Famiglia Giovani Anziani

Attenzione

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EDUCARE ALL’AMORE

Terza parte

(Educare...)...all'amore

Passo dopo passo dalla parola educare siamo giunti alla parola amore.

Noi speriamo che tutti i nostri lettori abbiano fatto, sebbene in modi diversi, l’esperienza di amare, e da quell'esperienza, se si tratta di amore autentico cioè di volere (il) bene ricordino che quando si ama davvero si desidera che l'amato sia sempre al meglio di sé, che esprima i suoi lati migliori, che sia in armonia con se stesso, con noi, con tutto il mondo. Per aiutare l'altro, cioè per educarlo, per farlo crescere forte, equilibrato e sicuro cerchiamo di dissipare i suoi pensieri negativi, gli sottolineiamo tutto ciò che di bello e di costruttivo c'è in lui: non diamo troppo peso ai suoi limiti che conosciamo certamente e non nascondiamo ad entrambi, ma che l'amore e il desiderio di star bene insieme ci fanno apparire meno pesanti!

L'azione educativa si dipana così in un rapporto di fiducia, di arricchimento reciproco, di serenità che pone la persona in uno stato di migliore ricettività dove ogni seme di educazione e di crescita interiore troverà buon terreno per portare molto frutto. Se per nostra fortuna abbiamo l'esperienza dì essere amati o di essere stati amati sappiamo bene quanto ci ha donato in fiducia e sicurezza la presenza di chi ci ama. Chiediamoci quale risultato hanno dato le parole lette sull'amore, parole detteci sull'amore, parole insegnateci sull'amore e d’altro canto quale effetto hanno prodotto in noi molti gesti autentici di amore! Oggi notiamo come sempre più le figure di forte ed autentica testimonianza lascino segni profondi nell'opinione pubblica e siano oggetto di rispetto e di considerazione. Spesso il loro messaggio non è stato trasmesso a parole, ma la testimonianza concreta della loro vita spesa nell’amore rispettoso del prossimo ha potuto più di molte teorie educative. Ecco perché sentiamo serenamente di poter affermare alla luce della nostra modesta esperienza che educare all’amore consiste prima di tutto amare autenticamente perché chi è amato sperimenta e apprende l’amore e a sua volta amerà con suoi carismi ed i suoi modi.

MARINELLA ed ENRICO GUALCHI

Segretari diocesani C.P.M.- Torino

(da Famiglia domani 2/99)

 

EDUCARE ALL’AMORE

Seconda parte

Educare...

Ci pare perciò utile innanzitutto analizzare i due vocaboli chiave dell’espressione "educare all'amore" per scoprirne il significato reale e confrontarlo con le interpretazioni a volte distorte che abbiamo costruito nella prassi quotidiana. Educare: questa parola è presente quasi esclusivamente nel linguaggio degli adulti e perlopiù a senso unico in direzione dei cosiddetti "sottoposti", siano essi figli, allievi. "catechizzandi" o simili; a volte l'oggetto dell'azione educatrice è rappresentato da persone che semplicemente non rientrano nei formali schemi di comportamento e perciò ritenute bisognose di interventi educativi che spesso vanno letti come limitativi o peggio coercitivi.

Non siamo forse caduti tutti almeno una volta nella tentazione di approfittare del nostro ruolo di educatori per proporre le nostre soluzioni, le nostre maniere, le nostre idee con la malcelata convinzione che fossero il meglio per i nostri giovani senza magari tenere conto della loro realtà? Se facciamo un passo in più arriviamo a dare alla parola educare una valenza di dono che comunque scende sempre dall'alto di chi ha già accumulato esperienza e conoscenza (l'educatore) verso chi è del tutto sprovvisto di risorse (l'educando). La maggior parte dei cosiddetti educatori è convinta che il soggetto da educare sia un contenitore vuoto in cui riversare concetti ed esperienze già filtrati e che gli permetteranno di camminare sicuro nella vita secondo i parametri e le valutazioni dell'educatore stesso. Leggiamo dunque dal vocabolario: Educare = dal latino Ex (fuori) - Ducere (trarre). Sorprendentemente l'etimologia della parola va al contrario del nostro convincimento: non si tratta di mettere dentro, bensì di tirare fuori qualcosa. Da dove? E da chi?

Il primo "dove" è il cuore dell'educando che, anche se a volte lo dimentichiamo, ha in sé tutti i doni che Dio gli ha riservato come creatura fatta a Sua immagine e somiglianza; doni che noi non abbiamo costituito ma che responsabilmente dobbiamo scoprire e rivelare alla persona che ci è stata affidata.

Poco alla volta il vero senso dell'educazione si delinea più impegnativo e più coinvolgente: non si tratta dunque di trasmettere in modo distaccato e scolastico un insieme di nozioni o anche di valori, ma di accogliere una creatura per conoscerla profondamente ed aiutarla a conoscersi e ad accogliersi a sua volta. Dunque il presupposto dell'educazione è l'accoglienza. Qui scopriamo il secondo "dove", e cioè il nostro cuore di educatori, e sottolineiamo cuore e non mente, raziocinio! Per tirare fuori il profondo di una persona nel senso detto di e-ducare dobbiamo prima capirla, cioè contenerla in noi, accoglierla com'è veramente perché cosi Dio la conosce e la ama. Per farle posto nel nostro cuore dovremo però tirare fuori e buttare via qualcosa che da troppo tempo vi giaceva inutile, qualche pregiudizio, qualche luogo comune, qualche immagine preconfezionata che si sovrappone all’immagine autentica dell'educando che dobbiamo invece raggiungere insieme. L'amore ci aiuterà nel compito educativo a volte più che scientifici programmi tecnicamente perfetti ma comunicati con freddezza!

MARINELLA ed ENRICO GUALCHI

Segretari diocesani C.P.M.- Torino

(da Famiglia domani 2/99)

 

EDUCARE ALL’AMORE

· Coniugare la parola "educazione" con la parola "amore" appare subito una provocazione e una sfida · Eppure esse si sostengono e si nutrono a vicenda, partendo da un presupposto comune: l’accoglienza dell’altro · Educare all’amore significa amare, perché l’amato possa sperimentare l’amore e viverlo come lui sa e vuole · Una revisione di vita sulla parola del Maestro: "Amatevi come io vi ho amato".

Prima parte

Coniugare la parola "educazione" con la parola "amore" appare subito una provocazione e una sfida · Eppure esse si sostengono e si nutrono a vicenda, partendo da un presupposto comune: l’accoglienza dell’altro · Educare all’amore significa amare, perché l’amato possa sperimentare l’amore e viverlo come lui sa e vuole · Una revisione di vita sulla parola del Maestro: "Amatevi come io vi ho amato".

Prima parte

Il titolo di questo numero della rivista è assai problematico e allo stesso tempo coinvolgente poiché racchiude in sé due concetti che in modi, in tempi e con esiti diversi interessano la vita di ognuno di noi lasciandovi segni profondi tali da condizionare in bene o in male la nostra storia personale.

Problematico, od anzi in apparenza addirittura contraddittorio.

La parola AMORE infatti richiama istintivamente un moto spontaneo dell'animo umano, un sentimento incontrollabile dalla ragione che si scatena nel cuore dell'individuo quasi a sua insaputa e che a poco a poco lo pervade tutto, cambiando radicalmente la sua vita e il suo comportamento, conducendolo ad uno stato di estasi o di depressione a seconda dei risvolti che assume il rapporto con l'amato.

Questo modo di intendere l'amore è stato oggetto di gran parte della letteratura di tutti i secoli dando origine a capolavori e creando personaggi-simbolo in grado di evocare con il solo loro nome emozioni profonde. Lo stesso lessico popolare è pieno di espressioni che riprendono il tema dell'amore spontaneo e indomabile; basti ricordare frasi del tipo: al cuor non si comanda, l'amore è cieco e sordo!

Anche oggi, nella nostra epoca clic si direbbe dominata dalla logica, dal calcolo e dalla programmazione, su ogni rivista, anche seria ed impegnata, una rubrica sempre seguita è la cosiddetta "posta del cuore"; i romanzi d'amore hanno tuttora un vasto pubblico e le famose "telenovela" un indice di ascolto assai alto e diffuso tra tutte te classi sociali.

Come sarà dunque possibile accomunare all'amore il concetto di EDUCAZIONE che richiama a prima vista una diffusa esperienza di insegnamenti e di regole volte a incanalare i moti spontanei dell'animo verso comportamenti controllati e forse costretti in steccati predeterminati che si chiamano convenienze sociali, vivere civile, buone maniere?

La nostra "provocazione" sta proprio nell'abbinamento inconsueto di queste due manifestazioni del vivere umano, nello scoprire che esse, ben lungi dal porsi in antitesi, si sostengono e si nutrono a vicenda in una relazione reciproca che giustifica l'essere dell'una in ragione del crescere dell’altra e viceversa.

MARINELLA ed ENRICO GUALCHI

Segretari diocesani C.P.M.- Torino

(da Famiglia domani 2/99)

 

Una liturgia in famiglia pensata per la famiglia

Il Concilio Vaticano II riconosce nel matrimonio una delle vie per giungere alla santità. = Ma, in pratica, come deve articolarsi questo cammino di santità degli sposi?= Come dev'essere la spiritualità coniugale familiare?

Ci sono dei momenti della spiritualità comunitaria indispensabili per una vita spirituale familiare: la preghiera, l'incontro con la Parola, l'Eucarestia, ma qui vorrei individuare proprio alcuni elementi caratteristici della spiritualità della famiglia. Tutti viviamo la quotidianità, ed è proprio qui che Dio ci manifesta, come coppia, come genitori, come figli, la sua volontà perché noi contribuiamo a realizzare con Lui il Regno. Come coppia, ogni giorno siamo chiamati a donarci per crescere nella nostra relazione perché così realizziamo la nostra vocazione: essere icona nel mondo della presenza dell'amore di Dio nell'uomo. Direi di più: siamo chiamati a celebrare la nostra vocazione secondo lo Spirito, non solo per rendere gloria al Padre, ma per accedere al mistero di salvezza. Ecco perché si parla di celebrazione, di liturgia familiare. Preciso subito che la liturgia familiare non solo non è in contrasto con la liturgia comunitaria, ma è anche utile da un punto di vista pedagogico.

I giovani non si riescono più a capire il linguaggio religioso, per esempio la Messa, perché è soprattutto un linguaggio simbolico.

Una liturgia familiare in cui si recupera un linguaggio simbolico, come porre una candela accesa al centro del tavolo prima della cena, può aiutare figli a recuperare un linguaggio che sovente si è dimenticato e a vivere e comprendere meglio la liturgia comunitaria (p.e. le due candele sull'altare, la luce accanto al tabernacolo, ecc.).

RECUPERARE LA TRADIZIONE

Proponendo una liturgia in famiglia non inventiamo niente di nuovo, recuperiamo e valorizziamo quello che si faceva già nelle prime comunità cristiane. Queste provenivano do mondo ebraico, dove la famiglia è importante non solo dal punto di vista della trasmissione della fede ma anche da quello liturgico.

Gli ebrei hanno tre "luoghi di culto": il tempio (scomparso dopo il 70 d.c.), la sinagoga e la famiglia; quest'ultima ha un ruolo particolare tanto è vero che se in una casa ci sono dieci adulti questa può diventare una sinagoga.

Al contrario la sinagoga non diventerà mai luogo dove è possibile celebrare liturgicamente alcune feste che sono tipiche della liturgia familiare; inoltre ci sono momenti liturgici legati ai pasti, come la benedizione prima di mangiare, la liturgia per l'arrivo del sabato al tramonto del venerdì sera, quella di saluto al sabato, al termine della giornata di riposo. Durante queste celebrazioni sono coinvolti tutti i membri della famiglia, compresi i bambini.

Le prime comunità cristiane sono formate da ebrei convertiti che conservano queste tradizioni tanto è vero che fino al terzo secolo la liturgia cristiana sarà domestica.

A partire dal quarto secolo, con Costantino, il cristianesimo diventa la religione dell'impero e si iniziano a costruire le chiese. Da quel momento la famiglia non sarà più il luogo in cui si celebra l'Eucarestia anche se si conserverà per lungo tempo l'abitudine alla preghiera e alla lettura della Parola.

L'UNZIONE DI GESÙ A BETANIA

Ma anche nella vita pubblica di Gesù troviamo esperienze di spiritualità familiare. Un brano che ci può aiutare è quello dell'unzione di Gesù a Betania. Qui Gesù si ferma presso una famiglia di amici che, con altre famiglie, si ritrovano per ascoltare i suoi insegnamenti.

La famiglia ospitante è quella di Simone il lebbroso e la scena ci mostra un contesto familiare: ci sono i commensali, c'è chi arriva, chi serve... proprio come in una nostra casa.

Giunge una donna con un vasetto d'alabastro, pieno di olio prezioso, e ne versa il contenuto sul capo di Gesù.

Che tipo di unzione è quella della donna? Unge Gesù per rendergli omaggio oppure la sua è un unzione rituale? Probabilmente la donna compie un gesto di omaggio nei confronti di Gesù che è l'ospite, ma diventa anche un gesto profetico grazie a quello che dopo dice il Maestro.

Ai discepoli che criticano la donna per lo spreco compiuto Gesù ribatte che il suo è un gesto profetico, perché rimanda a ciò che lui sta vivendo e che i discepoli non hanno capito (Mc 14,6-8).

L'ultima frase di quest'episodio suona infine così: "dovunque sarà predicato questo vangelo, sarà detto anche ciò che ha fatto in memoria di lei" (Mc. 14,9).

Nel testo greco memoria é indicato con mnemòsunon che il grande dizionario biblico traduce con memoriale. Il memoriale, in senso biblico, è un gesto liturgico rituale in cui si rendono presenti le meraviglie compiute da Dio. Allora possiamo dire che fare "memoria di lei" equivale a fare memoria di una donna che, compiendo un gesto quotidiano, ha rivelato il mistero centrale della vita di Gesù: il mistero Pasquale.

PER UNA LITURGIA FAMILIARE

Quali indicazioni possiamo trarre da quest'episodio perché la liturgia familiare sia memoriale di quell'evento e nello stesso tempo spazio di salvezza per chi lo celebra?

Per prima cosa una liturgia familiare non deve essere troppo statica; se la liturgia comunitaria è bloccata in regole e schemi, quella familiare deve essere dinamica proprio perché la storia di una famiglia è così: inizia con due persone, poi vengono i figli, questi crescono, diventano grandi , si sposano e lasciano casa, si ritrovano in due e poi magari resta con un solo componente...

Se non teniamo conto di questa dinamica e seguiamo il modello comunitario carichiamo la famiglia di un ulteriore peso. Una liturgia familiare deve tenere conto di tutti i componenti della famiglia, compresi i bambini e gli anziani. La liturgia familiare è soprattutto una liturgia esperienziale.

Quando vado in comunità incontro Cristo direttamente, in quel momento non è il prete che celebra ma è Cristo stesso. Nella liturgia familiare l'incontro con Cristo è mediato attraverso la mia, la nostra esperienza quotidiana, letta alla luce della Parola di Dio. Come, quando vado a messa, partecipo ad una cena in cui è Gesù che sta celebrando, così in casa la cena, che ci vede riuniti come famiglia, potrebbe diventare liturgia familiare.

Una cena domestica, perché si trasformi in liturgia, ha bisogno della presenza della Parola di Dio, come segno capace di rievocare, di fare memoria di quello che noi vogliamo ricordare, e della preghiera. Una cena che inizia leggendo un piccolo brano di vangelo, che continua con il pranzo e la conversazione e si conclude con una preghiera, è una cena che diventa liturgia, che offre alla famiglia la possibilità di accedere al mistero di salvezza.

Un altro momento di liturgia familiare può essere rappresentato dal momento in cui, alla sera, i coniugi si ritirano nell'intimità della loro camera. Pensiamo a quante volte Gesù si alza di notte per pregare: la notte è importante non solo perché isola ma proprio perché immette nel mistero.

Allora quando la coppia si ritira nella propria stanza, legge un breve passo della Parola di Dio, recita una preghiera , vive l'intimità coniugale, anche la relazione fisica diventa momento liturgico perché ci parla del mistero di Dio.

Non sappiamo come Gesù abbia vissuto in famiglia, ma dai vangeli cogliamo che, nella la sua predicazione, ha usato sovente riferimenti legati all'esperienza domestica.

Questo, per noi genitori, deve essere motivo di speranza: cerchiamo di trasmettere ai figli una serie di valori, di cose importanti, ma ci sembra che non vengano colte e ci sentiamo frustrati. Non disperiamo, perché ciò che abbiamo seminato prima o poi ritornerà.

Adriano Conori

(GRUPPI FAMIGLIA maggio 2002) 

 

IL DONO DELLA LIBERTA’

(una lettura di Galati 5,25)

(Terza parte)

Il dono pasquale della libertà

Il dono pasquale della libertà

"Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi: state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo, della schiavitù" (5,1) Qui Paolo fa tre affermazioni importanti: il fatto della liberazione, con allusione chiara alla sua Pasqua; lo scopo della Pasqua di Cristo, con allusione altrettanto chiara alla nostra Pasqua; e le implicazioni pratiche della sua e nostra Pasqua. In questo modo Paolo ci aiuta a focalizzare ancor meglio l'inestimabile dono della libertà cristiana. Vediamo come. Anzitutto Paolo ci ricorda che il discorso sulla libertà cristiana è dirimente. In altri termini: non si può tenere il piede in due scarpe, non si può tergiversare tra il vecchio e il nuovo. Il suo modo di esprimersi non lascia luogo ad alcun dubbio: "Ecco, io Paolo vi dico: se vi fate circoncidere Cristo non vi gioverà a nulla" (5,2). Chi si volta indietro perde completamente il beneficio della liberazione pasquale: "Non avete più nulla a che fare con Cristo, voi che cercate la giustificazione nella legge: siete decaduti dalla grazia" (5,4). Non si può "passare in fretta da colui che vi ha chiamati con la grazia di cristo a un altro vangelo" (1,6). Il disappunto dell'apostolo si trasforma in lamento: "Correvate così bene! Chi vi ha tagliato la strada che non obbedite più alla verità?" (5,7). Non solo, ma l'errore di pochi potrebbe inquinare l'intera comunità cristiana: "Un po’ di lievito, infatti,fa fermentare tutta la pasta" (5,9). Non potrebbe esprimersi in modo più chiaro! Paolo infatti si ispira non solo a quello che ha compreso, ma anche alla sua esperienza personale, oltre che alla sua esperienza di apostolo: il bene delle singole persone è superiore ad ogni dottrina e ad ogni legge.

" (5,1) Qui Paolo fa tre affermazioni importanti: il fatto della liberazione, con allusione chiara alla sua Pasqua; lo scopo della Pasqua di Cristo, con allusione altrettanto chiara alla nostra Pasqua; e le implicazioni pratiche della sua e nostra Pasqua. In questo modo Paolo ci aiuta a focalizzare ancor meglio l'inestimabile dono della libertà cristiana. Vediamo come. Anzitutto Paolo ci ricorda che il discorso sulla libertà cristiana è dirimente. In altri termini: non si può tenere il piede in due scarpe, non si può tergiversare tra il vecchio e il nuovo. Il suo modo di esprimersi non lascia luogo ad alcun dubbio: "Ecco, io Paolo vi dico: se vi fate circoncidere Cristo non vi gioverà a nulla" (5,2). Chi si volta indietro perde completamente il beneficio della liberazione pasquale: "Non avete più nulla a che fare con Cristo, voi che cercate la giustificazione nella legge: siete decaduti dalla grazia" (5,4). Non si può "passare in fretta da colui che vi ha chiamati con la grazia di cristo a un altro vangelo" (1,6). Il disappunto dell'apostolo si trasforma in lamento: "Correvate così bene! Chi vi ha tagliato la strada che non obbedite più alla verità?" (5,7). Non solo, ma l'errore di pochi potrebbe inquinare l'intera comunità cristiana: "Un po’ di lievito, infatti,fa fermentare tutta la pasta" (5,9). Non potrebbe esprimersi in modo più chiaro! Paolo infatti si ispira non solo a quello che ha compreso, ma anche alla sua esperienza personale, oltre che alla sua esperienza di apostolo: il bene delle singole persone è superiore ad ogni dottrina e ad ogni legge.

In secondo luogo Paolo afferma che noi siamo chiamati a libertà (5, 1 3): è come dire che la libertà cristiana non è mi bene assicurato una volta per sempre, ma un dono da coltivare sempre con prudenza e con fedeltà. Si direbbe che per Paolo la libertà cristiana è un bene biodegradabile: occorre circondarlo con attenzioni e difese, occorre preservarlo da contaminazione e contraffazioni, occorre soprattutto orientarlo verso manifestazioni genuine ed autentiche. E così facile contrabbandare come vera una libertà falsa. È sotto gli occhi di tutti il fatto di certe persone che millantano sicurezza e libertà mentre invece sono insicuri e schiavi delle loro passioni! In terzo luogo Paolo dichiara apertamente che non è autentica quella libertà che non porta all'obbedienza (5,7). Anche questo fa parte del paradosso cristiano e non è facile accettarlo; eppure chi non si lascia condurre dentro questa verità non può dire di essere cristiano. Certo se per obbedienza si intende la mera accettazione - esecuzione di un comando estrinseco ed indesiderato, allora essa non tende a promuovere la persona umana e tanto meno si può dire che essa "libera" la libertà. Ma se per obbedienza si intende l'entrare nell'orizzonte divino di Colui che fonda solo sull'unione i comandamenti che pur ci affida (vedi Esodo 20, 1 ss; Deuteronomio 5,6) allora essa libera la persona da se stessa e dai suoi idoli perché impari a sperimentare gli interventi salvifici di Dio nella storia. E se per obbedienza si intende la condivisione della verità di Cristo e del Vangelo, allora essa libera la persona umana dalla carne, dall'egoismo e da tutto ciò che lo caratterizza, per consentirgli di seguire con slancio l'impulso dello Spirito di Cristo.

Conclusione

Conclusione

In Cristo Gesù e sotto il dominio dello Spirito di Dio siamo liberi solo se siamo disposti a diventare gli uni i servi degli altri (5,13), solo se siamo pronti portare gli uni i pesi degli altri (6,2). Prima Paolo diceva che "contro queste cose (cioè contro il frutto dello Spirito) non c'è legge" (5,23), ora invece afferma che "portando i pesi gli uni degli altri noi adempiamo alla legge di Cristo" (6,2). È Cristo che diventa legge per coloro che lo riconoscono come unico liberatore e, in forza di quello che ha patito per amore e in atteggiamento di obbedienza, come unico legislatore. Ma egli non ci dà una legge scritta su carta o su pietra, bensì offre se stesso come legge personificata. È una legge interiore, sulla linea di quella prospettata dal profeta (vedi Geremia 3 1 ,33), che prima ha ispirato la vita di Gesù stesso (vedi Filippesi 2,58) e poi quella degli apostoli (vedi Atti 4,19; 5,29), in particolare la vita di Paolo (vedi I Corinzi 9,21). Accettare questa legge significa lasciare che lo Spirito di Cristo ci conformi a lui, donandoci la "forma" di Cristo e liberandoci dallo "schema" del mondo (vedi e confronta Romani 12,2 dove Paolo contrappone appunto lo "schema" statico e mortificante di "questo secolo" alla "forma" dinamica e vivificante di Cristo).

CARLO GHIDELLI

Biblista

Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano

Da "famiglia domani" 1/99

 

IL DONO DELLA LIBERTA’

(una lettura di Galati 5,25)

(Seconda Parte)

Verità - libertà - carità

Verità - libertà - carità

La novità di vita (vita nuova) di cui siamo gratificati non si esprime in aspirazioni o in pii desideri, ma invade e pervade ogni manifestazione della nostra esistenza. Da un lato essa rende permeabile e sensibile il cuore di ogni credente perché ascolti la parola di Dio e impari a discernere secondo ciò che piace a Dio, dall'altro ispira e guida le nostre scelte e i nostri gesti perché siano sempre conformi alla grazia ricevuta. La nostra vita è nuova perché è vera, cioè ispirata e quasi dettata dalla verità: la verità di Dio (= che è Dio), la verità su Dio (= chi è Dio: Dio è Amore), la verità che viene da Dio (= Gesù, epifania di Dio al mondo, nella storia). Non una verità astratta, filosofica, ma una verità fatta carne, fatta uomo in Cristo Gesù. Una verità che si rivela e si dona, una verità che consola e rinnova, una verità che salva. Mentre rivela Dio all'uomo, manifestandogli la sua eccelsa vocazione, Gesù rivela anche l'uomo all'uomo (vedi Gaudium et Spes, 22), Cioè lo rende consapevole della novità che lo investe e gli infonde fiducia di poter vivere in modo conforme alla vocazione che gli si apre dinanzi. A fronte di questa Verità tutto il resto - circoncisione compresa, e con essa tutto ciò che appartiene ormai ad un regime vecchio e superato e, ancor più, tutto ciò che con orgoglio si propone come alternativa all'unica via che, d'ora in poi, porta alla salvezza - non ha più alcun valore e dobbiamo avere il coraggio di dichiararlo irrilevante e inefficace in ordine alla salvezza, anzi ingannevole e deviante. Sono ovviamente quelle che Paolo chiama le "opere della carne" e che enumera così: "Fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregoneria, inimicizia, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere" (5,20-2 1) quelle cioè che distolgono la persona umana dalla sua vocazione autentica, cioè dalla verità.

La nostra vita è nuova perché è libera, cioè guidata solo dalla libertà di Cristo e del Vangelo: non libertà da qualcosa o da qualcuno, e neppure libertà di fare quello che si vuole, particolarmente di commettere quello che la legge proibisce, ma libertà "per": cioè per Dio e per la verità, per Cristo e per il Vangelo, per gli altri e il loro vero bene: "Voi, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri" (5,13). E vera dunque quella libertà che fiorisce nell'amore a servizio di tutti. Paradosso evangelico molto caro a Paolo (vedi Romani 13,8-10), ma il vero credente sa che la verità rivelata da Dio in Cristo non può non essere paradossale. La nostra vita è nuova perché è caritatevole, cioè opera nella carità: "Poiché in Cristo Gesù non è la circoncisione che conta o la non circoncisione, ma la fede che opera per mezzo della carità" (5,6). Elencando i frutti dello Spirito (5,22) Paolo mette in pole position l'amore (agàpe) e lo presenta come l'unico vero frutto dello Spirito, essendone gli alti segni (gioia e pace), manifestazione (pazienza, bontà, benevolenza) e condizioni della sua nascita e del suo fiorire (fedeltà, mitezza, dominio di sé). Poi con tono solenne e liberatorio aggiunge: "Contro queste cose non c'è legge" (5,23). Questa convinzione Paolo la porterà sempre con sé (vedi anche I Timoteo 1,9). Essa può essere riformulata così: la condotta ispirata dallo Spirito, quella cioè che è dettata dalla verità di Dio e si lascia misurare dall'esempio di Cristo, non è mai condannabile. E non lo è per il semplice fatto che è Dio stesso a consigliarla, anzi a comandarla. In perfetta linea con l'insegnamento di Paolo, Agostino scriverà: "Ama e fa quello che vuoi".

CARLO GHIDELLI

Biblista

Università Cattolica del Sacro Cuore — Milano

Da "famiglia domani" 1/99

IL DONO DELLA LIBERTA’

(una lettura di Galati 5,25)

(Prima Parte)

Ÿ La novità di vita, elemento essenziale ed inedito per il cristiano Ÿ Nessuno può, da solo, liberare se stesso dal suo essere "carnale", cioè "egoista" e peccatore Ÿ Solo l’intervento dello spirito ci porta a realizzare le chiamata della libertà Ÿ La nostra vita è nuova in quanto è "vera", è "libera", è "caritatevole" Ÿ I paradossi cristiani della libertà.

La novità di vita, elemento essenziale ed inedito per il cristiano Ÿ Nessuno può, da solo, liberare se stesso dal suo essere "carnale", cioè "egoista" e peccatore Ÿ Solo l’intervento dello spirito ci porta a realizzare le chiamata della libertà Ÿ La nostra vita è nuova in quanto è "vera", è "libera", è "caritatevole" Ÿ I paradossi cristiani della libertà.

L'invito di Paolo: "Se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito" (GaI 5,25), viene al termine di un lungo discorso nel quale Paolo aveva già affermato: "Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne; la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste" (5,16-17). Possiamo quindi ritenere che per Paolo qui si gioca ciò che è essenziale per la vita cristiana, cioè quella novità di vita (vedi anche Romani 6,4; 7,6; 12,2) che è qualcosa di assolutamente inedito nella storia dell’umanità e che ci è affidato per renderne testimonianza con coraggio e umiltà.

La situazione da cui si parte

"Queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste": Paolo non potrebbe essere più chiaro. Del resto, questo dramma lo ha già espresso altrove: "Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo del peccato. Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra, vedo un 'altra legge che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?" (Romani 7, 14-24). Non basta dunque che ci esortiamo vicendevolmente a fare il bene. Non basta neppure che ognuno si accontenti di quel recondito anelito verso il bene che pur abita nel cuore di ogni persona. Non basta infine mettere in atto una analisi spietata su se stessi e sulle strutture di peccato con le quali dobbiamo pure fare i conti. Anche se lo desidera ardentemente, nessuno è capace di liberare se stesso dal suo essere "carnale", dal suo essere peccatore. Occorre soppesare attentamente questa verità rivelata. Sì, perché di rivelazione si tratta: qualcosa che da soli non possiamo né affermare né comprendere. È il mistero del peccato e solo chi si lascia illuminare dalla parola di Dio ha il coraggio di chiamare le cose con il loro nome; nella fattispecie, il coraggio di chiamare "peccato" e "situazione di peccato" ciò che per altri potrebbe essere qualificato come naturale e situazione normale. Nessuno dunque può liberare se stesso; solo l'intervento dello Spirito dona a noi la possibilità di realizzare la sua chiamata alla vita vera, alla libertà piena, alla carità evangelica. E ciò in tutte le situazioni umane, in ogni singola vocazione. Un'ulteriore, piccola nota esegetica: in queste pagine paoline "carne" e "Spirito" non indicano due parti della persona, quanto piuttosto due orientamenti divergenti di tutta la persona umana. E appunto tale divergenza che fa esplodere il nostro lamento, che fa nascere la nostra preghiera: "Chi mi libererà da questo mio essere prigioniero del peccato e votato alla morte perché io possa essere libero in Cristo e votato alla vita nuova nella potenza dello Spirito?". E una tensione alla quale nessuno può sfuggire, se non chi pretende di camminare da solo e chi snobba ogni luce che scende dall'alto.

La situazione alla quale si approda

La situazione storica di ogni uomo e donna è dunque quella di un prigioniero, di uno schiavo: anzi in termini ancor più forti è la situazione di un condannato alla morte. Ma - buon per noi (ed è questa la grande novità che non finisce di stupirci) - "Dio, mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e in vista del peccato, - si legge in Romani 8,3 - ha condannato il peccato nella carne" (di Cristo crocifisso). Quindi Dio ha spostato l'oggetto della condanna: da noi al peccato, e lo ha fatto "nella carne di Cristo crocifisso". Qui la condanna è unica e definitiva: essa pone termine al dominio del peccato sulla "carne" del credente proprio perché e nella misura nella quale, mediante la fede, noi diventiamo solidali con l'atto di obbedienza amorosa di Cristo Signore. È nuova la situazione alla quale siamo approdati mediante la Pasqua di Gesù: tale novità possiamo anche chiamarla "grazia" e così la comprendiamo ancor meglio per quello che è: puro dono. Nella stessa lettera ai cristiani della Galazia Paolo afferma: "Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattate coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli. E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio sei anche erede per volontà che Dio" (Galati 4,4-7). La nostra dunque è una novità che è costata cara a Gesù: egli ci ha riscattato "a caro prezzo" (vedi anche 1 Corinzi 6,20; 7,23) ma lo ha fatto per amore, solo per amore, e allora potremmo anche dire - come lo stesso Paolo afferma in Romani 3,24 - che noi in Cristo Gesù siamo giustificati gratuitamente. Tale gratuità è segno rivelatore dell'amore proveniente e sorprendente di Dio Padre, è oggetto di stupore e di riconoscenza per noi, è stimolo a corrispondere all'amore di Dio allo stesso modo.

CARLO GHIDELLI

Biblista

Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano

Da "famiglia domani" 1/99

Giovedì, 11 Novembre 2004 22:46

Famiglia, la grande alleanza (Dino Boffo)

 

FAMIGLIA, LA GRANDE ALLEANZA

E’ tempo di fare rete, sia nei borghi e nelle comunità locali, sia a livello provinciale, regionale e nazionale

C’è una strategia semplice per rompere l’isolamento a cui sembra condannata la famiglia. Si chiama alleanza. Solo uniti possiamo resistere alle fatiche di una quotidianità sempre più complessa, combattendo allo stesso tempo le insidie presenti in questa società, le poche promesse e le molte inadempienze della politica.

Cosa significa alleanza familiare? In primo luogo quella che sappiamo inventarci con altre famiglie, con gli amici, con i vicini, con coloro che frequentano il nostro gruppo e la nostra comunità. Un tempo questo pur minimo sforzo associativo non era necessario. La famiglia patriarcale assicurava una presenza affidabile nella normalità o nell’emergenza.

? In primo luogo quella che sappiamo inventarci con altre famiglie, con gli amici, con i vicini, con coloro che frequentano il nostro gruppo e la nostra comunità. Un tempo questo pur minimo sforzo associativo non era necessario. La famiglia patriarcale assicurava una presenza affidabile nella normalità o nell’emergenza.

Oggi solo le famiglie potranno salvare la famiglia: se ciascuno tende la mano al vicino, se ha il coraggio di aprire la porta di casa sia per chiedere, sia per offrire aiuto, qualcosa dovrà cambiare. Mentre gli aiuti pubblici si riducono sempre più, i buoni risultati delle associazioni familiari, attraverso le piccole, ma efficaci, forme di auto-organizzazione stanno sollecitando riflessioni più attente.

Un esempio sono i gruppi di sostegno alle coppie in difficoltà: troppi coniugi che alzano bandiera bianca perché schiacciati dai propri limiti ritenuti insuperabili, troppe famiglie che dichiarano fallimento e si arrendono disseminando il campo di morti (gli affetti) e feriti (i figli)... L’intera società ne subisce gli effetti negativi.

Altri gruppi familiari hanno saputo inventarsi piccole scuole materne flessibili, senza orari rigidi, modellate sulle esigenze dei bambini perché le "insegnanti" sono, a turno, le mamme stesse. Con il medesimo criterio sono sorte forme di collaborazione familiare per il lavoro domestico o per l’assistenza degli handicappati.

Queste piccole alleanze possono rappresentare la premessa per un associazionismo familiare capace di incidere davvero sul fronte più complesso della cultura e della politica.

I NUOVI ORIZZONTI DELL’ASSOCIAZIONISMO

Le associazioni familiari sono chiamate innanzi tutto a lavorare sulla cultura, divenendo interlocutrici tanto disponibili quanto serie e provocatrici dei mass-media. Continuiamo a richiedere con forza ciò che ci sembra giusto: parità scolastica, leggi capaci di superare l’attuale Far West della procreazione assistita, assegni familiari meno inconsistenti, interventi di sostegno per il lavoro domestico, una promozione convinta del part-time... Ma tutto ciò sarebbe inutile, se nello stesso tempo non lavorassimo per affermare un’idea forte di famiglia e richiedere una più globale politica familiare. Per questo difficile compito va allargata, a tutti i livelli, la rete dell’associazionismo familiare, in primo luogo il Forum delle Associazioni Familiari.

AGIRE SULLA CULTURA

Ma intervenire sui meccanismi di trasmissione della cultura non è semplice perché la famiglia non è una "materia" che si studia a scuola. I mass-media se ne occupano in termini patologici (la famiglia che non c’è, o c’è troppo, la famiglia che si sfascia, la famiglia che è malata…), anche perché la famiglia ordinaria non fa tendenza. Interessano molto di più i single o le coppie di fatto, etero o monosessuali. Eppure siamo ben consapevoli che la famiglia è il più efficace degli ammortizzatori sociali: tanti disagi, che le istituzioni pubbliche non sanno o non vogliono risolvere, nella famiglia possono essere contenuti, e spesso risolti brillantemente. A costo zero per quelle stesse istituzioni. L’uomo che bada e basta a se stesso, è la lusinga più rovinosa di quella cultura d’impronta laicista che vorrebbe relativizzare il ruolo della famiglia.

SEMPRE PIU’ SEPARAZIONI E DIVORZI

Ecco perché si parla sempre più spesso di "modelli familiari" al plurale. Come se la famiglia fosse un canovaccio da recitare a soggetto. E, se si fallisce, si può ritentare una, due, tre volte. Negli ultimi dieci anni il numero delle famiglie che si frantumano è in costante ascesa. Sono quasi sessantamila ogni dodici mesi, ma questo non fa più notizia. Peccato che a complicare questo intenso traffico di arrivi e di partenze ci sono spesso i bambini, le vittime autentiche delle separazioni. Gli adulti avvertono innanzitutto la propria sofferenza, o i propri disagi. Ma sono i bambini le prime vittime, sono loro a subire le ferite più laceranti. Anche a questo dovrebbero pensare le coppie che si separano, e con loro i legislatori, per evitare di rendere scontato lo scioglimento del matrimonio. Gli strumenti, tra cui quello della mediazione familiare, non mancano.

SE L’AMORE HA IL SAPORE DELLA... SANTITÀ

Quando l’amore coniugale è vero, profondo, uno e per sempre, diventa - da un punto di vista cristiano - anche un amore santo. E chissà quanti santi ci sono nelle reti locali di comunità. Eppure troppo spesso, nel linguaggio di alcuni mass-media laici, si ricorre al termine "familiare" per indicare qualcosa di implicitamente negativo. Sembrerebbe quasi che per questi "esperti" la famiglia sia soltanto un’istituzione superata, una realtà incapace di reggere il passo con le vorticose trasformazioni della società e della cultura. Cioè quel movimento di passaggio che, in mancanza di definizioni più efficaci, viene chiamato "postmoderno".

INSIEME PER UN GRANDE PROGETTO

A nostro avviso però la situazione reale è assai diversa. Proprio i nuovi orizzonti culturali, i grandi successi tecnologici e scientifici, i profondi mutamenti sociali e di costume lasciano ipotizzare per la famiglia - una famiglia rinnovata e risignificata - un futuro da protagonista. Certo, la denatalità, il crescente ricorso all’aborto, la fragilità dei matrimoni più giovani, sono problemi che non possono passare in secondo piano e verso i quali occorre continuare a tenere desta l’attenzione. Ma i segnali incoraggianti sono nettamente superiori alle valutazioni pessimistiche. Oggi la maggior parte dei coniugi può realisticamente pensare di trascorrere insieme 30, 40 o 50 anni. E questa nuova prospettiva permette alla coppia di immaginare e progettare un lungo cammino insieme, attraverso le varie stagioni della vita. Questo percorso per gli sposi cristiani può diventare un continuo, reciproco arricchimento umano e spirituale. Ecco perché sarebbe fuori luogo guardare ai mutamenti socio-culturali della cosiddetta età postmoderna con preoccupazione e timore. In quelle trasformazioni, al contrario, si possono scorgere i germi per una significativa rinascita familiare. Una rinascita che passa obbligatoriamente attraverso un’alleanza: della famiglia, per la famiglia, insieme a tutte le famiglie disposte a condividere il nostro progetto.

Dino Boffo,

direttore di Avvenire 

 

"Come incarnare la fede nel mondo che cambia"

  • È difficile, oggi, nella cultura moderna, diventare cristiani e, per chi già lo è, testimoniare la propria fede
  • L’individualismo e il pluralismo come segni distintivi della società odierna e come sfida per la fede
  • La fede è innanzitutto un’interruzione della banalità del quotidiano da riempire con alcuni convinti "Sì" al Dio della vita, unico santo e che prende le parti degli impoveriti e dei sofferenti

Il sociologo tedesco Franz-Xavier Kaufmann ha formulato a mo’ di tesi le condizioni dell’essere e divenire cristiani nel contesto della nostra società in costante modernizzazione nei tre punti seguenti: 1) è difficile diventare cristiani nella cultura moderna; 2) è difficile nel contesto attuale vivere e comportarsi da cristiani; 3) se anche qualcuno riesce a far effettivamente valere la propria fede cristiana, diventa un elemento di disturbo per l’ambiente in cui vive. Le riflessioni che seguono tentano di analizzare la situazione attuale della trasmissione della fede e le possibili prospettive tenendo come riferimento queste tre tesi.

3. Una fede solida come "interruzione" di ogni realtà ritenuta ovvia

Se si assume una definizione di Johann Baptist Metz, la caratteristica della religione consiste nel fatto che essa, anziché edificare il quotidiano nella festa, lo interrompe. Questa interruzione della routine quotidiana contiene un doppio orientamento: da un lato, in quanto momento di arresto, essa schiude quella distanza che è necessaria per percepire la realtà con occhi diversi da quelli abituali e per ritornare al fondamento di se stessi. Secondo la fede cristiana l’intera esistenza è essenzialmente un dono di cui Dio ha reso partecipi le sue creature. Questo vale anche e soprattutto per l’uomo, per ogni singolo che – nonostante tutte le sue colpe e senza aver fatto qualcosa di particolare – può sapersi amato e riconosciuto da Dio. Una tale distanza rende possibile, per altro verso, quella libertà che consente di non sottomettersi ciecamente alle frenetiche attività quotidiane e di esaminare criticamente tutto ciò che accade e che, probabilmente, si tenta persino di giustificare come immodificabile, così da vedere se è compatibile oppure no con ciò che Dio ha posto in opera con la creazione. Quanto questa differenziazione corrisponda alla struttura fondamentale della fede cristiana lo può confermare il rinvio alla promessa battesimale cristiana con i suoi tre "si" e tre "no".

Probabilmente, la crisi della fede cristiana oggi ha il suo motivo più profondo nel fatto che troppi la riducono ad un "forse". La chance della situazione attuale consiste invece nel fatto che la fede cristiana, liberata da tutti i gravami possibili, scopre la sua enorme attualità proprio richiamandosi alla sua identità. La sua crisi porterebbe però ad aumentare se essa, per un verso, cercasse di ingraziarsi la società (dominante) trasformandosi in una "religione civile" che si limiti a dare la propria benedizione supplementare a quanto ha già il suo corso, oppure se, per altro verso, si ritirasse – nuovamente – su un bastione in cui tentasse artificiosamente di conservare o addirittura di ripristinare il sano e trasfigurato mondo che fu.

Ora, la fede, che tenta di sillabare il suo si e il suo no di fronte alle sfide del presente, entra in un conflitto gravido di conseguenze pratiche con la realtà, deve cercare di tener fermi i punti che a mo’ di conclusione presentiamo senza pretesa di completezza:

  • Come sì a Dio che offre la sua vita per l’intera creazione, la fede si faccia sensibile per tutto ciò che minaccia questa vita o che addirittura la annienta. Ritengo ottima la formulazione di un teologo che una volta ha indicato i cristiani e le cristiane come un movimento di resistenza per la vita – dai suoi inizi fino alla fine.
  • Come sì a Dio che solo è santo, la fede si opponga a tutto ciò che tenta di subentrare al posto di Dio e ne rivendichi la sua santità. Senza che per questo debba crescere un’ostilità nei confronti della tecnica, la fede su faccia attenta e diffidente quando certi uomini pensano di potersi impossessare di attributi tradizionalmente riservati a Dio: per esempio, l’onnipotenza con l’aiuto della microelettronica.
  • Come sì a Dio che si è gettato con passione dalla parte dei resi-poveri, dei senza-diritti, e dei reietti dalla società, la fede mantenga in modo preferenziale una solidarietà di parte con coloro che oggi sono abbandonati ad un analogo destino e sia pronta all’occorrenza ad assumersene il disagio.
  • Come sì a Dio il cui nome è profondamente e misteriosamente legato alla storia della passione dell’umanità, la fede presti attenzione a tutti coloro che soffrono e non abbandoni all’oblio coloro che hanno sofferto senza colpa o che addirittura sono stati deliberatamente esposti alla sofferenza o all’annientamento. Si svolga con passione contro tutti i tentativi di voler semplicemente rimuovere dalla società il dolore percepito come elemento di disturbo.
  • Come sì a Dio che ha promesso alla creazione il suo compimento, la fede sappia incoraggiare alla responsabilità per il futuro della vita. In tutto questo sopporti il fallimento umano e dia la forza di proseguire o di ricominciare da capo anziché rassegnarsi o lasciare al cinismo l’ultima parola.
  • Come sì a Dio che vuole la salvezza per tutti gli uomini, sia fatto divieto alla fede cristiana di porsi in modo assoluto come l’unica religione che si presume come portatrice di beatitudine; piuttosto, essa faccia sì che nella sua fila i cristiani e le cristiane rendano insieme al mondo e davanti ad esso una testimonianza credibile in parole e opere della loro fiducia nella "salvezza che viene da Dio in Gesù Cristo" (Edward Schillebeeckx).

Laddove si riesce a rinviare a una prassi corrispondente – per quanto pur sempre frammentaria – e laddove si può dar conto della fede muovendo da simili contesti vissuti e esperiti, il che a seconda del contesto avviene con accenti immancabilmente diversi, non c’è bisogno di farsi preoccupazioni per il futuro della trasmissione della fede – anche se essa prende altre strade rispetto a quelle finora conosciute.

Norbert Mette

"Famiglia domani" 4 / 99

 

"Come incarnare la fede nel mondo che cambia"

  • È difficile, oggi, nella cultura moderna, diventare cristiani e, per chi già lo è, testimoniare la propria fede
  • L’individualismo e il pluralismo come segni distintivi della società odierna e come sfida per la fede
  • La fede è innanzitutto un’interruzione della banalità del quotidiano da riempire con alcuni convinti "Sì" al Dio della vita, unico santo e che prende le parti degli impoveriti e dei sofferenti

Il sociologo tedesco Franz-Xavier Kaufmann ha formulato a mo’ di tesi le condizioni dell’essere e divenire cristiani nel contesto della nostra società in costante modernizzazione nei tre punti seguenti: 1) è difficile diventare cristiani nella cultura moderna; 2) è difficile nel contesto attuale vivere e comportarsi da cristiani; 3) se anche qualcuno riesce a far effettivamente valere la propria fede cristiana, diventa un elemento di disturbo per l’ambiente in cui vive. Le riflessioni che seguono tentano di analizzare la situazione attuale della trasmissione della fede e le possibili prospettive tenendo come riferimento queste tre tesi.

2. Problemi e ostacoli di una vita conformata in senso cristiano nella società moderna

Non si può negare che le chiese siano fortemente messe in crisi dal mutamento sociale. Ovunque vacillano le loro risorse tradizionali – a cominciare dal grado di appartenenza ad esse, per giungere fino alla loro presenza pubblica. È in atto un processo di allontanamento di massa dalle chiese e di esso non di intravede ancora la fine. Molte inquietudini e molti conflitti intraecclesiali del nostro tempo vanno letti su questo sfondo.

In vista di un orientamento capace di futuro è importante, al cospetto di tale situazione, operare una duplice differenziazione e cioè distinguere tra ciò che in determinate epoche può e deve modificarsi e in parte essere addirittura superato nella fede dell’adulto – soprattutto nell’ambito delle forme in cui tale fede si esprime – così che tale fede possa esplicitarsi in maniera conforme alle nuove condizioni sociali, e ciò che invece costituisce l’identità della fede cristiana ed è perciò irrinunciabile.

Che proprio la chiesa cattolica abbia difficoltà ad operare un tale distinzione e che in luogo di ciò si sia da tempo ostinata sulla posizione di un totale antimodernismo, è quanto complica il suo rapporto con la società moderna o postmoderna. Voler recedere dall’apertura, che il Concilio Vaticano II ha in questo senso dischiuso, sarebbe per lei una catastrofe. Soprattutto in un punto il Concilio ha ricuperato l’aggancio con quelle conquiste della modernità da salutare come assolutamente positive; nell’incondizionato riconoscimento – derivante anche e proprio dalla fede cristiana – dell’uomo nel suo essere fondamentalmente costituito come libero. Con riferimento alla trasmissione della fede ciò significa che ogni assunto di indottrinamento e di manipolazione la contraddice – altrimenti sarebbe giustificata la sentenza dei critici della religione per i quali la fede è un’alienazione dell’uomo – mentre essa è adeguata all’uomo nella misura in cui lo aiuta a ritornare a se stesso – nella sua relazione con gli altri uomini, con il mondo e con Dio – e a conformare la sua vita nella chiamata alla libertà (cf Gal 5,1).

I presupposti di tutto ciò sono in linea di massima dati con l’individualismo, quando non addirittura favoriti in confronto alle società premoderne. Realisticamente, va però detto che l’elevato spazio di gioco della libertà si accompagna a molti problemi nella percezione di questa libertà. Da una parte, si fa molto spesso strada una concezione di libertà assai unilaterale, autoreferenziale; in questo senso, è vero che all’individualismo può essere rinfacciata una tendenza all’egoismo: la tensione ad una libertà dell’io, possibilmente smisurata, va, quando occorre, a spese di quella degli altri; si fa largo una concezione edonistica della vita. Dall’altra parte, ci sono chiari segnali di una nuova modalità di stili di vita contrassegnati in maniera più uniforme di come ci si potrebbe immaginare sotto le insegne di una cultura della libertà. A leggere recenti studi di sociologia si trova che a seconda dei vari contesti giocano un ruolo sempre maggiore comportamenti più o meno codificati e i singoli si fanno da questi influenzare – tanto nel caso che continuino ad agire sullo sfondo i contesti tradizionali, quanto in quello che se ne siano costituiti di nuovi o, come si può osservare nel mondo giovanile, se ne costituiscano dei nuovi ancora. Questi contesti con le loro consuetudini di vita esercitano un’elevata influenza su coloro che vi appartengono (o che fanno di tutto per appartenervi) e svolgono una funzione discriminante e in parte emarginante nei confronti del comune vivere in società. Si aggiunga che molti hanno interesse a tentare di occupare gli spazi lasciati liberi dai vincoli della tradizione. È soprattutto da citare qui il caso dell’industria del consumo che, con ogni possibile seduzione, nella pubblicità promette ai consumatori la conquista della libertà per portarli poi ad avere una fede assoluta in ciò che a lei solo importa: cioè in un sempre maggior consumo.

Non è difficile concludere che tali realtà ormai più diffuse nella società sono tutt’altro che propizie al tentativo di costruire la propria vita a partire da convinzioni cristiane – tanto più se la fede non agisce solo occasionalmente come edificazione festiva di un quotidiano altrimenti inquieto, ma viene fatta valere nei suoi impulsi che costruiscono un’identità e che sono rivolti a una prassi di libertà responsabile.

Norbert Mette

"Famiglia domani" 4 / 99

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