Famiglia Giovani Anziani

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

IL MONTE ATHOS

Dalla terra al cielo

di Jean-François Colosimo


“Talanton, tatalanton, tatatatalanton…”. Nella notte fonda il martelletto urta, risalta, danza sul legno della simandra. È così, dice la tradizione, che Noè convocò gli animali nell’arca. È così, dice la regola, che i fratelli sono chiamati a riunirsi in chiesa.

Giovedì, 14 Giugno 2007 01:30

La preghiera dell'Africa (Patrice Jean Ake)

Dobbiamo scendere negli inferi della sofferenza con i nostri fratelli e sorelle

La preghiera dell'Africa

di Patrice Jean Ake



A partire dal settembre 2002, la Costa d’ Avorio, terra di speranza - stando a quanto dice anche il nostro inno nazionale - è entrata in una guerra che non è ancora terminata. In questo sfacelo, molti ivoriani continuano a credere che le elezioni si terranno, che l’economia rifiorirà e che la Costa d’Avorio risusciterà, come ha preconizzato il nostro arcivescovo emerito, mons. Bernard Agré. Anche noi facciamo parte di questo gruppo di persone, anche se riteniamo che queste speranze, gioie, tristezze e angosce debbano essere superate da una speranza più grande, suscitata dal messaggio di salvezza di Gesù Cristo. Il cuore della nostra speranza è la Chiesa, popolo di Dio in marcia che, vivendo di questa speranza, lancia questa sfida al nostro Paese, al nostro continente africano e al mondo intero. E’ dunque la Chiesa che fonda questa speranza che prende in contropiede tutte le visioni afro-pessimiste.

Per questo, partendo dalla crisi ivoriana e cercando di comprenderne le ragioni, cercheremo di vedere che cosa significa speranza - e cosa significa essere testimoni di speranza - in un contesto di crisi, come quello ivoriano e non solo, e per cercare di dire anche cosa i cristiani d’Africa possono affermare in termini di speranza al mondo occidentale.

Al di là di tutto quello che può essere stato detto o scritto sulla crisi ivoriana e sulle cause economiche o politiche, pensiamo che la vera ragione non è stata ancora evocata. La crisi che conosce il nostro Paese ha origine nel fossato che non ha mai cessato di approfondirsi tra ricchi e poveri, a tal punto che la capitale Abidjan, situata a sud, non ha mai smesso di svilupparsi in maniera abnorme, mentre il resto del Paese è rimasto indietro.

Ma più ancora, i privilegiati, che hanno saccheggiato il Paese per lustri, si sono costruiti propri quartieri, ospedali, università, luoghi di divertimento; intanto gli ospedali, le scuole e le università pubblici accolgono i figli dei poveri. E mentre ai rampolli dei ricchi, dopo aver studiato all’estero o in prestigiose scuole locali, viene garantito un posto di lavoro, gli altri perdono il loro tempo a riempire domande di impiego senza alcun risultato.

Quelli che hanno preso le armi in questi anni si dicono «giustizieri» di tutta questa massa di «senza voce» e delle regioni trascurate dallo sviluppo, cercando di prendere con la forza quello che la politica ha rifiutato loro. Ancor più, questi giovani, messi ai margini dal sistema, sono diventati oggi i padroni del gioco politico, senza capirlo fino in fondo, come pure gran parte della popolazione.

Sono disperati e dunque non hanno paura delle armi, ma a ogni tumulto sociopolitico ne approfittano per riversarsi nei supermercati o nei distributori di benzina per saccheggiarli. Oppure distruggono strutture pubbliche come scuole, ospedali, biblioteche o edifici amministrativi, pensando che appartengono ai potenti, e così si illudono di ridurre il fossato che li separa dai ricchi.

Queste situazioni non sono appannaggio dei popoli africani. Gli Stati Uniti d’America, così come le banlieu della grandi città europee, hanno conosciuto recentemente delle sommosse. La ragione è sempre la stessa anche a livello planetario, ovvero il fatto che esistono gravi sperequazioni tra un’élite di ricchi e potenti e una grande massa di poveri. Di qui una guerra che si nutre di terrorismo internazionale e fanatismo, mentre l’Onu appare blindato dai diktat dei cinque membri del Consiglio di sicurezza, che si sono spartiti il mondo.

Eppure, anche se tutto sembra perduto, una speranza c’è. In Costa d’Avorio, sin dall’inizio di questa crisi, le nostre Chiese non hanno smesso di riempirsi e nelle nostre famiglie la preghiera è sempre presente. Numerosi gruppi di preghiera sono nati, anche se in un contesto apparentemente apocalittico. Questo perché gli ivoriani si rendono conto che tutte le nostre speranze non possono essere soddisfatte se non da una speranza più grande, che è radicata nel messaggio di salvezza di Gesù. Avere speranza, dunque, è andare oltre le legittime attese della popolazione - beni materiali, amore umano, situazione sociopolitica stabile, rilancio economico - per perseguire il bene di tutti.

Sperare solo per se stessi sarebbe segno di un egoismo e di un orgoglio insopportabili. Come testimoni di speranza, laici e persone consacrate, al seguito di Mechtilde de Hackeborn e di Magdebourg, di Teresa di Lisieux e Teresa d’Avila o di Giuliana di Norwich, hanno desiderato donare la loro vita affinché i loro concittadini potessero essere salvati. Queste persone pregano per i peccati dei loro fratelli e sorelle, li guardano con amore senza condannarli. Essere testimoni di speranza è avere un amore ardente della croce, il desiderio di soffrire con Gesù per salvare l’umanità. In questo contesto di crisi, essere testimoni di speranza significa scendere agli inferi con i nostri fratelli e sorelle, per incontrare tutti coloro che hanno le mani sporche di sangue, responsabili di uccisioni e barbarie di ogni genere, e di orrende violenze sulle donne stuprate, sventrate, infettate di malattie terribili. Dobbiamo portare le sofferenze di questi traumi e implorare Cristo di non abbandonarci nella morte. Non possiamo che pregarlo perché dopo questa terribile traversata ci attenda sull’altra riva. In questo contesto, la voce che noi come Chiesa ivoriana possiamo inviare alla Chiesa universale non può che essere un messaggio di speranza. L’inno del nostro Paese saluta la Costa d’Avorio come una terra di speranza. Questo saluto è stato tradotto nel linguaggio del popolo nella formula: «Lo scoraggiamento non appartiene agli ivoriani». E poi, oltre alla speranza, c’è l’ospitalità: «Paese dell’ospitalità», dice il nostro inno. Di fronte all’egoismo generalizzato nel nostro mondo, ci auguriamo che tutti i Paesi, anche l’Italia, possano essere terra d’accoglienza per tutti coloro che vogliono venirci in cerca di un po’ di felicità, e che gli italiani comprendano che la Terra e tutte le sue ricchezze appartengono a Dio e che noi dobbiamo condividerne i beni, affinché il fossato tra ricchi e poveri si assottigli. Se ci rendiamo conto di questo, non erigeremo muri di filo spinato tra le nazioni, non vivremo più con la paura di prendere l’aereo, ma ogni uomo si sentirà a casa sua su questa Terra, dove vivremo tutti come fratelli e sorelle.

* Docente di Filosofia, Università cattolica di Abidjan

(da Mondo e Missione, Ottobre 2006)

La lotta del Segretariato per l’unione dei cristiani sotto il cardinale Bea per una dichiarazione De Judaeis, culminata con successo nel documento conciliare Nostra aetate, ha prodotto frutti ricchissimi.

Giovedì, 14 Giugno 2007 01:08

A partire dalla tolleranza (Avery Dulles)

LE RELAZIONI TRA LE RELIGIONI

A partire dalla tolleranza

di Avery Dulles

Le relazioni fra le varie religioni del mondo sono state spesso ostili, e in molti luoghi lo restano tuttora. Prendendo in mano un quotidiano, difficilmente possiamo evitare di imbatterci in articoli su conflitti fra ebrei e musulmani, fra musulmani e indù, fra indù e sikh o fra musulmani e bahai. In un qualche periodo storico ognuna di queste religioni si è scontrata con il cristianesimo. Il cristianesimo, da parte sua, ha ampiamente contribuito a tensioni e conflitti interreligiosi. I cristiani hanno perseguitato gli ebrei e hanno organizzato guerre sante contro i musulmani. In seno al cristianesimo vi sono state guerre micidiali, specialmente fra protestanti e cattolici, ma a volte anche con gli ortodossi. Scontri del genere continuano, ad esempio, in Irlanda del Nord, anche se non sarebbe giusto presentare la Chiesa cattolica come belligerante in questo conflitto, poiché le sue autorità hanno disapprovato la violenza da entrambe le parti.

Dal punto di vista americano, non siamo assolutamente interessati a una guerra contro l’islam. Il nostro paese è ospitale nei riguardi dei musulmani, che costituiscono oltre un milione della sua popolazione. Essi godono di una piena libertà di culto in tutto il Nord America e in tutta l’Europa occidentale. Una nuova crociata non sarebbe sostenuta da nessuna delle grandi potenze dell’Occidente e non avrebbe certamente la benedizione delle autorità religiose cristiane. Il nostro scontro con Osama bin Laden riguarda unicamente la sua politica della violenza, che non sembra accordarsi con i principi fondamentali del vero islam.

Da parte araba, la religione è un elemento presente, ma estremisti musulmani come bin Laden sembrano operare per fini culturali, politici, etnici ed economici più che puramente religiosi. Essi ce l’hanno con il potere degli Stati Uniti e dei loro alleati, che considerano arroganti e brutali. E, più profondamente, provano un senso di ripugnanza verso quella che ritengono essere la cultura dell’Occidente. Non ce l’hanno in primo luogo con il cristianesimo in quanto religione, quanto piuttosto e soprattutto con quella che considerano la perdita della religione in Occidente: il suo eccessivo individualismo, la sua pratica licenziosa della libertà, il suo materialismo, il suo consumismo improntato alla ricerca del piacere e del divertimento. Essi vedono in questa cultura edonistica una minaccia, poiché esercita una forte seduzione su molti giovani delle società tradizionalmente islamiche dell’Asia, dell’Africa e di altri continenti.

Se questa analisi è corretta, la globalizzazione potrebbe essere considerata la causa soggiacente al conflitto in Afghanistan. I moderni mezzi di trasporto e di comunicazione mettono a contatto culture che si sono sviluppate in modo relativamente autonomo nelle varie parti del mondo. L’incontro provoca una sorta di trauma culturale, specialmente in paesi che non sono passati attraverso quel graduale processo di industrializzazione e modernizzazione che è intervenuto in Occidente due secoli fa.

Ora i cristiani del Nord America e dell’Europa occidentale sono abituati ad avere rapporti con ebrei, musulmani, indù, buddhisti e membri di qualsiasi altra religione. Attualmente, in presenza di un’immigrazione su larga scala e di una generalizzata disponibilità dei moderni mezzi di comunicazione, nessuna religione può più pretendere di esercitare il proprio dominio esclusivo su una determinata regione e di proteggere i propri seguaci dal contatto con altre fedi. Piaccia o non piaccia, siamo in genere destinati a vivere in società religiosamente miste, comprendenti persone di varie fedi e anche persone che non praticano alcuna fede.

Perciò, dobbiamo discutere i modi in cui le varie religioni possono relazionarsi fra loro. Vorrei proporre una tipologia comprendente quattro possibili modelli: coercizione, convergenza, pluralismo e tolleranza.

Il primo modello, quello della coercizione, ha predominato nella maggior parte della storia umana. In molte epoche storiche le autorità politiche hanno voluto imporre un’unica religione nei territori sottoposti alla loro giurisdizione e costringere le popolazioni sottomesse ad adottare la religione del conquistatore. Per un certo periodo l’Impero romano ha accettato il pluralismo religioso, ma ben presto gli imperatori hanno cominciato a pretendere per sé onori divini. Così sono giunti a perseguitare quelle religioni, come il cristianesimo, che rifiutavano un tale culto. Quando l’Impero ha adottato il cristianesimo come religione ufficiale, gli imperatori hanno incominciato a imporre l’ortodossia cristiana e a perseguitare tutte le altre religioni, comprese le forme dissidenti del cristianesimo. Il modello di un’unica religione per uno stesso stato è rimasto il modello normativo anche dopo la Riforma e fin nella prima parte dell’epoca moderna. Le terribili guerre e persecuzioni del XVI e XVII secolo sono state in gran parte dovute all’idea che ogni stato doveva avere una sola religione, quella del suo sovrano (cuius regio eius religio).

In questa situazione, le guerre fra gli stati sono diventate spesso, sotto un altro aspetto, guerre fra religioni. Le crociate illustrano molto bene questa realtà. Pur essendo normalmente presentati come aggressori, in realtà gli europei hanno condotto in gran parte un’azione militare difensiva. Gli arabi e i turchi hanno conquistato la Siria, il Nord Africa e ampie aree del territorio europeo, fra cui il Portogallo, la Spagna, la Francia meridionale, regioni dell’Italia e della Svizzera in Occidente e i Balcani, l’attuale Iugoslavia e l’Ungheria in Oriente. L’avanzata delle forze musulmane ha comportato ovviamente la diffusione dell’islam in quanto religione e la loro ritirata ha comportato, il più delle volte, la cristianizzazione forzata dei territori da essi perduti, come si può vedere nel caso della Spagna del XV secolo, che ha espulso tutti gli ebrei e i musulmani che non accettavano di convertirsi al cristianesimo.

Nell’attuale situazione di «villaggio globale» è difficile mantenere il modello della coercizione. In seguito alle sanguinose «guerre di religione», l’Europa e gli Stati Uniti hanno imparato la lezione e si sono resi conto che i costi erano eccessivi. Dal punto di vista della teologia cristiana, il tentativo di convertire le persone con la spada è insostenibile. Protestanti e cattolici hanno imparato che l’adesione alla fede deve essere un atto libero e non imposto. I passati tentativi di costringere le persone a convertirsi sono serviti a screditare la religione e hanno favorito la diffusione dell’indifferentismo e di atteggiamenti a-religiosi.

Senza dubbio esistono ancora nel mondo governanti che cercano di imporre l’uniformità religiosa. Sono vicini molesti e vere minacce alla pace mondiale. Dal punto di vista cristiano, le loro politiche coercitive vanno disapprovate. Ritengo che con il passare del tempo riconosceranno che le loro politiche sono sbagliate. Infatti, come ho detto, dati i moderni mezzi di trasporto e di comunicazione, diventa molto difficile impedire lo sviluppo di varie comunità religiose in ogni regione del mondo. Anche se alcuni governi autoritari possano contrastare la penetrazione di altre fedi, come avviene attualmente in certe regioni musulmane, induiste e buddhiste, alla fine le barriere saranno sfondate e crolleranno. Presto o tardi le popolazioni che sono state costrette ad adottare la religione dei loro governanti chiederanno la libertà di seguire la propria coscienza e testimoniare le proprie autentiche convinzioni religiose.

Nonostante le battute d’arresto e le ricadute, l’onda della storia ha favorito la libertà religiosa. L’Unione sovietica non è riuscita a imporre la propria ideologia atea per più di settant’anni. La coercizione religiosa sopravvive solo in nazioni che sono giunte molto tardi alla modernità. Essa è promossa da estremisti che avvertono la necessità di ricorrere a misure disperate per salvare la propria concezione teocratica dello stato.

Il secondo modello di relazione fra le religioni è quello della convergenza. Convinti che l’impulso religioso è essenzialmente lo stesso in tutte le persone e in tutti i popoli, certi studiosi affermano che le religioni concordano negli aspetti essenziali e che le loro differenze sono solo esteriori. Negli anni settanta John Hick, fra gli altri, ha affermato che le religioni potevano accordarsi sulla base del teocentrismo e riconoscere che le loro differenze riguardo ai mezzi della salvezza erano culturalmente condizionate. (1) Ma il teocentrismo non è una piattaforma soddisfacente per il dialogo con molte religioni, che sono politeiste, panteiste o atee. Anche le religioni chiaramente teiste, come l’ebraismo, l’islam e il cristianesimo, non vogliono rinunciare alle loro convinzioni riguardo alla via per giungere a Dio, sia essa la legge di Mosé, il Corano o Gesù Cristo.

Perciò, abbandonando l’idea teocentrica della convergenza religiosa, vari studiosi hanno adottato recentemente quello che essi chiamano il modello «soteriocentrico». (2) Essi affermano che tutte le religioni concordano sul fatto che lo scopo della religione è dare la salvezza o la liberazione, che esse intendono in modi diversi, probabilmente a causa della varietà delle culture. E ritengono che mediante il dialogo sulla liberazione le religioni potrebbero superare le loro reciproche divisioni.

Queste teorie della convergenza partono dal presupposto che tutte le religioni, perlomeno nei tratti che le differenziano, sono costruzioni umane, incerti tentativi di esprimere il mistero sacro e trascendente che circonda l’esistenza umana. Ma questa teoria contraddice l’insegnamento ufficiale e l’identità storica delle religioni e incontra delle resistenze da parte delle persone autenticamente religiose, le quali affermano che la loro fede specifica è vera, anzi divinamente rivelata. I cristiani ritengono che dottrine centrali della loro fede, come la Trinità e l’Incarnazione, fanno parte della rivelazione e non possono essere sacrificate per conseguire una qualche ipotetica riconciliazione. Gli ebrei aderiscono appassionatamente alla legge di Mosé e alla tradizione rabbinica. I musulmani, da parte loro, considerano il Corano la rivelazione definitiva di Dio e vedono in Mohammed il maggiore e l’ultimo dei profeti. La soteriologia è un fattore di divisione, perché le religioni sono fortemente discordi sulla via della salvezza. Perciò, come rimedio alla disunione il soteriocentrismo non promette nulla di più del teocentrismo.

Il terzo modello d’incontro religioso è quello del pluralismo. Con questo termine non mi riferisco solo alla molteplicità delle religioni, ma all’idea che essa rappresenti una benedizione. Si afferma che ogni religione riflette determinati aspetti del divino. Questi aspetti sono tutti parzialmente veri, ma hanno bisogno di essere integrati e controbilanciati dagli elementi di verità che si trovano nelle altre religioni. La coesistenza di tutte le religioni cancella gli errori e supera i limiti di ciascuna di esse presa singolarmente. Come affermava nel IV secolo il retore Simmaco nella sua discussione con sant’Ambrogio: «È impossibile che ci si possa avvicinare a un mistero così grande percorrendo una sola strada». (3)

Questo approccio esercita un certo fascino sui relativisti, i quali affermano che la mente umana non può raggiungere la verità oggettiva e che la religione è espressione di sentimenti puramente soggettivi. Ma esso non convince i credenti ortodossi, i quali sostengono che le dottrine della propria religione sono oggettivamente e universalmente vere. Il cristianesimo sta e cade con l’affermazione che vi sono realmente tre persone in Dio e che la seconda, il Figlio eterno, si è incarnata in Gesù Cristo. I cristiani non hanno difficoltà a riconoscere l’esistenza di elementi di verità e di bontà in altre religioni, ma non smettono di insistere sulla necessità di trasmettere a tutti i popoli la rivelazione di Dio in Cristo. Allo stesso modo, gli ebrei e i musulmani impegnati considerano le loro religioni come divinamente rivelate e rifiutano ogni tentativo di porre tutte le religioni sullo stesso piano.

Naturalmente, questa risposta negativa non significa che i seguaci delle diverse religioni non abbiano nulla da imparare gli uni dagli altri. Il cristianesimo si è sviluppato lungo i secoli entrando in contatto con una grande varietà di filosofie e di religioni, che hanno permesso ai cristiani di scoprire nella loro fede implicazioni che altrimenti non avrebbero riconosciuto. Il cristianesimo cresce come un organismo che assume il cibo dall’ambiente in cui vive e lo assimila in se stesso. Non ammette la validità di dottrine e pratiche che contraddicono la sua auto-comprensione. Come vedremo fra poco, il dialogo può accrescere il reciproco rispetto delle diverse religioni, ma l’esperienza non offre alcun motivo per ritenere che esso induca a concludere che tutte le religioni sono ugualmente buone e vere. Sui punti in cui si contraddicono a vicenda, perlomeno una di esse deve essere errata.

E veniamo alla quarta opzione, quella che io chiamo della tolleranza. Tolleranza non equivale ad approvazione, anche se in genere comprende un qualche grado di approvazione. Noi tolleriamo cose che non riteniamo nemmeno accettabili, perché non riusciamo a eliminarle o perché la loro soppressione sarebbe in se stessa un male. Nel XVIII secolo, il principio della tolleranza – come viene espresso, ad esempio, da John Locke nella sua famosa Lettera sulla tolleranza – è stato generalmente accettato in molti paesi dell’Europa occidentale.

Quel principio ha giocato un ruolo fondamentale nell’esperimento americano della libertà ordinata. Nel nostro paese abbiamo avuto fin dall’inizio una grande varietà di denominazioni cristiane che si consideravano reciprocamente nell’errore. L’ordinamento politico americano non ha richiesto loro di approvare le reciproche dottrine e pratiche, ma ha preteso che rinunciassero a ogni iniziativa volta a costringere i membri di altre denominazioni a concordare con esse. Nel corso del tempo la scena religiosa è diventata sempre più varia. Oggi, essa contiene un numero molto maggiore di varietà di cristianesimo rispetto a quelle che erano presenti all’inizio. Inoltre, il paese ha accolto sulle sue coste moltissimi ebrei, musulmani, buddhisti e indù. E tuttavia, a parte qualche rara eccezione, tutti questi gruppi religiosi vivono pacificamente insieme, senza interferire nella dottrina, nella vita e nel culto degli altri. L’esperimento americano ha funzionato abbastanza bene, per cui può rappresentare un possibile modello per la comunità internazionale, che in questi tempi sta sperimentando le doglie del parto.

Anche se il termine «tolleranza» non ricorre molto nell’insegnamento ufficiale cattolico nel corso degli ultimi cinquant’anni, questo quarto modello è, a mio avviso, quello che corrisponde meglio alla dottrina del magistero. Nel 1953, in un importante discorso, Pio XII ha affermato che nella comunità mondiale che allora stava nascendo, la Chiesa cattolica non pretendeva di avere un posto privilegiato o di essere riconosciuta come religione istituita. Essa chiedeva unicamente che alle varie religioni fosse concessa la piena libertà di insegnare le proprie convinzioni e praticare la propria fede. (4) Nella dichiarazione Nostra aetate sulle religioni non cristiane e nella Dignitatis humanae sulla libertà religiosa, il concilio Vaticano II ha assunto questo modello come un modello adatto ai singoli stati-nazione.

Il concilio Vaticano II rinuncia espressamente al ricorso a ogni sorta di coercizione, sia essa fisica o morale, affinché altri entrino nella Chiesa cattolica. Esso insegna che si deve riconoscere e rispettare la libertà religiosa di tutti i cittadini e di tutte le comunità religiose, anche là dove l’ordinamento giuridico attribuisce uno speciale riconoscimento a una determinata religione (cf. Dignitatis humanae, n. 6; EV 1/1060). Per la pace della società civile e per l’integrità delle stesse religioni è essenziale promuovere un clima di reciproca tolleranza e reciproco rispetto.

A volte il concilio Vaticano II è stato frainteso, ritenendo che esso avesse adottato il modello pluralistico e rinunciato alle pretese esclusive del cristianesimo. (5) In realtà, il concilio ha insistito sull’unica verità della fede cattolica e sul dovere di tutti di cercare la vera religione e abbracciarla una volta trovata (cf. Dignitatis humanae, n. 1; EV 1/1043).

Il concilio Vaticano II ha proclamato una cristologia molto elevata. Ha insegnato che Dio ha costituito Cristo principio di salvezza per il mondo intero (cf. Lumen gentium, n. 17; EV 1/327) e che egli è «il fine della storia umana, il punto focale dei desideri della storia e della civiltà, il centro del genere umano, la gioia di ogni cuore, la pienezza delle loro aspirazioni» (Gaudium et spes, n. 45; EV 1/1464). Il Concilio cita Paolo, secondo cui il disegno dell’amore di Dio è quello di «ricapitolare tutte le cose in Cristo, quelle del cielo come quelle della terra» (Gaudium et spes, n. 45, che cita Ef 1,10; EV 1/1464).

In base alla sua alta cristologia, il concilio Vaticano II si è premurato di insistere sull’unica mediazione di Cristo e di sottolineare l’importanza permanente dell’attività missionaria. Riconoscendo in Cristo il redentore del mondo, il Concilio ha invitato i cristiani a diffondere il più ampiamente possibile il Vangelo. Non conoscere il Vangelo o negarlo equivarrebbe a trascurare o rifiutare il maggiore dono fatto da Dio all’umanità. Mediante il suo dinamismo interno, la Chiesa tende a diffondersi e ad accogliere nel suo grembo membri di ogni razza e nazione. Il decreto Ad genteshanno bisogno di Cristo, modello, maestro, liberatore, salvatore, vivificatore» (n. 8; EV 1/1107). sull’attività missionaria afferma che, avendo peccato ed essendo sprovvisti della gloria di Dio, tutti gli esseri umani «

Riguardo alle religioni non cristiane, il Concilio insegna che esse spesso contengono «semi del Verbo» e «raggi di quella divina verità che illumina ogni uomo», ma non insegna che queste religioni sono rivelate o che sono vie di salvezza o che possono essere accettabili alternative al cristianesimo. Naturalmente l’ebraismo detiene un posto speciale fra le religioni non cristiane, poiché la fede di Israele è il fondamento sul quale poggia il cristianesimo (cf. Nostra aetate, n. 4; EV 1/861ss). La Bibbia ebraica conserva un valore perenne in quanto parola di Dio divinamente ispirata e rivelazione di Dio al popolo eletto prima della venuta di Cristo (cf. Dei verbum, n. 14; EV 1/895).

Il Concilio è ben lungi dall’insegnare che le altre religioni sono prive di errori. Esso dichiara che «molto spesso gli uomini, ingannati dal maligno, hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e hanno scambiato la verità divina con la menzogna, servendo la creatura piuttosto che il Creatore (cf. Rm 1,21.25)... Perciò, per promuovere la gloria di Dio e la salvezza di tutti costoro, la Chiesa, memore del comando del Signore che dice: «Predicate il Vangelo a ogni creatura» (Mc 16,16), promuove con ogni cura le missioni» (Lumen gentium, n. 16; EV 1/326).

L’evangelizzazione, secondo l’Ad gentes, purifica i riti e le culture dei popoli «dalle scorie del male e [li] restituisce al suo autore, Cristo, che rovescia il regno del demonio e allontana la multiforme malizia del peccato» (n. 9; EV 1/1109). Queste espressioni significano che le altre religioni non sono assolutamente sostituti adeguati del cristianesimo. Ciò implica che sotto certi aspetti esse possono ostacolare la salvezza dei loro seguaci. In questa misura l’atteggiamento del Concilio nei loro riguardi è un atteggiamento che comporta approvazione limitata e tolleranza.

A volte si pretende che le convinzioni assolute, come ad esempio le affermazioni avanzate dalle sacre Scritture e dai concili a proposito di Gesù Cristo, generino oppressione e violenza. Credo che sia vero il contrario. I leader del movimento antischiavista del XIX secolo e del movimento dei diritti civili del XX secolo, nonché i grandi fautori della non violenza, sono stati generalmente uomini e donne dotati di una forte convinzione religiosa.

Chi non riconosce alcun assoluto morale non dispone di basi abbastanza solide per difendere i diritti umani e la dignità umana. Chi non sa con certezza se la soppressione di una vita innocente sia o meno incondizionatamente vietata, potrà addurre solo deboli motivazioni contro il genocidio e contro la massiccia strage di innocenti che avviene in tutto il mondo nelle cliniche in cui si pratica l’aborto. Ovviamente, è possibile che certe persone che si oppongono all’aborto possano, orientandosi in modo fuorviato, uccidere coloro che praticano l’aborto, ma casi del genere sono rari, e violano anch’essi i principi etici cattolici che vietano agli individui di farsi giustizia da soli.

I cristiani sono tolleranti nei riguardi delle altre religioni, non nonostante la loro assoluta certezza della rivelazione, ma in parte proprio a causa di essa. La rivelazione li assicura che Dio ha creato gli esseri umani a sua immagine come soggetti liberi e responsabili. Essa insegna anche che la fede è per sua natura un atto libero. La Dignitatis humanae afferma chiaramente che i cristiani devono rispettare il diritto e il dovere di tutte le persone di cercare la verità in campo religioso e di aderirvi una volta trovata. Ai credenti deve essere consentito di professare e praticare la propria religione, a patto che, così facendo, non contravvengano alle esigenze di un giusto ordine pubblico.

L’atteggiamento della tolleranza e dell’approvazione limitata, quando è reciproco, apre la strada a varie strategie che possono condurre a una coesistenza pacifica e amichevole. Vorrei ricordare, anzitutto, la strada della conoscenza. Normalmente i vari gruppi religiosi provano un sano stimolo a cercare di conoscere gli altri, incontrandosi nella vita reale e informandosi accuratamente gli uni sugli altri mediante lo studio e la lettura. In una società multireligiosa le persone dovrebbero essere educate non solo nella loro fede, ma anche, in qualche misura, nella fede delle persone con cui dovranno interagire. Tutti dovrebbero guardarsi da caricature basate sul pregiudizio e sull’ignoranza.

In secondo luogo, i gruppi possono impegnarsi insieme in alcuni programmi basati su un comune riconoscimento di valori morali fondamentali. Persone appartenenti a fedi diverse hanno delle opportunità di lavorare insieme su obiettivi quali la difesa della famiglia, i diritti dei migranti e dei rifugiati, la diminuzione della povertà e della fame, la prevenzione e la cura delle malattie, la promozione della pace a livello nazionale e internazionale, la tutela dell’ambiente. A causa della loro autorità sulla coscienza dei fedeli, i gruppi religiosi possono offrire forti motivazioni a sostegno di riforme in prospettiva umanitaria.

In terzo luogo, i gruppi possono testimoniare insieme le comuni convinzioni religiose e morali. Molte religioni concordano sull’importanza della preghiera e del culto. Esse incoraggiano la ricerca della santità e combattono contro vizi socialmente dannosi, quali l’ira, il furto, la disonestà, la promiscuità sessuale e l’alcolismo. In una società minacciata dall’egoismo e dall’edonismo, le voci concordi dei leader religiosi possono offrire un importante contribuito all’elevazione del livello della pubblica moralità.

In quarto luogo, in certe occasioni i vari gruppi possono pregare insieme e organizzare celebrazioni interreligiose. Due emblematiche espressioni di questa forma di approvazione limitata sono state le giornate di preghiera per la pace convocate dal papa Giovanni Paolo II nel 1986 e nel 1993. Dopo i terribili avvenimenti dell’11 settembre 2001 si sono tenuti a New York e in altre città molti incontri interreligiosi basati sulla preghiera e sulla riflessione silenziosa.

In quinto luogo, una necessità molto importante, spesso sottolineata dal papa Giovanni Paolo II, è quella della guarigione delle memorie. Basandosi fortemente sulla tradizione, la religione perpetua le esperienze passate della comunità di fede, compresi i suoi momenti di gloria, di sofferenza e di umiliazione. Le ferite inferte anche in un lontano o lontanissimo passato continuano a bruciare e ad alimentare l’ostilità. Se non si affrontano onestamente, le radici del risentimento avvelenano l’atmosfera, per cui si incolpano ingiustamente uomini e donne dei nostri giorni delle malefatte reali o immaginarie dei loro antenati. Per ristabilire l’amicizia, le comunità dovrebbero ripudiare i comportamenti attribuiti ai loro predecessori. È opportuno che esse chiedano perdono per ciò che possono aver fatto i loro predecessori e offrano perdono per le colpe che hanno patito le loro stesse comunità. Giovanni Paolo II ha coraggiosamente imboccato questa strada nei suoi rapporti con altre Chiese cristiane, con gli ebrei e con i musulmani. Queste espressioni di pentimento e di perdono sono un’importante azione interreligiosa.

In sesto luogo, a partire dal concilio Vaticano II, la Chiesa cattolica ha posto un forte accento sul dialogo teologico. Paolo VI ha istituito un segretariato speciale, che è diventato poi il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso. (6) In questi dialoghi le parti si chiariscono reciprocamente le loro credenze, esplorano strade che permettano di poter vivere amichevolmente insieme, si arricchiscono con le reciproche concezioni e si sforzano di ridurre i disaccordi cercando elementi di convergenza. Questi dialoghi si sono dimostrati molto fruttuosi per il miglioramento delle relazioni fra le varie comunioni cristiane. Essi possono essere molto fruttuosi anche nel campo delle relazioni interreligiose.

Ma per quanto prezioso, il dialogo non è una panacea. Non ci si può aspettare di superare tutti i disaccordi. Dopo aver raggiunto concezioni condivise e aver stabilito delle convergenze, in genere le parti riconoscono che non è possibile raggiungere la piena unità mediante il solo dialogo. Le religioni sono saldamente ancorate a posizioni contrastanti, che non possono abbandonare senza sacrificare la propria identità. Anche se indubbiamente i cristiani possono sperare che i loro partner nel dialogo giungano a riconoscere Cristo come il salvatore del mondo, un tale risultato oltrepassa le attese e gli orizzonti del dialogo in quanto tale. Il dialogo è finalizzato a raggiungere gli accordi che le parti possono concludere nel quadro dei loro specifici impegni religiosi.

A volte si è affermato che il dialogo è un segno di debolezza, poiché implica incertezza circa l’adeguatezza delle proprie posizioni. A mio avviso, il dialogo è invece un segno di forza. Occorre molta sicurezza di sé per ascoltare pazientemente gli altri quando ci dicono perché pensano che abbiamo torto. È facile comprendere il motivo per cui i gruppi che non hanno riflettuto in profondità sulle motivazioni delle proprie credenze rifuggono da un dialogo per il quale non sono preparati.

Abusando del dialogo si possono fare certamente dei danni. Un errore sarebbe quello di trasformarlo in un’occasione di proselitismo, cercando di convertire alla propria fede i partner del dialogo. In questo modo si stravolgerebbe lo scopo del dialogo, che differisce dalla predicazione missionaria. L’errore opposto sarebbe quello di nascondere o rinunciare alle convinzioni del gruppo al quale si appartiene, suscitando così false attese. Naturalmente i partecipanti al dialogo non sono autorizzati a cambiare le dottrine delle loro comunità religiose.

Ma, condotto giustamente, il dialogo è una delle strade più promettenti per un crescente incontro fra le grandi religioni. Non bisogna cominciare dai temi più sensibili e discussi. In genere le parti faranno bene a cominciare dai temi sui quali si può sperare di raggiungere un buon livello di consenso. Nell’enciclica Ecclesiam suam Paolo VI suggeriva di scegliere come temi di conversazione (colloquium) interreligiosa ideali comuni, quali la libertà religiosa, la fratellanza umana, la buona cultura, la beneficenza sociale e l’ordinamento civile. (7)

È possibile dialogare anche su temi più direttamente religiosi, come ad esempio il valore della preghiera e la natura dell’esperienza mistica, che sembrano presentarsi in forme analoghe in varie tradizioni religiose. (8) Si potrebbero immaginare dialoghi molto fruttuosi sulla sofferenza e la felicità, la vita e la morte, la parola e il silenzio. Per i partecipanti il risultato più importante di questi incontri sarà quello di riuscire a conoscersi e a rispettarsi vicendevolmente. L’amicizia fra rappresentanti qualificati delle varie religioni può facilitare il superamento delle ostilità accumulate e a ristabilire la fiducia.

All’inizio del terzo millennio, il dialogo interreligioso non è un lusso. Insieme alle altre cinque strategie che ho raccomandato, esso può essere necessario per prevenire disastrose collisioni fra i principali gruppi religiosi.

Nella crisi attuale, le religioni hanno una grande opportunità di passi oltre l’ostilità e la violenza fra i popoli e promuovere la stima reciproca e una cordiale cooperazione. Ma la posta in gioco è alta. Se le varie comunità religiose rifiutano di adottare programmi di tolleranza e di impegnarsi in un dialogo rispettoso, si corre il grave rischio di ricadere nelle reciproche recriminazioni e nell’odio. Allora si abuserebbe ancora una volta della religione, come è avvenuto già tante volte in passato, per giustificare il conflitto e lo spargimento di sangue. Come ha affermato Giovanni Paolo II in relazione agli avvenimenti dell’11 settembre, «non dobbiamo permettere che ciò che è avvenuto approfondisca le divisioni. La religione non deve essere mai usata come una ragione per il conflitto». (9) I seguaci delle religioni devono essere in prima fila nella costruzione di un mondo nel quale tutti i popoli possano vivere insieme in pace e fratellanza.


Note

1) J. Hick, God and the Universe of Faiths, St. Martin Press, New York 1973; God has Many Names, Macmillan, London 1980. Una buona presentazione della posizione di Hick si trova in P.F. Knitter, No Other Name?, Orbis, Maryknoll (NY) 1985, 146-52 (ed. it. Nessun altro nome?, Queriniana, Brescia 1991).

2) Questa visione è espressa in P.F. Knitter, «Towards a Liberation Theology of Religions», in J. Hick, P.F. Knitter, The Myth of Christian Uniqueness: Towards a Pluralistic Theology of Religions, Orbis, Maryknoll (NY) 1987, 178-200 (ed. it. L’unicità cristiana: un mito? Per una teologia pluralista delle religioni, Cittadella, Assisi 1994).

3) Cf. A. Toynbee, Christianity among the Religions of the World, Scribner’s, 1957, 112.

4) Pio XII, allocuzione Ci riesce: AAS 45 (1953), 794-802, specialmente 797.

5) Nell’estate del 2000 la Congregazione per la dottrina della fede ha risposto a questo fraintendimento del concilio Vaticano II nella Dominus Iesus, una dichiarazione sull’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, Regno-doc. 17,2000,529ss.

6) Il card. Francis Arinze, presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, ha pubblicato un piccolo ma prezioso volume intitolato Meeting Other Believers: The Risks and Rewards of Interreligious Dialogue, Our Sunday Visitor, Huntington Ind., 1997.

7) Paolo VI, Ecclesiam suam, 6.8.1964, n. 112; EE 7/819.

8) Autori come Bede Griffiths e Thomas Merton hanno descritto il modo in cui l’esperienza della preghiera mistica può essere un vincolo d’unione fra i membri delle diverse comunità religiose.

9) Parole pronunciate da Giovanni Paolo II il 23 settembre 2001 in Kazakistan.

L'Eucarestia nella prospettiva Ortodossa

di Vladimir Zelinskij




L'approccio dogmatico ed eccesiologico

“In quanto a noi, il nostro pensiero si accorda con l'Eucarestia, dice S.Ireneo di Lione, - e l'Eucarestia in cambio conferma il nostro pensiero. Noi offriamo à Dio ciò che é Suo, proclamando la comunione e l'unione della carne e dello Spirito poiché come il pane che viene dalla terra, dopo aver ricevuto l'invocazione a Dio, non è più pane ordinario, ma Eucarestia, così i nostri corpi che partecipano dell'Eucarestia non sono più corruttibili, perché hanno la speranza della risurrezione” (“Contro le eresie”).

La speranza della risurrezione si trova proprio nel nucleo del mistero eucaristico nella vita della Chiesa Ortodossa anche se questo centro non è sempre visibile. Si può parlare dell'Eucarestia in modo diverso: dal punto di vista dogmatico, liturgico, spirituale, ecclesiologico, escatologico, ma lo scopo finale, il telos, come dicevano i greci, del discorso, sarebbe sempre lo stesso: la comunione con Dio nella persona di Gesù Cristo, morto e risorto, presente e vivo nei Suoi doni e nel Suo Regno, preparato per noi. Eucarestia nel senso ontologico e dogmatico è la partecipazione alla natura divina (vd. 2 Pt 1,4), nel senso personale e comunitario - la partecipazione liturgica all'Ultima Cena del Signore, nel senso ecclesiale è l'attualizzazione della Chiesa come Corpo di Cristo, nel senso escatologico è la preparazione per il Giudizio Finale e l’incontro con Cristo. La comunione come avvenimento sacramentale e spirituale è il cuore dell'ortodossia che batte nella sua teoria, come nella sua pratica, nella vita della Chiesa, come nella vita della persona che cerca la sua salvezza.

Fra la pratica e teoria non c’è una linea della demarcazione netta, come questa linea non dovrebbe essere fra la fede e la spiritualità. Dal punto di vista antropologico nella Chiesa Orientale esiste una sorte del primato della contemplazione e della "teoria" sull'azione umana perché il mondo è visto piuttosto come manifestazione del Divino (per la Chiesa Occidentale invece il mondo è piuttosto il risultato dell'azione di Dio). Questa differenza esisteva dall'inizio: I greci ponevano l'accento sull'immagine di Dio nella creazione, i latini vedevano la propria vita come attività, indirizzata verso Dio.

La diversità (naturalmente leggitima) si fa notare anche nel concetto di ecclesiologia. L'ecclesiologia ortodossa si chiama spesso l'ecclesiologia della comunione: la comunione alla SS.Trinità, ma anche la comunione ai santi doni che uniscono fedeli in Cristo. E la comunione mistica dà la sua forma anche alla struttura della Chiesa. Il vescovo (o il sacerdote che lo sostituisce) è in comunione con i suoi fedeli e con gli altri vescovi nei sacramenti e nella preghiera. L'ecclesiologia non è una pura logia, ma - sapienza - saggezza - salvezza. E la conoscenza della vita nella Chiesa può aiutare a portarci sul cammino della salvezza che si trova nella comunione con Dio.

"La Chiesa, - secondo la definizione del teologo russo Alexej Chomiakov (1804-1860), - è la vita di Dio fra gli uomini". Ma che cos'è la salvezza come vita di Dio? “Fra gli uomini", "nel mezzo di uomini", "dentro gli uomini" la vita di Dio vuol dire: "la santità". Siamo sempre al confine del mistero che vive in noi. Il mistero della fede e della presenza reale di Dio nella nostra vita ecclesiale è come la soglia e la condizione della nostra conoscenza della Chiesa. Avviciniamo la natura della Chiesa attraverso il mistero eucaristico.

"La natura della Chiesa stessa è eucaristica, - dice il teologo ortodosso Kiprian Kern (1899-1960). (1) Se la Chiesa è il Corpo di Cristo, anche l'Eucarestia è un Corpo di Cristo. Senza l'Eucarestia non c'è una vita ecclesiale, come l'Eucarestia è impossibile fuori della Chiesa". Parlando dell'Eucarestia parliamo della Chiesa e vice versa. Parlando della Chiesa confessiamo il nucleo della fede. L'ecclesiologia ci pone prima di tutto un problema dell'identità della Chiesa cioè dell'identità stessa del Cristo che vive fra noi. La Chiesa condiziona questa identità nell'Eucaristia.

"Il canone eucaristico - continua Kern, - è una interpretazione liturgica del dogma della SS.Trinità, della creazione, della redenzione o della santificazione". In altre parole, L'Eucaristia porta in sé e manifesta il cuore della fede che confessa che l'opera di Cristo sia la nuova creazione dell'uomo e del cosmo nello Spirito Santo grazie all'unità dell'umanità con Dio. Lo Spirito Santo entra nella creazione e invisibilmente riempie il nostro essere. Secondo San Gregorio Palamas, lo Spirito Santo c'include nel Corpo di Dio tramite i sacramenti della Chiesa. Ma la Chiesa stessa è un sacramento che ci prepara al Regno e alla trasfigurazione finale. La Chiesa è vista come luogo della nascita e della vita dell'uomo nuovo, non soltanto riconciliato, ma eucaresticamente unito con Dio. In questo senso la comunione al Corpo e al Sangue del Cristo fa vedere Crsito in lui, ciò che l’uomo è o piuttosto chiamare ad essere. Così l'ecclesiologia diventa una vertice della nuova antropologia.

L’approccio antropologico
L'antropologia ortodossa è trinitaria. Il concetto della
Trinità contiene in sé una premessa della moltitudine delle persone umane. Nella Trinità l'unità e la diversità coincidono e l’unità dei molti diventa un'immagine della Chiesa radunata nella stessa Eucarestia. In potenza tutta l'umanità è il Corpo del Cristo. L'Incarnazione ha riprodotto, ricreato l'unità umana. (“Adamo vive in noi” – come dice San Gregorio di Nissa). Come Corpo del Cristo abbiamo il sangue del Cristo, siamo uniti nell'Eucarestia, cioè nella Chiesa. L'unità della Chiesa è l'unità della natura umana restaurata in Cristo e questa unità si realizza nell'Eucarestia. L'Eucarestia è un atto con cui Dio ci unisce nel Corpo del Cristo. (P.N.Afanasiev). (2) I fedeli sono rifondati nel Corpo del Cristo, perché loro sono nutriti con lo stesso Corpo. Se la Chiesa avesse il cuore, quel cuore dovrebbe essere il sacramento dell'Eucarestia.

Il Cristo è la radice della deificazione della natura umana. L'uomo unito a Cristo è già la Chiesa (San Massimo il Confessore), perché la comunione con Cristo ci fa il Corpo del Cristo. Il corpo umano in quel caso è lo strumento, ma anche il tempio dello Spirito. La vita comune si fa come cammino verso la deificazione dell'uomo che può essere solo l'azione del Santo Spirito. Quando alla fine della Divina Liturgia il sacerdote dice: “Le cose sante ai santi”, lui proclama la santità del Corpo del Cristo già presente nella comunità dei credenti ch'è anche il popolo dei peccatori. Questo Corpo è unito nell'unità escatologica della Parusia. Già Didaché ci dà un'immagine del pane disperso e raccolto La Chiesa come un atto della ri-unione dell'umanità che vive in Cristo.

L'identità con Cristo è condizionata dall'esistenza delle moltitudini. Lo Spirito che costituisce l'identità del Cristo è lo Spirito della comunione e la sua opera consiste nella trasformazione in comunione della realtà umana incompatibile con l'individuo separato dagli altri. La Trinità stessa è la comunione e nello stesso tempo la personalità. Ma anche la Chiesa è la "personalità corporativa" e il suo essere personale si rivela proprio nell'Eucarestia. Il mistero della Chiesa è il mistero dell'"uno" che è moltitudine nello stesso tempo. Per questo motivo la cristologia ortodossa non è concepibile senza l'ecclesiologia. L'esistenza del corpo è una condizione necessaria che la testa sia la testa. Nella preghiera eucaristica la Chiesa diventa santa in tutti i suoi membri e colui che presiede la comunità, il sacerdote, si identifica con il Cristo stesso. Ma anche tutta la comunità diventa il Cristo che prega al Dio Padre nell'unità dello Spirito Santo

La Chiesa è sempre vista come icona del Regno che deve venire e la sua identità coincide con l'identità del Cristo e del Regno escatologico. La sua esistenza è iconica. Essa è l'immagine di ciò che la trascende.

L'approccio liturgico

Per l'ortodossia, la Chiesa vive nell'Eucarestia e anche attraverso l'Eucarestia. Il mondo intero può essere visto come "liturgia cosmica", che offre al trono di Dio tutta la Sua creazione. Ogni fedele porta il mondo in sé e devo portarlo al mistero eucaristico.

“Nella Chiesa antica i fedeli non si recano da soli in Chiesa ma accompagnat i dai doni della creazione. Il pane, il vino e l'olio vengono portati in processione liturgica e in sfilata - è l'odierno "grande ingresso" della liturgia - il quale a sua volta li "rapporterà al trono di Dio come Eucarestia”. (m. Ziziulas). La visione eucaristica del mondo ci apre la creazione dove l'Eucarestia non può essere oggetto o mezzo. L'Eucarestia è la rivelazione del cosmo.

Nel contesto liturgico l'Eucarestia si rivela come manifestazione di tutta la Chiesa. La Chiesa conosce e celebra un solo sacramento cioè il mistero del Cristo, del Cristo totale che salva il mondo. In questo senso l'Eucarestia non può essere solo un mezzo della grazia, ma la sua realtà. Dall'inizio del cristianesimo l'Eucarestia era vista come "Sacramento dei sacramenti" che esprime il mistero della Chiesa stessa come sacramento. Il sacramento può è primo di tutto una realtà divino-umana o come ritorno alla creazione nuova. Se il diavolo ci separa, il sacramento ci unisce nel Corpo di Cristo. E’ lo Spirito Santo ch’è l'ultimo criterio della verità della fede che non costituisce il mistero liturgico ma proviene da esso.

La gratitudine è un motivo principale del canone eucaristico. Nell'Eucarestia la Chiesa si effettua come la creazione nuova e come il mistero della conoscenza. La conoscenza cristiana (Gv.17,3) è anzitutto la gratitudine. Nella gratitudine scopriamo anche ciò che possiamo chiamare l'antropologia eucaristica. L'uomo che crede è l'uomo che loda, che ringrazia, che torna nella sua memoria al mistero della salvezza rivelata nella vittoria del Cristo sul peccato tramite la Croce. L'anamnesis, la memoria sacra ecclesiale, non è separata dal ringraziamento. Il sacrificio del Cristo è commemorato nella gratitudine. La memoria ecclesiale come la forma della presenza del Cristo e la realtà stesso del Regno. (“Come il Padre l’ho preparato per me, Io preparo per voi un regno perché possaite mangiare e bere alla mia mensa nel Mio Regno” – Lc 22, 30).

L'Eucarestia è come un farmaco dell'immortalità" (Sant'Ignazio d'Antiochia) per il mondo e per l'uomo perché loro siano realmente ciò che sono e che il peccato altera. La liturgia ci torna all'originale del mondo - questo punto è molto importante - quando non esisteva ancora divisione fra il "naturale” e il “soprannaturale". L'ortodossia anche adesso rifiuta questa dicotomia perché prima di tutto nel contesto liturgico la dicotomia non esiste. Esiste una natura e la creazione come unica realtà. Esiste un incontro completo fino all'identità del celeste con la realtà terrena. Qui tocchiamo un altro problema, quello del simbolo e della realtà. La funzione del simbolo non è fare figura, un segno esteriore, ma far apparire la realtà, farla manifestare. Il simbolo è il segno di qualche cos'altro presente nella stessa realtà creata. Il sacramento - qualsiasi, ma prima di tutto l'Eucarestia - non si trova in opposizione alla creazione o alla creatura, ma rivela la sua natura autentica. Perciò l'Eucarestia ha carattere cosmico ed escatologico. Essa include in sé tutta la creazione, perché la creazione è già il Regno, ma il Regno nascosto. Il sacramento è rivolto verso questo Regno del secolo futuro.

L'essenza della Chiesa è il cammino verso il Cielo, e l'Eucarestia è il mistero di questo cammino anche nella memoria o l'anamnesis. L'anamnesis che contiene anche la memoria della Croce come vittoria sul peccato, è la presenza mistica del cammino all'interno del nostro essere che ci porta al Regno. Ma l'anamnesis è anche la memoria del futuro, un atto escatologico. “Io sono l'Alfa e l'Omega, il Primo e l'Ultimo, il Principio e la Fine” (Ap.22,13). “Vieni, o Signore Gesù” (Ap 22, 20). La memoria del Regno aperta al Ritorno del Signore.

Per questo motivo l'ecclesiologia ortodossa non usa la parola "transustanziazione". Prima di tutto per non introdurre la filosofia umana nell’incomprensibile. Il corpo destinato alla risurrezione è lo stesso corpo, non di un'altra sostanza, ma quello che è stato creato da Dio e cambiato o ricreato nell'atto eucaristico. Quando il sacerdote dice: "Questo è il Mio Corpo" le sue parole o piuttosto le parole di tutta la Chiesa cambiano la natura dell'offerta. Così questa parola del Salvatore, una volta pronunciata, è stata e sarà sufficiente per compiere il più perfetto sacrificio sulla tavola di tutte le chiese, dall'ultima Pasqua di Gesù Cristo fino ai nostri giorni e fino al suo avvento.

Il pane diventa il pane del cielo perché su di esso viene a posarsi lo Spirito, ma rimane il pane com'è. L'Eucarestia è fatta dallo Spirito Santo, ma il "momento", , dell'invocazione dello Spirito Santo, oltre l'epiclesi riempie tutta la liturgia. La presenza dello Spirito è convalidata dalla fede. Tutta la liturgia è già la tramutazione: la materia, il rito, il simbolo sono riportati alla loro origine di creazione.

Ciò che è lì davanti a noi non è l'opera del potere umano. Colui che ha fatto questo nell'ultima cena lo fa ancora adesso. In quanto a noi, il nostro compito è quello di servitori, ma è Lui che santifica e trasforma. "C'è (...) un solo Cristo, tutto intero qui e tutto intero là, un solo corpo (...). Noi non offriamo un'altra vittima, come il sommo sacerdote di allora (dell'Antico Testamento); è sempre la stessa, o piuttosto noi facciamo il memoriale del sacrificio”. (San Giovanni Crisostomo).

L’eucarestia e l’assemblea

Tutta l'azione liturgica fa parte del mistero eucaristico, cominciando dall'assemblea ecclesiale che costituisce uno degli aspetti della sacramentalità globale della Chiesa, e il suo cuore; "il mistero dei misteri", come dice Olivier Clément è l'Eucarestia”. Nella proscomidia (o protesi) tutta la Chiesa (la Madre di Dio, i santi più importanti, il clero, il popoli, i vivi, come anche i morti) è riunita davanti all'Agnello. L'assemblea ecclesiale è preceduta da quella mistica durante la proscomidia. L'assemblea - l'Eucarestia - la Chiesa costituiscono una tri-unità, l'una è inseparabile dall'altra.

Secondo Pseudo-Dionigi Areopagita l'Eucarestia è prima di tutto il sacramento dell'assemblea, perché si l'Eucarestia è la forma iniziale della Chiesa, l'assemblea è la forma iniziale dell'Eucarestia. La Chiesa stessa è il sacramento e il mistero nel senso escatologico e cosmico. La struttura della Chiesa è misterica perché essa nel sacramento si trasforma in realtà della vita nuova. Secondo la prospettiva ortodossa l'Eucarestia come sacramento non è divisibile durante la liturgia perché tutta la liturgia nella sua integrità è lo svolgimento del miracolo eucaristico. L'importanza dell'assemblea è nel fatto che essa manifesta il carattere sacerdotale del Popolo di Dio. Il popolo concelebra, perciò il sacerdote non può essere mai solo ed ogni liturgia ha - almeno in teoria - un carattere conciliare.

Perfino il tempio stesso deve avere la struttura "conciliare" come l'organizzazione dello spazio nel senso dialogico. Tutto lo "spazio" ecclesiale è consacrato come luogo della comunione con Dio. Soprattutto l'iconostasi come la visione del Regno dei Cieli ha il compito di esprimere questa idea della comunione del divino e dell'umano. La comunione è possibile perché tutta l'assemblea è già il Corpo del Cristo.

Nello stesso tempo l'assemblea ha un altro significato quello del popolo dei peccatori che cerca la loro salvezza nel pentimento, nella metànoia. La metànoia è un atto ecclesiale che liturgicamente, spiritualmente ci prepara all'Eucarestia che porta in sé anche il mistero del perdono, della tramutazione dei peccatori nei cittadini del Regno.

Ricordiamo le altre parole di Sant’Ireneo “Ubi Ecclesia, ibi Spiritus et omnis gratia”. Dov'è lo Spirito, lì è anche il Regno. L'Eucarestia inizia come l'ascensione verso la cena del Signore nel Suo Regno e il suo primo gesto è la benedizione del Regno. Tutto il suo svolgimento ci procede verso l'altare, simbolicamente espresso con la piccola entrata col Vangelo che significa la venerazione del luogo del sacramento, lo spazio che rivela e che nasconde la santità di Dio, ma anche la venerazione della Parola di Dio.

L'Eucarestia e il Vangelo

Il sacramento dell'Eucarestia è indivisibile dal sacramento della Parola come una parte della liturgia.

Entriamo nella comunione alla verità tramite la Parola. La verità fa parte del nostro essere, perché siamo stati illuminato dalla luce della Parola, ma la verità va rivelata e risvegliata nella nostra intelligenza. Così la Parola di Dio diventa la comunione della ragione, perché anche il Vangelo è il luogo della "presenza reale" dello Spirito. Il Vangelo come l'icona del Cristo risorto.

"È detto che noi beviamo il sangue del Cristo non soltanto quando lo riceviamo secondo il rito dei misteri, ma anche quando riceviamo le sue parole ove risiede la vita, come egli stesso dice :

“Le parole che ho detto sono spirito e vita” (Origene).

“In verità, prima di Gesù, la Scrittura era un'acqua, ma dopo Gesù è divenuta per noi quel vino nel quale egli l'ha tramutata” (Origene).

La predica che segue la lettura serve proprio alla risveglia della Parola nella nostra mente. La Parola deve essere rivolta al cuore e il cuore deve essere aperto. Ma l'apertura del cuore per sentire e capire è il dono ricevuto dalla Chiesa intera. L'assemblea, la venerazione dell'altare, la parola, la predica, la preghiera sono gli elementi diversi che costituiscono il sacramento della Chiesa preparandola al sacrificio eucaristico. La partecipazione dei laici al sacrificio della Chiesa è il sacerdozio di tutti, il sacrificio del Cristo stesso nella Sua Chiesa. Tutti i battezzati, tutti i membri della Chiesa sono inclusi in questo sacerdozio regale. I laici come fedeli non sono sacerdoti di secondo grado, anche loro sono consacrati al servizio del Cristo.

Così nasce "il corpo" della parrocchia come una Chiesa locale. Tutto il Cristo è presente nell'Eucarestia e dove c'è Eucarestia vera, c'è anche la pienezza della Chiesa. Tutti noi, sacerdoti, laici, siamo il Corpo del Cristo, tutti partecipano all'offerta del Cristo si è offerto per noi. L'offerta va fatta da tutti, gli elementi di questo mondo sono destinati ad essere portati come offerta, come sacrificio.

Il sacrificio eucaristico non è una ripetizione del sacrificio sul Golgotha (che è irrepetibile), ma, direi, il suo riconoscimento nell'atto liturgico. Nell'offerta riconosciamo il Cristo stesso. La liturgia e la Chiesa stessa sono possibili perché il sacrificio del Cristo è già stato fatto e noi lo commemoriamo e lo riconosciamo nell'azione della Chiesa. Questa commemorazione di cui parleremo ancora non è un semplice ricordo, ma la proclamazione dell'identità essenziale fra il sacrificio del Cristo con il sacrificio eucaristico che si fa in Chiesa.

L’Eucarestia e il sacerdozio

Da questa identità nasce anche il sacramento del sacerdozio come sacerdozio del Cristo stesso. Il sacerdozio del Cristo consiste nella riunione in sé di tutti i credenti, di tutti i fedeli. Il sacerdozio nel momento della celebrazione manifesta la sua unione e la comunione con tutta l'assemblea ecclesiale. Dunque, il sacerdozio è un sacramento perché ha una radice eucaristica.

Il sacerdozio è il dono di Dio e come tale è indipendente dalla qualità spirituale del sacerdote ma nello stesso tempo questo dono è personale, e la pienezza della vita ecclesiale dipende dalla capacità di ricevere questo dono. Perciò ogni Eucarestia include anche la preghiera del sacerdote per se stesso, la sua offerta spirituale.

Durante l'offerta quando il pane e il vino sono portati sull'altare, tutta la Chiesa è radunata nella commemorazione. L'offerta eucaristica è come la memoria attualizzata. Nella memoria il Signore si rivolge alla Sua creazione perché la memoria di Dio porta in sé l'amore che ci cerca e ci salva. La memoria dell'uomo in Dio è il dono della vita, la memoria del Dio nell'uomo è l'accettazione del dono, la sua risposta all'amore. Questa risposta che liturgicamente si manifesta nella gratitudine.

“L'Eucarestia esige il  m e m o r i a l e (o  a n a m n e s i s) di tutta la storia della salvezza, compendiata nel suo centro, la croce vivificante, la croce pasquale. Questi avvenimenti, iscritti nella "memoria" di Dio, la Chiesa li rende presenti, attuali, efficaci. In tale "memoriale" vivente, il prete è l'immagine di Cristo, un "altro Cristo", dice san Giovanni Crisostomo, egli è il testimonio dell'incrollabile fedeltà di Cristo alla Sua Chiesa. Per mezzo di lui, che compendia la preghiera del popolo e rappresenta per il popolo il segno di Cristo, questo unico gran sacerdote, compie l'Eucarestia. E tutto si fa nello Spirito Santo. Nello Spirito Santo la Chiesa è il "mistero" del Risorto, il mondo in via di trasfigurazione.” (Olivier Clément, Alle fonti con i padri)

L'approccio spirituale

L'Eucarestia è rivolta al tempo escatologico, alla gloria del Regno. Gli altri tipi di celebrazione sono orientati a questo tempo. La correlazione dei due tempi è il principio della struttura liturgica della Chiesa. La liturgia è sempre inclusa nel quadro della "celebrazione del tempo".

Il presente come attualizzazione del passato, ma anche come "mondo che verrà" è sempre presente nella celebrazione. Per questo motivo la Chiesa Ortodossa e la sua vita spirituale nasce dalla Tradizione e si appoggia sulla Tradizione che contiene in sé il tempo escatologico, il tempo che non si cambia come non si cambia la Chiesa stessa che, però può dare le risposte nuove alle sfide di ogni tempo. Il tempo del Cristo e l’epoca degli apostoli sono sempre presenti in qualsiasi periodo della vita della comunità ecclesiale e formano la sua identità metastorica. Sia la forma visibile di questa identità (le celebrazioni liturgiche, la successione apostolica ecc.), sia la sua espressione invisibile (la preghiera personale, la “custodia del cuore” ecc.) coincidono nella tradizione che continua a vivere nella Chiesa la quale, in virtù della sua identità sacramentale e spirituale, e nonostante i suoi cambiamenti culturali e rituali, può essere riconosciuta in qualsiasi momento della storia.

Perciò l'assemblea eucaristica rimane non soltanto il centro della vita ecclesiale, ma anche della vita dello spirito umano. La spiritualità ortodossa si realizza nell’unione con Dio incarnato, crocefisso, risorto che deve manifestasi anche nella fraternità fra i fedeli. Ogni liturgia è vissuta spiritualmente come sacramento della memoria della santità vissuta, dell'unità del popolo di Dio e della sua gratitudine alla soglia del Regno. “In ogni cosa rendete grazie” (o “fate Eucaristia”) dice San Paolo (1 Tess. 5,18) perché in ogni cosa - il cuore umano e tutto il creato – c’è il suo segreto centro eucaristico.

1) Eucarestia, Parigi, 1947 (in russo).

2) La Chiesa dello Spirito Santo, Parigi, 1971 (in russo).
La santità è «vivere con»

di Pietro Andrea Cavaleri


Note

1) M. ZAMBRANO, Persona e democrazia. La storia sacrificale, Bruno Mondatori, Milano 2000, p. 29.

2) Cfr H. ARENDT, Ebraismo e modernità, Feltrinelli, Milano, 1995.

3) Cfr M. CACCIARI, L'Arcipelago, Adelphi, Milano 1997.

4) Cfr G. SALONIA, Dialogare nel tempo della frammentazione, in E. ARMENTA - M. NARO (a cura di), Impense Adlaboravit, Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia, Palermo 1995, pp. 571-586.

5) Cfr H. KOHUT, La guarigione del Sé, Bollati Boringhieri, Torino 1992; La ricerca del Sé, Bollati Boringhieri, Torino 1993,

6) M. SPAGNUOLO LOBB, G. SALONIA, P.A. CAVALERI, Individual and community in the Third Millennium, “British Gestalt Journal”, 2 (1997), pp. 107-113.

7) P. CODA, Il Cristo crocifisso e abbandonato redenzione della libertà e nuova creazione, “Nuova Umanità», XVIII (1996/3), n. 105-106, p. 375.

8) Cfr C. LUBICH, Lezione per la laurea Honoris Causa in “Let­tere” (Psicologia). Malta 26 febbraio 1999, “Nuova Umanità”, XXI (1999/2), n. 122, pp. 177-189.

­9) Per un approfondimento su questo tema cfr H. U. VON BALTHA­SAR, Gloria. Nello spazio della metafisica. L'epoca Moderna, Milano 1978; G. ZANGHI, Quale uomo per il terzo millennio?, “Nuova Uma­nità”, XXIII (2001/2), n. 134, pp. 247-277.

10) Cfr K. HEMMERLE, Partire dall'unità. La trinità come stile di vita e forma di pensiero, Città Nuova, Roma 1998.

11) Cfr K. HEMMERLE, Tesi di ontologia trinitaria. Per un rinno­vamento del pensiero cristiano, CittàNuova, Roma 1996.

12) Per un approfondimento del paradigma trinitario come mo­dello sociale cfr E. CAMBÒN, Trinità, modello sociale, Città Nuova, Roma 1999.

13) Cfr C. LUBICH, op. cit.

14) Cfr P. A. CAVALERI, Verso una psicologia in dialogo, “Nuova Umanità”, XXII (2000/3-4), nn. 129-130, pp. 409-445.

15) A questo riguardo cfr G. CICCHESE, I percorsi dell'altro. An­tropologia e storia, Città Nuova, Roma 1999.

16) Cfr H.G. GADAMER, La molteplicità d'Europa. Eredità e futuro, in AA.vv., L'identità culturale europea tra germanesimo e latinità, a cura di A. KRALI, Jaca Book, Milano 1988.

17) Cfr E. LÉVINAS, Totalità e infinito. Saggio sull'esteriorità, Jaca Book, Milano 1990.

18) Cfr P. RICOEUR, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993.

19) Cfr J. L. MARION, Dato che. Saggiò per una fenomenologia della donazione, SEI, Torino 2001.

20) Cfr G. CICCHESE, op. cit.

21) Cfr D. STERN, Il mondo interpersonale del bambino, Bollati Boringhieri, Torino 1987; La costellazione materna, Bollati Borin­ghieri, Torino 1995.

22) Cfr C. TREVARTHEN, Empatia e biologia, Raffaello Cortina, Milano 1998.

23) J. BRUNER, La ricerca del significato. Per una psicologia cultu­rale, Bollati Boringhieri, Torino 1992.

24) Cfr A. OLIVERIO, Esplorare la mente. Il cervello tra filosofia e biologia, Raffaello Cortina, Milano 1999.

25) Cfr D. J. SIEGEL, La mente relazionale. Neurobiologia dell'espe­rienza interpersonale, Raffaello Cortina, Milano 2001.

26) D. BONHOEFFER, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1996.

27) D. BONHOEFFER, op. cit., p. 441.

­28) D. BONHOEFFER, op. cit., p. 462.

29) Sul tema della diversità nell'esperienza relazionale cfr O. SALONIA, Kairòs. Direzione spirituale e animazione comunitaria, Edb, Bologna 1994.

30) «E diceva che sarebbe buon frate minore colui che riunisse in sé la vita e le attitudini dei seguenti santi frati: la fede di Ber­nardo, che la ebbe perfetta insieme con l'amore della povertà; la sem­plicità e la purità di Leone, che rifulse veramente di santissima pu­rità; la cortesia di Angelo, che fu il primo cavaliere entrato nell'Or­dine e fu adorno di ogni gentilezza e bontà,' l'aspetto attraente e il buon senso di Masseo, con il suo parlare bello e devoto; la mente elevata nella contemplazione che ebbe Egidio fino alla più alta perfe­zione; la virtuosa incessante orazione di Rufino, che pregava anche dormendo e in qualunque occupazione aveva incessantemente lo spi­rito unito al Signore; la pazienza di Ginepro, che giunse ad uno stato di pazienza perfetto con la rinunzia alla propria volontà e l'ardente desiderio d'imitare cristo seguendo la via della croce; la robustezza fisica e spirituale di Giovanni delle Indi, che a quel tempo sorpassò per la vigoria tutti gli uomini; la carità di Ruggero, la cui vita e comportamento erano ardenti di amore; la santa inquietudine di Lucido, che, sempre all'erta, quasi non voleva dimorare In un luogo più di un mese, ma quando vi si stava affezionando, subito se ne allonta­nava, dicendo: Non abbiamo dimora stabile quaggiù, ma in Cielo” (FF 1782).

31) Sul conflitto e sulle problematiche comunicative che da esso derivano cfr H. FRANTA - G. SALONIA, Interazione comunicativa, LAS, Roma 1988; P. A. CAVALERI - G. LOMBARDO, La comunicazione come competenza strategica, Salvatore Sciascia, Caltanissetta-Roma 2001.

32) Su questo tema cfr M. CACCIARI, L'invenzione dell’individuo, “MicroMega - Almanacco di Filosofia” 9 (1996), pp. 121-127.

33) Cfr K. HEMMERLE, Partire dall'unità, cit.

Cfr G.M. ZANGHI, Dio che è amore. Trinità e vita in Cristo, Città Nuova, Roma 1991.

35) “Come nei monasteri - dove si prega e si contempla - il silenzio e la solitudine, la grata e il velo aiutano l'unione con Dio, così per noi il fratello amato. (...). Occorre, dunque essere pronti a date la vita per l'altro. E, se è così, occorre anche fare uno sforzo per aiutare il nostro fratello a raggiungere la perfezione che noi desi­deriamo per noi. Si va a Dio, quindi, attraverso i fratelli e le sorelle, ma anche assieme a loro” (C. LUBICH, Unione con Dio e con i fra­telli nella spiritualità dell'Unità, in “Nuova Umanità”, XXIV, 2002/5, n. 143, p. 559).

36) Cfr C. LUBICH, L'Eucaristia, Città Nuova, Roma 1977.

37) Sull'Eucaristia come chiave a lettura dei rapporti interpersonali cfr G. SALONIA, Eucaristia e dinamiche familiari, “Via Verità eVita”, XXXIII, gennaio-febbraio (1984), pp. 42-53.

38) Sul concetto di “traità“ cfr M. BUBER, Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 1993.

39) Cfr K. HEMMERLE, Partire dall'unità, cit.40) Cfr C. LUBICH, op. cit.

41) GIOVANNI PAOLO II, Lettera apostolica Novo millennio ineunte, nn.43, 57.

42) Cfr K. RAHNER, Nuovi Saggi, Edizioni Paoline, Roma 1968.

43) K. RAHNER, Elementi di spiritualità nella Chiesa del futuro, in AA,vv., Problemi e prospettive di spiritualità, a cura di T.GOFFI - B. SECONDIN, Queriniana, Brescia 1983, pp. 440-441.

La santità è «vivere con»

di Pietro Andrea Cavaleri


Quegli aerei che si avventano
contro le altere torri,
quel volo a capofitto di vite umane
contro altre vite...
La mente vacilla, l’animo e soverchiato, oppresso...
Si preparano, forse sono già venuti,
tempi in cui sarà richiesto
agli uomini di essere altri
da come siamo stati. Come?»

Mario Luzi

1. Cristo evento relazionale

Per comprendere più agevolmente il senso che oggi assume la dimensione relazionale nella vita di ognuno di noi può essere utile, seguendo le riflessioni della filo­sofa spagnola Maria Zambrano, immaginare la storia come una progressiva rivelazione dell'uomo e l'uomo co­me «un essere nascosto che deve rivelarsi a poco a». (1)

L'uomo, in questo suo lento “rivelarsi”, ha impie­gato oltre trentaduemila anni prima di scoprire se stesso come individuo, prima cioè di distinguersi dalla primi­tiva comunità e di porsi di fronte ad essa. L'uomo greco, infatti, e già in grado di porsi di fronte alla natura e alla comunità come singolo soggetto, come io capace di “pen­sare” ciò che ha davanti a sé, interrogandolo, vagliandolo criticamente, dominandolo con gli strumenti della tecni­ca che egli stesso crea. Prometeo è l'immagine di questo uomo che, dopo vari millenni, approda finalmente alla soggettività individuare e sta di fronte alla realtà, pen­sandola, agendo su di essa.

Inizia, allora, per l'umanità una parabola, durata circa duemila anni e culminata nell'epoca moderna, du­rante la quale l'uomo-individuo si scopre centro dell'urn­verso, sancisce la sua assoluta supremazia sulla natura e sulla storia. (2) Giunto all'apice della massima “asserzione di sé”, l'uomo-individuo della modernità e della post­modernità vive oggi una “notte oscura epocale”.

Ripiegato su se stesso e contratto asfitticamente nel­la propria soggettività, e gli si vede sfuggire il senso della totalità e della relazione con l'altro. Avvinto dall'onni­potenza della Tecnica e dal mito di un progresso inar­restabile, l'uomo contemporaneo si è decisamente proiet­tato verso una autonomia e una separatezza del tutto inospitali; (3) ha posto nell'oblio più assoluto ogni rela­zione con l'altro che non sia funzionale alla specifica af­fermazione di sé. L'autoreferenzialità etica e la fuga da ogni forma di intimità affettiva, da ogni forma di appar­tenenza, sembrano costituire la sintesi estrema della sua condizione attuale. (4)

Affermata la propria individualità, assenta la pro­pria differenza nei confronti della comunità, l'uomo di oggi avverte come “tragica” la distanza che lo separa dall'altro e che lo rende, a sua volta, irraggiungibile. (5) Ormai annichilito dalla solitudine e dall'assenza di ogni significato, attraverso modalità spesso distorte e aber­ranti, egli continua tuttavia ad esprimere ancora il suo insopprimibile bisogno di incontrare l'altro, manifesta la sua incontenibile «fame» di relazionalità. (6)

Nel suo travagliato “rivelarsi”, l'uomo è pervenuto oggi ad uno snodo molto delicato della sua storia. Egli, infatti, è alla ricerca di un nuovo modo di relazionarsi in cui “appartenenza” e “differenza” possano finalmente coesistere insieme. È in attesa di “chi” gli sveli un mo­dello relazionale in grado di coniugare il suo vitale bi­sogno di appartenere (all'altro, alla comunità) e la sua legittima istanza di individuarsi, di differenziarsi.

In questa sorta di “notte oscura epocale”, nella quale sembra caduto, l'uomo contemporaneo attende «l'aurora” di una relazione con l'altro che gli consenta di sperimentare il calore dell'incontro, senza rinunciare alla sua differenza; che gli permetta di esprimere la sua individualità, senza per questo subire la freddezza dell'isolamento, del rifiuto, della mancata accoglienza.

Questo nuovo, “aurorale”, modo di porsi in rela­zione con l'altro, che l'uomo contemporaneo attende, è quello stesso che Cristo interamente incarna nella storia e manifesta all'umanità.

Mi ha molta colpito l'affermazione del teologo Piero Coda secondo cui l'evento Gesù Cristo “è un evento essenzialmente relazionale”. (7) È, cioè, un evento che introduce, nella millenaria storia dell'umanità, un modo radicalmente diverso e nuovo di rapportarsi fra gli uo­mini, fon dato non solo sulla unilaterale donazione di sé all'altro, ma anche e soprattutto sulla “donazione reci­proca”.

Se prima di Cristo i rapporti reciproci erano sanciti soltanto dai vincoli di sangue o venivano imposti dall'appartenenza ad una medesima casta sociale, con la ve­nuta di Gesù ogni uomo diventa un “valore” e l'incon­tro con lui si trasforma in una misteriosa occasione di incontro con Dio stesso. (8)

Da questo punto di vista, sulle orme di san Paolo e di Teilhard de Chardin, possiamo affermare che Cristo costituisce un “salto” qualitativo nell'evoluzione psico­logica e sociale dell'umanità. Egli, infatti, manifesta in sé un “modo nuovo» di essere uomo, interamente centrato sulla reciprocità, ad immagine della dinamica rela­zionale intratrinitaria.

Si tratta di un “salto” evolutivo carico di profonde e innumerevoli implicazioni ancora non pienamente colte, sia sul versante sociale, sia su quello psicologico ed edu­cativo. La dimensione intersoggettiva, originaria e fon­dante l'ispirazione del pensiero cristiano, rimane ancora oggi impigliata nelle categorie del pensiero greco e stenta a manifestarsi in tutta la sua novità. (9) E la novità con­siste essenzialmente nel fatto d'e l'uomo, attraverso Cri­sto, può finalmente penetrare il mistero dell'Altro, apren­dosi all'altro ed essendo-per-altro.

Ancora oggi l'evento Gesù Cristo, in quanto evento relazionale, costituisce per l'uomo un “appuntamento mancato” nel lungo e travagliato svelarsi a se stesso. La relazionalità che Cristo mostra agli uomini è a imma­gine della Trinità. Se vogliamo fare nostro il “salto”evolutivo che Egli ci propone, diventa dunque fondamen­tale cogliere più in profondità il “paradigma relazio­nale” che alimenta e anima la dinamica trinitaria.

2. La vita trinitaria come paradigma relazionale

La Trinità è, innanzitutto, amore reciproco fra le tre Persone, è “inabitazione reciproca”. L'espressione clas­sica con cui la teologia denomina questo “reciproco es­sere l'uno nell'altro” è pericoresi. Come è noto, in ori­gine pericoresi era il nome di una danza la cui caratte­ristica consisteva nella reciprocità del danzare: uno dan­za intorno all'altro, l'altro danza intorno a lui, in un costante e reciproco circondarsi. (10) L'immagine di questa danza, dunque, esprime bene la continua tensione reci­proca che caratterizza la dinamica intratrinitaria.

Essa, infatti, è sempre protesa alla edificazione reci­proca. In essa la diversità asserisce se stessa non contraddicendo o negando l'altro, ma divenendo «dono» per l'espressione piena dell'altro. Nella “edificazione reci­proca” la diversità si compone nell'unità, si manifesta e ha senso nell'unità, è per l'unità. Le differenze, cioè, non emergono per entrare in conflitto e per competere con l'altro, per mostrarsi ad esso nella loro superiorità, ma per cooperare alla sua espressione e alla sua edifi­cazione. (11)

D'altra parte, ciascuna differenza viene alla luce e raggiunge la sua pienezza soltanto quando si trasforma in “dono”, soltanto se è per l'altro e si delinea in que­sto suo essere- per-l’altro. Pur avvolta nel suo insonda­bile mistero, la vita della Trinità manifesta all'uomo un paradigma relazionale in cui ognuno deve agli altri la sua vita personale e in cui le molteplici differenze si dispie­gano soprattutto come molteplicità di doni reciprocamen­te interdipendenti, in un 'unica vita fondata sull'amore vicendevole.

Si delinea così un modello (12) di relazione nel quale ogni identità esprime se stessa senza negare la reciproca interconnessione con l'altro; si configura un percorso nuovo all'interno del quale coesistono insieme diversità e appartenenza, distinzione e unità, sviluppo di ciascuna delle personalità coinvolte e vita di comunione.

Se nell'antica Grecia l'affermazione di sé implica il sacrificio dell'altro, sicché Crono mangia i propri figli ed Edipo uccide il proprio padre; nel paradigma trini­tario, che Gesù svela all'uomo, i termini della relazione con l'altro si capovolgono radicalmente. L'affermazione di sé non passa più attraverso la cancellazione dell'altro, ma segue una strada del tutto nuova, quella del “donar­si” e del “donarsi di ritorno”, che è propria della reciprocità.

Nella prospettiva trinitaria, la mia accoglienza dell'altro e delle sue differenze non solo conferma questi nella sua specifica distinzione da me, ma “espande” il mio stesso universo esistenziale, mi «fa essere” in mi­sura maggiore, sicché la mia vita e la mia realizzazione personale risultano indissolubilmente legate all'altro. (13)

Se, poi, il riconoscimento e l'accoglienza, così come nella dinamica trinitaria, assumono il carattere della re­ciprocità, allora l'esperienza relazionale acquista una valenza qualitativa tale da fare esprimere, con autentica pienezza, ciascuno dei partecipanti. Il paradigma relazio­nale che Gesù svela all'umanità, infatti, scardina il tra­dizionale modo di concepire i rapporti fra gli uomini non solo in quanto capovolge le vecchie logiche, ma so­prattutto perché propone la relazione con l'altro come “luogo” di incontro con Dio e con se stessi.

La possibilità di penetrare nel mistero di Dio e nel mistero della mia stessa esistenza è legata all'altro, alla sua misteriosa presenza nella mia vita. Nella misura in cui la mia esistenza quotidiana si “apre” all'altro e si pone in ascolto del mistero che in lui si cela, Dio si disvela a me e, con Esso, si disvela il senso compiuto del mio vivere. Più mi «abbandono” all'incontro con l'altro e mi espongo al “rischio” di questo evento misterioso, più mi appartengo.

Questa sorta di. “sacralità” dell 'incontro con l'altro, già nota al pensiero cristiano, trova un'autorevole con­ferma non solo in alcuni filosofi contemporanei, ma anche nelle più attuali ricerche condotte nell'ambito delle scienze umane. (14)

3. La relazione con l'altro nella ricerca contemporanea

Nel corso della seconda metà del '900 l'altro e l'alte­rità sono stati molto spesso al centro della riflessione filosofica (15) Gadamer, ad esempio, esprimendo alcune sue considerazioni sul futuro dell'Europa, sottolinea che l'al­tro non è soltanto l'altro da me, cioè l'assolutamente e il radicalmente altro, ma è anche l'altro di me, cioè colui il quale partecipa della mia stessa umanità e del quale, in vario modo, io sono responsabile. (16)

Lévinas, da parte sua, pone in rilievo il forte nesso che unisce l'identità stessa dell'io con la responsabilità per altri. A suo giudizio, infatti, la possibilità che ogni essere umano ha di definire l'identità del proprio io è legata non solo alla relazione con l'altro, ma soprattutto all'assunzione, da parte dell'io, di una responsabilità eti­ca nei confronti di lui. (17)

Anche Ricoeur esplora in modo originale la dialet­tica del e dell'altro da sé, affermando che l'uomo trova il proprio senso e la propria costituzione nel rap­porto con l'altro. Egli sostiene, a questo riguardo, che l'altro non si “aggiunge dal di fuori” all'identità di ognuno, ma esso (l'altro) contribuisce a fondare, a costi­tuire e a dare senso all'identità stessa. (18)

Più di recente il filosofo cattolico Marion sottolinea come la relazione che ci unisce all'altro, l'amore, non è un aspetto periferico e secondario dell'esistenza umana, ma ne è il centro. La
soggettività individuale, a suo pa­rere, non nasce da una istanza conoscitiva (cosa posso conoscere?), ma da un bisogno relazionale (c'è qualcuno che mi ama?). (19)

Da queste riflessioni, appena accennate, emerge con evidenza, pur nella differenza dei toni, un modello antropologico che pone l'accento sulla dimensione rela­zionale dell'uomo. Non è l'individuo, ma l'essere con, l'essere umano in reciprocità l'aspetto che viene posto in maggiore risalto. La relazione con l'altro, il reciproco incontrarsi e riconoscersi, individuati come aspetti cen­trali e salienti della esperienza intersoggettiva, divengo­no, in questa prospettiva, elementi originari e costitutivi per ogni uomo.

Ciascun sé, infatti, è “rivelato” a se stesso
dall'altro e viceversa. La possibilità che il sé ha di definirsi, di delinearsi, di emergere, è legata inequivocabilmente alla concreta e reale presenza dell'altro. L'incontro e il con­fronto con il mistero racchiuso in questa presenza per­mette al sé di aprirsi al mistero di se stesso e a quello della comune origine. (20) Si profila, in tal modo, una rela­zione sé-altro scandita dalla reciprocità e dalla co-appar­tenenza, tanto da rendere ancora più comprensibile l'af­fermazione di Gadamer, prima ricordata, secondo cui l'altro è soprattutto l'altro di me.

Sul versante psicologico, durante questi ultimi de­cenni, sono in particolare le teorie evolutive e le ricer­che in ambito psico-sociale a sostenere un modello antro­pologico per molti aspetti prossimo a quello dei pensa­tori ai quali si è già fatto cenno.

Daniel Stern, ad esempio, individua nelle relazioni con l'altro il principio organizzatore primario dello svi­luppo infantile. Il delinearsi dell'identità, la comparsa del senso di sé implicano il contemporaneo delinearsi dell'altro e il configurarsi della relazione con lui. Il senso del sé viene, a giudizio di Stern, “organizzato” e in qualche modo “rivelato” al bambino dal senso che per lui l'altro assume nella relazione.

La vita psichica, nelle ricerche di questo autore si rivela profondamente connessa all'altro e alla relazione con lui che ognuno sperimenta fin dai primi anni di vita. È questa interazione con l'altro che, fin dall'inizio di ciascuna esistenza, dà origine all'esperienza del sé, fatta di emozioni, sentimenti, affetti, difficilmente sperimen­tabili fuori da un contesto relazionale.

È convinzione di Stern che soltanto attraverso il re­ciproco riconoscersi e “sintonizzarsi”, reso possibile dalla mutua condivisione della relazione intersoggettiva, gli uomini possono dominare i loro sentimenti di insicu­rezza, di solitudine, di isolamento. (21)

Secondo Trevarthen la tendenza a stabilire rapporti intersoggettivi (cioè rapporti attraverso cui è resa pos­sibile la “condivisione” dell'esperienza soggettiva di cia­scuno) è una capacità umana innata. Dalle ricerche di questo autore la relazione intersoggettiva emerge con grande evidenza come un bisogno psicologico primario. (22) La mancata soddisfazione di questo bisogno, cioè la mancata esistenza di adeguate esperienze di condivisione, provoca nel bambino il blocco di un funzionale sviluppo psicologico e nell'adulto innesca la sofferenza del disagio psichico.

Alla luce di queste considerazioni, dunque, la rela­zione intersoggettiva, in quanto esperienza di mutua condivisione e di reciproco riconoscimento, appare non solo come condizione decisiva per il benessere e lo sviluppo di ogni singolo individuo, ma si rivela soprattutto come di­mensione cardine per la sopravvivenza stessa del genere umano e per la sua ulteriore, potenziale, evoluzione.

Bruner, (23) a sua volta, afferma che la piena espres­sione dell'attività mentale di ogni uomo dipende in modo inestricabile dalla sua vita relazionale, in definitiva dal rapporto con l'altro, dal sostegno e dall'aiuto di un altro. Anche le ricerche di questo autore confermano che la mente umana sviluppa e matura la propria organizzazione attraverso l'interazione reciproca con gli altri, con menti diverse. Èattraverso l'interazione reciproca che gli inter­locutori costruiscono i significati e danno senso alle vi­cende di cui sono co-protagonisti.

Bruner concepisce il Sé e la vita di ogni essere uma­no come un “testo”, che prende forma e senso solo nella misura in cui è narrato, interpretato, reinterpretato, con­diviso, Non a caso il riconoscimento reciproco è conside­rato da Bruner come uno dei processi psicologici più importanti per l'elaborazione e lo sviluppo del Sé. Senza il riconoscimento reciproco non è possibile comunicare, elaborare significati condivisi, cogliere le intenzioni dell'altro, in una parola non è possibile la vita umana.

Il reciproco riconoscimento diventa, così, indispen­sabile per la sopravvivenza stessa della specie. Narrandosi all'altro e ascoltando le altrui narrazioni, riconoscendo l'altro ed essendo da lui riconosciuto, l'individuo non solo trova l'accesso alla propria identità soggettiva, al proprio Sé, ma modifica in modo positivo e alimenta in modo vitale la comunità a cui appartiene.

Dalle ricerche degli autori fin qui ricordati emerge con evidenza un modello antropologico molto utile alla nostra riflessione. In esso l'altro non si pone come mio antagonista, non mi contraddice, ma, al contrario, costi­tuisce il termine essenziale di un processo attraverso il quale io posso appropriarmi di me stesso e delle mie potenzialità più nascoste.

Dunque, non una relazione fatta di negazione e di insanabile conflitto, quella che mi lega all'altro, ma un rapporto di reciproca implicazione, in cui l'uno risulta indispensabile alla vita e alla crescita dell'altro. Ne consegue che, ponendoci da questa prospettiva, la piena rea­lizzazione di sé non avviene asserendo se stessi a disca­pito dell'altro o contro l'altro o nonostante l'altro, ma può aver luogo soltanto attraverso l'esperienza di condi­visione e di reciproco riconoscimento.

Tale conclusione trova interessanti riscontri persino nell'ambito della psicobiologia (24) e della neurobiolo­gia. (25) Numerose ricerche, infatti, dimostrano che le rela­zioni interpersonali hanno il potere di influenzare in modo significativo lo sviluppo delle strutture cerebrali non solo nei primi anni di vita, ma anche nel corso dell'intera esistenza umana. Mentre, al contrario, l'assenza di adeguate esperienze interpersonali può portare a feno­meni di morte cellulare e può indurre processi di inibi­zione del potenziale genetico che ogni cervello umanò possiede.

Anche in questo specifico ambito della ricerca è stato dimostrato che le relazioni interpersonali più adeguate e funzionali allo sviluppo del cervello sono quelle che crea­no momenti di significativa “corrispondenza”, che han­no cioè carattere di “reciprocità” e che rendono, quindi, possibile l'esperienza di riconoscere e di essere ricono­sciuti.

Abbiamo cercato, fin qui, di porre in evidenza quale siano lo spazio e l'attenzione che il pensiero contempora­neo e le più attuali ricerche in campo scientifico riservano alla relazione con l'altro, soprattutto sotto l'aspetto car­dine della reciprocità. Essa emerge come l'elemento no­dale e come la condizione indispensabile per lo sviluppo della mente, per la piena realizzazione di sé, per la cre­scita individuale, per la sopravvivenza stessa dell'intera specie umana.

In un passaggio epocale, come quello che stiamo vivendo, nel quale ogni possibilità di incontro sembra tragicamente preclusa, come attuare e sostenere in con­creto l'apertura all'altro? Come trasformare, nella nostra quotidiana esistenza, la relazione con l'altro in un luogo di reciproco riconoscimento e il conflitto con lui in una fonte di crescita vitale? E, in fine, come “ripensare”la santità?

Per meglio rispondere a questi non facili interrogativi, vorremmo prima soffermarci sulla testimonianza di un uomo a noi contemporaneo che, per molti aspetti, si avvicina ad un modello di santità estremamente attuale e del tutto coerente con le riflessioni che sono fino a questo punto emerse. Alludiamo a Dietrich Bonhoeffer, teologo luterano, oppositore del nazismo fino all'estremo sacri­ficio della propria vita.

4. Verso un nuovo modello di santità

Bonhoeffer (26) parte da un interrogativo di fondo: Cosa è per noi oggi il cristianesimo? Cosa è per noi vera­mente Cristo?

A suo giudizio è ormai passato il tempo in cui era possibile rispondere a queste domande parlando agli uo­mini attraverso le “parole della religione”; è passato il tempo in cui era possibile rivolgersi all'interiorità e alla coscienza dell'uomo. Il tempo a cui stiamo andando in­contro è, infatti, un “tempo completamente non religio­so», in cui gli uomini non sono o “non possono più essere religiosi”, in cui le fondamenta stesse del “nostro cristianesimo” sembrano essere del tutto scalzate.

In un mondo ormai “non-religioso”, cosa significa essere Chiesa, essere comunità, vivere da cristiani, par­lare con Dio? Come è possibile, in un tale contesto, che Cristo diventi il signore anche dei non-religiosi?

Per attraversare questo tempo e per parlare agli uomi­ni di questo tempo, occorre riscoprire Cristo in un'ottica di fede totalmente rinnovata, in cui Dio si rivela nel “tu”, nella relazione con l'altro e nella responsabilità verso di lui.

Per molti secoli gli “uomini religiosi” hanno parlato di Dio come di un deus ex machina che è soluzione ai problemi insolubili, antidoto alla debolezza e ai limiti umani. Ma Dio, secondo Bonhoeffer, non sta “al di là”, dove vengono meno le capacità umane. Egli, al contrario, sta “al centro del villaggio”, dove gli uomini si incon­trano e si pongono in relazione fra loro.

Nell'epoca moderna “il mondo è diventato adulto» e Dio, inteso come deus ex machina, soccorso ai limiti e alla morte dell'uomo, è divenuto “superfluo», “inu­tile”, non più “necessario”. Dio non entra più in concorrenza con l'uomo ormai divenuto maggiorenne. Dio non si manifesta più nella sua rassicurante onnipo­tenza, della quale è possibile oggi fare a meno; ma si nasconde nel misterioso silenzio della debolezza di Cristo e di ogni uomo che incontro.

In questo mutato contesto storico e culturale, la mi­sura della santità è data dal riconoscimento e dall'acco­glienza dell'altro; la misura della responsabilità è defi­nita unicamente dalla necessità, dal bisogno, dalla sof­ferenza di cui l'altro è portatore. È da questo esclusivo “esserci-per-altri”, incarnato compiutamente da Cristo, che scaturisce la santità, “l'azione responsabile perso­nale”, l'apertura al rischio dell'incontro, il superamento della “mediocrità” borghese, il delinearsi dell'ántropos téleios, cioè dell'uomo intero, completo, che non conosce distinzione tra interiorità ed esteriorità.

Non si può essere “uomini completi” da soli, ammo­nisce Bonhoeffer, ma unicamente insieme ad altri. L'uomo intero, infatti, ponendosi davanti a Dio e all'altro, vive tanto dall'“esterno” verso l'“interno”, quanto dal­l'“interno” verso l'“esterno”. Egli non relega Dio “in qualche ultimo spazio segreto”, ma sa riconoscerLo negli eventi della vita e soprattutto nella presenza inelu­dibile dell'altro.

In questa prospettiva “non è l'atto religioso a fare il cristiano, ma il prender parte alla sofferenza di Dio nella sofferenza del mondo”. (27) È possibile, dunque, continuare, in un mondo “non-religioso”, a testimoniare Cristo, a parlare di Dio, soltanto se si è capaci di “essere­aldiquà” della vita, cioè capaci di essere-per-altri, stando pienamente radicati nella propria concreta quotidianità.

L'autentica trascendenza è l'esserci-per-altri mostrato e incarnato da Gesù. Solo dall'esserci-per-altri fino alla morte nasce l'onnipotenza e l'onniscienza. Il rapporto con Dio, nella riflessione di Bonhoeffer, non è il rapporto con un essere astratto e lontano, benché il più alto e potente che si possa pensare, quanto piuttosto una nuova vita che si sostanzia concretamente nell'esserci-per-altri, partecipando così all'esserci stesso di Gesù.

Il trascendente, secondo Bonhoeffer, non è l'irrag­giungibile, ma il prossimo che è dato di volta in volta e che è raggiungibile: «Dio in forma umana! Non il mo­struoso, il caotico, il lontano, l'orribile in forma di ani­male, come nelle religioni orientali; ma neppure nelle forme concettuali dell'assoluto, del metafisico, dell'infi­nito ecc.; e neppure la greca forma divino-umana dell'uomo in sé; bensì “l'uomo per altri” e perciò il cro­cifisso”. (28)

Il cristiano (come la Chiesa) è soltanto se esiste per altri: è questa la convinzione che Bonhoeffer esprime at­traverso acute riflessioni teologiche, ma soprattutto testi­monia attraverso un coraggioso impegno in difesa della dignità umana, gravemente negata dalla follia nazista.

La lezione di Bonhoeffer ci orienta decisamente verso un suggestivo e più attuale modello di santità, che nella relazione con l'altro trova il suo principale criterio di riferimento e la sua esigente misura. Alla luce di queste preziose intuizioni, come “rivisitare” in modo nuovo i nostri rapporti con gli altri? E, in particolare, come reinterpretare le dinamiche conflittuali, i blocchi emotivi e le molteplici disfunzioni che quotidianamente sperimen­tiamo nei nostri contatti interpersonali?

5. Il conflitto come luogo d'incontro e di accoglienza

L'irripetibile unicità di ogni essere umano si esprime continuamente attraverso la sua diversità. I contorni del­la sua singola individualità si delineano attraverso il suo differente modo di sentire, di valutare, di percepire. Potremmo dire, al riguardo, che non può esserci iden­tità individuale senza diversità. Allo stesso modo non può esserci autentico dialogo o vera integrazione se non a partire dall'esistenza della diversità. (29) Non a caso, ad esempio, san Francesco amava descrivere il frate perfetto, integrando fra loro le diverse caratteristiche dei suoi primi compagni, additando quale modello da imitare la fede e la povertà di Bernardo, la semplicità e la purezza di Leone, la cortesia di Angelo, il buon senso di Masseo, la pazienza di Ginepro. (30)

Ma la diversità non è solo fonte di dialogo e di inte­grazione. Essa, inevitabilmente, porta con sé anche la separazione, la distanza, il conflitto. È soprattutto nel conflitto che la presenza dell'altro e la sua diversità di­ventano per noi particolarmente misteriose, si trasfor­mano in una realtà del tutto incomprensibile ed inaccet­tabile.

Ogni volta che sperimentiamo una relazione conflit­tuale con l'altro, egli ci appare puntualmente in tutta la sua radicale “differenza” da noi, e questo lo rende ai nostri occhi distante, estraneo, quasi un nemico ostile a cui contrapporsi con forza. Qualsiasi contesto sociale o comunitario, prima o poi, non tarda ad esprimere si­tuazioni di conflitto che rendono estremamente difficile la possibilità di rapportarsi con l'altro. (31)

Posti di fronte al conflitto, ci difendiamo da esso re­lazionandoci con l'altro in modo non autentico, negando, accusando, aggredendo secondo modalità palesi o masche­rate. Le situazioni di conflitto ci rendono inevitabilmente più vulnerabili, riducono la nostra funzionalità psichica, aumentano la nostra autodifesa, ci spingono con più faci­lità al giudizio e alla chiusura, producono una sorta di “cecità relazionale” che ci impedisce di “vedere” realmente l'altro.

Ciascuno dei contendenti inizia a “leggere” e a “pun­teggiare” la realtà in maniera diversa dall'altro non interpretando in maniera corretta i messaggi che riceve o non fornendo adeguate informazioni al suo interlocu­tore. Una “punteggiatura» arbitraria e faziosa degli eventi rende l'interazione conflittuale ancora più confusa e ambigua.

Tale arbitrarietà, poi, è spesso alimentata dall'imma­gine che ognuno ha di sé, dalle paure e dalle ferite che la sua storia personale gli ha lasciato in eredità. Sicché, non di rado, la percezione che si ha dell'altro risulta for­temente deformata dalle nostre stesse fragilità, dalle no­stre “proiezioni”. Da questo punto di vista il conflitto con l'altro, prima ancora che manifestarci la sua diversità, ci permette di prendere contatto con le nostre parti vul­nerabili e con i nostri problemi irrisolti, cioè con l'estra­neo che è in noi.

A motivo di ciò, il conflitto costituisce un momento molto importante sia per il migliore sviluppo dei rap­porti interpersonali, sia per la crescita della singola per­sona. Il conflitto con l'altro, infatti, non solo mi «ob­bliga” a prendere atto della sua radicale diversità, ma soprattutto mi costringe a guardare i limiti della mia condizione, che in questa “presa d'atto” emergono.

Nel conflitto sperimento in modo inedito l'estraneità ostile dell'altro, ma anche l'estraneità ostile di quella parte di me stesso che ho estromesso dalla mia consape­volezza. Lo “straniero” che incontro fuori. di me, in definitiva, ha molto a che vedere con lo “straniero”che abita dentro di me e col quale ostinatamente rifiuto di confrontarmi. (32)

Il travaglio di ogni conflitto è dovuto non solo alla faticosa accoglienza della diversità altrui, ma anche alla sofferta riappropriazione di parti della nostra identità per lungo tempo estromesse o rifiutate (fantasmi del passato, paure antiche, fragilità emotive ecc.). Il conflitto con l'altro si alimenta non solo di problemi “esterni”, reali e obiettivamente rilevabili, ma anche di problemi «in-terni», ancora aperti e insoluti, che ognuno di noi si porta dentro, insieme al timore di affrontarli.

Visto da questa prospettiva, il conflitto diventa il luogo dove “aprirmi” all'accoglienza dello “straniero”, interno ed esterno, oppure il luogo dove posso perpetuare la sterile chiusura verso i miei limiti, proiettandoli all'in­finito sull'altro che ho di fronte.

Il conflitto diventa insolubile e distruttivo quando “sacrifica” una delle parti in causa, quando culmina nell'annullamento di essa e nella sua “cancellazione”. Al contrario, la dinamica conflittuale si compone e si rivela indispensabile momento di crescita quando si tra­sforma in occasione di “reciproco riconoscimento” e di “vicendevole accoglienza»; quando, cioè, ciascuno dei contendenti è capace di prendersi cura della propria di­stinzione e al contempo sa come “ospitare” la diffe­renza irriducibile dell'altro.

Ciò che rende difficile la composizione di ogni con­flitto è, tuttavia, il fatto che in esso sperimentò la “ne­gatività” del limite che grava sulla condizione umana, mia e altrui. La “finitudine” in me si manifesta sotto forma di istanza sempre aperta, di bisogno sempre insod­disfatto; mentre nell'altro si palesa puntualmente come incapacità a comprendermi definitivamente.

Ma è proprio questa finitudine che fonda e rende possibile il dono di sé, l'apertura all'altro, la trasforma­zione di ciò che si oppone a me e mi limita in luogo di comunicazione e di condivisione. Il fatto che la negati­vità del limite sia possibilità di reciproca apertura, di incontro, di vicendevole dono di sé, non è una teoria, né un astratto postulato, ma una persona: Gesù. In Gesù ogni finitudine umana viene trasformata in “porta di ac­cesso all'altro”, in luogo di incontro “dal basso” fra Dio e l'uomo, fra l'uomo e l'uomo. (33)

Lo scacco del primo Adamo è essenzialmente uno “scacco dei rapporti umani”, che porta in sé l'impos­sibilità di comunicare, di sanare i conflitti, di pervenire ad una comunione piena. Nel primo Adamo si mani­festa una esperienza relazionale monca, sbiadita, in-compiuta. Solo nel secondo Adamo la relazione viene svelata all'uomo in tutta la sua potenzialità e pienezza. (34)

Introducendo la dinamica trinitaria nei rapporti uma­ni, Gesù sollecita la libertà dell'uomo ad “autolimitarsi”per donarsi all'altro, per farlo essere e per farlo, a sua volta, capace di autodonarsi, in una continua “relazione di reciprocità”, che è il novum da riscoprire. Gesù ci rivela, infatti, una verità che ancora oggi appare lontana dall'essere stata compresa e cioè che l'altro “mi fa essere” e io, a mia volta, sono nella misura in cui af­fermo l'altro. (35)

Tale verità può essere colta in tutta la sua immensa profondità solo se ci accostiamo a Gesù sapendo che il suo “modo di essere uomo” discende direttamente dalla Trinità. Egli, infatti, è un dono che il Padre fa a noi uomini per comprendere come diventare «uomini inte­ri”. Gesù, però, è un “donato” che, a sua volta, ci fa un suo dono: l'Eucaristia, (36) modello e chiave di lettura di ogni relazione umana.

6. L'Eucaristia come chiave di lettura dei rapporti interpersonali

L'Eucaristia, il dono del “donato”, racchiude in sé lo stesso mistero di Gesù e ci indica costantemente lo stes­so cammino che Egli ha fatto: “dono - sacrificio -risurrezione/comunione”. La celebrazione eucaristica è la celebrazione del modo di essere uomo che Cristo ha incarnato nella storia, facendosi dono fino al sacrificio di sé sulla croce, fino all'abbandono del Padre, per poi giungere alla risurrezione. Nell'Eucaristia si ripropone quotidianamente a noi la vicenda di Cristo che, Crocifisso e Abbandonato, risorge nell'unità e nella comunione pie­na con il Padre, facendosi modello, mai completamente compreso, del nostro modo di rapportarci con l'Altro e con gli altri. (37)

Quando inizia un'importante relazione di amicizia o un coinvolgente rapporto di coppia o, ancora, una si­gnificativa esperienza di comunità, l'altro ci appare at­traente e luminoso, una risorsa della quale non potremmo fare a meno, un “salvatore” in grado di ascoltarci sem­pre e di capirci compiutamente. Desideriamo, per questo, stare con lui e con lui condividere ogni cosa che ci ap­partiene. A lui ci piace donare il nostro tempo, la nostra attenzione, noi stessi.

Successivamente, però, l'altro inizia a deluderci, non risponde più alle nostre aspettative, perde l'iniziale lumi­nosità, ci mostra, in tutta la loro crudezza, i suoi limiti. È il difficile momento che ogni rapporto attraversa e nel quale viviamo la morte dei nostri sogni, delle nostre attese, dei nostri progetti. Il dono, prima spontaneo e irrefrenabile, adesso si trasforma lentamente in duro e amaro sacrificio. L'apertura all'altro, che prima agivamo con gioiosa impazienza, adesso diventa una pesante sof­ferenza da cui fuggire. Intesa diventa la tentazione di “evadere” dalla relazione o di “rassegnarsi” passiva­mente ad essa.

La via che porta alla “rifondazione” del rapporto con l'altro si intraprende quando siamo capaci di assu­mere in prima persona i nostri bisogni; quando rinun­ciamo per sempre a quello che dall'altro avremmo voluto e che lui non ci ha potuto o saputo dare; quando siamo in grado di elaborare la nostra rabbia e il nostro risenti­mento, aprendoci così, nel perdono, ad un rapporto reale e creativo. L'altro, nella fase della “rinascita”, diventa allora amico della nostra solitudine, fratello del nostro limite, compagno di una rinnovata crescita.

Tutte le relazioni umane, pur nel loro molteplice con­figurarsi, presentano una costante dinamica che si arti­cola nei passaggi prima ricordati: la fase in cui predo­minano l'amore che dona e l'amore che riceve; la fase in cui subentrano il limite, la delusione, l'amore che muore; la fase in cui la relazione finalmente risorge, ridi­ventando comunione piena ed autentica. Si tratta della medesima dinamica che l'Eucaristia ci ripropone, cele­brando la morte e la risurrezione di Cristo.

Ogni patologia della relazione umana (crisi di cop­pia, conflitti familiari, tensioni all'interno di una comu­nità ecc.) è sempre riconducibile ad una nostra “stanchezza” o ad un nostro “ritardo” nei confronti del mistero racchiuso nella morte e risurrezione di Cristo. Le relazioni umane possono pervenire alla loro pienezza solo se vengono percepite e vissute da noi come una realtà che partecipa della vita trinitaria e ad essa costan­temente si apre.

Il rifiuto di questo mistero, invece, porta con se la chiusura e la fuga dall'altro, provoca l'inaridimento no­stro e di ogni rapporto di cui siamo protagonisti. In ogni momento della nostra giornata possiamo scegliere di mo­rire per amore, per costruire una comunione autentica con l'altro, o possiamo scegliere di morire per miope sterilità, per arida chiusura in noi stessi. Posto di fronte a questo continuo dilemma, ciascuno di noi trova nell'Eucaristia un forte richiamo a vivere i rapporti umani in una «logica nuova”, quella di Cristo.

In questa prospettiva, l'Eucaristia non rimanda ad una intimistica e solipsistica unione con Dio, ma ad una comunione con Lui che costantemente è generata dal rap­porto con l'altro. Quando ci nutriamo dell'Eucaristia, viene nutrita in noi la capacità di accogliere l'altro, di fecondare in vita ogni momento di morte che l'altro ci procura ferendoci o deludendoci.

Mentre ci trasforma in Cristo, facendoci “altri Lui”, l'Eucaristia ci rende fertili nella nostra vita relazionale, ci fa protagonisti di rapporti liberi e liberanti, riempie di senso l'amore e la morte che ogni giorno sperimentiamo vivendo accanto all'altro.

7. Alcune considerazioni conclusive

L'uomo del nostro tempo potrà risorgere dalle ceneri della cultura occidentale se saprà incarnare questo “nuo­vo” modello relazionale che Gesù propone e che ruota interamente attorno alla “reciprocità”. Non solo io rico­nosco e accolgo l'altro da me, ma questi, a sua volta, riconosce e accoglie me. La mia e la sua identità si espri­mono, senza per questo negare la comunione. La “rela­zione di reciprocità” si profila così come esperienza nella quale possono insieme coesistere e svilupparsi personalità singola e comunione.

La comunione è una “realtà terza” che si stabilisce e si consolida a partire dalle due personalità singole che si “riconoscono” e si “accolgono” nella piena “reci­procità”. Si tratta di una “realtà terza” che non è né in me, né nell'altro, ma “tra” me e l'altro. Ed è in questo “tra”, (38) in questa “realtà terza”, che trova spazio «la presenza di Cristo” nella storia dell'uomo. (39)

Quella reciproca non è una relazione qualsiasi. Essa presenta caratteristiche che la configurano come un esito ulteriore e qualitativamente specifico della relazione in­terpersonale. La reciprocità nel riconoscimento e nell'ac­coglienza dell'altro, nel dono e nella comunicazione di sé, dischiudono un nuovo modo di stare insieme, di vivere-con-l'altro, in cui è racchiusa tutta la novità della “rela­zione cristiana”, intesa come incarnazione della “rela­zione trinitaria”.

Una delle personalità più rappresentative della spi­ritualità contemporanea, Chiara Lubich, sostiene che si va a Dio non solo attraverso l'altro, essendo-per-l'altro, ma anche «insieme” all'altro, “con” l'altro. (40)

Tale intuizione trova conferma nella Novo millennio ineunte, soprattutto laddove il Santo Padre sottolinea la necessità di promuovere una “spiritualità di comu­nione” che sia capace di permeare la vita della Chiesa a tutti i livelli: fra i Vescovi, fra le diverse vocazioni, fra i membri di ogni famiglia, in ciascuna comunità. È in questa prospettiva che la Chiesa diventa “casa e scuola di comunione».

Una comunione che nasce dalla capacità di sentire l'altro “come uno che mi appartiene, per saper condivi­dere le sue gioie, le sue sofferenze, per intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni, per offrirgli una vera e profonda amicizia”. (41) Ogni forma “esterio­re” di comunione risulta vana ed inutile senza una auten­tica “spiritualità di comunione”, capace di «fare spa­zio” all'altro in una costante e viva reciprocità. La stessa celebrazione eucaristica, colta da una prospettiva comunitaria, diventa il momento nodale per una rigene­razione radicale e permanente dei rapporti fraterni.

Il nuovo millennio, ricorda il Santo Padre, dovrà vederci impegnati a sviluppare ogni ambito e ogni stru­mento necessari a garantire e ad assicurare la comunione, il “vivere-con”, Se tale esortazione vale per ogni co­munità cristiana, essa ha un valore ancora più specifico e particolare per le comunità religiose, come in più pas­saggi viene ricordato nel documento Congregavit nos in unum Christi amor.

Se in un lontano passato la via alla santità era soprat­tutto una via “individuale”, fatta di isolamento ascetico dal mondo e di mortificazioni corporali, nel corso del secondo millennio diventa sempre più nitido un nuovo modello di santità, attento alla sofferenza del prossimo e tutto imperniato sull'essere- per-l'altro.

In questa ottica si diventa santi non allontanandosi dall'altro, isolandosi da lui, sfuggendolo, ma attraverso di lui, essendo per lui. È una scelta di vita che traspare ampiamente nell'esistenza eroica di tanti Padri Fondatori, i quali hanno saputo negli ultimi secoli testimoniare l'amore e la predilezione della Chiesa per gli ultimi.

La tensione alla vita comunitaria, espressa oggi da diversi movimenti di spiritualità, le energiche esortazioni che emergono dalla lettera apostolica Novo millennio ineunte di Giovanni Paolo II, ribadiscono l'esistenza di un terzo modello di santità. In esso la via alla santità non solo ruota intorno alla presenza dell'altro ed è scan­dita dall'essere per l'altro, ma soprattutto è percorsa con l'altro, in sua compagnia, insieme a lui e in comunione con lui, in un rapporto di piena e continua reciprocità.

È nota la famosa affermazione del teologo Karl Rahner, secondo cui il cristiano di domani o sarà un mistico o non sarà. (42) L'esperienza mistica di Dio alla quale egli allude è quella che può fare solo chi ama l'altro, il suo prossimo. “Penso - afferma Rahner - che in una spiritualità del futuro l'elemento della comunione frater­na, d'una spiritualità vissuta insieme, possa giocare un ruolo più determinante, e che lentamente ma decisa­mente si debba proseguire lungo questa strada”. (43)

Una vita di comunione, interamente originata e ali­mentata dall'amore reciproco, costituisce di certo la via alla santità del nuovo millennio; la sola che possa testi­moniare Cristo ad un mondo ormai divenuto "non religioso”; la sola capace di coniugare insieme l'asserzione della personalità individuale con l'appartenenza ad una comunità, di integrare armoniosamente le molteplici dif­ferenze nell'unità.

La “santità di comunione” si svela, a questo punto, non solo come una via di “riedificazione” della Chiesa contemporanea, ma soprattutto come l'unico percorso possibile attraverso il quale operare oggi quel “salto”evolutivo che permetta all'umanità di “assimilare” nella sua storia, in modo definitivo, la presenza di Cristo, l'uomo intero.

(tratto da AA.VV., Protesi verso il futuro… per essere santi, Roma 2003, pp. 105-132).


Note

(Per motivi di spazio le note sono pubblicate a parte).
La pace, dono di Dio
e profezia dei cristiani

di Enzo Bianchi

Il mio contributo, certo del primato dell'Evangelo, va alle fonti, alla parola di Dio, per rileggere e ricomprendere lo shalom, la pace evangelica. Per arrivare ad una visione cristiana della pace si possono percorrere due vie: la prima è quella di fare un discorso primario, diretto, senza mediazioni, un discorso che nasce solo dall'ascolto della Parola; l'altra via è quella di aprire un discorso che tenga conto dei dati biblici ma che, volendosi capace di ricezione anche da uomini non cristiani, si apra alla sapienza umanistica, cerchi un dialogo, un confronto con essi. Questa seconda via è quanto mai necessaria e urgente ed io non penso affatto a minimizzarla, tuttavia in questa occasione preferirei fermarmi alla prima possibilità, sia perché credo sia primaria ed essenziale per percorrere poi la seconda, sia perché è innanzi tutto a livello biblico che si registra una scarsità di contributi sulla pace anche nel periodo (gli anni sessanta) che vide una fecondità di interventi su questo tema; inoltre non vorrei che restassero delle diffidenze nei confronti dell'annuncio di pace biblico, soprattutto per quel che riguarda l'Antico Testamento, purtroppo così sovente ritenuto, nella storia della chiesa, fonte di teologia della guerra, almeno di quella detta «Guerra Santa».

Occorre subito fare una precisazione sul linguaggio biblico perché purtroppo il nostro termine «pace» nel linguaggio corrente risulta molto depauperato rispetto ai termini shalom dell'Antico e eirene del Nuovo Testamento. Queste precisazioni sono ovvie, ma vale la pena di ricordarle sempre perché noi siamo troppo abituati a pensare la pace come semplice assenza di guerra, come tranquillità, calma. In realtà, lo shalom biblico è molto di più, è un concetto che positivamente esprime un valore assoluto in una gamma amplissima di significati e in una dinamica che rende sovente difficile la distinzione tra la pace di Dio e la pace con Dio e quella molto più materiale tra gli uomini. Già i LXX han dovuto forzare la lingua greca nel tradurre shalom con eirene dando a quest'ultimo termine un significato più esteso, un contenuto mai posseduto dal greco. Come cogliere la portata del termine shalom non solo quale opposto di guerra (come in Qo. 3,8 shalom/milhama) ma nella fedeltà al linguaggio biblico? Vale la pena di riportare alcuni esempi presi direttamente dal testo biblico. Quando Assalonne, ribellatosi al padre Davide, cade in battaglia, dei messaggeri ne portano lanotizia. Davide, che attendeva la fine delle ostilità, domandò a quelli: «c'è pace (shalom) per il mio figlio Assalonne?». Saputo che era caduto morto, Davide piange. (cfr. 2 Sam. 18, 19-19,5). La pace allor qui non è fine delle ostilità ma è vita piena e salvezza. La pace tra Davide e Assalonne poteva giungere non con la semplice fine della ribellione, con la vittoria del re sul rivoltoso, ma con la prosperità, con la vita piena di entrambi. Ma shalom è anche salute fisica, felicità, prosperità materiale. Non solo gli ebrei si salutano con la formula shalom (cfr. Gn. 29,6; 2 Sam. 18,28) ma quando formulano una preghiera chiedono la pace, augurano la pace per una persona, per il popolo, per gli abitanti della città santa di Gerusalemme (cfr. Sal. 122,6-9; 128,2-6; 147,15-14 ecc.). In questi casi la pace è strettamente collegata con la benedizione; anzi è il segno della sua dilatazione sul popolo e sul credente insieme; non è mai un bene individuale, tanto meno un bene soltanto collegato con un'entità collettiva. È un bene promesso ai poveri, atteso dai poveri, capito dai poveri.

A volte c'è una localizzazione dello shalom biblico in un soggetto, in una persona, ma la sua destinazione è il popolo di Dio e quando lo shalom è sulla città, sulla terra, nonlo è in modo astratto, dovendo raggiungere ciascunodei credenti. Né va dimenticato che lo shalom come calma, quiete, situazione in cui si vive senza angoscia e in cui regna la felicità non èuna esperienza soltanto psicologica ma è concreta, quotidiana, integra, che tocca l'uomo biblico tutto intero. Non c'è una pace interiore, una pace spirituale senza che ad essa corrisponda un'esperienza umana nell'esterno, nel concreto, nel materiale! Perfino la situazione a volte invidiabile del malvagio che prospera, che sta bene, che soddisfa i suoi bisogni è detta shalom (cfr. Sal. 73,7 shalom reshaim).

Questa pace biblica, però, non è un'utopia, non sta in un passato perduto, ma è una possibilità che Dio offre all'uomo, è una pace nella storia! Essa fa parte, dunque, dell'annuncio profetico e non è accessoria rispetto all'annuncio del Dio unico e fedele, il Dio dell'Alleanza fatta in ogni carne. Quest'alleanza sarà sempre alleanza di Pace (berit shalom) mentre la sua rottura significherà morte, distruzione, desolazione. Non han forse ragione gli esegeti nel tradurre shalom quando esso appare col suo più pieno significato con il termine salvezza? Frutto e risultato dell'Alleanza con Dio è la salvezza, è la pace, rapporto di riconciliazione e di scambio tra i credenti del patto, in cui Dio dà ciò che possiede: la vita, la gioia, la pace, la salvezza!

Il criterio ermeneutico per cui pace e salvezza sono sinonimi ci è fornito dal grande annuncio dell'evangelo in Is. 57,7: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi, che annuncia la pace, messaggero di bene, ché annuncia la salvezza, che dice a Sion: «Regna il tuo Dio!» e ancora in Is. 54,10: «La mia grazia non ti abbandonerà e il patto della mia salvezza (berit shalom) non vacillerà!». L'annuncio della pace è dunque annuncio della buona notizia, dell'evanghelion, riservato ai poveri. Quando Dio regna, quando il suo regno viene tra gli uomini, allora si manifesta la pace! Luca 4,18: «ai poveri un lieto messaggio (evanghelion)» è l'annuncia della pace. Per questo chi annuncia il regno, annuncia la pace, chi mostra di essere sotto la signoria di Dio si mostra servo e artefice della pace, chi accoglie il Regno di salvezza accoglie la pace.

A questo punto se noi dovessimo fare la storia della pace nella rivelazione dovremmo percorrere tutta la storia di salvezza. Mi limito, dunque, a fissare alcuni rapporti che servano di riferimento essenziale ad un discorso biblico.

Pace e violenza

Di fronte allo shalom, alla pace veterotestarnentaria non sta la guerra (milhama) ma la violenza (hamas). La guerra è una delle forme che minacciano la pace, è il pericolo più grande e manifesto, ma ve ne sono altrianaloghi e tutti possono convergere nell'espressione hamas indicante la violenza essenziale, radicata nel cuore dell'uomo ma capace di ferire tutto l'ordine di relazioni tra gli uomini, tra l'uomo e le cose, tra l'umanità e Dio. Non dimentichiamo che il messaggio biblico ci proviene proprio da un ambiente di violenza, il Medio Oriente, dove la storia è fatta di guerre, di rivoluzioni, di invasioni e dove sovente la violenza è legalizzata, eretta a sistema. L'esperienza di Israele si colloca in questo spazio, anzi la nascita stessa di Israele e della sua coscienza di popolo avvengono nella violenza patita nella schiavitù egiziana. Una delle prime domande che si pone il credente israelita è proprio questa: dadove viene la violenza? Chi l'ha introdotta nel mondo? Perché il rapporto personale tra uomo e uomo è minacciato dall'odio e dalla violenza? La risposta è formulata a più riprese e in forte crescendo nei primi capitoli della Genesi.

C’è una violenza primaria insediata nel cuore dell'uomo che si manifesta addirittura nell'immagine e nella somiglianza di Dio ormai perduta, nell'Adam maschio e femmina. Il rapporto stesso uomo e donna è minacciato dal dominio, da un atteggiamento di violenza, e questo per una presa di posizione di entrambi nei confronti di Dio. Le scelte dell'uomo non sono mai concluse e irrelazionate nella sfera umana ma sono inerenti al rapporto con il Creatore (cfr. Gn. 23,24). La storia di Caino e di Abele è una risposta successiva. La relazione tra uomo euomo, la relazione profonda tra fratelli, si spezza per una rivalità, una lotta. Caino agricoltore e Abele pastore impersonano due condizioni sociali tra cui scoppia la violenza. Caino fa il sacrificio a Dio separato da quello di suo fratello, si separa nel riconoscimento dell'Unico Creatore e nella sua libertà uccide il fratello. Il monoteismo non poteva essere che una fraternità; spezzata questa fraternità, appare l'omicidio (Gn. 4, 3-16) La violenza si espande vertiginosamente e si costruisce sulla crudeltà e sulla vendetta. Lameck può cantare: «Ho ucciso un uomo che mi aveva graffiato, un ragazzo per un mio livido. Se Caino sarà vendicato sette volte, io Lameck, settantasette» (Gn. 5,23-24). Dal rifiuto di Dio cresce la violenza e si estende a tal punto che «la terra era corrotta e piena di violenza» (Gn. 6,11). Dio, frustrato nella suaqualità di creatore, constata che la terra «per causa degli uomini erapiena di violenza» (Gn. 6,13), che conil suo male poteva solo meritare il diluvio.

Dio però non accetta che questa violenza separi per sempre l'uomo da Lui e ricompare la pace con la nuova umanità sfuggita al diluvio. Dio si vincola all'uomo, a ogni carne, e gli garantisce la salvezza attraverso l'alleanza. In questa alleanza cosmica Dio non chiede altro che il rispetto della vita dell'uomo: «Domanderò conto della vita dell'uomo all'uomo, a ognuno di suo fratello!» (Cfr. Gn. 9,5). Così Dio non abbandona l'umanità omicida a se stessa ma ascolta il grido di quelli che patiscono violenza, si china su di loro e promette pace, salvezza.

Anche nell'alleanza mosaica al Sinai, alleanza con cui Dio si sceglie un popolo tra tutte le genti, una delle clausole del patto è: «Tu non ucciderai» (Es. 20,13), formula categorica senza repliche né eccezioni. L'israelita non dovrà esercitare la violenza, dovrà invece, attraverso l'osservanza dei Comandamenti, creare una situazione di vita sociale e familiare in cui la violenza non abbia spazio per introdursi. Non esiste nell'Antico Testamento nessuna giustificazione per la violenza e quando si prescrive quel famoso codice del taglione (Es. 21,23-24) in realtà si cerca di arginare la violenza, di metterle un limite, affinché non si estenda come nel caso di Lameck e di tutta l’esperienza medio-orientale antica. Anche le guerre di conquista della terra da parte di Israele sono narrate non come resoconto di guerre storiche ma come un preludio del giudizio delle Nazioni alla fine del mondo.

grande messaggio deuteronomistico Dio mette davanti lo shalom e la violenza, la benedizione e la maledizione, la vita e la morte. Ora qui è evidente (basta leggere il capitolo 28 del Deuteronomio) che la pace, lo shalom, faparte della costituzione di Israele. Ciò che Dio enuncia sotto forma di benedizione è esattamente la definizione piena della parola pace, shalom. Questo significa che la violenza può solo sorgere per libera scelta dell'uomo che percorre le vie dell'infedeltà a Dio e alla sua legge. La guerra sarà nient'altro che una delle punizioni per l'infedeltà: «Se seguirete le mie leggi, se osserverete i miei comandi e li metterete in pratica... io metterà pace nel Paese: nessuno vi incuterà terrore e la spada non passerà per il vostro Paese (Lv. 26,3.6) ma se non mi ascolterete e non metterete in pratica tutti questi comandi... manderò contro di voi la spada vindice della mia alleanza» (ib. v. 14; 25). Le vie della pace sono dunque praticabili, la violenza, le guerre non sono un fato ineluttabile che pesa sugli uomini: Israele sa e annuncerà che la pace è una possibilità per l'uomo che rimane in alleanza con Dio.

La pace dono di Dio

insieme viene data anche la pace con Dio, la riconciliazione con il Signore. È qui che si misura la portata teologica e religiosa della pace! Ed è proprie questa qualità della pace che è testimoniata in una singolare espressione del Salmo 85,9; 11: «Il Signore annuncia la pace per il suo popolo, i suoi fedeli. Si incontrano amore e verità, si baciano pace e giustizia». Può essere per noi scandaloso ma nella Bibbia la parola pace, pur essendo anche impegno umano è essenzialmente dono di Dio, è qualcosa che l'uomo da se stesso non può darsi, per il quale l'uomo può predisporre situazioni, per il quale deve invocare il Signore ma in definitiva quando le aspirazioni degli uomini alla pace. Sono corrisposte, ciò appare sempre come dono di Dio.

Lo shalom non nasce da un regolamento internazionale dei conflitti né dalla coesistenza pacifica perché la pace è nella storia ma non è della storia è nel mondo ma non è del mondo. Noi siamo portati a pensare che essa possa nascere da un'evoluzione di fattori storici, di cause interne al mondo ma non è così. Potrebbe anche darsi che un'evoluzione, un nuovo ordine politico internazionale, un ulteriore sviluppo dei rapporti tra le nazioni possa offrire dei mezzi diversi dalla guerra per la risoluzione dei conflitti ma noi per questo cesserebbe la violenza e forse assisteremmo, e già vi assistiamo, al sorgere di vinti e vincitori senza che si siano prima schierati degli eserciti e si siano messe in moto le macchine micidiali della guerra atomica. La guerra non è che un aspetto del confronto crudele e violento tra i poteri. Questa illusione di pace infraumana l'aveva già avuta come tentazione Israele quando pensò che avere un re significasse garantirsi la pace. In nome dell'ideologia monarchica dominante Israele avrà un re, ma il profeta non attenderà mai la pace da lui! Il profeta ammonisce che «il re non dovrà avere un gran numero di cavalli, né dovrà accrescere la sua cavalleria, la sua armata» (cfr. Dt. 17,16; 1 Sam. 8,11-18) ma a questo programma il re non si atterrà e non sarà mai degno di essere un ministro di Dio.

Neanche Davide sarà degno di edificare un tempio al Signore avendo guerreggiato durante la vita e avendo sparso il sangue davanti a Dio sulla terra. Solo il re pacifico, solo Melkisedeck Re di Salem, solo il Sommo Sacerdote Gesù saranno degni di edificare al Signore una vera dimora tra gli uomini (cfr. 1 Re 5,17; 1 Cr. 22,7; 10; Eb. 7,1-28). Neanche Davide, avendo usato violenza, può rappresentare interamente la missione religiosa di Israele. La pace che annunciano i profeti quale menuha, riposo gioioso e pacifico, dono storico e salvifico ad Israele e in particolare ai poveri, agli umili, ai curvati (anawim) di quel popolo verrà solo da Dio; a tal punto che i profeti attendono questo dono da un bambino appena nato, il cui nome è principe della pace (per shalom) e nel cui regno la pace non avrà fine. Sarà lo zelo del Signore Shevaot a fare questo (Is. 9,5-6) con un intervento diretto, divino! In quei giorni la parola del Signore, il devar Adonai, parola-evento, farà sì che gli uomini «forgeranno le loro spade in aratri, le loro lance in falci, un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo e non si eserciteranno più nell'arte della guerra» (Is. 2,4).

Cosa devono fare allora gli uomini? Non restare passivi ma salire verso Gerusalemme, visione di pace, camminare nella luce del Signore, ascoltare e mettere in pratica la sua parola. La pace, lo shalom, dipende da questo, non da uno sforzo umano che vorrebbe procurare la pace a partire dalla volontà, dalle operazioni umane. Appare chiaro a questo punto che la pace è una persona, il Messia, l'Emmanuele, il Dio-con-noi! ed è una pace non solo per Israele, ma una pace internazionale, tra tutti i popoli, tutti i figli di Adamo, una pace cosmica che riconcilia il Cielo e la Terra, la Creatura e il Creatore. È una pace in cui i nemici storici di Israele, i grandi imperi di Egitto e di Assiria, saranno solo popoli accanto a Israele, una benedizione in mezzo alla terra e saranno benedetti dal Signore quali popoli che gli appartengono (Is. 19,23-25). Il Messia è dunque la pace e la pace è l'opera del Messia il quale «toglierà i carri da guerra da Efraim, i cavalli da Gerusalemme e farà sparire l'arco da guerra. Egli annuncerà la pace alle nazioni e il suo regno si estenderà dall'uno all'altro mare...» (Zac.2,10). Egli apparirà «giusto e vittorioso, cavalca sopra un asino e sopra un asinello» (Zac. 9, 9-10). La pace allora non può essere altro che dono non utopico ma profetico, non atemporale ma storico, non celeste ma nel mondo. I poveri: i soli soggetti ad annunciare la pace.

Gli uomini che vogliono farsi annunciatori di questa pace non potranno fare altro che adottare, in tutta la storia di Israele e poi nella storia cristiana, i metodi e le qualificazioni della pace messianica: essi dovranno essere operatori di pace nella mitezza e non nella violenza, nella debolezza non nella forza, nella povertà non nel possesso, nel servizio non nel potere. Se un credente annunciasse una pace diversa da questa non sarebbe altro che un banditore di pseudo-profezie. È chiaro percepire come sia più facile, più realistico per un cristiano che si crede capace di dialogo umanistico con gli uomini indicare altre vie di pace, ma questo sarebbe un annuncio falso. Anche per il popolo di Dio ci fu la tentazione di ascoltare questi profeti chiamati tecnicamente «profeti di pace» (hannavi asher jinnave leshalom: Ger. 28,9). Essi annunciano la pace a basso prezzo, la collocano nelle alleanze e nei trattati internazionali, la ricercano presso i potenti regni vicini di Israele, la proclamano in una situazione di ingiustizia che non può lasciare spazio all'autentico shalom. Costoro che «hanno visioni personali di pace» (Ez. 13,16), che gridano pace, pace quando pace non c'è (Ger. 6,14) peccano non tanto nel promettere la pace (anche i profeti autentici la promettono!) quanto nel cercarla e dichiararla trascurando il peccato, non discernendo il giudizio di Dio, non attendendola da lui come dono (cfr. Is. 6,13 5.; Ger. 14,13 e 26,16, 28; 1Re 22,5 Mi. 3,5 s.).

Purtroppo quanti ministri di falsa pace, obbedienti allo pseudos della profezia, sono ancor oggi numerosi tra i cristiani e sovente sono tali in buona coscienza e con retta intenzione. Ma costoro che ingannano il popolo dicendo: pace! pace! e pace non c'è! «hanno avuto visioni false, hanno detto parole del Signore mentre il Signore non li ha inviati» (Ez. 13,6).

Pace e giustizia

Se è vero che la pace è un dono di Dio e non un problema tecnico, funzionale, intramondano, è pur vero che esistono delle condizioni per la pace. Ma guai a noi se cercassimo ancora una volta di mettere noi queste condizioni, di essere noi a determinarle con le nostre forze! Di nuovo restiamo scandalizzati perché vorremmo essere protagonisti e artefici della pace, armati della sola volontà di pace. Ma la parola di Dio ci svela che queste nostre paci sono tutte fittizie essendo la pace strettamente legata alla nostra condizione di giustizia. Ma quale uomo è giusto se Dio non lo previene con il dono della sua sedaga? Per la Bibbia l'ingiustizia è misconoscimento di Dio, è generata dall'idolatria, mentre la giustizia è legata alla conoscenza di Dio (daat Ihwh). Quando i profeti con le loro invettive e minacce attaccano i ricchi, i nobili, i prepotenti, gli oppressori, i gaudenti, non si fermano mai nello spazio dell'etica e della morale ma denunciano la radice dell'ingiustizia che sta nell'errato atteggiamento verso Dio. La conoscenza di Dio non determina soltanto l'atteggiamento intellettuale dell'uomo ma tutto il suo operare, il suo stare nella società umana.

È significativa a questo proposito la minaccia di Geremia verso il re Joakim che costruiva case sontuose facendo lavorare il prossimo senza pagare il salario per il lavoro compiuto. Geremia lo condanna facendo il confronto con il padre, il quale «mangiava e beveva certo, ma praticava il diritto e la giustizia e c'era pace. Questo non significa conoscermi?» (Ger. 22,15-16). La pratica della giustizia, la liberazione dell'oppresso mostrano la conoscenza di Dio e portano la pace. Ma se tale conoscenza di Dio non c'è, se c'è idolatria, allora la pace non è possibile perché la giustizia è infranta. L'uomo deve essere integrato nella conoscenza di Dio se vuole essere un operatore di giustizia e avere il dono della pace, non in virtù di una disposizione arbitraria ed estrinseca, ma in virtù del legame che vi è tra i differenti aspetti della stessa realtà storica. La pace esige di fatto un uomo nuovo, un uomo rifatto da Dio.

Israele capì questo dopo la distruzione di Gerusalemme, l'olocausto, la distruzione dei tempio, la deportazione a Babilonia. Geremia, Ezechiele e il terzo Isaia saranno i profeti che aiuteranno il popolo a capire questo legame inscindibile tra pace e giustizia. La morte, la devastazione sono diventate ineluttabili a causa dell'ingiustizia di Israele ma Dio promette un cuore nuovo, un'alleanza nuova, una nuova legge inscritta nel cuore in una economia che non prevede più l'assoluta fedeltà di Israele ma soltanto l'assoluta fedeltà di Dio (Ger. 31,31-33). L'uomo nuovo con un cuore di carne (Ez. 36,25 s.), munito di un nuovo spirito, abbandonando l'idolatria e l'ingiustizia, troverà lo shalom che verrà esteso a tutti i popoli pagani che riconosceranno il Signore, anche all'Egitto (Is. 19,21). Le nazioni fatte discepole del Signore avranno abbondanza di pace perché nell'osservanza della volontà del Signore meriteranno la pace. La pace sarà opera della giustizia, frutto della giustizia sarà la tranquillità e la fiducia per sempre (Is. 32,17) e sulla terra «giustizia e pace si baceranno perché verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal Cielo» (Sal. 85,11-12).

Solo nella conoscenza di Dio «la tua pace diventa come un fiume e la tua giustizia come onde del mare, dice il Signore» (Is. 48,18) e Gerusalemme sarà fondata sulla giustizia (Is. 54,14) avendo per sovrano la pace, per governatore sedaga (Is. 60,17). Il credente non dovrà mai darsi pace finché non sorga la giustizia come stella sul popolo di Dio (Is. 62,1): una giustizia vista da tutti i popoli come dono dell'Amante all'Amata, elargizione della sua santità, della sua fedeltà, della sua misericordia che salva in radice l'uomo e il popolo. Noi siamo tentati di dire che la Pace è possibile solo quando esiste la giustizia intersoggettiva tra le componenti sociali, nazioni o persone: questo è vero in una certa misura ma non dobbiamo pensare che la pace sia dono alla nostra giustizia perché è già dono questa stessa possibilità di giustizia, la giustizia di Dio!

Pace e vangelo

Il Nuovo Testamento non aggiunge un'ulteriore rivoluzione a questa pace veterotestamentaria che abbiamo delineato in alcuni punti focali. Il Nuovo Testamento proclama semplicemente che questa pace è in atto dal momento in cui Dio ha visitato il suo popolo «guidando i nostri passi sulla via della pace» (Lc. 1.79). L'intervento di Dio teso a evangelizzare la pace è diventato definitivo attraverso Gesù di Nazareth perché intervento messianico. Quando il bambino principe della pace ci è stato dato a Betlemme, gli Angeli non possono far altro che annunciare la pace agli uomini oggetto della benevolenza divina (Lc. 2,14) e quando Gesù appare ad annunciare il Regno di Dio, annuncia la realizzazione possibile della pace nella sua signoria. Dunque il Vangelo non è altro che annuncio della pace compiuta in Cristo, pace resa possibile dalla presenza in mezzo agli uomini del Figlio di Dio. Con la sua morte in croce, subendo la violenza che il mondo intero scaricava su di lui, Gesù effondeva il suo spirito che è spirito di pace «distruggendo in sé l'inimicizia, abbattendo il muro di separazione che teneva separati giudei e pagani, creando un uomo nuovo» (Ef. 2,13-18).

La pace ormai è Cristo, è Gesù di Nazareth, è quella parola che Dio ha mandato ai figli di Israele per evangelizzare la pace! (At. 10,36). La pace dono di Dio; la pace legata alla giustizia, la pace messianica non è solo annunciata ma è donata, lasciata ai discepoli di Cristo risorto che si presenta con il saluto della pace: «Pace a voi» (Lc. 24,36; Gv. 20,19 s.). Ma Gesù non è solo portatore di pace, anzi proprio perché porta la pace autentica, prima è anche portatore di divisione, di spada: è segno di contraddizione (Lc. 2,31-34; 12,51; Mt. 11,12). Egli non può essere uno di quei profeti di pace e per questo richiede ai discepoli una violenza contro le loro membra (Mc. 8; 9,42-48), contro la loro vita (Mc. 8,34-36) contro i loro possessi (Mc. 10,29-30). Come lui è entrato nella pace di Dio dopo un aver sofferto la morte, il discepolo che non è più del maestro deve entrare nella volontà del Padre attraverso il carico della propria croce, luogo di violenza, patibolo reale; questo ci scandalizza ancora di più che l'annuncio della pace veterotestamentaria e dobbiamo confessare che come cristiani abbiamo sovente un concetto errato della pace evangelica.

Ha pace chi entra in comunione con Dio, chi accetta di essere amato da Dio, chi confessa realmente Gesù come Signore e lo attende come il Veniente, Colui che mette fine alla scena di questo mondo per aprire Cieli nuovi e Terra nuova. Solo chi sa di essere stato amato da Dio quando gli era ancora nemico e riconosce quest'amore nella Croce di Cristo (Rm. 5,10) sa distinguere la pace del mondo dalla pace dono di Dio del Messia (cfr. Gv. 14,27). Se il discepolo ha accolto questa pace può e deve proclamarla come primo annuncio, deve farsi messaggero del Vangelo: «Pace a questa casa» (Lc. 10,5-7) e può soprattutto mostrarla, farsi esegeta dello shalom nella vita concreta, nella compagnia degli uomini. Possedendo il Regno di Dio pur nella povertà, nell'afflizione, nella fame e nella sete di giustizia, resterà mite, misericordioso e sarà operatore di pace, un figlio di Dio! (Mt. 5,3-10). È vero che Gesù non porta nessun cambiamento delle forze storiche, ma dà ai poveri, agli umiliati, una potenza che sta tra le componenti della storia: è una potenza disarmata, una violenza dei pacifici che è però efficace. Questi poveri che sono la chiesa autentica dovranno amare i nemici, fare del bene ai delinquenti e perdonare settanta volte sette, quante le volte della vendetta di Lameck che è presente in ogni generazione umana. Costoro, sull'esempio di Gesù, non ricorreranno alla forza, non useranno la spada, non impareranno l'arte della guerra, non si difenderanno. Sono infatti seguaci di un Signore che è Agnello sgozzato ma ritto in piedi, vincitore del male.

È questo il luogo in cui si verifica la fedeltà della chiesa al Signore, il luogo in cui noi possiamo misurare la nostra qualità di discepoli! L'unico modo per vincere la violenza non sarà mai quello di difenderci o di prepararci a fare una violenza difensiva. Il cristiano dovrebbe avere un tale orrore delle armi da non dare mai il suo contributo per la corsa folle agli armamenti, per l'installazione di missili che vorrebbero difendere la pace. È una vergogna questa nostra timidezza in questi giorni e si può solo comprendere se sappiamo vedere tutta l'ambiguità della nostra martyria di pace nel quotidiano, nella vita di ogni giorno, fraterna, sociale, politica. Il cristiano sa che questo fa parte della scena del mondo che passa e per questo deve uscire in fretta dal sistema della violenza inserendosi nell'economia della pace messianica. Di fronte alla guerra, alla violenza, il cristiano deve fare un discernimento e, sapendo che il mistero di iniquità è in atto nella storia umana (2Ts. 2,7), non aggiungere la voce a quanti dicono: «pace e sicurezza» come se il mondo di per se stesso potesse giungere alla pace (cfr. 1Ts. 5,3).

Di fronte alla violenza subita il cristiano non può far altro che diventare ministro del perdono di Dio: questa è la sua iniziativa di pace che immette nella storia energie divine, forze messianiche capaci di vincere il male con il bene (Rm. 12,14). Forse in questo caso il cristiano rischia di vedere elevarsi contro di se tutto l'odio del mondo, può anche essere ucciso, perseguitato, ma sarà colui che non ha adorato né la bestia né la sua immagine (Ap. 20,4). Il Regno di Dio consiste nella pace portata da Cristo al mondo, ma pegno e anticipazione profetica di questa pace dobbiamo essere noi cristiani, la chiesa, noi portatori della pace di Cristo nella compagnia degli uomini.

Spiritualità benedettina e cistercense

Annotazioni antropologiche sul desiderio
a servizio della formazione monastica (1)

di Dom Bernardo Olivera, abate o.c.s.o
Abate Generale dell’Ordine Cistercense della Stretta Osservanza


INTRODUZIONE

Ancora una volta vorrei dare un contributo antropologico nel contesto della nostra formazione monastica. L’uscita di una mezza dozzina di giovani monaci adulti negli ultimi due anni mi ha tatto pensare. In quasi tutti i casi, c’è stato un paio di dati in comune: la scoperta dell’amore umano incarnato in una donna concreta e la relativizzazione totale di tutto ciò che era stato vissuto precedentemente. Sembra che la scoperta dell’amore umano abbia fatto diventare irreale la ricerca monastica di Dio.

Ovviamente, non si tratta ora di mettere in discussione la vocazione di questi giovani; si tratta, piuttosto, di interrogarci sulla formazione che abbiamo offerto loro. Alcune domande pertinenti potrebbero essere le seguenti: su quali basi umane è stato costruito il grattacielo spirituale? Che tipo di antropologia stava alla base, era il presupposto del processo formativo? Siamo convinti che la grazia edifica sulla natura? Favoriamo forse delle dicotomie, pur affermando il contrario? Perché le giovani monache non fanno esperienze simili? Forse le donne sono più realiste, anche se noi, uomini, siamo più carnali? Reprimiamo la dimensione istintiva per privilegiare quella razionale? Diamo gran valore a ciò che è spirituale a detrimento di ciò che è corporale? Continuiamo a leggere come allegorie i testi biblici sull’amore, svuotandoli del loro spessore umano? Coltiviamo il senso di appartenenza alla comunità? E si potrebbe continuare così, con altri interrogativi analoghi.

Non è mia intenzione rispondere direttamente alle questioni che ho appena suggerito. Tuttavia, i paragrafi che seguono offriranno qualche abbozzo di risposta, Il tema che tratteremo può essere formulato con queste parole: «Annotazioni antropologiche sul desiderio a servizio della formazione monastica». Tratterò quindi il tema in una forma parziale ed incompleta (si tratta si semplici «annotazioni») e il mio approccio sarà principalmente antropologico, pur senza dimenticare che l’antropologia cristiana trova il suo significato proprio e completo nell’ambito della teologia.

Il seguente testo del Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica mi è servito da ispirazione e sarà utile come punto di partenza:

Dio stesso, creando l’uomo a propria immagine, ha iscritto nel suo cuore il desiderio di vederlo, Anche se tale desiderio è spesso ignorato, Dio non cessa di attirare l’uomo a sé, perché viva e trovi in Lui quel/a pienezza di verità e di felicità che cerca senza posa. Per natura e per vocazione, l’uomo è pertanto un essere religioso, capace di entrare in comunione con Dio, Questo intimo e vitale legame con Dio conferisce all’uomo la sua fondamentale dignità (cap. I,2).

Questo testo del magistero pone il desiderio in stretta relazione con l’immagine di Dio nella creatura umana; il desiderio fontale o strutturale spinge la creatura alla ricerca della pienezza del Creatore e fa di lui un essere religioso e degno.

Non è necessario dire che questo testo del Catechismo affonda le sue radici nella tradizione agostiniana. Effettivamente, come non ricordare queste celebri parole del Santo dì Ippona: «Ci hai creati per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te» (5. Agostino, Confessioni 1,1.1). La Regola di Benedetto e gli scritti di San Gregorio Magno furono gli strumenti principali attraverso i quali, nel corso del Medio Evo, venne trasmessa la spiritualità agostiniana ai monasteri d’Occidente. Questa è la linfa che nutre e dà vigore alla nostra tradizione cistercense, Bernardo di Chiaravalle trova qui il fondamento della sua dottrina spirituale.

Il tema del desiderio occupa un posto centrale nell’antropologia cistercense. Il linguaggio mistico dei nostri Padri esprime e manifesta l’esperienza del desiderium. Cinque termini fondamentali si riferiscono ad essa: desiderium, affectus, amor, caritas, contemplatio, nuptiae. Inoltre, Bernardo utilizza diversi sinonimi nei suoi Sermoni sul Cantico dei Cantici, ad esempio: suspirare (sospirare, 59,4), appetire (desiderare, 47,5), sitire (avere sete, 7,2), sospendere (essere sospeso, 172), clamitare (chiedere a grande voce, 74,7), se afflictare (affliggersi, 31,5), inhiare (anelare, essere a bocca aperta per l’avidità, come un uccellino che aspetta il cibo da sua madre 28,13), deficere (venir meno, 28,13), fIere (piangere, 58,11). Tutto ci dimostra l’importanza del tema e costituisce un altro motivo per riflettere su di esso nell’oggi in cui viviamo.

Inizieremo consultando la rivelazione biblica, per indicare il posto centrale che occupa i[ desiderio nell’antropologia ebraico-cristiana. Considereremo quindi l’etimologia del termine, i suoi paradossi e l’onnipresenza del desiderio nell’esperienza umana, in modo speciale nella sessualità, nella religione, nella psicologia e nelle culture. Concluderemo con alcune riflessioni sulla relazione del desiderio con la virtù teologale della speranza. Ad ogni punto, cercherò di trarre delle conclusioni e di sottolineare alcuni aspetti in rapporto alla formazione monastica.

1. Desiderio e immagine e somiglianza

Nell’antropologia biblica, troviamo un termine che riveste una importanza fondamentale per capire l’esperienza umana del desiderio. Questo sostantivo appare fin dalle prime pagine della Bibbia: Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne una nefesh vivente (Gen 2,7).

Una semplice consultazione dei dizionari e degli studi di teologia biblica dell’Antico Testamento dimostra che nefesh ricorre circa 754 volte nella Sacra Scrittura, con un’amplia gamma di significati: alito, soffio, anima, vita, gola, appetito, desiderio, essere vivo, vita, persona. Per quanto ci interessa, basterà dire che può indicare:

- Un organo fisico-corporeo che permette di respirare o inghiottire: la gola, il collo (Is 51,23; Sal 69,2; Pr 3,22; 25,25), la bocca (Is 5,14; Pr 28, 25), e perfino lo stomaco (Is 29,8; Pr 6,30; Sal 107,9).

- La funzione fisiologica relazionata con tali organi: la respirazione (Gen 35,18; Lam 2,12; Gb 11,12), la sete (Sal 78,18; Pr 16,26), la voglia di cibo (Dt 23,25; Pr 12:10; Sal 106,15).

- In senso traslato, la tensione della brama o del desiderio (1Sam 20,4; Pr 19,2; Sal105,22).

Questo vuol dire che nefesh può essere utilizzato anche per designare l’uomo vivente come essere di desiderio, strutturato verso la relazione con l’altro/Altro per la realizzazione di se stesso. In questo senso potremmo tradurre liberamente il testo di Gen 27 nel modo seguente: e l’uomo divenne un desiderante vivo. Quando l’amata del Cantico parla dell’amato come dell’amore della mia anima, è come se dicesse: colui che è desiderato dai miei desideri! (Cf 1,7; 3,1-4; cf. è,6; 6,12). Leggiamo anche nel Salmo 130,6: la mia anima (la mia nefesh) è protesa verso il Signore come le sentinelle verso il mattino. In altre parole: la struttura della mia persona in quanto essere di desiderio è orientata verso Dio, come la sentinella che attende l’aurora (Cf Sal 42,2.6.12; 43,5).

Come abbiamo appena visto, il termine nefesh viene tradotto a volte anche con anima, vita o anche con un pronome personale; difatti, quando è utilizzato in relazione con i sentimenti, indica globalmente il centro vitale della persona: il suo sentire, il suo reagire ed anche il suo decidere (Gdc 18;25; 2 Sam 5,8; 17,8; Is 19,10; 38,15; Pr 11,25; 14,10; Ger 42,21; ecc.).

Questa dottrina biblica è stata assunta da S. Agostino, che afferma: il desiderio è il seno del cuore (Confessioni, 10,8). Alcuni filosofi moderni si pongono nella stessa ottica, uno di essi non esiterà ad affermare: il desiderio è l’essenza dell’uomo (Spinoza, Etica, IV, 18).

A partire da questo desiderio fontale e strutturale, noi, esseri umani, viviamo desiderando e moltiplicando desideri, I nostri desideri risvegliano tutta una costellazione di sentimenti: viviamo desiderando e sentendo. Questa realtà così fondamentale del nostro vivere umano deve occupare un posto privilegiato nei nostri programmi di formazione monastica. Il monastero sarà una scuola di carità nella misura in cui saprà educare i desideri e ordinare gli affetti.

2. Etimologia e significato

Un essere umano si comporta come tale quando funziona in forma «desiderante», affettiva, volitiva, cosciente ed intelligente. Cioè, il desiderio, l’affettività, la volontà, la coscienza e l’intelligenza sono le funzioni psichiche fondamentali del comportamento di un essere umano, uomo o donna. Il desiderio è una struttura di base, prima di differenziarsi in desideri diversi. Questo desiderio fontale soggiace alla nostra affettività e alla nostra volontà, Ma che cosa ci insegna l’etimologia del sostantivo desiderio rispetto all’esperienza indicata dallo stesso termine? Tra le diverse possibili etimologie, mi soffermo sulla seguente. La parola «desiderio» deriva dal latino: de-siderare, che si compone di una particella privativa (de) e di un derivato verbale (da sidus-eris: stella), da qui si ottiene: sentire la mancanza di una stella.

La cultura cinese c’i insegna anch’essa qualche cosa di interessante a questo proposito. Il termine «speranza» (wang, in mandarino) si scrive con un ideogramma composto da due parti. Nella parte inferiore, un uomo in piedi su una piattaforma, guarda verso l’alto; nella parte superiore: la luna crescente. Questo vuoi dire che la speranza viene rappresentata mediante un essere umano che attende e desidera che giunga la luna piena. Questo stesso ideogramma, in giapponese, è usato in riferimento al desiderio (nozomi) e alla tensione del desiderio (nozomu).

Quando dunque parliamo di desiderio, ci esprimiamo metaforicamente e ci riferiamo al movimento verso qualche cosa o verso qualcuno assente, che si mostra ed è percepito come buono ed attraente. Più in particolare, il desiderio implica un sentimento di assenza, di ricerca di ciò che è assente, un trattenere l’assente reso presente e un nuovo sentimento di assenza per l’insoddisfazione di quanto che si trattiene nel presente. Bernardo di Chiaravalle descrive concisamente questa esperienza del desiderio: tutti gli esseri dotati di ragione, per tendenza naturale, sempre aspirano a ciò che loro sembra migliore, e non sono soddisfatti se manca loro qualche cosa che considerano migliore (Dil, 18).

Da quanto abbiamo detto finora si può dedurre una lezione importante per il processo di maturazione personale. Solamente quando riconosciamo la nostra «carenza» strutturale possono emergere il mondo e gli altri in quanto diversi e con tuffo il loro potenziale di significato e di missione da compiere.

L’accettazione della mancanza e dell’assenza, con la solitudine esistenziale che ne consegue e che ci caratterizza come esseri umani, è un requisito imprescindibile per stabilire relazioni con gli altri. Difatti, solo quando riconosciamo di essere persone carenti può emergere l’altro in quanto altro e divenire compagno. Per nessuno, noi siamo tutto, e nessuno può essere tutto per noi. Questa è una condizione perché possano esserci: la coppia, l’amicizia, la fraternità, la comunità e la solidarietà. Ma sempre ci sarà una distanza, una separazione e una differenza costitutive. Tutto è presenza e assenza, anche nella comunione più intima.

Quando il nostro desiderio è stato configurato e delimitato dalla separazione, dalla differenza e dall’assenza, si potrà evitare questa triplice tentazione:

- La fusione con l’altro/a che finisce con distruggere l’amore: un rischio abbastanza comune nel processo della formazione monastica iniziale.

- La cosificazione dell’altro/a a servizio di sé: un rischio possibile per i superiori/re carenti di una sufficiente maturità umana.

- L’autoeliminazione a servizio di quello si suppone sia il desiderio dell’altro: un rischio di non poche giovani in formazione, che cercano di compiacere alle loro formatrici.

3. Paradossi e dimensioni

Il desiderio è una realtà paradossale e onnipresente nella nostra vita umana. Ci pone in movimento e in ricerca a partire da una mancanza e da una insoddisfazione. Desiderare è riconoscersi incompleti, in uno stato di carenza ed in presenza di qualche cosa di assente il cui possesso appare come una soddisfazione o un piacere. Da qui deriva una conseguenza importante: ogni desiderio risveglia dei sentimenti; sotto la riattivazione dell’affettività soggiace il desiderio.

3.1. Paradossi

Qualcuno ha affermato che, a causa del desiderio, viviamo un certo disagio o ansia e, di conseguenza, questa esperienza di disagio sta alla base di ogni attività umana. Ma qualcun altro ha risposto: se non abbiamo qualcosa da desiderare, saremo felicemente dei disgraziati. Molti paradossi del desiderio sono diventati sentenze o massime popolari, ad esempio:

- Non pretendere che le cose siano come vorresti, desidera che siano come sono.

- Se tu potessi soddisfare la metà dei tuoi desideri, raddoppieresti le tue inquietudini.

- Quanto più desideri tanto più senti la mancanza.

- È più stimolante un desiderio impaziente che essere saziati di piacere.

- Una felicità difficile da raggiungere, la si gode il doppio.

- Il desiderio diminuisce quando abbondano le occasioni e le facili soddisfazioni.

- Il molto diventa poco quando si desidera un po’ di più.

Ci angustiamo di fronte alla possibilità dell’insuccesso: possiamo fallire e non raggiungere quello che vorremmo. Ma può succedere il contrario. Tuttavia, tra il nostro desiderio e la sua realizzazione si dà una grande distanza: le nostre realizzazioni sono di solito corte, in confronto alle nostre speranze. Nulla ci colma pienamente, la sazietà è fugace, il desiderio ci lascia al di qua di quello che desideriamo, il desiderio ci lascia sempre affamati: un milione di baci non spegne il desiderio di baciare! Il desiderio sembra saziarsi soltanto di infinito e di eternità.

Se il fine del desiderio fosse [lasciarci in] una penosa insaziabilità, il mondo e noi, creature umane, saremmo un assurdo e un senza senso. Per questo è necessario non dimenticare mai che il desiderio ci permette di vivere e ci trasforma in esseri di speranza. L’attesa e la speranza sono esperienze vissute, radicalmente umane: se sono proteso nella speranza, sono vivo. In definitiva, il desiderio ci espone non solo all’angustia ma anche e soprattutto alla speranza.

Il desiderio invita a uscire da se stessi, pone in contatto con gli altri, mette in relazione. È esperienza di incompiutezza e di limite, ma anche possibilità di essere più e meglio. Mettendoci in rapporto con gli altri, il desiderio permette a noi di porci come soggetto: Io sguardo dell’altro risveglia il mio proprio sguardo. Fare attenzione ai nostri desideri ci permette di conoscere noi stessi per dire chi siamo. Abbiamo qui un compito fondamentale nel processo di formazione, soprattutto nella tappa iniziale: verifica che cosa e chi desideri, e saprai chi sei.

È vero che il desiderio ci mette in movimento e alla ricerca di qualcosa o di qualcuno di cui avvertiamo la mancanza: crea una tensione verso qualcosa di più. Ma questo «di più», in ultima istanza, lo possiamo ricevere soltanto come dono e regalo. Per questo, il desiderio è anche spazio, apertura, accoglienza del dono e, soprattutto, accoglienza di colui che dona.

È anche vero che, tra i paradossi del desiderio, bisogna segnalare la sua ambiguità: può essere buono o cattivo; il desiderio può deviare, Il verbo desiderare (hamad) viene utilizzato in Gen 2,9 in senso positivo: Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi (lett. desiderabili) alla vista e buoni da mangiare. Ma nel capitolo successivo lo stesso verbo è usato in riferimento al desiderio da cui nasce il peccato: Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito (lett. desiderabile) agli occhi ... (Gen 3,6). Tuttavia, nel Cantico dei Cantici troviamo un riferimento a questa situazione, ma prima del peccato, quando la sessualità ancora era fonte di piacere, di gioia e di felicità in Dio: Come un melo tra gli alberi del bosco, il mio diletto fra i giovani. Alla sua ombra, cui anelavo, mi siedo e dolce è il suo frutto al mio palata (Ct 2,3).

L’apostolo Paolo denuncia senza ambagi l’ambivalenza del desiderio: Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne; la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste (Gal 5,16-17).

Ogni persona, uomo o donna, che abbia deciso di seguire Cristo sotto la mozione dello Spirito, dovrà vivere concretamente un’ascesi del desiderio per orientarlo verso il bene ed evitare il male. Si tratta di un’ ascesi che ha un’importanza primaria negli anni di formazione iniziale, ma che assume un’importanza permanente e continua, in tutto il corso della vita.

3.2. Dimensioni

Il desiderio fontale e strutturante del nostro essere umano genera tutta una gamma di molteplici aspirazioni, brame, aneliti, ansie, appetiti, voglie, ambizioni, passioni, capricci... che nella vita di ciascuno di noi progressivamente vanno prendendo forma con il passare del tempo. Tutto questo dà origine a una tipografia del desiderio estremamente varia, in stretta relazione con le vicende (gratificazioni, fantasie, relazioni) della propria biografia personale.

Ma può accadere, e di fatto succede, che gli obiettivi autentici del desiderio siano repressi e, di conseguenza, ignorati; i sogni sono una via che facilita l’emergere dei desideri ignorati. Quanto più grande è l’ambito dei desideri repressi ed esclusi, tanto meno autentica diviene la vita: non si sa più quello che si vuole! Si confonde il volere con le velleità e il capriccio con il desiderio. E in questo modo si possono imboccare strade completamente sbagliate e si può finire col trovarsi in qualsiasi genere di vocazioni frustrate.

Analogamente, l’ignoranza e l’incompatibilità dei nostri desideri può paralizzare la nostra vita o dare origine a un conflitto insopportabile, fra gli uni e gli altri. Probabilmente, questa è una delle cause più frequenti delle nostre «nevrosi» temporanee o permanenti. D’altra parte, la dispersione dei desideri o il loro non avere oggetto concreto è di solito causa di ansia e di disagio diffuso.

La radicalità della struttura del desiderio e la varietà infinita di oggetti che sembrano soddisfarlo fa sì che il desiderio sia presente in quasi tutte le dimensioni della nostra vita. È importante che vi sia chiarezza, per poter scegliere e rinunciare, mettere ordine e vivere in modo integrato, in armonia. Vediamo sinteticamente come si manifesta il desiderio in alcune dimensioni dell’esistenza umana.

- Dimensione biologica: brama, attrazione ed unione sessuale.

- Dimensione affettiva: tenerezza, affezione, innamoramento, romanticismo. 

- Dimensione ludica: humor, scherzo, sport.

- Dimensione pragmatica: laboriosità, capacità di servizio.

- Dimensione interpersonale: paternità, maternità, fraternità, amicizia, socievolezza. 

- Dimensione gerarchica: autorità, politica.

- Dimensione possessiva: proprietà, commercio.

- Dimensione intellettuale: ricerca, informazione, scoperte.

- Dimensione estetica: bellezza, arte.

- Dimensione altruistica: gratuità, beneficenza, sacrificio.

- Dimensione religiosa: assoluto, infinito, al di là, Dio.

Il desiderio è quindi una struttura fondamentale dell’essere umano in relazione con una carenza e/o assenza. Il desiderio, come abbiamo appena visto, si apre su un’ampia gamma di dimensioni e di esperienze interdipendenti, alcune delle quali sono più comuni di altre; tra queste, le due seguenti:

- Prima di tutto, il desiderio è presente nell’ambito del nostro mondo sessuale ed affettivo. Qui trova la sua origine e il maggior campo di sviluppo. La sessualità è la dimensione della vita dove più grande è la promessa di giungere a un’unione che rompa i limiti della differenza, dell’assenza e della distanza. L’affettività, ovviamente, alimenta e dà vita a molti tipi di relazioni interpersonali, come la paternità e la maternità, la fraternità e l’amicizia.

- Ma forse, è l’ambito religioso quello che offre la possibilità di colmare le aspirazioni e gli aneliti più profondi. Di fatto, il desiderio trova nella religione: amore, protezione, sopravvivenza, trascendenza, trasformazione. I monaci e le monache, in tulle le grandi religioni, sono persone che vivono un desiderio irresistibile di Dio, Dio è per loro attrattiva e fascino più grande di qualsiasi altra cosa; su questa base, può poggiare una vocazione monastica cristiana ed evangelica.

4. Desiderio, sessualità e religione

Abbiamo già fatto riferimento all’origine ultima del desiderio umano: il fatto di essere creati a immagine di Dio. La psicologia del profondo indica anche l’origine esistenziale del desiderio: il fatto di nascere separandoci da nostra madre. A partire da questa duplice origine, il desiderio tende verso un duplice fine: la pienezza nella comunione beatificante con Dio (fine divino) e la complementarità nell’unione gradevole e gioiosa con l’altro/a (fine interpersonale).

Il desiderio spirituale, il cui fine è la comunione con Dio, si potrebbe chiamare: anelito beatificante. E il desiderio corporale-affettivo, il cui fine è relazione interpersonale, eterosessuale o no, si potrebbe definire: appetito sessuale ed eros personale. Per cui potremmo dire che: il sesso è desiderio biologico, l’eros è desiderio personalizzato, e l’anelito spirituale è desiderio divinizzato.

Ora, l’appetito sessuale saziato è causa di piacere, l’eros interpersonale produce gioia, ma da solo l’anelito beatificante apre ad una felicità incommensurabile.

La tabella seguente permette di sintetizzare in modo più chiaro le affermazioni fatte fin qui:

Due dimensioni fondamentali del desiderio umano

Religiosa

Corporale-affettiva

Origine

Creazione a immagine e somiglianza del Creatore

Separazione dal seno materno al momento della nascita

Nome

Anelito beatificante

Appetito sessuale (sesso)

Eros personale (affettività)

Fine

Comunione con Dio

Unione complementare con l’altro/a

Effetto

Felicità

Piacere (sessuale)

Gioia (affettiva)

4.1. Desiderio e sessualità

L’eros personale e l’appetito sessuale hanno qualcosa in comune: sono due forze che ci permettono di uscire da noi stessi e di sradicare l’egoismo occulto nel nostro essere. Ciononostante, l’eros ed il sesso sono realtà diverse. È importante che sia ben chiaro ciò che li differenzia:

- Il sesso produce tensione e distensione corporea, l’eros personalizza e dà senso, illuminando e guidando questa esperienza. L’eros favorisce l’intimità tra le persone, mentre il sesso solo rende possibile la relazione tra i corpi.

- Il sesso senza eros termina nel proprio corpo, mentre l’eros, anche senza sesso, è orientato verso l’altro/a.

- L’atto sessuale è il simbolo più potente della relazione tra due persone di relazione e l’eros è l’intimità nella relazione.

- L’eros va molto più in là del sesso; se il sesso è soglia, l’eros è traversata.

L’eros in quanto desiderio di comunione, pienezza e gioia interpersonale con una persona amata permette di sentirsi appagati e di donare pienezza. L’eros, così considerato, è attraente e terribile: attraente, per la sua promessa di pienezza; terribile, perché chiede di abbassare i controlli o lasciare da parte ogni controllo. L’intimità affettiva risveglia l’eros, e questo è attraente; allo stesso tempo, l’intimità a cui invita l’eros chiede di abbassare sempre di più i controlli, e questo è causa di timore di paura. Molte volte, i celibi e le vergini che hanno scelto di essere tali, non sanno dove tracciare la frontiera per essere fedeli alle loro scelte. L’eros, nella relazione tra un uomo e una donna segue di solito la dinamica seguente:

- sentimento piacevole per il fatto di stare insieme;

- impulso a creare intimità accorciando la distanza che separa; 

- tacere per «entrare in contatto» e sentire; 

- la gioia, lasciata al suo proprio impulso, può correre alla ricerca del piacere.

La rinuncia e l’autocontrollo che implica la scelta della verginità e del celibato non devono costituire un impedimento perché noi, uomini e donne, sappiamo vivere e trascorrere un momento gradevole insieme. Chi non sa vivere con gratitudine questi momenti sani e cordiali, di solito compensa con fantasie ciò di cui si priva o reprime.

La cultura occidentale, invadente nei confronti delle altre culture, ha asservito l’eros al dominio del sesso. È vero che non siamo più sotto la tirannia della rivoluzione sessuale della fine degli anni ‘60; in quel frangente si è passati dal piacere proibito al piacere obbligatorio; il sesso divenne coercizione e si stabilì la dittatura dell’orgasmo imposto, imprescindibile e obbligatorio. Nella maggior parte delle nostre società si vive tuttavia una sessualità che si è svincolata dalle norme e, molte volte, si riduce a un gioco, a discapito delle persone. I nostri giovani, uomini e donne, provengono da questa società e da questa cultura.

D’altra parte, certe spiritualità sublimi e certi «soprannaturalismi» privi di appoggio sulla natura hanno prodotto lo stesso effetto della rivoluzione sessuale secolare: la morte deIl’eros, cioè del desiderio interpersonale. Difatti, noi, donne e uomini pii, cercando di soggiogare la carne finiamo con l’uccidere la carne e l’affezione, l’appetito e l’eros...

Forse sarà necessario proclamare e programmare un’altra rivoluzione, per restituire all’eros interpersonale tutto il suo fascino e tutta la sua apertura verso l’assoluto e il trascendente. La «rivoluzione erotica» non è una rivendicazione dell’erotismo in quanto maschera delle pulsioni genitali, ma una promozione dell’eros per umanizzare e sublimare il nostro sesso.

4.2. Desiderio e religione

noto che la religione è fonte di soddisfazione per le aspirazioni più fondamentali delle creature umane. Il linguaggio divino è il linguaggio dei sentimenti profondi, che stanno alla radice dei desideri di base del cuore umano. È qui dove si situa l’origine della conversione, della fede, della giustizia e dell’amore. La Scrittura ci offre numerosi esempi: Mi hai sedotto, Signore, ed io mi sono lasciato sedurre (Ger 20,7); Tu mi scruti e mi conosci (Sal138); Non ardeva forse il nostro cuore..? (Lo 24,32). Attraverso questo linguaggio, Dio seduce i nostri cuori per aprirli a Gesù Cristo e alla sua Buona Novella. La seduzione di Dio è liberatrice ed esige una nostra libera risposta.

In questo contesto, possiamo chiederci: il desiderio-anelito di Dio poggia sul fondamento del desiderio-appetito sessuale? In altre parole: esiste un continuum (senza soluzione di continuità) tra la dimensione biologica del desiderio e la sua dimensione religiosa?

Molti psicologi non esitano a dare una risposta affermativa alla domanda che abbiamo appena formulato. Alcuni teologi avrebbero dei dubbi: tra la natura e la grazia si dà un salto qualitativo. Altri teologi, senza negare la gratuità della grazia divina, affermano l’esistenza di una continuità tra la persona umana, corpo-anima a immagine di Dio, e l’unione con Dio. Essi affermano, con i teologi medioevali: l’essere umano è capax Dei!, la grazia non distrugge la natura, ma la suppone e la perfeziona).

Per San Bernardo, non esiste nell’essere umano un «desiderio specifico» che lo orienti verso Dio. È l’unica forza umana del desiderio che, a partire dall’appetito biologico orientato dal libero arbitrio, spinge a cercare e a trovare Dio. Nei Sermoni sul Cantico dei Cantici, la simbologia erotico- sessuale si riferisce al desiderio dell’anima santa, che è alla ricerca di Dio e dell’unione con lui. La brama e l’eros sono a servizio della carità.

Sia come sia, al di là del dibattito teologico, resta chiaro che senza il desiderio-eros personale la ricerca di Dio diventa qualcosa di artificiale, mentale, inconsistente, vuoto, e crolla come un castello di carte di fronte alla presenza e alla relazione concreta con qualcuno che colpisce il nostro cuore e mobilita la nostra corporeità. lo sono del parere che, al riguardo, noi uomini siamo più vulnerabili delle donne, nella misura in cui siamo più teorici e propensi all’astrazione.

Abbiamo già indicato fin dall’inizio che il desiderio di Dio è costitutivo della natura umana. In tutti gli esseri umani si dà una capacità innata di Dio, esiste un orientamento verso di lui che precede la scelta morale. È in questo senso che la creatura umana è stata creata a immagine di Dio.

Alcuni autori medievali, soprattutto i cistercensi, si distanziano alquanto dalla tradizione agostiniana in un punto molto concreto, pratico. La dottrina agostiniana sembra tracciare una frontiera netta tra l’«uomo esteriore» e l’«uomo interiore», fra la carne (sessualità) e lo spirito: la prima è causa di perdizione così come il secondo è causa di salvezza. Questa spiritualità può in tal modo risultare dualista e con fondamento insufficiente nello spessore corporeo dell’essere umano.

Molti Padri spostano la frontiera e fanno guadagnare terreno alla carne. L’eros e l’affezione spontanea, che si radicano nel sesso, sono chiamati a svolgere un ruolo importante nella ricerca di Dio. Ascoltiamo Guglielmo di San Thierry nel suo Commento al Cantico dei Cantici:

«Di conseguenza, nel momento in cui consegna agli uomini il cantico dell’amore spirituale, lo Spirito Sacro riveste la sua relazione spirituale e divina [con gli esseri umani], con immagini esterne desunte dall’amore carnale, perché soltanto l’amore comprende pienamente le cose divine. L’amore carnale, però, è chiamato a unirsi a quello spirituale e a trasformarsi in lui, poiché solo l’amore capterà rapidamente ciò che gli è simile. E come è impossibile che il vero amore, avido di verità, possa dilungarsi o soffermarsi per molto tempo sulle immagini, rapidamente passerà per questa via conosciuta alla realtà che prima aveva evocato attraverso delle immagini. Quindi l’uomo, pur essendo un uomo spirituale, in ragione della dimensione corporale della sua natura, abbraccerà le delizie dell’amore carnale, e, una volta assunte grazie allo Spirito Santo, le porrà a servizio dell’amore spirituale. Per questo, appare qui una donna che, senza nessun pudore, emerge con impeto da un luogo sconosciuto e, senza dire chi è, né da dove viene, né a chi si dirige, esclama: “Che mi baci con il bacio della sua bocca!”» (Esp Cant 24).

Guglielmo si pone in quella grande corrente spirituale che propone la ricerca del volto del Signore a partire da ciò che noi siamo in forza della creazione, per poter giungere ad essere per la grazia ciò che possiamo essere.

Sono cosciente che questa dottrina / pratica può avere i suoi rischi ed essere motivo di timore. Le frontiere sono meno chiare e il mondo interiore è più complesso. Restano alcuni interrogativi: fin dove si può scendere per potersi appoggiare con piede sicuro su se stessi e risalire con sicurezza e potenza verso il mondo dello spirito?

Il problema fondamentale, sia per i medievali sia per noi, sta in questo: come trasformare l’eros in carità. Probabilmente, la soluzione di questo problema è diversa per gli uomini e per le donne. Le donne potrebbero erotizzare indebitamente l’amore di carità, noi potremmo ridurlo a dimensione fisica o non saper cosa fare delle risonanze carnali che si potrebbero avere di tanto in tanto.

La trasformazione delI’eros interpersonale in anelito spirituale non è facile, ma è possibile. Questo implica, innanzi tutto, assumere consapevolmente e pacatamente la propria sessualità a partire dalla pulsione fisica. Quindi, concentrare l’esperienza nell’eros inteso come desiderio di pienezza, comunione interpersonale e gioia in questa comunione. Da ultimo, lasciare che l’eros trascenda ogni adesione definitiva con qualsiasi creatura, perché diventi anelito di unione e beatitudine in Dio.

L’alternanza di assenza e presenza, di consolazione e desolazione gioca un ruolo molto importante nella purificazione dell’eros e nella sua trasformazione in anelito di Dio.

In questo contesto, dovremmo localizzare e potenziare nella nostra formazione la devozione cistercense all’umanità di Gesù, la contemplazione dei «misteri» di Cristo prima della Pasqua, che conduce alla ricerca e alla comunione con la sua persona divina e gloriosa. Di più, sarebbe necessario attualizzare la spiritualità sponsale, intesa come «dono reciproco in comunione feconda», una spiritualità che presenta indubbiamente delle ricchezze, benché non sia esente da difficoltà che si possono sanare con una corretta pedagogia. Quanto più sani, pieni e felici noi saremo se queste parole dell’asceta Giovanni Climaco fossero realtà nelle nostre vite: Felice l’uomo il cui amore per Dio è come l’eros dell’innamorato per la sua amata! (Scala, 30,5).

Desiderio e psicologia umanista

La psicologia contemporanea di approccio umanistico parla del «potenziale umano». Con queste parole, ci informa che l’essere umano possiede un capitale naturale per crescere e raggiungere un modo dì essere e di vivere pienamente personale. In questo contesto, si colloca la dottrina sui bisogni o le tendenze umane, una dottrina che completeremo con la realtà antropologica del desiderio.

Un bisogno ha questa particolare caratteristica: ci chiude nel presente e in noi stessi; il desiderio, invece, ci apre e ci lancia verso il futuro e verso gli altri, I bisogni si possono soddisfare facilmente: una volta raggiunto l’oggetto adeguato, si elimina la tensione suscitata nell’organismo (l’acqua appaga la mia sete). Ma nessun oggetto presente può soddisfare completamente il desiderio, perché in ultima istanza, il desiderio rimanda a un passato e a un futuro, a cui nessun presente può dare una risposta compiuta ed esaustiva.

Ora, tanto i bisogni di quanto i desideri sono «tendenze» tese verso la soddisfazione, per uscire da uno stato carenza o privazione fisica, psichica o spirituale. È facile constatare che questa tendenza verso la soddisfazione gioca un ruolo di primaria importanza in qualsiasi teoria o pratica sulla motivazione umana.

Cerchiamo di sintetizzare e classificare queste tendenze (bisogni e desideri) in tre gruppi:

- biologico: aria-respirazione, acqua-sete, cibo-alimentazione, sonno-riposo, sesso-accoppiamento-riproduzione, casa- abitazione-vestito... 

- psicologico: sicurezza-protezione, amore-appartenenza, stima di sé, stima degli altri, convivenza-associazione... 

- spirituale: bellezza, bontà, verità, giustizia, ordine, pienezza, significato, libertà, perfezione, religione, spiritualità, mistica...

È facile constatare che le tendenze cosiddette biologiche sono più dei bisogni che dei desideri; mentre le tendenze psicologiche e spirituali sono dell’ordine del desiderio.

Queste tendenze — bisogni e desideri — non sono presenti tutti contemporaneamente, né con la medesima urgenza. Esiste una certa gerarchia degli stessi. In generale, ognuno dei diversi livelli si fa sentire nella misura in cui il livello precedente è stato soddisfatto. È evidente che la situazione concreta di una società e o di un gruppo può facilitare o impedire la soddisfazione dei bisogni, moltiplicarli o confondere i bisogni con i desideri.

L’esperienza insegna che molto difficilmente si accede alla soddisfazione dei desideri spirituali quando si soffre di una grave carenza per quanto riguarda i bisogni biologici o i desideri psicologici. Chi soffre di sonno, a fatica si potrà dedicare con efficacia alla ricerca del significato della Parola di Dio. Allo stesso modo: una insufficiente stima di sé condiziona la libertà e l’apprezzamento della bontà della vita.

Quanto abbiamo appena detto ha un’incidenza pratica nell’ambito della formazione monastica. Nella maggior parte dei nostri monasteri, i bisogni biologici dei membri sono coperti. Ma non sono sicuro di poter affermare la stessa,cosa per quanto riguarda i desideri psicologici, che frequentemente servono da supporto per i desideri spirituali. Sarebbe anche il caso di chiederci se le nostre comunità sono esperte nell’arte di sviluppare desideri spirituali aperti all’esperienza mistica di comunione con Dio e se tutto è ordinato a questo fine.

6. Desiderio e cultura capitalista

Le grandi culture umane si sono poste e si pongono in modo diverso di fronte al desiderio. La cultura orientale tende verso la liberazione del desiderio; certe correnti buddiste considerano che coloro che si liberano del desiderio si liberano dall’«io» e giungono a una libertà piena; uno dei nomi del nirvana è, appunto, «annichilamento della sete» (tanhakkhaya); estirpata la sete del desiderio, cessa ogni sventura e sofferenza.

La cultura greca classica insegnerà a controllare i desideri; Aristotele elogia Platone perché afferma che l’educazione consiste nell’insegnare a desiderare ciò che è desiderabile. Ritroviamo la stessa dottrina in S. Tommaso d’Aquino, quando commenta il Padre nostro nella Somma Teologica: La preghiera è una interprete del nostro desiderio davanti a Dio; domanderemo correttamente solo ciò che correttamente possiamo desiderare. E nella preghiera del Padre nostro non solo si chiedono tutte le cose che si possono desiderare correttamente, ma anche nell’ordine in cui si devono desiderare; in questo modo non è soltanto una regola per le nostre petizioni, ma anche una norma di tutti i nostri sentimenti (informativa totius nostri affectus) (II-II, 83:9).

La cultura medievale occidentale, impregnata di cristianesimo, come abbiamo visto, ha posto il desiderio a servizio della ricerca di Dio. Si può persino pensare che alcuni dei commentari al Cantico dei Cantici fossero uno strumento pedagogico in funzione della trasformazione del desiderio. Invece, la cultura occidentale nord-atlantica contemporanea, manipola i desideri a servizio del commercio e dell’economia, Consideriamo brevemente questo ultimo punto

Il sistema economico capitalista si sta imponendo nel mondo attuale per il motivo seguente: diventa sempre più capace, su scala mondiale, di produrre «cultura» generando un’antropologia di massa con un sistema di valori e di bisogni che corrisponde al modello economico da lui offerto.

Per raggiungere il suo obiettivo, il capitalismo affronta i desideri in un modo che gli è proprio: li confonde intenzionalmente con i bisogni e poi tenta di modellarli o di conferire loro una forma particolare. Come già abbiamo detto, i bisogni si possono appagare e sono strettamente connessi con la dimensione sociale. I desideri profondi sono insaziabili e sono strettamente connessi con l’interiorità, la profondità e l’originalità dell’essere.

Le teorie capitaliste sono pensate in funzione della soddisfazione dei bisogni- desideri. Ma non si tratta, innanzi tutto, della soddisfazione dei bisogni-desideri di lucro degli imprenditori, bensì della soddisfazione dei bisogni-desideri dei consumatori. Il lucro è una conseguenza della soddisfazione dei bisogni-desideri del cliente che consuma.

Ma, oltre a soddisfare, si tratta anche di manipolare e di creare dei bisogni-desideri. E, poiché i bisogni sono innumerevoli e il desiderio e’ illimitato, infinita sarà la possibilità di lucro. Il capitalismo non educa i desideri, ma piuttosto li confonde con i bisogni, li produce, li riproduce e li plasma artificialmente. In questo modo, il consumatore (che ha potere d’acquisto), assume e consuma quello che desidera e anche quello che non desidera, ma di cui crede fermamente di avere bisogno.

Nel mondo capitalista, i mass media obbediscono alla legge del massimo profitto economico. Non sono affatto neutrali; anche se si proclamano «indipendenti», i mass media sono alleati politicamente ed economicamente, I profitti derivano dalla pubblicità o dalla propaganda. Il telespettatore, l’ascoltatore o il lettore vale secondo il tempo quotidiano che trascorre davanti alla televisione, all’ascolto della radio o nella lettura di giornali e periodici. Il proprietario dei media vende a chi vuol fare pubblicità un certo numero di lettori, ascoltatori e telespettatori e ore di consumo; in altre parole, si vendono udienze/pubblico. Per questo, lo scopo che persegue la programmazione è accattivarsi il maggior numero possibile di udienze/pubblico durante il maggior tempo possibile. I media, soprattutto la televisione, sono orientati in modo da mantenere il desiderio dello spettatore attaccato allo schermo o al microfono, mediante stimoli ben programmati. Ed è in questo modo che i bisogni-desideri diventano profitto economico e vengono manipolati per lo stesso fine.

L’educazione dei nostri desideri, nel contesto monastico, non può ignorare questa manipolazione dei desideri. É necessario saper discernere per poter fare scelte libere e giuste. D’altra parte, il passaggio dal lavoro manuale al lavoro commerciale in molti nostri monasteri, ci costringe ad entrare, in qualche modo, in questa manipolazione capitalista e pubblicitaria dei desideri. È possibile passare da soggetto manipolato a soggetto manipolatore. Non è facile tracciare la frontiera tra la dimensione economica e quella apostolica, tra l’aspetto lucrativo e quello pastorale. L’etica commerciale dei monaci non si può allineare con l’etica commerciale dei secolari. È un tema su cui riflettere, come qualcuno/qualcuna ha già fatto notare, per evitare ambiguità che possono minacciare il fondamento del progetto formativo e della trasmissione del carisma monastico alle giovani generazioni. Difficilmente noì potremmo insegnare a pregare il Padre nostro, come principio che ordina dei nostri desideri e regola i nostri sentimenti, se al tempo stesso cooperiamo con la manipolazione degli uni e degli altri.

7. Desiderio e speranza cristiana

La virtù della speranza corrisponde al desiderio di felicità che Dio ha posto nel nostro cuore quando ci ha creati. Questa speranza dilata il cuore nell’attesa della beatitudine eterna. S. Agostino lo esprime così: Tutta la vita di un buon cristiano è un santo desiderio. Ma quello che desideri, non lo vedi; tuttavia, desiderando, dilati la tua anima così che possa riempirsi quando giungerà il tempo della visione (In Io.ep. tr. IV: 6).

Questo desiderio e questa speranza aperti verso l’escatologia, devono costituire il dinamismo più potente per lavorare con perseveranza e fedeltà. La speranza non è evasione dal mondo e proiezione verso il cielo, è piuttosto: un impegno nel tempo e un fondamento che poggia sulle basi eterne del cielo. La Chiesa cammina sulla terra e lavora in essa come un cittadino che contempla il cielo. In definitiva: Noi infatti ci affatichiamo e combattiamo perché abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente(1Tim 4,10).

La presenza di Gesù Cristo risorto al cuore della Chiesa e del mondo è la fonte della nostra speranza. Questa presenza ci spinge a desiderare, anche gemendo, la manifestazione gloriosa del Signore e a lavorare di buona Iena per un mondo migliore.

Non c’è dubbio che una delle caratteristiche della vita monastica è appunto la sua apertura escatologica e il suo realismo terreno, fondato sul desiderio e sulla speranza. La storia secolare del monachesimo attesta questa duplice realtà: il desiderio di Dio e l’anelito del cielo, radicali in realizzazioni culturali significative e creative.

Alcune delle nostre comunità nel mondo nord-occidentale sono oggi provate nella loro speranza. Il progressivo invecchiamento, la mancanza di vocazioni, la diminuzione dei membri, la povertà di persone competenti e l’incertezza del futuro sono, certamente, una prova difficile da attraversare. Ma costituiscono anche un’opportunità e un’occasione. L’opportunità di vivere una vita monastica trasparente al vangelo, spoglia di aderenze ormai prive di significato, libera ed agile nel suo ritmo quotidiano, a dimensioni domestiche, come di una famiglia, nell’economia e negli edifici, centrata essenzialmente sulla ricerca e l’incontro con il Signore nella comunione e nella carità.

Forse, perché questo sia possibile, non è necessario cercare di conformarsi [a un certo stile] con toppe e rammendi, bisogna desiderare una vita monastica nuova, in un nuovo cielo e in una terra nuova, dove un uomo e una donna nuova possano nascere di nuovo. Bisogna scegliere ciò che è più impossibile, più difficile, più utopistico. Bisogna saper dire: «si, ma non ancora». Bisogna diventare generatori e generatrici di speranza, testimoniando che la lupa allatterà degli agnellini, che la guerra sarà soltanto un termine da cercare in dizionari sorpassati, che le armi saranno pezzi da museo, che la parola data sarà più valida di mille documenti di fronte a notaio pubblico, che tutti abbandoneranno il potere per cominciare a servire, che i sordi comporranno sinfonie, che tutte le città saranno pavimentate da verdi giardini, che i deserti saranno popolati della presenza divina e che i monaci e le monache saranno fermento di comunione là dove ci sono ancora vestigi di discordia.

Osiamo pensare, sempre nel clima dell’utopia, che una vita monastica così rinnovata potrebbe risultare attraente per i giovani di oggi che, come quelli di ieri, cercano Dio. E, con maggiore sicurezza, possiamo affermare che questa vita monastica sarà un mezzo favorevole per comunicare il carisma dei nostri Padri alle nuove generazioni.

Ad ogni modo, anche se non succederà nulla di quanto abbiamo detto, se nonostante i nostri desideri resteremo soli e di fronte alla morte, possiamo credere che tutti ci ricorderanno con gratitudine e nessuno dimenticherà che siamo stati, in questa vita, dei pellegrini della speranza, che abbiamo saputo cantare al cielo mentre costruivamo la comunità monastica terrestre.

Il nostro pellegrinare monastico si alimenta della «preghiera del desiderio», che ci permette di perseverare nel deserto e nella notte. Questa semplice vita orante è un grido di speranza in un mondo che cerca di dare un senso alla sua esistenza. Voglia Dio che tutti noi possiamo elevare lo sguardo ed unire le nostre voci cantando:

«O vero meriggio, pienezza di calore e di luce, dimora del sole, sterminio delle ombre, che prosciughi le lagune ed espelli le impurità! O solstizio perenne, quando il giorno mai più tramonterà! O luce meridiana, o temperatura primaverile, o bellezza estiva, o abbondanza autunnale, riposo e festa dell’inverno!» (San Bernardo, SC 33,6).

1) Conferenza ai Capitoli Generali, ottobre 2005.
Domenica, 10 Giugno 2007 19:59

La gola (Luciano Manicardi)

di Luciano Manicardi

 

Il vizio cosiddetto della “gola” dovrebbe piuttosto essere chiamato “voracità” o, secondo il termine greco gastrimarghìa con cui lo definisce Evagrio, “follia del ventre”. Un altro termine utilizzato dai Padri è laimarghìa, “follia della gola” e indica piuttosto la “golosità”. Secondo Doroteo di Gaza la differenza tra i due atteggiamenti consiste nel fatto che l’uno riguarda la quantità di cibo, l’altro la sua qualità: «A volte si è tentati sulla qualità del cibo: uno, ad esempio, non vuole necessariamente mangiare molto, ma desidera cibi delicati. Costui, quando mangia un cibo che gli piace, è talmente dominato dal piacere che prova, che lo tiene a lungo in bocca, masticandolo a lungo e senza avere il coraggio di ingoiarlo per il piacere che ne prova. E questo si chiama golosità, che in greco si dice laimarghìa. Un altro è tentato sulla quantità del cibo, non cerca cibi buoni, non gli importa che siano delicati, desidera soltanto mangiare; di qualsiasi cibo si tratti, non desidera altro che riempirsi il ventre. E questa si chiama voracità, che in greco si dice gastrimarghìa» (Scritti e insegnamenti spirituali 15,161).

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