Famiglia Giovani Anziani

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Mercoledì, 29 Agosto 2007 02:30

La vita e la morte (Giovanni Vannucci)

La vita e la morte

di Giovanni Vannucci

Il brano evangelico di Mt 16, 21-27 continua quello della confessione di Pietro; nel tentativo di comprenderlo, è necessario che riprendiamo alcuni vocaboli chiave di tutto l’episodio.

Gesù domanda ai discepoli: «Cosa dite che sia il Figlio dell’Uomo?». «Figlio dell’Uomo» è la traduzione letterale dell’espressione ebraica ben-Adam. Per la nostra mentalità il termine figlio designa il frutto naturale di una coppia; nella mentalità ebraica esso è, piuttosto, il portatore di un destino, di un mandato affidato al capostipite di una famiglia. Così, per esempio, i figli d’Israele sono i depositari e i continuatori della missione divina affidata a Israele. Adamo, nel linguaggio ontologico del Vecchio Testamento, indica l’essere umano distinto da tutte le altre creature per la caratteristica di portare nel suo sangue, dam, la presenza attiva dell’Iddio vivente. Infatti l’uomo, Adam, è l’essere creato destinato a spezzare i ritmi ripetitivi caratteristici degli esseri appartenenti ai vari regni della natura. Cristo, affermando di essere il ben-Adam, il Figlio dell’Uomo, sottolinea la realtà ultima della sua persona, quasi dicesse: io sono la perfetta manifestazione dell’Uomo, nella mia carne e nel mio sangue il Dio vivente è attivo, senza quelle limitazioni che l’esistenza pone a ogni altro uomo. Le mie azioni sono imprevedibili, indeterminabili, come quelle della vita che, pur essendo contenuta nelle forme della manifestazione, è incommensurabile a esse, è dentro le forme esistenti e oltre esse. La mia azione, pur esprimendosi nelle strutture stabilite, non può essere contenuta da esse, le fa esplodere dall’interno. Pietro, in un momento d’improvvisa illuminazione, comprende che la forma umana di Cristo è l’abitazione, lo scrigno dell’infinita vita divina: «Tu sei il vero Figlio dell’Uomo, in Te dimora la vita del Dio vivente». Pietro vien dichiarato «Beato», colui che è nella Verità, avendo saputo trascendere i dati della carne e del sangue in una visione che coglie l’invisibile realtà del Maestro.

E a questo punto comincia la seconda parte dell’episodio. Gesù cominciò a dire apertamente che «avrebbe subito violenza da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti, degli scribi, che sarebbe stato ucciso, dopo tre giorni avrebbe ripreso la vita». Evidentemente queste parole di Cristo continuano, spiegandone l’aspetto concreto, l’affermazione di Pietro: «Tu sei il Figlio del Dio vivente». Quasi dica: «Sono il Figlio del Dio che è vita, la mia manifestazione dovrà essere strettamente aderente alla vita. Come la vita è nelle forme, le conduce alla maturazione, quindi le spezza, le uccide per riprendere la sua trionfale manifestazione, così Io, il Vivente, dovrò essere ucciso, il mio corpo morrà, Io non morrò, il mio nuovo corpo avrà forma differente da quella che adesso ha nella dimensione terrena».

Pietro, ancora beato per aver azzeccato la definizione del mistero del Maestro, di fronte all’imprevedibile quadro che egli fa della sua missione, rimane sconcertato, non capisce più. Per Pietro la vita è la vita, la morte è la morte; ora il Maestro afferma qualcosa di totalmente impensabile: «È necessaria la mia morte, perché la vita raggiunga il ritmo della risurrezione. Nella vita è la morte, nella morte è la vita, questo è l’attuale ritmo; con me l’uomo non crederà più alla morte, ma alla continua ascesa della vita, finché tutto non sia immerso nell’infinita vita divina che è in me, e che con la mia morte aprirà la sorgente gioiosa dell’amore che vince la morte». Pietro non comprende, ricorda le parole recenti del Maestro: «Tu sei Pietro, su di te fonderò il mio nuovo popolo», si sente investito dalla missione di proteggere l’amato Maestro, così indifeso e imprevedibile! «Signore, quello che stai dicendo non accadrà mai!», afferma con sicurezza. La risposta che riceve è sconcertante: «Pietro, non ti comportare da condottiero, vieni dietro a me; con queste tue parole, dettate dal modo di sentire dell’uomo inferiore e non dalla sapienza di Dio, tu sei per me un Satana e un inciampo».

Satana è l’avversario, il persecutore, l’inciampo, la pietra che devia il corso della vita. Cristo postula il continuo superamento delle forme in una sempre nuova novità, Satana postula la permanenza della forma raggiunta, si oppone alla sua distruzione, vuole la permanente solidità in contrasto con la vita divina che, gioiosa, danza nell’universo e nella coscienza distruggendo ciò che non può accompagnarla nel suo crescente ritmo di vita. Cristo, implacabile, continua a rivelare il segreto contenuto della vita: «Chi vuol seguirmi, deponga le pesanti chiusure che gli impediscono di partecipare alla mia vita, si carichi della sua personale croce e cammini con me».

La Croce, non soltanto la sofferenza, è l’energia che struttura, di giorno in giorno, la nostra forma psicosomatica, ne favorisce lo sviluppo vitale: caricarsela sulle spalle vuol dire presentarsi alla soglia delle continue trasformazioni della vita con tutto il peso della propria realtà, in piena maturità, per passare oltre, per gettare la propria vita nelle continue mutazioni che ci attendono e che sono le tappe della nostra ascesa. In questo cammino il Figlio dell’Uomo è la misura che misurerà tutti, il peso che tutti peserà.

In tutto l’episodio svoltosi a Cesarea di Filippo, ci viene rivelata la funzione di Pietro, in parte spirituale, nella confessione: «Tu sei il Figlio del Dio vivente», e in parte temporale, nella sua opposizione a Cristo. Osare l’inosabile è la caratteristica del Figlio di Dio e dei figli di Dio, che si gettano in Dio come in un gorgo. Pietro inorridisce e indietreggia. Sarà sorpassato milioni di volte dal volo d’aquila dei veri fratelli del Signore, degli autentici figli di Dio. Che importa se non saranno sempre e tutti ortodossi? Cristo ha detto: «Solo chi perderà la sua vita per amor mio, la salverà».

Giovanni Vannucci, Risveglio della coscienza, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984, (20a del tempo ordinario - Anno A), pp. 153-155.

Dietrich Bonhoeffer (1906-1945)
L’eco d’oltreoceano *

di Renzo Bertalot



Premessa

Negli ultimi tempi gli scritti di Dietrich Bonhoeffer sono stati raccolti con minuziosa cura e le ricerche sul suo operato conoscono un crescendo di notevole portata. L’interesse per il martire tedesco non è certo mancato negli Stati Uniti d'America. Le trentotto lettere dell'ex fidanzata di Bonhoeffer sono gelosamente conservate presso la Harvard University in attesa di pubblicazioni integrali e dei consensi necessari per le traduzioni in altre lingue. Intanto le opere del teologo tedesco sono state largamente diffuse nel mondo anglosassone.

Ci proponiamo pertanto di richiamare succintamente alcuni momenti essenziali della vita di Bonhoeffer e di rinviare il lettore alle prospettive del suo pensiero che hanno trovato un eco feconda nella riflessione teologica dell'America Latina.

A - Richiami

Dietrich Bonhoeffer nacque il 4 febbraio 1906 a Breslavia (allora Germania, oggi Polonia). Suo padre era psichiatra. Studiò a Berlino. A ventun anni presentò la sua prima tesi: Sanctorum Communio e nel 1930 conseguì la libera docenza con una seconda tesi su Atto e Essere.

Viaggiò molto, venne anche a Roma e, senza polemica, colse la serietà dell'"altro" e del "diverso": il cattolicesimo romano. Fu pastore della comunità di lingua tedesca a Barcellona e più tardi (1933) di quella londinese. Dal 1930 al 1931 usufruì di una borsa di studio presso l'Union Theological Seminary di Nuova York. Fu accolto con grande simpatia dalla comunità negra di Harlem della quale ebbe modo di apprezzare la viva spiritualità (i Negro Spirituals). Per Bonhoeffer la conoscenza dell'Evangelo Sociale fu un'occasione di "arricchimento" e di "ispirazione", che gli facilitò la sua comprensione "delle cose dal basso". (1)

Bonhoeffer fu consacrato pastore (11 novembre 1931) e nominato docente onorario di teologia all'università di Berlino.

Nel 1931 incontrò K. Barth che era e rimase un suo costante punto di riferimento. Barth lo cita spesso e volentieri nei volumi della Dogmatica. Tuttavia se è necessario condividere con il teologo di Basilea che la religione è una ribellione alla grazia bisogna andare oltre e dire un no secco alla religione. Così occorre andare oltre R. Bultmann, pur condividendone la demitizzazione e la comprensione esistenziale di sé: prospettive eccessivamente individualistiche. Infine si può concordare con E. Gogarten sulla totale secolarizzazione, ma a condizione di affermarne soprattutto l'aspetto pratico. (2)

Nel 1933 Hitler sale al potere. K. Barth e Paul Tillich lasciano la Germania mentre Bonhoeffer, come dirigente del movimento ecumenico, si occupa di Fede e Azione e si fa promotore dell'unità della chiesa, tema che gli rimase sempre a cuore. Contesta l'antisemitismo divampante. Alla radio condanna quelli che fanno un idolo di se stessi, ma la sua trasmissione viene interrotta.

Nota, con grande rammarico, il disinteresse inglese per gli affari ecclesiastici interni alla Germania, per la contrapposizione tra i "cristiano-tedeschi" e l'emergente "chiesa confessante". Intanto dal settembre 1933 M. Niemöller aveva organizzato la "Lega pastorale d'emergenza” (un embrione della futura chiesa confessante). Nel gennaio 1934, a Barmen, viene formulata (la redazione è di K. Barth) la "Dichiarazione teologica sulla situazione presente della Chiesa Evangelica tedesca" (manca però una parola chiara sull'antisemitismo). Nell'ottobre 1934 è esteso apertamente l'invito ad aderire alla Chiesa Confessante nella quale convergono i due movimenti accennati. In quel tempo Bonhoeffer aderisce alla Chiesa Confessante (è una chiesa in autodifesa?) mentre si trova a Londra intento a stabilire contatti con il vescovo anglicano George Bell allora presidente di Fede e Azione.

Ma Hitler è ormai considerato un anticristo perciò si può affermare con coraggio: Extra ecclesia (confessante) nulla salus. Il 9 novembre scatta la famosa "notte dei cristalli", ne seguono cento morti e trentamila deportati. Bonhoeffer, che si trovava in America è invitato a stabilirvisi, ma torna definitivamente in Germania il 6 luglio 1939. Paul Lehmann lo incontra a Nuova York e al momento dell'imbarco lo accompagna alla nave.

In Europa incontra W. Visser't Hooft in Svizzera. Va ad Oslo. Viene cooptato nello spionaggio tedesco diretto dall'ammiraglio W. Canaris. Partecipa all'organizzazione del complotto contro Hitler, ma l'impresa non riuscì; il fallimento ebbe luogo il 20 luglio 1944. Intanto Bonhoeffer era già stato arrestato (5 luglio 1943). Il 9 aprile 1945 a Flossenburg viene condannato a morte mediante impiccagione ad uncino.

Eberhard Bethge, amico e biografo di Bonhoeffer; rilevò che purtroppo non tutti i vescovi luterani lo considerarono un martire cristiano. Alcuni si limitarono a parlare di lui come di un martire politico.

B - Rinvii

Leggere Dietrich Bonhoeffer vuol dire imparare a districarsi (Paul M. van Buren) tra una serie di paradossi che rischiano di scoraggiare il lettore frettoloso (ateismo cristiano?). Gli esperti che, invece, ne hanno seguito il cammino da vicino tendono a sottolineare alcuni momenti significativi del pensiero bonhoefferiano. Intanto la teologia dialettica, portata alla ribalta da K. Barth, costituì un costante punto di verifica. La presenza di Dietrich Bonhoeffer in Inghilterra, la sua amicizia con il vescovo anglicano George Bell e la visita ai monasteri anglicani caratterizzati dalla loro "segreta disciplina della fede" impegneranno il nostro teologo a un livello ecumenico sempre più marcato e lasceranno un'impronta determinante nel lavoro biblico con i suoi studenti a Finkenwalde: un'eco indelebile d'oltre oceano che ritornerà spesso nei suoi scritti (Sequela). Solo chi crede obbedisce e solo chi obbedisce crede!.

Nell'aprile 1944 Bonhoeffer ci pone di fronte ad una nuova formula: l'interpretazione non religiosa del cristianesimo (Bethge). La religione è "carne" mentre la fede è "Spirito". La religione è "un pezzo di questo mondo prolungato". La religione non è una condizione della fede, ma una forma espressiva dell'uomo" a carattere individualistico. Occorre evitare il dio "tappabuchi" che s'infila nelle crepe della ricerca scientifica e "la grazia a buon mercato" che non promuove alcun impegno. (3)

Oltre alle formule cristologiche "sterili", che sono giochi intellettualistici, bisogna affermare il Cristo, uomo per gli altri; è il Signore dei non religiosi perché esiste una sola realtà: il Regnum Christi. È perciò necessario rischiare con forza la formula di Ugo Grozio, citata frequentemente: Etsi Deus non daretur. L'interpretazione non religiosa è l'interpretazione della fede. Il linguaggio religioso va abbandonato partendo da Cristo e rendendosi conto che il cristianesimo ha portato e porta una veste religiosa. Oggi avvertiamo che la teologia e l'annuncio non possono semplicemente ripetere frasi bibliche. I tempi sono cambiati e perciò richiedono una terminologia differente, una traduzione.

Che cosa significa allora essere cristiani oggi? Qual è il rapporto fede-mondanità? Bonhoeffer propone una forte dialettica tra identità e identificazione cioè una lettura cristologica della realtà di un mondo composto da idolatrie rivali. Senza identità l'identificazione diventa idolatria e ideologia: "noi viviamo nelle penultime cose e crediamo nelle ultime”.

Siamo alla fine della religione e all'inizio di un tempo completamente areligioso che esige in tal senso il rinnovamento della predicazione. Il Cristo per gli altri vuol anche dire una chiesa per gli altri (che vive di sole offerte).

C - L'America Latina

Già prima dell'ascesa di Hitler al potere (1933) si era formata in America del Nord una folta schiera di teologi barthiani. (4) Nel 1930-1931 Dietrich Bonhoeffer, l'abbiamo già ricordato, si trovava a Nuova York con una borsa di studio presso l'Union Theological Seminary. Fu in quell'occasione che venne a contatto con Paul Lehmann ed ebbe origine una lunga e duratura amicizia. Nel 1939 rifiutò l'invito di P. Lehmann a stabilirsi negli Stati Uniti e rientrò in Germania. Ma in quell'anno non si fermò la sua fama di valente teologo.

L'influenza di Bonhoeffer in America latina ha avuto il suo centro propulsore nel Theological Seminary di Princeton, dove nel frattempo si era trasferito P. Lehmann. Ed è proprio a Paul Lehmann (lo ricordo con stima è stato anche mio professore) che si deve la formazione bonhoefferiana di numerosi studenti ricercatori provenienti dall'America del Sud. Si poteva dire che nessun teologo più di Bonhoeffer incise sulla riflessione teologica del continente meridionale. A partire da Lehmann il pensiero bonhoefferiano coinvolse tra i primi (1952) Richard Shaull, professore al Seminario Presbiteriano di Campinas (Brasile). Sempre sotto la stessa spinta si cominciò a leggere assiduamente Bonhoeffer in rapporto alla nascente teologia della liberazione. L’interesse teologico si concentrava sull'etica contestuale e non più su quella normativa tradizionale. Dal Seminario di Princeton erano intanto giunti i rinforzi con Beatrix Melano (MRE) che, dal 1957 al 1959, fu chiamata ad assumere la responsabilità del Movimento Volontario degli Studenti, e Rubem Alves che aveva ottenuto il dottorato di ricerca (Ph. D) con una tesi sulla speranza umana (originariamente intesa come teologia della liberazione: titolo che suscitò allora difficoltà editoriali). Purtroppo nel 1960 tutti i bonhoefferiani furono espulsi dal Brasile, ma l'interesse ecumenico degli studenti fece si che l'eco di Bonhoeffer arrivasse anche a Buenos Aires. Emilio Castro fu tra i primi visitatori e conferenzieri. Nel 1961 venne anche Paul Lehmann. Ma, con l'andar del tempo e i colpi di stato in Uruguay e Cile (1973), vennero sospesi i movimenti degli studenti perché sospettati di sovversione.

Allora si pose il problema se prendere le armi o meno. In fondo Bonhoeffer aveva accettato, insieme con altri, di complottare un attentato contro Hitler e pagò questo suo impegno con la vita. Rimase forte la convinzione che Bonhoeffer non avrebbe mai accettato di confondersi con i guerriglieri perché era radicalmente un pacifista e un grande ammiratore di Gandhi. Tante volte aveva sperato di andare in India per approfondire la sua riflessione sulla resistenza passiva. (5)

Paul Lehmann, che fu il grande mediatore di Bonhoeffer in America Latina, ci ricorda alcuni punti della riflessione teologica in via di maturazione. A proposito del rapporto tra "ideologia" e "utopia" va notato che la prima è il prodotto dell'ambiente mentre la seconda ne costituisce la contestazione. Si instaura così un nuovo rapporto tra credere e obbedire e viceversa. Tradire può diventare la forma del "vero patriottismo". Lehmann ci ricorda con Bonhoeffer che non ci si può attendere che il padrone liberi spontaneamente lo schiavo. (Eppure qualcosa del genere è accaduto, molti anni dopo, quando il battista Martin Luther King, il metodista Mandela e il vescovo anglicano Desmond Tutu dedicarono proprio la loro vita a tale scopo). La violenza contro il potere è sempre e soltanto un rischio penultimo; in questo caso la violenza ha un carattere apocalittico. Infine bisogna arrivare ad un rovesciamento dei valori: non è giusto quel che è conforme alla legge, ma dev'essere legge quel che è conforme a giustizia; la libertà non va concepita entro l'ordine, ma è l'ordine che dev'essere espressione della libertà. (6)

Queste idee risuonavano nel 1967 all'Università di Berkeley in California al momento della rivolta studentesca contro l'establishment che a partire dall'anno successivo incendiò anche l'Europa. Giustizia e libertà non sono incasellabili nelle evoluzioni politiche dei popoli; le trascendono sempre in vista di un consenso apud omnes gentes, come insegnava Ugo Grozio, il fondatore del diritto internazionale.

Riassumendo

Niccolò Machiavelli aveva ricordato che la storia ci insegna una lezione molto chiara. il profeta rimasto solo muore. Così il fior fiore dei riformatori italiani del XVI secolo trovò, nella fuga all'estero, una via di scampo e uno spazio per la loro testimonianza. Karl Barth e Paul Tillich dovettero abbandonare la Germania di Hitler nel 1933. A noi lasciarono in eredità le dogmatiche più prestigiose del XX secolo. Dietrich Bonhoeffer non fuggì quando gliene venne offerta l'opportunità. Tornò in Germania e morì martire, profeta di tempi nuovi. La sua testimonianza ha varcato facilmente l'oceano Atlantico per fecondare riccamente e in maniera determinante la riflessione teologica del continente sudamericano. L'eco della sua missione continua a rimbalzare da una nazione all'altra richiamando le chiese alla concretezza della fede cristiana (è anche l'appello costante e attuale del Terzo Mondo), impegno che trascende ecumenicamente ogni religiosità che ci portiamo dietro.

Note

* Il presente testo è apparso in Studi Ecumenici, cf. R. Bertalot, Dietrich Bonhoeffer. L'eco d'oltreoceano, in Studi Ecumenici, 19 (2001), pp. 529-526.

1) Nel mezzo secolo che precede la prima guerra mondiale gli Stati Uniti conobbero l'affermazione del Social Gospel. Furono decenni di riflessione sull'etica cristiana che raccolsero il consenso di quasi tutte le chiese protestanti. Si moltiplicarono le pubblicazioni (In His Steps raggiunse i ventitré milioni di copie), le associazioni sociali e le cattedre di etica. Vi fu una notevole assonanza con il progredire del socialismo. L'utopia marxiana non disturbava l'impegno sociale dei cristiani che si appellava alla volontà di Dio da attuare anche in terra come in cielo. L'Evangelo Sociale offriva una motivazione e un'anima alle proposte sociali mentre il socialismo disponeva gli strumenti adatti a fronteggiare l'alienazione del proletariato. I credenti di estrazione fondamentalista offrirono il loro senso radicale di disciplina superando gradualmente le ristrettezze dell'individualismo; i metodisti apportarono la vivacità del risveglio, i riformati la riflessione teologica (sul male sociale e sulla concorrenza in quanto demoniaca) e gli anglicani la loro solida struttura organizzativa. W. Rauchenbush, pastore battista di estrazione kantiana, fornì i suggerimenti teologici più significativi per superare le crisi della società. Nel 1956 Reinhold Niebuhr ne ricorderà l'attualità.
Purtroppo il ritorno selvaggio del capitalismo con la prima guerra mondiale frenò ogni slancio e sospese l'appoggio delle organizzazioni ecclesiastiche. Tuttavia non si spense l'anelito verso un'etica collettiva degna di essere una risposta concreta alla Parola di Dio.
Per Bonhoeffer l'Evangelo Sociale fu un'occasione di "arricchimento" e d'"ispirazione". Paul Tillich dovette spesso giustificare il contenuto delle sue dotte lezioni rispondendo alla semplice domanda: "A che cosa serve?" Eppure Tillich era ben conscio della "maledizione della storia europea" e che nessun kairòs previsto dalla cultura tedesca si era mai realizzato. Il contributo della sua riflessione etica (III volume della sua Teologia Sistematica, tradotto ma non ancora pubblicato in italiano) varcò presto i confini della teologia per impegnare interdisciplinarmente altri settori scientifici. Bisogna inoltre ricordare la rivolta di Barth contro l'etica dei suoi maestri di teologia (1914).

2) H. Zahrnt, Alle prese con Dio, Queriniana, Brescia, 1969, pp. 142 ss. e 177s.; R. Bertalot, Paul Tillich. Una teologia per il XX secolo, Ave Minima, Roma, 1969; R. Bertalot, La teologia della crisi e la cultura europea in Paul Tillich, in Rivista di teologia morale, n.130, (2001), pp. 199-206; E. Bethge, G. Ebeling, P. Lehmann, P.van Buren, Dossier Bonhoeffer, Queriniana, Brescia, 1975.

3) D. Bonhoeffer, Le prix de la grace, Delachaux et Niestlé, Neuchàtel, 1962; R. Shaull, Oltre le regole del gioco, Claudiana, Torino, 1972, pp. l45 ss.; B. Melano, The Influence of Dietrich Bonhoeffer, Paul Lehmann, and Richard Shaull in Latin America, in The Princeton Seminary Bulletin, n.l (2001), pp. 61-84.

4) Presso il Seminario Teologico di Princeton esiste un "Centro di studi barthiani", Cf. The Princeton Seminars Bulletin n. 2 (2001), pp. 243s.Studi su D. Bonhoeffer sono ampiamente segnalati alle pagine 245-254.

5) Melano, The influence, p. 82.

6) P. Lehmann, Transfiguration politics, SCM Press Press, Londra, 1975, pp. 57, 84, 262-268.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

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D. Bonhoeffer, Sequela, Queriniana, Brescia, 1971.

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D. Bonhoeffer; Le prix de la grace. Sermon sur la montagne, Delachaux et Niestlé, Neuchatel, 1962.

G. Bouchard, Lo spirito protestante e l'etica del socialismo, Com Nuovi Tempi, Roma, 1991.

J. Dewey, Liberalismo e azione sociale, La Nuova Italia, Firenze, 1965.

E Ferrario, Dietrich Bonhoeffer, Claudiana, Torino, 1999.

C.H. Hopkins, The rise of the Social Gospel in American Protestantism 1865-1915, Yale University Press, New Haven, 1940.

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R. Niebuhr, An Interpretation of Christian Ethics, Meridian Books, Nuova York, 1958.

R. Shaull, Oltre le regole del gioco, Claudiana, Torino, 1972.

G. Spini, Le origini del socialismo, Einaudi, Torino, 1992.

P. Tillich, Lo spirito Borghese e il kairos, Doxa, Roma 1929.

P. Tillich, L'umanesimo cristiano nel XIX e XX secolo, Ubaldini, Roma, 1971.

P. Tillich, Systematic Theology, vol. 3, University of Chicago Press, Chicago, 1963.

H. Zahrnt, Alle prese con Dio, Queriniana, Brescia, 1969.

W. A. Visser't Hooft, The Background of the Social Gospel in America, H. D. Tjeenk Zoon, Haarlem, 1928.

Max Weber, L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, Ed. Leonardo, Roma, 1945.

Una lettura ortodossa del libro Gesù di Nazaret

Gesù della storia e Gesù dello spirito

di Vladimir Zelinskij




La lettura del libro “Gesù di Nazaret” mi ha fatto tornare in mente la domanda di Giovanni Battista: “Sei Tu Colui che deve venire o dobbiamo attendere un altro?” (Mt. 11,2). L’uomo di oggi potrebbe chiedere: “Sei tu di cui parlano i Vangeli e le Chiese istituzionali o sei solo un’ombra di qualcuno che è diverso e sconosciuto?”. Sembra che il libro di papa Ratzinger nasca dalla necessità di rispondere a questo interrogativo e perfino alla sfida spirituale che la nostra epoca rivolge all’Uomo di Nazaret: “Chi sei Tu?”. La risposta del “Gesù” del Papa è fatta con chiarezza e onestà, con sapienza erudita, ma anche col linguaggio del cuore che si fa sentire attraverso un’argomentazione precisa e dettagliata. Il suo scopo, come spiega l’Autore, è di “presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale” (p. 18), di colmare lo strappo aperto fra il “Gesù storico” ed il “Gesù della fede”. Strappo che dovrebbe essere così doloroso per l’Occidente cristiano e che, almeno per ora, ha risparmiato l’Oriente e che apre la strada alle altre “notizie” su Gesù. Un Gesù sottratto alla Tradizione apostolica e diventato protagonista di invenzioni letterarie, di libere fantasie, gnostiche o “troppo umane”. Il compito del libro è di fornire la nuova visione di Gesù, vero, evangelico, credibile, radicato nella tradizione del Suo popolo; in altre parole, ecclesiale. Il metodo del Papa è quello della Fides quarens intellectum, secondo la formula di Anselmo, la fede che cerca la comprensione attraverso una lettura attenta, che analizza, convince, si appoggia sulla scienza moderna della Scrittura. Alla fine del cammino questa fede arriva alla confessione di Pietro: “Tu sei Cristo, Figlio del Dio Vivente!” (p. 401). Ma la strada delle prove battuta dall’Autore - sempre con grande stile e impeccabile documentazione - ci porta ad un’altra domanda: si può ottenere con la ragione credente ciò che né la carne né il sangue possono rivelare, ma solo il Padre che sta nei cieli? Si può penetrare nel “pensiero di Cristo” (1 Cor. 2,16) soltanto col nostro pensiero o intravedere la Seconda Persona della Santissima Trinità attraverso la sola riflessione scientifica sulla storia di Gesù? O per avvicinarlo bisogna fare un salto che ci stacca dalla terra ferma del discorso logico e razionale permettendoci di entrare nell’incomprensibile?

Nella sua opera il Papa cita un pezzo del dialogo prestato dal libro di Jacob Neusner “Un rabbino parla con Gesù”. “Così – dice il maestro – è questo che il saggio Gesù aveva da dire?” Non, precisamente, ma quasi”. Egli: Che cosa ha tralasciato”. Io: Nulla. Egli: Che cosa ha aggiunto allora. Io: Se stesso” (p. 131). “La centralità dell’Io di Gesù nel suo messaggio - commenta l’Autore - imprime la nuova direzione a tutto”. La rivelazione di questo “Io” è il punto di partenza per ogni fede cristiana, ma possiamo conoscerlo solo attraverso la sua “parte visibile”? Possiamo dire che l’Io di Gesù è davvero aperto a noi? La persona di Cristo, come luce di Dio che abita nelle tenebre è, nello stesso tempo, celato e rivelato. Lui è “il segno di contraddizione” (Lc. 2,34), come dice il vecchio Simeone. Quel segno fa parte della realtà umana e nello stesso tempo la rende problematica, la mette sotto il suo giudizio. Lo vediamo nel Discorso della Montagna, analizzato nel nostro libro con grande cautela e profondità. Le beatitudini di Gesù, dice il papa, si sviluppano dai comandamenti di Mosè e formano la nuova Torah. Quel Discorso porta in sé “la cristologia nascosta”, ma anche “ un quadro completo della giusta umanità” (p. 157). Da un altro lato le Beatitudini appartengono ad una diversa realtà, quella della salvezza che mette la vecchia umanità sottomessa alla legge di Mosè sotto il giudizio del Regno promesso da Cristo.

Questo è il problema principale che pone il grande “Gesù di Nazaret” al lettore “orientale”: si può davvero entrare nel mistero della fede con lo sguardo concentrato solo sul personaggio storico, su tutto ciò che può essere capito, analizzato, chiarificato razionalmente? L’Io divino-umano di Gesù può essere “spiegato” dall’analisi del testo scritto? Quando Egli dice: Io sono sorgente d’acqua viva (Gv. 7,37), vediamo il miracolo della Parola, ma la sorgente che è nel Padre resta invisibile.

“’Io sono’ si colloca totalmente nella relazionalità tra Padre e Figlio”, dice il Papa, - “in tutto il suo essere non è altro che rapporto con il Padre” (p. 399). Ma noi in quale modo possiamo entrare in questa relazione? Il volto del Figlio si fa intravedere sotto i simboli dell’acqua, del vino, della luce, della vite, del pane, ma come questa acqua arriva a noi, questa luce ci tocca, questo pane e vino diventano il nostro cibo? Tra noi che viviamo oggi e i tempi di Gesù - oltre la nostra grata memoria, la venerazione, la comprensione, la conoscenza - c’è anche un protagonista invisibile, un attore che ci fa entrare nell’intima e diretta relazione con Cristo: lo Spirito Santo. È proprio Lui che riempie e fa vivere in noi i segni e le immagini di Gesù: acqua, luce, vita, parola. Perciò: “nessuno può dire “Gesù è il Signore” se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1 Cor. 12,3)

Il metodo del libro è sempre proprio del Ratzinger teologo, convinto che la via della vera ragione coincida con la via della fede (cfr. il discorso pronunciato a Ratisbona nel settembre 2006). Tutte e due hanno il medesimo fondamento della verità. Ma la verità dello Spirito coincide completamente con la verità che possiamo raggiungere con la mente? Qui sorge il primo solco di quell’incomprensione fra Oriente e Occidente che fa eco nei secoli: nel trattare dell’umanità di Gesù che, come venne detto, “non conosciamo... secondo la carne” (cf. 2 Cor 5,16) e neanche secondo la “carne” della sapienza umana. Chi legge queste quasi 450 pagine su Gesù non può non ammirare la qualità della forma letteraria di un testo perfettamente organizzato, preciso e denso, un testo in cui non c’è una riga di troppo e un’osservazione che aggiunga qualcosa al già detto. Ma dopo tutto questo cammino il lettore si ferma davanti ad un enigma, oltre il quale il pensiero analitico non può andare. Il libro di Benedetto XVI è, senza dubbio, un’incomparabile testimonianza della fede nel Gesù della Scrittura, ma la sua testimonianza fa appello ad un’altra dimensione, quella del Regno dello Spirito, che è sempre vicino, ma che è non di questo mondo.

Sabato, 11 Agosto 2007 02:04

Maria incontra Gesù nell'annunciazione

Nell’incontro, nell’alterità più assoluta e nella comunione più stretta, si creano a vicenda: Maria accoglie e dona a Gesù la realtà di figlio, il figlio dona a Maria la realtà di madre.

Sabato, 11 Agosto 2007 01:52

L'esilio babilonese (Luca Mazzinghi)

L'esilio babilonese

di Luca Mazzinghi

L'orizzonte storico della seconda parte del libro di Isaia (Is 40-55) è costituito dalla catastrofe dell'esilio a Babilonia degli abitanti di Gerusalemme; è agli esiliati, infatti, che questi capitoli si rivolgono. La storia dell'esilio ha radici lontane: già il regno del Nord ha conosciuto l'esilio, come si è visto nei numeri precedenti, dopo la distruzione di Samaria da parte degli assiri nel 721. Nel regno del Sud, in Giudea, il re Ezechia ha evitato per poco una sorte analoga (cf gli episodi relativi alla guerra siro-efraimita e all'invasione di Sennacherib). Il regno di Manasse (687-640 ca.), figlio di Ezechia, trascorse senza troppi sussulti; Manasse, vassallo dell'Assiria, riuscì a conservare la pace e un minimo di indipendenza, pur a prezzo di tributi e di un compromesso di carattere anche religioso; il giudizio che il testo di 1 Re 21,1-18 darà del suo regno è, proprio per questo motivo, molto negativo. Dopo il brevissimo regno del figlio Amon, i sacerdoti del Tempio di Gerusalemme riuscirono a porre sul trono il giovanissimo Giosia - di appena otto anni! -, uno dei figli di Amon, creando così le condizioni per una grande opera di riforma religiosa di carattere fortemente monoteista, sullo spirito del libro del Deuteronomio. La composizione di questo libro (o almeno dei cc. 12-26), iniziata probabilmente sotto Ezechia, viene completata proprio sotto il regno di Giosia, sotto il quale iniziano anche ad essere scritti i testi che poi diventeranno i libri di Giosuè, dei Giudici, di Samuele e dei Re.

Ma proprio negli anni della maturità di Giosia, verso il 612, un brusco cambiamento nel panorama internazionale ebbe gravi riflessi sulla storia di Israele: l'Assiria scompare improvvisamente dalla scena, la sua capitale, la grande città di Ninive, viene distrutta sotto i colpi del nuovo astro nascente, l'impero neobabilonese. Del crollo dell'Assiria cerca di avvantaggiarsi l'Egitto, che, sotto la guida del faraone Necao, inizia una avanzata verso nord; in questa campagna condotta attraverso la regione palestinese il re Giosia viene ucciso, nel tentativo, probabilmente, di contrastare l'avanzata del faraone. La morte del re giusto sarà un episodio che segnerà profondamente gli Israeliti. Siamo nel 609 a.c. e gli anni che seguiranno saranno anni di grande confusione e di veloce declino per il regno di Giuda, eventi che la Bibbia ci descrive negli ultimi capitoli del secondo libro dei Re e, soprattutto, nel libro del profeta Geremia, contemporaneo di questi fatti.

Dopo l'uccisione di Giosia, il faraone Necao nominò un re di suo gradimento, il debole Ioiakim, che, pochi anni dopo, sarà pronto a cambiare bandiera, quando, nel 605, Necao verrà sconfitto dal re babilonese Nabucodonosor; nel 598 lo stesso Nabucodonosor assedia e conquista Gerusalemme nel corso di un periodo molto confuso; nell'assedio il re Ioiakim muore e il figlio Ioiachin viene deportato a Babilonia, dove resterà a lungo; con lui viene deportata una piccola parte della popolazione, in particolare nobili e artigiani. Gerusalemme, tuttavia, non viene distrutta e su di essa Nabucodonosor nomina un nuovo re, Sedecia, un altro dei figli di Giosia. La politica debole e vacillante di Sedecia ci è nota dai cc. 32-38 di Geremia; in seguito a una doppia ribellione contro Babilonia, Nabucodonosor ritorna nella regione e, verso la metà di luglio del 586, distrugge Gerusalemme, dopo due anni di assedio; Sedecia viene catturato, i suoi figli uccisi ed egli, dopo essere stato accecato, è condotto prigioniero a Babilonia, questa volta insieme a una parte considerevole della popolazione. Il libro delle Lamentazioni descrive in modo drammatico l'accaduto e l'impatto che la sorte di Gerusalemme ebbe sul popolo d'Israele.

Dopo la doppia deportazione e la distruzione di Gerusalemme, nella Giudea restarono soltanto le classi più povere della popolazione; l'economia, in un paese devastato dalla guerra, fu ridotta a pura economia di sussistenza. Le autorità di Babilonia nominarono una sorta di viceré, il governatore Godolia; invano il profeta Geremia invitò i superstiti rimasti in patria a sottomettersi all'autorità di questo Godolia; una banda di ribelli lo uccise, provocando, sembra, una terza deportazione da parte dei Babilonesi e fuggendo poi in Egitto, dove fu trascinato lo stesso Geremia. Con la morte di Godolia, la Giudea diventa, politicamente parlando, una delle tante province dell'impero babilonese, perdendo anche quella parvenza di autonomia rimastale. Una parte della popolazione, tuttavia, non si mosse dalla Giudea e forse almeno una parte di Gerusalemme fu di nuovo abitata, pur essendo le mura e il Tempio distrutti; la politica dei Babilonesi fu in realtà meno dura di quella che, in passato, avevano avuto gli Assiri. Sarà proprio questa parte di popolazione rimasta in patria a creare problemi, quando, molti anni più tardi, gli esiliati inizieranno a far ritorno a Gerusalemme. Ma l'attenzione dovrà ora trasferirsi a Babilonia, e, in particolare, alla vita degli esiliati; in questo modo sarà più facile comprendere il messaggio del Deuteroisaia.

(da Parole di Vita, n. 4, 1999)

Lezione Undicesima

IL LEGAME STORICO-SALVIFICO
TRA IL CULTO EBRAICO E LA LITURGIA CRISTIANA

 


Introduzione

1. I riti del culto ebraico, stabiliti nell’A.T., avevano nell’intenzione di Dio che li aveva ordinati, il preciso scopo di operare la salvezza. Nella nuova alleanza i riti sacramentali sono segni dotati di una triplice dimensione: hanno un valore dimostrativo di una realtà spirituale presente, un valore rimemorativo di una realtà passata, ed un valore preannunciativo di una realtà futura. S. Tommaso applica a tutti i segni rituali dell’antica alleanza questo principio dei sacramenti cristiani.

Sabato, 04 Agosto 2007 21:54

La benedizione nuziale (Sante Babolin)

La benedizione nuziale

di Sante Babolin




Dopo la consacrazione del pane e del vino e la proclamazione del Padre nostro, «il sacerdote, rivolto verso la sposa e lo sposo, invoca su di loro la benedizione di Dio, che non si deve mai omettere. Gli sposi si avvicinano all’altare o, se opportuno, rimangono al loro posto e si mettono in ginocchio (…). Nei luoghi dove già esiste la consuetudine, o altrove con il permesso dell’Ordinario, si può fare a questo punto l’imposizione del velo sugli sposi (velazione), segno della comunione di vita che lo Spirito. avvolgendoli con la sua ombra, dona loro di vivere. Insieme, genitori e/o testimoni, terranno disteso il “velo sponsale” (bianco, con eventuale appropriato e sobrio ornamento) sul capo di entrambi gli sposi per tutta la durata della preghiera di benedizione» (RdM 84). Questo rito, che si deve sempre compiere, ci permette di comprendere il significato profondo della benedizione nuziale: è l’invocazione dello Spirito Santo, chiamato dalla Chiesa, a santificare l’unione degli sposi, così come ha santificato il pane e il vino che stanno sulla mensa, pronti per essere mangiati e bevuti. L’amore degli sposi, in tutte le sue espressioni, sarà santificato dall’ombra dello Spirito Santo e si convertirà in un cammino di continua e reciproca santificazione.


Simbolica del velo
 

Il velo copre e protegge; di qui i significati primari del segreto (o mistero) e dell’intimità (o riservatezza); inoltre un velo mosso segnala la presenza del vento, che non si può percepire se non si muove qualcosa.

Un episodio della vita di Mosè si presta a chiarire la funzione di nascondere che può assumere il velo:

«Quando Mosè ebbe finito di parlare agli Israeliti, si pose un velo sul viso. Quando entrava davanti al Signore per parlare con lui, Mosè si toglieva il velo, fin quando fosse uscito. Una volta uscito, riferiva agli Israeliti ciò che gli era stato ordinato. Gli Israeliti, guardando in faccia Mosè, vedevano che la pelle del suo viso era raggiante. Poi egli si rimetteva il velo sul viso, fin quando fosse di nuovo entrato a parlare con il Signore» (Es 34,33-35). Mosè mostra il viso raggiante e poi lo copre, perché non fosse visto quando la luce si sarebbe spenta.

In altri casi il velo assume la funzione di separare, di fissare un nuovo dentro e fuori. Così avviene nella tradizione monastica, in cui «prendere il velo» significa separarsi dal mondo, nel quale i comuni mortali continuano a vivere, e tenere lontano il mondo dalla nuova vita d’intimità con Dio, che si nutre di fede e di preghiera.

Infine nella liturgia eucaristica di rito bizantino, si muove dolcemente un velo, mentre si invoca lo Spirito Santo, per esprimere la sua venuta sul pane e sul vino; qui il velo significa l’azione santificatrice dello Spirito Santo che scende, sotto forma di vento come a Pentecoste, quando «all’improvviso venne dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo e riempì tutta la casa dove gli apostoli si trovavano» (At 2,2).

Da quanto detto sembra che il significato del velo abbia a che fare con una realtà segreta, sacra e spirituale. Perciò l’imposizione del veto, disteso sugli sposi dai genitori e dai testimoni, vuole esprimere quello che la benedizione nuziale conferisce, così come il velo mosso sui doni eucaristici manifesta l’invisibile venuta dello Spirito santificatore. 

All’ombra dell’Altissimo
 

Nell’annunciazione l’angelo, rispondendo alla domanda di Maria «Come è possibile questo? Non conosco uomo», la rasserena dicendo: «lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo» (Lc 1,34-35). È questa benedizione di Dio Padre che attua in lei l’incarnazione di Dio; per questa benedizione il Figlio di Dio diventa uomo e Maria diventa la madre di Dio. Mi sembra che qualcosa di simile, per la benedizione della Chiesa, avviene sugli sposi, i quali, come dice la rubrica sopra citata, vengono avvolti dall’ombra dello Spirito Santo che dona loro di vivere una tale comunione di vita da renderli partecipi dell’amore trinitario e della potenza creatrice del Padre.

L’ombra è la shekinà biblica, segno visibile dell’invisibile presenza di Dio, come la «nube oscura» di giorno e la «nube luminosa» di notte, che guidava il popolo ebreo in cammino verso la terra promessa: «di giorno la colonna di nube non si ritirava mai dalla vista del popolo, né la colonna di fuoco durante la notte» (Es 13, 22). il velo disteso sugli sposi, mentre il sacerdote invoca lo Spirito Santo su di loro, sarà per loro come shekina, benedizione efficace e permanente, che li guiderà nel cammino della loro vita condivisa. Però il velo che copre e protegge, ora che Cristo risorto è il Vivente seduto alla destra del Padre, richiama anche la sua signoria, quella potestà assoluta che Dio Padre gli ha conferito: «Cristo Gesù svuotò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio lo ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre» (Fil 2,7-11).

Con queste immagini (velo, nube, signoria) viene tracciato anche il cammino dell’ascetica matrimoniale, della specifica spiritualità coniugale e familiare, in cui si alterneranno sempre tenebra e luce, umiliazione ed esaltazione, sofferenza e gioia; però la speranza cristiana suggerisce che il positivo prevarrà sempre sul negativo, che dopo la prova arriverà la gioia e che Dio Padre «non turberà mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande» (A. Manzoni, Promessi sposi, fine del cap. VIII). Tante cose potranno fare, a tante spiritualità si potranno orientare, però gli sposi potranno avere il filo costante che darà coerenza e solidità alla loro vita, soltanto se continueranno a confidare nella potestà del Cristo risorto.


Nella comunità dei credenti
 

L’indicazione di fare distendere il velo sponsale dai genitori degli sposi insieme con i testimoni suggerisce una partecipazione dell’assemblea, composta da parenti ed amici, alla benedizione impartita dal sacerdote.

Questo particolare suona come invito a parenti ed amici a rimanere accanto agli sposi, che iniziano il loro cammino verso una santità costitutivamente condivisa. Parenti ed amici sono i rappresentanti della Chiesa che si farà sempre presente per loro mezzo; e loro stessi potranno riattivare questa benedizione con l’affetto autentico, con la vera amicizia, con la preghiera, con il consiglio e l’aiuto fraterno.

D’altra parte è pure importante che gli sposi abbiano la consapevolezza che, come il loro Matrimonio è realizzato nella Chiesa, così anche la loro vita di coppia sarà costantemente e proficuamente santificata dal sacramento nella misura in cui resteranno uniti alla comunità cristiana, come tralcio alla vite, evitando l’isolamento, che potrebbe insidiare la loro unione e serenità, il cristiano, come ama ripetere spesso Benedetto XVI, non è mai solo; a maggior ragione, i coniugi cristiani e la famiglia.

La partecipazione alla Messa nella domenica e la preghiera in famiglia sono certamente un antidoto efficace contro il rischio dell’isolamento, perché sarà così pur facile superare i momenti di crisi che potranno presentarsi. Infine vorrei suggerire ai genitori di benedire i loro figli, con una piccola preghiera e un segno di croce in fronte, fin da piccoli: benedicendo i figli, riattiveranno la benedizione ricevuta nel giorno del loro matrimonio e, con i figli, ritorneranno sorto la shekinà di Cristo risorto e glorioso.

L’embrione è persona?
Se sì, quando lo diventa?

di Luigi Lorenzetti
Teologo moralista

In una conferenza il relatore distingueva tra essere umano e persona, che l’embrione non sarebbe una persona e non ci sarebbe concordia su quando lo diventa.

Giovanni C. Desio (Mi)

Non c’è distinzione tra essere umano e persona: ogni persona è un essere umano; ogni essere umano è persona. Il concetto “essere umano” indica appartenenza alla specie umana, che si collega ma anche si distingue da quella vegetale e da quella animale. Dire che l’embrione è un essere umano vuol dire che non è riducibile a un essere vegetale o animale. Ora, senza discriminazione alcuna, tutti coloro che appartengono alla specie umana sono persone, la cui caratteristica è la capacità di autocoscienza, razionalità e libertà.
Può accadere che la persona perda o non abbia ancora l’esercizio dell’autocoscienza e della libertà, ma non cessa di essere persona. L’embrione, il ritardato mentale grave, chi si trova in coma irreversibile non sono autocoscienti, razionali e liberi, ma non cessano di essere persone. Sarebbe come dire che un essere umano, in stato di sonno, non è persona. Il concetto di persona indica capacità costitutiva (ontologica) di consapevolezza e libertà che esiste anche se l’effettivo esercizio della medesima è impedito o non sviluppato.
Essere umano e persona sono sinonimi. Così, l’embrione umano può essere denominato con l’una o l’altra parola. Ma la questione non è questa. Il dibattito si riferisce a quando l’embrione diventa persona: lo è fin dall’inizio (fecondazione dell’ovulo) o lo diventa dopo? I filosofi antichi, in base alla visione dualista tra corpo e anima, ritenevano che l’anima subentrasse dopo che il corpo si era strutturato. Tale teoria è stata abbandonata, perché corpo e anima sono due dimensioni della stessa realtà: l’essere umano è «corpore et anima unus», dice il Vaticano II (Gaudium et spes 14).
La teoria dell’animazione successiva, tuttavia, si ripropone oggi sotto altra forma, con il sostenere che la persona passa da una condizione potenziale (antecedente al 14’ giorno) a quella reale o in atto. In altre parole, non sarebbe essere umano individuale dall’inizio, ma lo diverrebbe in fasi successive, con l’annidamento (dopo una settimana circa) o con la formazione della corteccia cerebrale (dopo un mese circa).
Le conoscenze biologiche (genetiche) evidenziano però che in tutto il processo generativo, a partire dalla fecondazione dell’ovulo, si verifica uno sviluppo unico, coordinato e progressivo. «La scienza medica ha mostrato», dice l’enciclica Evangelium vitae, «come dal primo istante si trova fissato il programma di ciò che sarà questo vivente: un uomo, questo uomo-individuo con le sue caratteristiche ben determinate. Fin dalla fecondazione è iniziata l’avventura di una vita umana» (n. 60).
In breve, fin dall’inizio, l’embrione è soggetto umano e non quasi-oggetto; è soggetto con potenzialità di sviluppo, non un soggetto potenziale; è soggetto autonomo e non parte della madre; è soggetto e, come ogni altro soggetto, ha diritto alla vita, ha valore finale e non strumentale, vale a dire va trattato sempre come fine e mai come mezzo. Rispettare l’essere umano o persona vuol dire rispettarlo in tutte le sue fasi.



DIZIONARIO MINIMO

DUALISMO - Quelle filosofie o culture che concepiscono l’uomo costituito di due realtà distinte: corpo e anima.

EVANGELIUM VITAE - La lettera enciclica di papa Giovanni Paolo II sul valore e l’inviolabilità della vita umana. È stata pubblicata il 25 marzo 1995.

GAUDIUM ET SPES - La costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, emanata dal Concilio Vaticano II il 7 dicembre del 1965.

ONTOLOGIA - La filosofia che prende in considerazione l’essere (òntos in greco), altrimenti detta metafisica (le cose che stanno oltre la natura).

 

Forum mondiale di teologia e liberazione

di Ugo Bozzoli

In che condizioni versa oggi la teologia della liberazione? 250 teologi, professionali e non, si sono incontrati a Nairobi per tastarle il polso e valutarne l’impatto che ha oggi sul mondo contemporaneo.

Sabato, 04 Agosto 2007 21:10

La superbia (Luciano Manicardi)

di Luciano Manicardi

«Inizio di ogni peccato è La superbia» (Siracide 10,15 secondo La Vulgata). Questo versetto biblico ha contribuito alla tradizione per cui La superbia è all’origine di ogni male ed è, almeno a partire da Gregorio Magno, al primo posto nella lista dei vizi capitali. Primo anche perché sentito come peccato contro Dio che echeggia il “voler diventare come Dio” presente nel racconto delle origini dell’umanità (Genesi 3,5).

La superbia si manifesta in quattro modi: «Quando si pensa che il bene derivi da noi stessi; quando si crede che, se ci viene dato dall’alto, è per i nostri meriti; quando ci si vanta di avere quello che non si ha; quando, disprezzando gli altri, si aspira ad apparire gli unici dotati di determinate qualità»(Gregorio Magno, Moralia XXXIII, 6, 16)

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