Ecumene

Domenica, 28 Ottobre 2007 20:34

Spiritualità e liturgia, Oriente e Occidente: nel tempo, nell'eternità (Tomàs Spidlìk)

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Spiritualità e liturgia, Oriente e Occidente:
nel tempo, nell'eternità

di Tomàs Spidlìk







Durante il concilio Vaticano II, un osservatore venuto dall’Oriente fu accompagnato per Roma da un esperto occidentale, per fare la conoscenza delle opere pastorali. È naturale che in tali occasioni si sia tentati di vantarsi, almeno modestamente. Venne quindi un’ugualmente modesta reazione dall’altra parte: «Anche voi aspettate la venuta di Gesù Cristo, o volete anticipatamente fare tutto già qui a Roma?».

In modo meno grazioso, ma come una seria obiezione, sentiamo lo stesso rimprovero dai teologi orientali: i latini non pregano «maranatha», «Vieni Signore Gesù» (Ap 22,20), ma temono il dies irae, calamitatis et miseriae. Pur ammettendo la serietà della questione, dobbiamo tuttavia fin dall’inizio mettere in guardia che la sua formulazione non è tanto semplice. Sia in Occidente sia in Oriente si manifestano diverse tendenze contraddittorie.l

Le diverse posizioni escatologiche

Assai vicini alla posizione orientale sembrano i protestanti che si rifanno a Karl Barth. Il primato nella vita spirituale spetta alla fede. Essa si esercita nel tempo e ci prepara alle realtà sperate, che però rimangono trascendenti, al di là del tempo. Il regno escatologico non si costruisce nel presente: «In questo tempo qua, cioè nella successione degli avvenimenti, in ciò che chiamiamo storia, la Chiesa non ha niente da aspettare».2 In tal senso, poteva scrivere un altro protestante: «Non vi è un progresso nel corso della storia né dal punto di vista morale, né dal punto di vista sociale, né dal punto di vista spirituale. Esistono, certamente, progressi tecnici, ma è soltanto in questo dominio che esistono dei miglioramenti. In tutti gli altri settori dell’attività umana vi sono dei cambiamenti, dei passi in avanti (nel senso di un’evoluzione), ma nessun miglioramento nel vero senso».3

È naturale che anche fra i protestanti si siano levate varie voci contro una posizione così radicale. Lo testimoniano le discussioni che ci furono durante la seconda assemblea del Consiglio ecumenico delle Chiese a Evanston (USA 1954; ndr). Parecchi giudicarono il precedente atteggiamento troppo pessimistico, perché sembrava non tener conto «dell’opera attuale dello Spirito Santo nelle Chiese e nel mondo» e non vedere i concreti segni visibili della nostra speranza già attorno a noi.4

A questa tendenza dei protestanti, che sosteneva una rottura fra la vita presente e quella futura, già a prima vista si opponeva l’insegnamento cattolico sui «meriti», cioè sulla dipendenza della vita futura dalla condotta terrena. Eppure, anche fra i cattolici, c’era una corrente, chiamata «teologia escatologica», opposta alla «teologia dell’incarnazione».5

Nello spirito della teologia escatologica di L. Bouyer,6 la vita spirituale dev’essere tutta concentrata sulla venuta gloriosa di Cristo negli ultimi giorni del mondo. Bisogna prestare attenzione alla condanna del mondo e alla vittoria sopra il male per mezzo della croce. Questo è stato lo scopo dell’incarnazione di Cristo, e questo dev’essere quindi anche lo scopo principale della vita cristiana di ogni giorno, piuttosto che sognare una conquista del mondo presente.

Teologi rinomati come G. Thils, D. Dubarle e molti altri professano al contrario la teologia dell’incarnazione nel senso seguente: il male esiste ancora nel mondo, ma è già vinto; la croce di Cristo è inseparabile dalla risurrezione ed è la vista della risurrezione che deve condurre i nostri sforzi positivi per salvare la vita del mondo e tutti i suoi valori. Era la tendenza appoggiata fortemente da Teilhard de Chardin.

Degli orientali ortodossi citiamo, per il momento, soltanto ciò che viene presentato come tipicamente caratteristico per la spiritualità russa.7 A. von Harnack considera la Chiesa russa come l’esempio di una religione dell’aldilà, che «tocca appena terra con i piedi» e vuole gioire della «pregustazione della vita celeste».8 Soprattutto l’ala estrema del raskol, i cristiani senza pope, voleva rendere il popolo libero, senza impedimenti, tutto rivolto ai fini ultimi.9 A causa di questo, essi hanno manifestato una resistenza eccezionale alla sofferenza.

Una lunga serie di motivi ha contribuito a formare questa mentalità escatologica. N. Berdjaev propone i suoi: «Nella vita dei popoli, in generale, ci sono due miti che possono diventare dinamici: il mito delle origini e il mito della fine. Presso i russi ha dominato il secondo: il mito escatologico». Il XIX secolo è esemplare a questo proposito. Vi ritroviamo una ricerca appassionata del progresso, della rivoluzione mondiale, del socialismo (un escatologismo profano) e, allo stesso tempo, una coscienza profondamente acuta della vanità, della malvagità, della meschinità che questo progresso, questa civiltà e questa rivoluzione danno.10

Un’altra ragione, proposta questa volta da S. Bulgakov, è il carattere storico del pensiero russo, per il quale lo scopo della storia è di superare la storia e riflettere il trascendente.11 La terza ragione può essere compresa a partire dall’atteggiamento verso la verità. Se la verità è sentita come viva, allora la maniera della sua conoscenza sarà l’incontro con una persona, la persona di Cristo, la sola verità in pienezza. «La visione faccia a faccia – scrive V. Lossky – è una comunione per così dire esistenziale con Cristo, in cui ciascuno trova la pienezza, conoscendo Dio personalmente ed essendo personalmente conosciuto da Dio».12

La prima sorgente di tali opposizioni

Osservando la varietà di questi diversi escatologismi, ci chiediamo come si possa trovare un giusto equilibrio, una sintesi coerente. Ma è davvero necessario cercarla? Sarà forse meglio ammettere con V. Solov’ëv che tutte queste tendenze provengono da un falso presupposto: la divisione in due mondi, che non è cristiana anche se può sembrarlo. È un’affermazione insolita, coraggiosa. Ma mi viene in mente di comparare, in questo contesto, Solov’ëv con il grande filosofo ebreo Filone di Alessandria. Questi, studiando le brillanti riflessioni dei filosofi antichi su Dio, concluse che essi sono tutti «atei», perché non conoscono il Theos della Bibbia. Fu all’inizio della nostra era. E oggi?

Il nostro Credo cristiano comincia con la giusta professione: «Credo in un solo Dio Padre, creatore del cielo e della terra». E lo stesso simbolo di fede termina con un’altra professione: «Credo nella vita eterna». Purtroppo, l’antico errore si ripete qui: i suoi interpreti non avvertono a sufficienza che il senso cristiano della vita eterna è essenzialmente diverso dalle attese escatologiche predicate altrove. Da una tale confusione come possiamo aspettare un’escatologia autentica? Proviamo quindi a seguire la riflessione di Solov’ëv, come è proposta nel suo opuscolo Fondamenti spirituali della vita.13

La risurrezione, problema personale di Solov’ëv

Per seguire più facilmente le sue riflessioni, dividiamole schematicamente secondo il loro contenuto.

1. Il male domina nel mondo. Il pensatore lo ha scoperto progressivamente nella sua vita. Proveniva da una famiglia devota, ma frequentando l’università ha perso la fede perché vi si insegnavano le teorie darwinistiche. Dice scherzando: le bestie antidiluviane insegnate dalla teoria evoluzionista hanno avuto la meglio sul «catechismo antidiluviano» della mia nonna. Constatiamo che il male si manifesta dovunque, è universale. Un sasso respinge un altro sasso, un animale mangia un altro animale, e tra gli uomini uno trova il suo posto nella vita grazie alla morte degli altri. Aiutano poco le prediche sulla carità. La vita esige il combattimento e i combattimenti causano la morte, considerata come «unica vera giustizia».

2. L’esistenza del bene. Dopo la prima constatazione pessimistica, facciamo però anche una diversa esperienza: se ci fosse solo il male, il mondo non esisterebbe. Dunque, ci deve essere anche il bene. Come si manifesta? Prima di Darwin, che insegnava la lotta per la vita, il grande naturalista svedese Linneo aveva scoperto nella natura ciò che chiama entelecheia. Egli aveva osservato che uno si offre per far vivere un altro: vediamo, ad esempio, che le foglie di un albero cadono perché il frutto ha bisogno di sole, che la mano protegge l’occhio, che la mamma si offre per il bambino... Queste offerte generose salvano la vita nella natura.

Da ciò si è formato il principio della condotta morale umana: l’egoismo è male, il bene è sacrificarsi per gli altri. In questo senso educhiamo già i bambini. Quando uno muore per la patria gli si fa un monumento: «Qui un soldato è morto per la patria», «Qui un medico è morto curando i malati» ecc. Ma nonostante i grandi elogi di tali atti eroici sorgono anche dubbi: quanti sacrifici si fanno per le istituzioni pubbliche, ma gli stati sono forse diventati migliori? Assomigliano alla divinità Moloch che mangiava i propri figli. Un uomo onesto si chiede: ho il diritto di sacrificare un altro per vivere bene, onorare i soldati che sono morti in guerra perché io possa godere della pace? Dostoevskij ne I fratelli Karamazov fa dire a Ivan: «Io rifiuterei di andare in paradiso se costasse una sola lacrima di un povero bambino». Perché esigere sacrifici degli altri per vivere? La conclusione che ne segue è che la morale laica non è capace di risolvere il problema del male.

3. La soluzione religiosa ci viene in aiuto. Tutte le religioni concordano in questa fede fondamentale: nella vita presente non esiste la giustizia, ma in futuro, dopo la morte, entreremo nella vita eterna, nella quale si troverà la giusta ricompensa per ogni bene. Si direbbe che questa consolazione religiosa possa venire accettata con soddisfazione da tutti gli uomini. Ma succede una cosa strana: parecchi la disprezzano o cercano di ignorarla, soprattutto più fra gli uomini che fra le donne. Forse la ragione è anche psicologica. La donna per secoli è stata abituata a faticare per ciò che passa: preparare un cibo che è subito consumato, pulire cose che saranno di nuovo sporcate, e così via. L’uomo invece, quando fa una cosa, pensa: «Voglio che questo rimanga». Le promesse religiose non attirano la maggioranza della gente. Ed è giusto così: la vita presente è mia, perché sacrificarla per un’altra?

4. La novità cristiana. Riflettendo su questi problemi, Solov’ëv cadde di nuovo nei dubbi. Cercò di rendersi conto di che cosa si possa trovare di nuovo nel cristianesimo. Osserviamo la vita di Gesù Cristo stesso. Egli ha offerto la sua vita per gli altri, è quindi un grande eroe dell’umanità; è passato da questa vita e ora siede alla destra del Padre, e lo stesso promette a coloro che osservano i suoi comandamenti. Si può credere che vi sia un elemento davvero nuovo rispetto alle altre religioni? Può darsi che l’idea di paradiso che ci forniscono gli autori cristiani sia più nobile delle immaginazioni degli altri, ma la sostanza rimane sempre la stessa.

Si tratta di obiezioni così gravi che Solov’ëv stesso non sapeva come risolverle. Cominciò a studiare le religioni, era in pericolo di perdere di nuovo la fede pensando: perché siamo così orgogliosi noi cristiani, se lo scopo della nostra religione è uguale a quello che propongono gli altri? Ma alla fine trovò la risposta giusta: si convertì proprio come il Faust di Goethe, quando suonavano le campane di Pasqua. Il che significa: Cristo dopo la morte non è entrato in un’altra vita, ma è ritornato nella stessa sua vita, ha divinizzato la vita che aveva prima. Questo fatto è una totale novità rispetto a tutte le religioni. Se Cristo non fosse risorto dai morti, la nostra religione sarebbe vana, dice san Paolo (cf. Gal 2,20).

Concludendo, possiamo dire che la fede nella risurrezione è il messaggio decisivo per gli uomini che vivono nel mondo. È la professione di una sola vita, che è eterna. Ciò però si armonizza poco con le prediche che sentiamo nelle nostre chiese, che ci vogliono commuovere con le bellezze del cielo riservate alle anime separate dal corpo. Pur credendo nella risurrezione dei corpi, non riescono a dirci che cosa questo significhi per la vita presente. Come allora comprenderla? Elenchiamo le diverse opinioni.

La vita nel tempo infinito?

La visione beata delle anime separate dal corpo nel cielo è stata oggetto di molte discussioni. Ma è più facile immaginarsela della vita dell’uomo risorto nel corpo. Essa, come pare, suppone un dinamismo evolutivo, che si realizza nel tempo. Perciò l’immaginazione popolare si rappresenta l’eternità come un tempo infinitamente lungo, un tempo senza timori che si possa fermare, che tutto passi. Ciò deve consolare i beati e, al contrario, incutere un salutare timore a quelli che sono sul cammino della perdizione.

Non solo per la gente del popolo, ma anche per i teologi è difficile conciliare il concetto di un inferno «infinitamente lungo» con l’infinita misericordia di Dio. Ma anche il paradiso, se si vuole immaginare in questa maniera, non soddisfa. Secondo una leggenda proveniente dalla Moravia, un monaco si poneva la domanda: come mai i santi nel paradiso non si annoiano di cantare «Santo, santo...» per tutta l’eternità? Cadde durante una passeggiata nel bosco, si addormentò per cent’anni, ma sognò che tutto questo sarebbe durato solo il tempo di un «Santo, santo». Così avrebbe compreso che per Dio «cent’anni sono come un momento» (cf. Sal 89,4). Va da sé che una soluzione così illusoria non può soddisfare.

L’eternità opposta al tempo

Il pensiero primitivo non crede che il tempo come tale possa cessare. È considerato di sua natura infinito. Perciò lo si è divinizzato come «dio Chronos», che mangia i suoi figli, cioè distrugge tutto ciò che nel tempo è nato. Il simbolo della vita allora è una ruota, che «gira e rigira» (Qo 1,6), o un serpente che si morde la coda. Fu la mitologia greca a insinuare la vittoria su questa tirannia della durata eterna. Zeus, destinato a diventare dio supremo, uccise il padre Chronos e fondò il regno olimpico. È un’allusione vaga a ciò che la filosofia greca doveva esprimere in concetti. Qui Eraclito pianse che «tutto passa e niente rimane» (panta rei). Al contrario, Parmenide dichiarò che ogni movimento è illusione e che la vera realtà è immutabile, quindi eterna.

Anche la filosofia greca classica ha definito il tempo per mezzo del movimento (numerus motus secundum prius et posterius), ma lo stesso Platone identificò la vera realtà con le idee immutabili, e quindi eterne. Dato che fra i due modi di vivere non c’è conciliazione, la porta che conduce l’uomo dalla vita di questo mondo all’eternita è la morte. Se Platone definì la vera filosofia «studio della morte», la morte stessa sarebbe un bene. Ciò è evidentemente anti-cristiano.

Se si trasferiscono queste considerazioni nell’antropologia cristiana, anche qui il passaggio alla vita eterna per mezzo della morte apparirà come cessazione di ogni movimento. Lo illustra un’icona del monte Sinai: la scala del paradiso. I monaci vi salgono. Sui gradini inferiori i monaci sono assai movimentati, più sono in alto più sono tranquilli, e quello che sta sul gradino più alto è del tutto immobile.

Questa concezione aiuta a rispondere alle obiezioni formulate precedentemente, evita la difficoltà con la lunga durata dell’inferno o le gioie del paradiso, non vi è pensabile per i dannati una «conversione» dopo la morte né la possibilità di peccare per i beati; la felicità eterna svuota ogni desiderio che spingerebbe a cambiare (satiato desiderio cessat appetitus). Il concetto dell’eternità in questo senso sembra solido. Nondimeno, sorge un dubbio: nel caso di un uomo vivente con il corpo, destinato a risorgere, questa immutabilità può essere ancora chiamata «vita»? Non sarebbe piuttosto una specie di museo per le statue?

Soluzione cristologica

Non ci si può quindi aspettare che i ragionamenti umani risolvano il problema proposto. Ma non offrono una risposta adatta neanche le religioni. Credono nella vita eterna, ma il confine della morte separa radicalmente questa dalla vita presente. Nel cristianesimo, al contrario, incontriamo un’essenziale novità. Cristo, nato sotto il regno dell’imperatore Augusto e morto sotto Ponzio Pilato, visse come uomo una vita collocata nello spazio e sviluppatasi nel dinamismo del tempo, ma inseparabilmente unita al Verbo di Dio.

Tutta la sua personalità con tutte le sue azioni partecipò all’eternità di Dio. La sua carne umana è divina, divina ed eterna è quindi anche la sua natività, i misteri della sua vita terrena, la morte, la risurrezione. Nella sua persona, il tempo e l’eternità si uniscono. Gesù «ha vissuto» con i discepoli, ma anche ha promesso «Io sono con voi» (Mt 28,20). San Paolo è sicuro che egli vive in lui (Gal 2,20), non solo secondo la sua divinità, ma come Cristo, Dio-Uomo.

La storia di Israele cominciò con la scala di Giacobbe, la discesa degli angeli (cf. Gen 28). In tutta la storia sacra, Dio scende fra il suo popolo e negli ultimi tempi scese in Gesù Cristo. Dunque, Gesù Cristo è colui nel quale la vita divina – che è eterna – scende nella vita umana – che è nel tempo –. La Chiesa deve fare ciò che è scritto: «Fate questo in memoria di me», nel suo ricordo, perché il ricordo fa rivivere ciò che è passato. Già da un punto di vista psicologico, la memoria rende la cosa ricordata in qualche modo presente. Gli stoici dicevano che l’uomo è ciò che ricorda, e l’amnesia, la perdita della memoria, significa la perdita della persona. Ricordare il passato, fare del passato un presente, come quelli che stanno morendo e dicono di vedere tutta la loro vita davanti agli occhi, questo è umano.

Nella nostra messa questo ricordo è sacramentale, il che significa che nel ricordo divino quello che Dio pensa esiste. Dunque, nella messa, tutti i misteri di Cristo sono qui, sono eterni, non li vediamo ancora ma sono eterni. E cosa ricordiamo? Non solo Gesù Cristo, ma tutto il suo corpo mistico: quindi ricordiamo i martiri, i santi, i confessori – nella messa orientale si ricordano anche i concili –, e tutto passa nell’eternità. I maroniti si chiedono: quando è avvenuta la risurrezione? Rispondono: nell’ora terza nel pomeriggio del Venerdì santo. E quando si è rivelata? Rispondono: la domenica mattina. La domenica è la rivelazione di ciò che esiste, noi viviamo il Sabato santo, tutto è già presente, tutto è qui, soltanto che non lo vediamo ancora, solo lo crediamo.

Presenza anamnetica nella liturgia

La presenza di Cristo nella Chiesa è universale, ma in modo particolare si manifesta nell’anamnesi liturgica. Ogni ricordo rende presente in modo psicologico il passato. Il ricordo liturgico è sacramentale, possiede una forza divino-umana che rende il passato realmente presente. Perciò S. Bulgakov parla del «realismo dei riti» e B. Bobrinskoy del loro «carattere eucaristico», in modo che nelle Chiese Cristo veramente nasce a Natale e durante la Pasqua veramente risorge.14

In questo contesto è inserita anche la vita di noi tutti singoli. Lo illustra un passaggio tratto dalla vita di una santa suora. Essa curava una malata che aveva il cancro nel volto, tutti la evitavano. La suora le disse: «Pregate». La malata rispose: «Se Dio esistesse, io non sarei qui». Però dopo un mese quella stessa malata disse: «Dio deve esistere». «E come siete arrivata a questa conclusione?», chiese la suora. «Quel bene che fate per me non può andare perduto».

Allora il migliore termine con il quale possiamo esprimere la nostra speranza è simbolico: l’eterna liturgia. La verità fondamentale del cristianesimo è il ritorno a tutta la vita. Dunque, niente di buono può essere perduto e deve acquistare il valore eterno. Questa è l’eternità che ci consola, l’eternità della persona e del bene che ha fatto.

Ciò che abbiamo detto si può leggere simbolicamente espresso nel film Nostalgia di A. Tarkovskij. Qual è il contenuto? Un profugo da un paese totalitario viene in Italia, una metafora di un viaggio dalla terra in paradiso. È incantato, quante belle cose da vedere! Ma dopo un po’ sbadiglia e dice: «Come mi annoia vedere sempre belle cose!». Se la felicità eterna fosse soltanto un lungo tempo, non si risolverebbe niente. Allora il nostro eroe va in giro e vede sul Campidoglio un fanatico che si versa addosso della benzina e si accende a suon di musica. Muore per qualche ideale, per una cosa eterna, ciò che i russi chiamano la «falsa eternità» delle idee astratte. Per il fanatico del film, morire per un ideale vale l’eternità. La gente lo attornia, ci sono i carabinieri che guardano sbalorditi e c’è un cane che abbaia terribilmente. Il cane è un simbolo della vita, e il suo abbaiare solleva la domanda: si può dare la vita per una cosa astratta? La vita è concreta, perciò anche l’eroe del film rimane colpito dall’abbaiare del cane.

Allora che cosa deve fare? Il profugo va ancora in giro e incontra una processione di donne che portano la statua della Madonna e cantano: sono simbolo del cammino verso l’eternità. Egli chiede a una di queste vecchiette: «Che cosa si può fare qui?». E quella: «Mettiti in ginocchio». Come a dire: con la testa non ci arriverai, è un mistero che Dio deve rivelarti. Questo mistero infatti glielo mostra un «sacro pazzo», un jurodivyj, come se ne conoscono tanti nella spiritualità russa. Gli offre una piccola candela – la fede – e con questa fede il profugo ripassa tutta la sua vita. Il film si conclude con la scena del protagonista che muore in una chiesa aperta ai quattro lati e vede come tutto ciò che ha vissuto sta ritornando, dalla gioventù fino al presente. Si vive «l’eterna memoria», l’anamnesi liturgica di tutto ciò che si è vissuto in corrispondenza con la vocazione particolare di ognuno che parte della vocazione cosmica umana.15

Il sentimento religioso innato nel cuore dell’uomo ha condotto i popoli, secondo Solov’ëv, ad attribuire agli dèi il governo del mondo, e così i cesari romani, che credevano di governare tutta la terra abitata (oikoumene), pretendevano per sé gli onori divini. Ma ogni uomo in Cristo è re e signore della terra. Perciò deve chiedersi: quale posto l’azione divina riserva all’uomo nel governo della natura inferiore?

La responsabilità dell’uomo in rapporto alla creazione è espressa da san Giovanni Crisostomo in termini fortemente semitici: «Il monarca è necessario ai sudditi e i sudditi al monarca, come la testa ai piedi».16 Dio, che è artefice e artigiano del mondo, nel paradiso comandò ad Adamo di coltivare la terra. Questa vocazione, sviluppata dai padri della Chiesa, è stata specificata sotto diversi aspetti particolari dai sociologi russi. Secondo P. Florenskij, ad esempio, l’ideale dell’ascesi cristiana non è il disprezzo del mondo, bensì la sua gioiosa accettazione, che mira a farlo diventare più ricco elevandolo a un livello superiore, fino alla pienezza di una vita trasfigurata.17

Concreatore del cosmo

Il primo oggetto della creatività umana è la propria persona e la sua crescita. Ma, insieme con la crescita spirituale dell’anima, cresce anche lo spazio in cui l’uomo vive, che è come un prolungamento del suo corpo e che gli è dato da Dio per realizzarsi. Lo osserviamo anche dal punto di vista naturale nella creatività tecnica tanto sviluppata attraverso i secoli. Nel suo libro La filosofia dell’opera comune, Fedorov si oppone alla filosofia vista come «passiva contemplazione del mondo», e propone una «filosofia dell’azione». La sua tesi principale è la seguente: l’idea non è soggettiva, né solamente oggettiva, essa è proiettiva, cioè conoscere il mondo è dominarlo, trasformarlo, creare.18 Si trovano echi del suo entusiasmo in Solov’ëv, Berdjaev e altri.19

Ci domandiamo quale sia la misura di questa creatività umana. Il desiderio è enorme, ma d’altra parte sentiamo la nostra impotenza e debolezza davanti alle forze cosmiche. Allora la nostra attività nel cosmo sembra essere limitata a modesti adattamenti. Il mondo sembra come una casa prestataci per la nostra breve dimora sulla terra, nella quale possiamo permetterci piccoli aggiustamenti.

I predicatori quaresimali ammoniscono di non occuparci troppo del «diversivo provvisorio» (caupona huius mundi quae ruit) e di pensare piuttosto al momento in cui dovremo abbandonare tutto. È senza dubbio una meditazione utile per guarire la mente invasa da preoccupazioni vane e inutili. Tuttavia, esprime solo un aspetto parziale. Una tale concezione minimalistica non può essere applicata al «primogenito degli uomini», a Cristo, per mezzo del quale è stato creato tutto ciò che è nel mondo. E se l’uomo unisce la sua attività con Cristo, anche il suo effetto nel cosmo sarà inaspettatamente superiore alla sua naturale debolezza umana. Perciò i padri, nella loro polemica contro il fatalismo, insistono sulla responsabilità dell’uomo per la sorte del mondo intero. Al loro seguito Solov’ëv20 parla quasi al modo degli ecologisti moderni, affermando che la «cosmologia spirituale» deve precedere il tema della «giustizia sociale».21

Questa cooperazione mostra vari aspetti. Enumeriamone i principali, già indicati dai padri antichi: purificare e santificare il mondo; i russi amano aggiungere: cristificare e vivificare il mondo, condurlo alla bellezza divinizzata.

Purificare e santificare il mondo

Secondo la terminologia dei padri, la responsabilità verso il cosmo consiste nella sua purificazione22 dalle forze maligne.23 A causa della malvagità degli uomini, la terra è maledetta.24 «Essa sarà di nuovo incorruttibile grazie a noi», dice Crisostomo.25 I russi, a causa della loro relazione personale con la terra, hanno una sorta di complesso di colpa verso essa.26 Esiste dunque un «peccato cosmico» nel quale siamo implicati.27

Proprio perché il peccato ci riguarda, possiamo purificare la terra. Bulgakov parla di liberare la terra dalla sua forza «magica». Nei suoi rapporti con il mondo, «l’uomo è caduto nella tentazione del "magico", sperando di raggiungere il possesso del mondo attraverso mezzi esterni, non spirituali». Il mondo resiste agli sforzi dell’uomo per possederlo, e la mancanza di armonia tra l’uomo e il mondo conduce alla necessità del lavoro e dell’attività economica che ha il «carattere della magia grigia», «riunendo in se stessa in un intreccio inestricabile la magia nera e bianca, le potenze della luce e delle tenebre, dell’essere e del non essere».28 Il testo esprime una profonda osservazione. Nelle superstizioni di carattere «magico» si manifesta la tendenza ad attribuire alla materia le forze che sono proprie della persona. Il peccato «spersonalizza» le nostre relazioni con il mondo. Senza rendercene troppo conto, aspettiamo dagli oggetti del mondo gli effetti che si possono ottenere solo dalla relazione personale con Dio. Così si arriva a un paradosso: gli scienziati atei combattono la vera religione come superstizione e in realtà talvolta cadono in una superstizione vera e propria.

L’aspetto positivo della purificazione è la santificazione.29 L’ascesi cristiana vuole che il mondo sia più ricco attraverso un’elevazione verso un livello superiore di vita trasfigurata, «teofanica».30 L’espressione iconografica di questo pensiero è l’immagine della pentecoste, con la figura del «re cosmo» che, in prigione, gioisce per la venuta dello Spirito Santo sugli apostoli. Secondo i Versi spirituali dei cantici popolari russi, il mondo desidera tornare alla propria natura spirituale, perché la sua origine è la forza dello Spirito Santo.31 Solov’ëv chiama questa trasfigurazione del cosmo «teurgica». Nelle Vite dei santi, il mondo si manifesta allo stato paradisiaco. Il ritorno alla sua natura spirituale è evocato attraverso l’obbedienza degli animali selvaggi agli uomini santi. Numerosi esempi si trovano nei racconti biografici dei padri e, tra i russi, Serafino di Sarov, al quale un orso selvaggio portava il miele, può essere preso come esempio.

L’aspetto cristologico32 della cosmologia dei padri sviluppava la realtà di Cristo come Logos-Parola, come legge universale di tutte le creature. Solov’ëv riprende lo stesso pensiero in modo dinamico, unendolo con il moderno evoluzionismo. È arrivato a mostrare magistralmente come tutto il processo cosmico, tutta l’evoluzione della natura, dai primi elementi alla coscienza umana, il lungo processo della storia universale, tutto tenda verso il Dio-Uomo, verso il Cristo incarnato e il Cristo cosmico.33

In questo contesto, si possono distinguere quattro grandi fasi dell’evoluzione cosmica: 1) dalla prima materia alla prima cellula viva; 2) dalla prima vita all’homo sapiens; 3) dal primo uomo all’Uomo-Dio, Cristo incarnato in un preciso momento storico; 4) dal Cristo storico al Cristo universale. Dato che noi viviamo ora nella quarta fase, la nostra cooperazione riprende la funzione della madre di Dio, di Maria. Infatti, come ha detto già Origene, ogni anima cristiana deve far incarnare Cristo nel mondo in cui vive.34

Vivificare il cosmo35

Cristo è la legge del mondo e Cristo è la vita. Tutto ciò che partecipa a lui è vivificato. Lo sviluppo, talvolta assai suggestivo, di questa idea si può dire tipicamente russo. I russi considerano il cosmo come un organismo vivo.36 In modo più conforme alla tradizione patristica lo esprime la seguente considerazione. La santità è la vita. Se l’uomo santifica il mondo, lo «vivifica» collaborando con lo Spirito che è zoopoion, vivificante. Purtroppo la società tecnica fa dimenticare questa vocazione dell’uomo. Le scienze tecniche pongono la macchina tra l’uomo e la natura e spezzano il legame interiore fra l’uomo e il cosmo.

Berdjaev37 afferma questo e invita i cristiani a unirsi all’opera comune, destinata a superare le forze cosmiche che producono la morte e a ristabilire la vita universale: «Se essi non creano un regno di lavoro cristianamente spiritualizzato, se non superano il dualismo della ragione teorica e della ragione pratica, del lavoro intellettuale e del lavoro fisico, non ci sarà affatto la vita cristiana».

Invece di fare conclusioni di ciò su cui abbiamo ragionato in forma teorica, preferisco illustrarle con la riflessione di un altro russo. Il grande poeta e pensatore russo V. Ivanov ha finito la sua vita ricca di contatti culturali a Roma, insegnando e scrivendo. I suoi occhi restavano sempre aperti alle bellezze dell’arte e proiettava in esse le sue meditazioni religiose. In questo senso egli scoprì una relazione spirituale fra tre capolavori della pittura rinascimentale italiana: il Giudizio finale di Michelangelo nella Cappella sistina, la Trasfigurazione sul monte Tabor di Raffaello nei Musei vaticani e L’ultima cena di Leonardo da Vinci a Milano.

La statura di Cristo nell’affresco di Michelangelo esprime quest’attitudine: «Via, lontano da me, maledetti, voi tutti che operate il male!» (cf. Mt 25,41). È ciò che Ivanov chiama mistica «anarchica», di negazione. Non è proprio Cristo, ma l’anima di un giovane idealista, il quale, scoprendo il male del mondo, pensa di poterlo sconfiggere. Tale è anche la mistica buddhista, che cerca di distruggere in un nirvana tutto ciò che non è assoluto.

Dopo un periodo di giovinezza «anarchica», coloro che amano la bellezza giungono alla mistica «della speranza», espressa da Raffaello nella Trasfigurazione: è la visione del mondo futuro, spirituale, vissuta nella fuga sul monte per dimenticare i mali e le sofferenze presenti. Infine, l’ultimo grado dell’attitudine mistica si contempla nella Cena di Leonardo da Vinci: Gesù inclina la testa per dire «sì» a tutto ciò che viene dalla provvidenza del Padre, anche al tradimento di Giuda. Ma nello stesso tempo offre il pane di vita, istituisce l’eucaristia, sacramento di vita. Con ciò tutto è trasformato, ogni bellezza desiderata è già presente.

Ivanov conclude: «Noi vediamo qui la sofferenza del mondo, ma anche l’oro della coppa e, attraverso le finestre strette, penetra l’azzurro della sera. La bellezza di questa pace d’azzurro discende nel triclinio del sacrificio».38Beata pacis visio.

Note

l Cf. T. Spidlík, L’idea russa. Un’altra visione dell’uomo, Lipa, Roma 1995, 239ss.

2 K. Barth, Credo, Paris 1936, 154.

3 J. Ellul, «Sur le pessimisme chrétien», in Fois et vie (1954), 170.

4 Cf. The Evanston Report, London 1954, 70; EO 5/87ss.

5 J. Malevez, «Deux théologies catholiques de l’histoire», in Bijdragen 10(1949), 225-240.

6 «Christianisme et théologie», in La vie intellectuelle, t. 16, ottobre 1948, 6-38.

7 Spidlík, L’idea russa, 239ss.

8 Cf. E. Benz, Die Ostkirche im Lichte der protestantischen Geschichtsschreibung von der Reformation bis zur Gegenwart, München 1952, 253.

9 N. Berdjaev, L’idée russe, Paris 1969, 22; trad. it. L’idea russa: i problemi fondamentali del pensiero russo, Mursia, Milano 1992.

10 Ivi, 40.

11 S. Bulgakov, Agnec Bozij. O Bogocelovecestve, Paris 1933, 191ss.

12 V. Lossky, Vision de Dieu, Neuchatel 1962, 140.

13 V. Solov’ëv, Duchovnye osnovy iizni (1882-1884), Soéinenija III, Bruxelles 1966, trad. it. Fondamenti spirituali della vita, Roma, Lipa 1998.

14 Cf. T. Spidlík, La preghiera secondo la tradizione dell’Oriente cristiano, Lipa, Roma 2002, 142.

15 Spidlík, L’idea russa, 217ss.

16 Giovanni Crisostomo, In 1 ad Timotheum 4,2, PG 62,523.

17 Cf. N.O. Losskij, Histoire de la philosophie russe, Paris 1954, 193.

18 V Zen’kovskij, Istoria russkoj filosofii, II, Paris 1950, 137ss.

19 Spidlík, L’idea russa, 228ss.

20 Ivi, 225ss.

21 V. Solov’ëv, Ctenija o Bogocelovecestve, Socinenija III, 1966, 130.

22 Spidlík, L’idea russa, 225ss.

23 T. Spidlik, La spiritualité de l’Orient chrétien, Orientalia christiana, Roma 1978, 141.

24 Giovanni Crisostomo, In Gen., Hom. 27, 4, PG 53, 244.

25 Id., In Rom., Hom. 14, 5, PG 60, 530.

26 G. Fedotov, Stichy duchovnye, Paris 1935, 85ss.

27 S. Frank, Svet vo t’me, Paris 1949, 198.

28 S. Bulgakov, Agnec Bozij. O Bogocelovecestve, Paris 1933, 180ss.

29 Spidlík, L’idea russa, 226ss.

30 Losskij, Histoire de la philosophie russe, 193.

31 Fedotov, Stichy duchovnye, 25.

32 Spidlík, L’idea russa, 231ss.

33 Solov’ëv, Duchovnye osnovy iizni, Socinenija III, 365ss.

34 Cf. Origene, Fragm. in Mt 281, GCS 12, 126.

35 Spidlík, L’idea russa, 230ss.

36 Ivi, 221ss.

37 N. Berdjaev, L’homme et la machine, Paris 1933, 48.

38 V. Ivanov, Opere, vol. III, Bruxelles 1979, 86.

Letto 2378 volte Ultima modifica il Venerdì, 17 Giugno 2005 21:32
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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