreazione viene fondata su principi ancora troppo generici, che avrebbero bisogno di essere rielaborati e presentati in modo più specifico per essere utili a confutare le posizioni ritenute fuorvianti. Per confutare la procreazione artificiale e il matrimonio omosessuale non è sufficiente fare appello alla dignità della persona umana, perché in nome di questo stesso principio viene fatta la richiesta delle forme alternative. E’ necessario analizzare l’una e l’altra posizione e far vedere che i beni che nascono dalla famiglia tradizionale e dal modo naturale di procreare promuovono in modo ottimale il bene delle persone e della comunità, mentre gli altri modi potranno soddisfare dei desideri immediati e parziali che però si rivelano controproducenti per lo sviluppo pieno della persona e della società. Non si tratta di una lotta tra il bene e il male, tra i giusti e i peccatori, ma del confronto tra persone che ritengono entrambe di promuovere il bene degli individui e della società.

Un’impostazione simile richiederebbe un impianto diverso da quello adottato dal documento. Il che non significa che sia inutile. E’ certamente utile per chi vuole avere una sintesi del pensiero della Chiesa su questi argomenti, anche se poi resta aperto il lavoro dell’analisi del pensiero di chi si contrappone, e del confronto, per mettere in evidenza la superiorità dei benefici che la persona e la società ricevono dalla procreazione e dalla famiglia pensati e vissuti in modo tradizionale. Oggi l’aiuto che si chiede è simile a quello che un parroco ha chiesto al pontefice Benedetto XVI, quando il 31 agosto ha incontrato i sacerdoti della diocesi di Albano: « Cosa possiamo fare noi sacerdoti per [...] comunicare al positivo la bellezza del matrimonio che sappia far innamorare ancora gli uomini e le donne del nostro tempo?». E il Pontefice dopo aver dato una sua risposta ha concluso dicendo: «Ma come comunicanrle? Mi sembra un problema comune a tutti noi». La risposta può essere data solo dal popolo di Dio intero, con l’apporto degli esperti di comunicazione e con l’esperienza degli stessi coniugi che vivono questa fondamentale esperienza umana. E’ quello che la Familiaris consortio aveva proposto sia nell’introduzione, sia in tutta la parte che riguarda l’aspetto pastorale.

Per questo il documento è utile per chi desidera avere un compendio della dottrina della Chiesa sulla famiglia e sulla procreazione; ma lascia deluso chi avrebbe desiderato uno strumento per confermare i deboli e gli incerti nell’insegnamento della Chiesa, e per avere più ragioni convincenti per discutere con chi pensa in modo diverso.

Una visione sintetica del documento

Non è facile presentare una sintesi di questo lungo e complesso documento. A prima vista sembra il contenitore di tutti i problemi che oggi vengono agitati intorno alla famiglia e alla procreazione. Ed è in un certo senso vero. I contenuti sono molti, e qualche volta si ha l’impressione che la preoccupazione della completezza abbia reso difficile un’esposizione semplice e unitaria. Però è possibile giungere a una prima conoscenza, sfrondando il discorso di molti temi collaterali e concentrando tutto - come suggerisce lo stesso documento - intorno al tema della procreazione umana.

Partendo dalla procreazione il discorso si estende alla famiglia, perché la famiglia è il luogo naturale della procreazione umana; e si prolunga alla società, perché la società è l’interlocutore naturale della famiglia nel compito di portare la persona procreata al suo pieno sviluppo umano. Tutto questo discorso viene collocato nel contesto socio-culturale attuale, per cui il documento dedica una parte alla ricerca delle correnti di pensiero che stanno all’origine delle nuove proposte sulla procreazione e sulla famiglia. La conclusione però è pessimistica: «Mai nella storia del passato la procreazione umana, e quindi la famiglia, che è il suo luogo naturale, sono state minacciate come nella cultura odierna» (p. 6).

Introduzione: famiglia e procreazione

Risalendo alle cause di questa crisi, individua subito la principale: «Le cause sono diverse, ma l’eclissi di Dio, creatore dell’uomo, sta alla radice della profonda crisi attuale della verità tutta sull’uomo, sulla procreazione e sulla famiglia» (ibjd.). Le cause immediate sono da ricercarsi nelle diverse filosofie che hanno reso sempre più sbiadita la presenza di Dio nella vita dell’uomo, fino a farlo scomparire; e con lui anche quelle norme certe e universali scritte nella natura stessa dell’uomo, che costituivano il punto di riferimento per tutti gli uomini. Un uomo senza Dio e senza legge naturale cade inevitabilmente in un forte individualismo che frammenta tutto il vivere sociale, anche la famiglia, e lo rende unico arbitro della sua vita, delle sue scelte e del suo destino.

La scienza si sostituisce alla sapienza, il benessere e l’utile prendono il posto del bene, le applicazioni scientifiche mettono praticamente a tacere i principi che dovrebbero invece giudicarle e guidarle. Le correnti radicali propongono nuovi modelli di famiglia; alcune correnti di bioetica orientano l’uomo e la donna a una procreazione senza amore; si consolidano le politiche di controllo delle nascite che diventano concretamente una diffusione della contraccezione e della sterilizzazione; la stessa impostazione socio-economica porta a ritardare il tempo del matrimonio e della procreazione. L’uomo pensa di essere più libero, in realtà è più disorientato. In questo mondo che è nelle tenebre il documento si propone di riportare la verità sulla famiglia e sulla procreazione.

Il documento non affronta subito il tema della famiglia e della procreazione, ma parte da una riflessione sull’uomo. Infatti dalla concezione dell’uomo dipende il modo di concepire la famiglia e la procreazione. L’uomo che oggi vive nella storia è un uomo dominato dall’individualismo e tende a usare della sua libertà per raggiungere il massimo del suo benessere in ogni sua esperienza. Anche «nei rapporti intimi l’uomo e la donna si comportano come individui e ciascuno cerca il piacere più intenso o l’utilità massima per se stesso» (p. 13). All’uomo sociale e familiare si contrappone l’uomo individuale. Questa concezione dell’uomo è all’origine della richiesta di fare famiglia e di procreare in modo diverso da quello tradizionale.

1. La procreazione

Dopo questa prima riflessione generale, il documento prende in considerazione la procreazione esaminando il suo luogo naturale, cioè la famiglia. La famiglia è presente in tutte le culture dell’Europa, dell’Asia, dell’Africa, delle Americhe. Da dove nasce questa esigenza di famiglia e di procreazione? Dalla natura stessa dell’uomo. Nella lex naturalis troviamo «il fondamento sia per la sessualità, per l’amore tra uomo e donna, sia per l’insieme della vera vita di famiglia» (p. 21). La procreazione ha le sue radici nella corporeità, cioè nella natura dell’uomo che è composto di anima e corpo. Da questa realtà composita nasce la sessualità, che non è riducibile a un fatto biologico, ma lo trascende e diventa un fatto psichico, interpersonale.

La maschilità e la femminilità sono due mondi di umanità che esercitano una forte attrattiva reciproca. Dall’attrattiva nasce l’amore, che è «fondamento del matrimonio e, questo, della famiglia umana che trasmette la vita ai figli e li educa per la vita sociale» (p. 23). Ma se per creare il matrimonio bastano l’uomo e la donna, per realizzare la procreazione umana è necessaria la presenza attiva di Dio. L’anima, che è l’elemento umano che permette all’uomo di trascendere tempo e spazio, nel momento stesso in cui è soggetto alle leggi della materia, non procede dall’uomo, ma è infusa da Dio. L’uomo, la donna e Dio sono all’origine della persona umana.

2. La famiglia, luogo di procreazione

Il figlio è fatto «ad immagine di Dio». Ed è questa dignità che fonda in lui l’esigenza e il diritto di essere generato da un gesto di amore e non prodotto in laboratorio; anzi, chiede di essere il frutto di un atto che non disgiunge la fecondità dall’amore, il significato unitivo da quello procreativo. Non ha bisogno solo di nascere da un gesto di unione amorosa, ma da uno stato di vita amorosa, cioè da una famiglia, perché solo questa comunione permanente può garantire al figlio di ricevere non solo l’umanità iniziale, ma lo sviluppo di tutta la sua umanità attraverso l’educazione. Per questo l’uomo e la donna devono modellare il loro amore su quello di Dio, il quale non ama la sua creatura solo nel momento della creazione, ma la segue nella sua crescita e nel suo sviluppo. La procreazione diventa una forma di «collaborazione con l’amore di Dio creatore, da cui deriva per i coniugi la condizione di cooperatori di Dio» (p. 28). Purtroppo oggi la responsabilità nella procreazione non viene più intesa come consapevolezza di diventare collaboratori di Dio nella donazione e nella continuazione della vita, ma come l’impegno a diminuire il numero dei figli, specialmente nei popoli emergenti.

3. Famiglia e procreazione integrale

Il figlio non ha bisogno solo di essere generato, ma anche di essere allevato ed educato. Per rispondere a queste sue esigenze è necessaria la presenza costante dell’uomo e della donna, che il figlio porta già uniti in sé. I genitori con l’allevamento-educazione sviluppano le premesse di vita che hanno deposto in lui, quando gli hanno donato la propria vita attraverso la comunicazione del loro patrimonio cromosomico. In altre parole: il figlio chiede di continuare a essere generato per tutta la vita dall’uomo e dalla donna che lo hanno introdotto nella vita, partecipandogli la propria vita. I contenuti di questa educazione ci sono già nella natura del figlio; si tratta di edurli (educare = educere = tirar fuori) attraverso un’attenzione personalizzata e continua. Nessun’altra struttura educativa è capace di educare come fa la famiglia, perché nessun’altra è capace di sviluppare questa cura amorosa quotidiana, attraverso la quale passano la vita e i suoi valori. San Tommaso esprime molto bene questo fatto con l’immagine del secondo utero: «Uscito dall’utero, prima di avere l’uso del libero arbitrio, è mantenuto sotto la cura dei genitori come sotto una specie di utero spirituale» (II-II, q.10, a.12).

4. Aspetti sociali del servizio alla famiglia

I genitori non bastano, e neppure la comunità familiare, il figlio porta in sé delle esigenze che possono essere soddisfatte solo dalla più ampia comunità sociale. Per questo la famiglia e la società devono allearsi per assolvere al compito di generare l’uomo perfetto. Da questa alleanza nasce un fatto originale: la società aiutando la famiglia aiuta se stessa, perché i beni della famiglia si riversano in modo positivo nella vita sociale; e la famiglia aprendosi alla società aiuta se stessa, perché viene aiutata nell’opera fondamentale della prima personalizzazione e socializzazione del figlio. Per questo è necessario sviluppare nella società questa doverosa attenzione verso la famiglia e nella famiglia una maggiore consapevolezza delle sue capacità di influire positivamente sulla società: non solo perché provvede alla sua continuazione con la procreazione e con l’educazione del figlio alla socialità; ma anche per il fatto che l’uomo e la donna prendendosi cura l’uno dell’altra e insieme prendendosi cura dei figli, svolgono un servizio straordinario per la società, che nessun’altra struttura o istituzione svolge ed è in grado di svolgere.

La società affronta e risolve i problemi umani con gli strumenti che le sono propri, cioè la giustizia e la professionalità; mentre la famiglia affronta e risolve i problemi con lo strumento più prezioso ed efficace per la formazione umana, che è l’amore e la gratuità. E nessuna energia umana è paragonabile all’amore quando si tratta di formare la persona umana. Per questo la società deve riconoscere che la famiglia svolge un’opera propria e insostituibile per la formazione dell’uomo e della società. E deve riconoscere alla famiglia i precisi diritti che le permettono di svolgere questo suo compito: sia i diritti dovuti alla famiglia (il diritto al lavoro, al salario familiare, all’educazione dei figli, anche all’educazione sessuale); sia quelli dovuti alle singole persone che formano la famiglia.

E tra questi il primo è il diritto alla vita fin dal suo concepimento. L’aborto è un delitto abominevole, non solo verso la persona, ma anche verso la società. perché ne stravolge la struttura e le finalità affidandole il potere di conferire alle persone i diritti fondamentali dell’uomo, mentre dovrebbe solo riconoscerli, promuoverli e difenderli. Tra i beni che la famiglia produce nelle persone e nella società c’è quello di essere anello di congiunzione tra le generazioni. Nella famiglia il singolo non vive sradicato, ma è inserito in una storia che trasferisce nel presente la vitalità del passato, e apre la vita al futuro. Anche la storia della salvezza. La fede vive nei figli, perché viene celebrata ogni giorno attraverso le parole e le convinzioni ricevute dai padri. E nella vita vissuta che Dio tramanda se stesso e le sue meraviglie, da una generazione all’altra.

La famiglia è anche un’unità di consumo, ma di un consumo ordinato e programmato, nel senso che nella famiglia vengono stabilite le necessità di ognuno e a ognuno viene dato secondo le sue necessità, non solo nel presente, ma anche per il futuro. La famiglia non produce solo una economia di consumo; può essere fonte di produzione non solo organizzandosi in azienda (l’azienda familiare), ma inserendo nel mondo della produzione e del lavoro delle persone che sono state educate alla laboriosità e stimolate ad acquisire la necessaria preparazione professionale. La famiglia crea per la società un “capitale umano” che non consiste solo nell’immettere nella società delle persone preparate professionalmente, ma di immetterle con tutto il carico di umanità che acquisiscono in famiglia. Oggi ci troviamo di fronte a un grande pericolo: l’invecchiamento della popolazione, causato anche dall’individualismo che porta a vedere il figlio più come un problema che come una ricchezza, e dalla poca attenzione che la società dimostra nei confronti della famiglia.

Non si pensa sufficientemente al fatto che una popolazione invecchiata produce effetti negativi sulla società stessa, non solo economici (chi pagherà le pensioni?), ma umani e sociali, dovuti alla sproporzione tra giovani e anziani. La società anziché aprirsi alla speranza e preoccuparsi di creare ancora una volta le premesse per il futuro, si ripiega su se stessa per far fronte al problema del suo invecchiamento. L’attenzione si sposta dai giovani agli anziani, dimenticando la verità elementare che gli anziani trovano una soluzione ai loro problemi attraverso le forze nuove portate dai giovani. L’inverno demografico che dai Paesi ricchi viene esportato alle popolazioni emergenti, diventa un nuovo flagello per tutta l’umanità.

5. Riflessioni teologiche e prospettive pastorali

Il documento finisce con alcune riflessioni teologiche e alcune prospettive pastorali. Due in particolare: anzitutto imparare a vedere la famiglia e il suo potere procreativo alla luce del grande mistero trinitario, dove regna l’amore come fonte di vita e di felicità. Da questa partecipazione alla vita trinitaria nasce il potere della famiglia a portare nel tempo la vita e la salvezza. Infatti la famiglia si rivela un luogo ottimale per trasmettere la fede con la parola e l’esempio ed è abilitata proprio dal sacramento del matrimonio a trasmettere la fede attraverso i suoi due valori propri: l’amore e la vita. Il tema è stato sviluppato ampiamente dalla Familiaris consortio, e recentemente nel convegno di Valencia. In secondo luogo, riconoscere la centralità della pastorale della famiglia e della vita, non tanto nel senso di farne una parte privilegiata della pastorale, ma nel senso di tener presente la dimensione familiare in tutti i momenti della pastorale. Famiglia e amore sono inscindibili, proprio perché l’amore è il principio, l’anima, il fine della famiglia, e a lei compete il compito di vivere e di testimoniare l’amore nella quotidianità della vita.

Conclusione

Ogni documento esprime ricchezza e limiti. Questo documento presenta tutti i problemi che oggi vengono agitati intorno alla famiglia e la dottrina che sta alla base per la loro soluzione. Manca però quel linguaggio e quel modo di esporre e sviluppare il discorso che permette ai fedeli di Cristo di dialogare e di convincere coloro che presentano proposte alternative, e di dimostrare che la famiglia fondata sul matrimonio è «la sola che produce in modo pieno i beni» necessari per lo sviluppo umano delle persone e della società.

(da Vita Pastorale, Novembre 2006)

Martedì, 11 Settembre 2007 00:17

Il “volto ebraico” di Gesù (Giuseppe Laras)

Il “volto ebraico” di Gesù

di Giuseppe Laras

A distanza di sessant'anni dall'emanazione delle norme anti-ebraiche del regime mussoliniano, a chi mi chiede un commento, un'impressione o un ricordo che riassuma l'impatto che quella normativa scellerata ebbe sugli ebrei italiani, che dall'oggi al domani scoprirono di non essere più uomini e donne normali, ma una sorta di "paria" emarginati ed estromessi dalla vita, che fino a poco tempo prima, bene o male, riuscivano a condurre insieme agli altri cittadini, io rispondo con una parola: incredulità.

Al di là, infatti, del dolore, delle preoccupazioni e della disperazione che un tale stato di cose induceva in tutte le famiglie degli ebrei d'Italia, lo stupore per un'iniziativa tanto criminale quanto ingiusta, in me (allora ero piccolissimo) e nei miei era prevalente su altri sentimenti, anche se in realtà chi avesse tenuto d'occhio i segnali sempre più intolleranti che emergevano dalla politica del regime già da diversi anni, si sarebbe accorto che qualcosa di efferato stava maturando contro gli ebrei.

Oggi, con riferimento a quei giorni, sono più portato a chiedermi come sia potuto accadere che la popolazione, cioè la gente comune, i colleghi, i conoscenti dei quarantamila ebrei italiani, nella loro stragrande maggioranza, non abbiano reagito, non abbiano mosso un dito, non abbiano detto una parola magari solo di solidarietà e di condivisione nei confronti delle vittime, fino a pochi giorni prima persone libere e normali come loro.

A pensare e scrivere queste cose mi induce una lettera di Luigi Giussani pubblicata su la Repubblica del 2 gennaio [1999] (...), intitolata «Noi siamo degli ebrei». Don Giussani si riferisce al rifiuto di Pio XI di dare un avallo alle leggi razziali, come gli veniva richiesto, rifiuto formulato più o meno con le parole «Noi siamo spiritualmente degli ebrei».

È certo che questa frase torna ad onore del Papa di allora, ma, a un tempo, fa emergere in maniera drammaticamente evidente come quei nobili e religiosi sentimenti non fossero di fatto condivisi e testimoniati dalla stragrande maggioranza dei cittadini italiani di allora, tutti di fede cattolica. E viene, in particolare, da chiedersi - stimolati dalle parole elevate di don Giussani - quale concezione dell'uomo sia stata insegnata e trasmessa a quella generazione, se si è potuto abbandonare alla persecuzione e alla morte - senza dire o fare pressoché nulla - uomini, donne e bambini che, ancorché colpevoli di essere ebrei, erano pur tuttavia portatori, assieme a tutti gli altri uomini, del marchio divino (immagine=zélem) che conferisce una sorta di sacralità da non conculcare e da non profanare mai.

Debbo riconoscere che da quei tempi lontani a oggi, è stato percorso un lungo tratto di strada che ha consentito al popolo cristiano (almeno in una sua parte che non sono in grado di quantificare, ma che è comunque qualitativamente rilevante) di vedere con altri occhi e con altro cuore gli ebrei, riscoprendo nella loro lunga e misteriosa storia spirituale taluni elementi comuni che spiegano e giustificano alcuni tratti dell'identità religiosa dello stesso popolo cristiano.

La storia di Israele

Sono gli effetti del cosiddetto "dialogo" che, sia pur faticosamente, sta plasmando un nuovo tipo di approccio da parte di cristiani ed ebrei nei confronti gli uni degli altri.

Io oso pensare - anche in questo particolare contesto ci si sente troppo inadeguati e fragili per esprimere giudizi e previsioni - che da parte della Chiesa si dovrebbe insistere di più (anche se già qualcosa si sta facendo in tale direzione) per una maggior conoscenza della storia e della spiritualità di Israele, al fine di riuscire a restituire un "volto ebraico" a Gesù.

Che cosa significa "un volto ebraico"? Significa che fino a pochissimo tempo fa il volto, la figura, la vita, i pensieri, la lingua di Gesù non avevano alcunché che ricordasse l'Ebraismo e l'ebraicità. Eppure Gesù era ebreo e, fino alla sua morte, si muove e opera all'interno di un'ottica, religiosa e comportamentale, assolutamente ebraica.

Una tale operazione di estraneazione di Gesù dal popolo d'Israele - che risponde evidentemente a motivi politici, apologetici e quant'altro in cui, peraltro, non sono legittimato a entrare - ha, secondo me, posto le premesse e acuito un antisemitismo divenuto sempre più virulento e aggressivo.

Il recupero della figura di Gesù all'interno di un contesto ambientale dominato da idee, concezioni e usi appartenenti alla tradizione d'Israele, potrebbe - col tempo, con perseveranza, con pazienza, con l'ottimismo che nasce dalla fede in un futuro pacificato e affratellato, giusta la concezione messianica - rivelarsi la carta vincente risolutiva della partita contro l'antisemitismo cristiano.

Ritrovamento e riconciliazione
Occorre che cristiani ed ebrei vadano avanti in questo cammino di ritrovamento e di riconciliazione, ciascuno con la sua fede e le sue certezze, nella consapevolezza che un superiore e misterioso disegno provvidenziale entrambi ci coinvolge e ci guida fino al momento, quando Dio vorrà, del suo disvelamento.

Come scrive don Giussani, penso anch'io che la fedeltà nell'attesa di Dio sia faticosa e possa talvolta tradursi in uno stato doloroso del credente. Aggiungerò solo che la certezza di un domani che sarà migliore di oggi (è questa la quintessenza della dottrina messianica d'Israele), unita a un senso di umiltà, che dobbiamo ritrovare in vista di un appuntamento così promettente e grandioso, potrà forse liberarci dalle angosce e dalle ingiustizie del presente.

Lunedì, 10 Settembre 2007 23:58

Violenza necessaria? (Jean-Marie Muller)

Violenza necessaria?

di Jean-Marie Muller

Spesso è la violenza delle situazioni di ingiustizia che provoca la violenza delle armi. È importante comprendere la violenza che nasce dalla rivolta degli oppressi quando vogliono liberarsi dal giogo che pesa su di loro. Se la nonviolenza condanna e combatte anzitutto la violenza dell’oppressione, essa obbliga ad una solidarietà attiva con quelli che ne sono le vittime. Quando questi, il più delle volte come ultima risorsa, ricorrono alla violenza, non è il caso, in nome di un ideale astratto di nonviolenza, di voltare loro sdegnosamente la schiena. Non è il caso di respingere in un mucchio solo tanto quelli che sono responsabili dell’ingiustizia quanto quelli che ne sono le vittime. È importante non dimenticare che i veri fautori di violenza sono quelli che traggono profitto dal disordine stabilito e non difendono nient’altro che i loro privilegi. Ma liberare gli oppressi è anche tentare di permettere loro di liberarsi dalla propria violenza. Anche questo è un obiettivo della solidarietà verso di loro.

Spesso la violenza degli oppressi e degli esclusi è più un mezzo di espressione che un mezzo di azione. Non è tanto la ricerca di una efficacia quanto la rivendicazione di una identità. È il mezzo che hanno, per farsi riconoscere, coloro la cui esistenza stessa resta non soltanto sconosciuta, ma misconosciuta. La violenza è allora il mezzo di rivoltarsi contro questo misconoscimento. È l’ultimo mezzo di espressione di quelli che la società ha privato di tutti gli altri mezzi di espressione. Poiché essi non hanno avuto la possibilità di comunicare con la parola, tentano di esprimersi con la violenza. Questa si sostituisce alla parola che è loro rifiutata. La violenza vuol essere un linguaggio ed essa esprime anzitutto una sofferenza; essa è allora un “segnale d’allarme” che deve essere decifrato come tale dagli altri membri della società. La violenza è per gli esclusi un tentativo disperato di riappropriarsi del potere sulla propria vita, di cui sono stati spossessati. La violenza diventa allora un mezzo di esistenza: «sono violento, dunque sono». E la violenza permette di farsi riconoscere tanto più per il fatto che essa è proibita dalla società. Essa simboleggia allora la trasgressione di un ordine sociale che non merita di essere rispettato. Ciò che gli attori della violenza ricercano è precisamente questa trasgressione. A colui che la legge esclude da ogni riconoscimento, la violazione della legge appare allora come il mezzo migliore per farsi riconoscere. Questo può essere vero per l’individuo come per il gruppo. Anche il gruppo può volere provare a sé stesso di esistere come gruppo facendosi valere presso gli altri con l’impiego della violenza. Esso così obbligherà gli altri a riconoscere che esiste, non fosse che col combatterlo sul terreno della violenza, là dove egli stesso ha scelto di esprimersi. Inoltre la violenza della trasgressione, distruggendo i simboli di una società ingiusta, gettando a terra gli emblemi di un ordine iniquo, provoca un maligno piacere, un godimento reale. In questo modo, la violenza esercita un fascino su quelli che sentono la frustrazione e l’umiliazione di essere degli esclusi.

Ma comprendere la violenza non è giustificarla. Infatti, se la violenza è giusta quando serve una causa giusta, non diventerà allora il diritto e il dovere di ogni uomo, di ogni gruppo, di ogni popolo e nazione? E si è mai incontrato nel corso dei secoli, si è mai visto al mondo un uomo, un gruppo, un popolo, una nazione che non pretenda ad alta voce che la sua causa è giusta? E se noi aderiamo oggi al discorso che approva la violenza per difendere la buona causa, come potremo opporci domani a quello che approverà la violenza per la cattiva causa? Basterà discutere della causa e non della violenza? Probabilmente no, non basterà. Se la violenza è legittimata come un diritto dell’uomo, ciascuno potrà prendere a pretesto questo diritto per ricorrervi ogni volta che lo stimerà imposto dalla difesa dei suoi interessi. In realtà l’ideologia della violenza permette a ciascuno di giustificare la propria violenza. La storia si trova allora risucchiata in una spirale di violenze senza fine. Si crea una reazione a catena di violenze degli uni e degli altri, tutte legittimate, le une come le altre, una catena che nessuno potrà più interrompere. La violenza diventa fatalità. La nonviolenza intende spezzare questa fatalità.

Secondo le ideologie che dominano le nostre società, è necessario opporsi alla prima violenza, dell’oppressione o dell’aggressione, con una contro-violenza che possa contenerla e alla fine vincerla. Quelle stesse ideologie legittimano e giustificano questa seconda violenza affermando che essa ha per fine di stabilire la giustizia o di difendere la libertà. L’argomento – che si pretende sia al di sopra di ogni sospetto – incessantemente avanzato per giustificare la violenza, è che essa è necessaria per lottare contro la violenza. Questo argomento implica un corollario: rinunciare alla violenza sarebbe lasciare libero corso alla violenza. Ma, quali che siano le ragioni avanzate, questo argomento resta colpito, in teoria come in pratica, da una contraddizione irriducibile: lottare contro la violenza con la violenza non permette di eliminare la violenza. Le ideologie della violenza vogliono occultare questa contraddizione. La filosofia della nonviolenza e la strategia che essa ispira ... portano al contrario tutta la loro attenzione sulla violenza per tentare di superarla. Poiché qui si pone una questione essenziale e decisiva: il fatto di impiegare la violenza con l’intenzione di servire una causa giusta cambia o no la natura della violenza? In altri termini, è possibile qualificare diversamente la violenza secondo il fine al servizio del quale si pretende utilizzarla? Le ideologie della violenza vogliono dare una risposta positiva a questa duplice questione, e insinuano che l’uso della violenza per una causa giusta non è altro che l’uso della forza. La filosofia della nonviolenza fa una critica radicale a questa risposta e la respinge assolutamente. La violenza, in definitiva, resta la violenza, ossia essa resta ingiusta e, dunque, ingiustificabile perché resta disumana quale che sia lo scopo che si pretende di servire utilizzandola.

Jean-Marie Muller, da: Le principe de non-violence. Parcours philosophique, Desclée de Brouwer, Paris 1995, pp. 38-41, traduzione di Enrico Peyretti, in:  Il Foglio, 289.

Venerdì, 31 Agosto 2007 00:24

Fedeltà (Faustino Ferrari)

L’inizio del libro dell’Apocalisse troviamo sette lettere indirizzate a sette Chiese. Uno dei temi costanti di queste lettere è la fedeltà, la perseveranza. Nella fedeltà ci sono già tutte le tracce, i segni del compimento...

Search