Formazione Religiosa

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Letture giudaiche medievali del Libro di Isaia

La consolazione di Israele e il servo del Signore

di Mauro Perani

Al profeta Isaia nella letteratura esegetica ebraica medievale è riservato un posto di ri­lievo fra gli altri profeti, in conformità con quanto avveniva già nei testi rabbinici dei secoli precedenti. Il nucleo del suo libro considerato da diverse fonti come la punta più significativa del suo messaggio profeti­co è probabilmente la sezione nota come li­bro della consolazione. Se Geremia ha il compito scomodo di annunciare il castigo divino, a Isaia spetta quello assai più soave di consolare il popolo d'Israele e di annun­ciargli un'epoca nuova di salvezza. Nella disputa medievale fra cristiani ed ebrei, che ovviamente spesso si polarizzava sulla que­stione della messianicità di Gesù, anche i Canti del servo divengono oggetto di un di­battito serrato per stabilire se questo servo sia il Messia e se questo sia già venuto o meno.

Shelomo ben Yitzchaq, il più grande com­mentatore ebreo di tutti i tempi meglio noto con l'acronimo Rashì (Francia settentriona­le 1040-11 05), inizia il suo commento alle prime parole del libro di Isaia Visione di Isaia figlio di Amos riportando un detto di Rabbi Lewi che a sua volta menziona una tradizione trasmessa dai padri secondo cui Amoz e Amasia re di Giuda (cf 2 Re 12,22) erano fratelli. A suo avviso tuttavia, in base al principio esegetico per cui nella Bibbia non c'è un prima e un dopo ('en muqdam ume 'uchar he-seder) secondo una rigorosa successione cronologica, il primo versetto non è l'inizio del libro, come dimostra il fatto che non ne costituisce il titolo. L'inizio a suo avviso va ricercato nel capitolo sesto dove si parla della chiamata e della missio­ne del profeta.

Anche Dawid Qimchi, un esegeta di tradi­zione più legata al senso letterale e all'ana­lisi del lessico vissuto a Narbona (sec. XII-­XIII), menziona all'inizio questa tradizione: «Visione di Isaia figlio di Amos. Non sap­piamo le sue relazioni di parentela e a qua­le tribù questi appartenessero, ma ci è solo noto che i nostri maestri di beata memoria ricevettero la tradizione in base alla quale Amoz e Amasia erano fratelli». Commen­tando il versetto seguente Ascoltate o cieli, terra porgi l'orecchio, questo esegeta osser­va che Isaia «inizia il suo libro con parole di biasimo poiché i figli della sua genera­zione erano empi e, benché sia scritto a pro­posito di Ozia che egli fece ciò che è retto agli occhi del Signore e così pure riguardo a Iotam, pure è detto di Ozia che in seguito alla sua potenza il suo cuore si insuperbi fi­no a rovinarsi (2 Cr. 26,16)»

Tornando alla formula di apertura del primo annuncio profetico isaiano Ascoltate o cieli, terra porgi l'orecchio molti commentatori medievali si sono chiesti perché il profeta usi esattamente le stesse espressioni di Mo­sè, ma invertite; Isaia infatti dice in ebraico Shim'u shamayim we-ha 'azini eretz; mentre Mosè, aprendo il suo cantico in Esodo 32,1dice: Ha 'azinu ha-shamayim ... wetishma ha-aretz; scambiando i verbi usati da Isaia. Dawid Qimchi osserva al riguardo che, a differenza di Mosè, «Isaia dice Ascoltate (shim'u) o cieli poiché egli era lontano dai cieli, quindi aggiunge terra porgi l'orecchio (ha'azini) poiché egli era vicino alla terra». Anche Rashi riprende questa interpretazione tradizionale e osserva: «Perché Isaia ha cambiato l'espressione? I nostri maestri ci hanno lasciato un insegnamento su ciò, e su questo brano ci sono molte interpretazioni midrashiche». Più ampia la spiegazione del­lo Yalqui ha-Makiri, una raccolta di midra­shim compilata da Makiri Abba Mari nella Francia meridionale tra la fine del sec. XIII e il XIV. In esso leggiamo: «Disse Rabbi Aqiba: insegna ... che (Mosè) è come un uomo che parla al suo prossimo e disse Porge­te l'orecchio o cieli; vide la terra lontana e disse: Ascolta o terra. Venne Isaia e pronun­ciò la parola: Ascoltate o cieli, terra porgi l'orecchio per attribuire grandezza alle cose grandi e piccolezza alle cose piccole». Os­sia, Mosè parla dall'alto del Sinai, e si trova più vicino ai cieli, mentre Isaia parla in bas­so sulla terra a lui vicina, mentre si rivolge ai cieli come se fossero più lontani.

Veniamo ora a vedere alcune interpretazioni della famosa espressione di Isaia: Consola­te, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme (40, Is). Una bella omelia che commenta questo capitolo di Isaia e che costituisce il brano profetico (haftarah) che accompagna la sezione della Torah letta nel primo saba­to dopo il 9 del mese di Av, ci è presentata dalla Pesiqta rabbati, una raccolta di omelie sinagogali la cui datazione è incerta ed è collocata dagli studiosi fra il V ed il IX se­colo d.C. Ecco questo bellissimo commento che parla del bisogno che ha Dio di essere consolato e pone a confronto Geremia che ferisce con Isaia che risana; lo propongo nella traduzione di M. Gallo. (1)

Altra parola. Consolate, consolate, o po­polo mio, dice il vostro Dio. Dice rabbi Barachià, il sacerdote: Consolami, conso­lami o popolo mio. Da che mondo è mondo se un uomo possiede una vigna e vengono i ladri e la tagliano, chi si deve consolare, la vigna o il padrone della vi­gna? Così pure, se un uomo possiede una casa e vengono i ladri e le appiccano il fuoco, chi si deve consolare, la casa o il padrone della casa? Ma voi siete la mia vigna: Vigna del Signore delle schiere è la casa d'Israele (Is 5,7). Ora è venuto Nabucodonosor e l'ha distrutta e vi ha tratti in esilio e ha dato fuoco alla mia ca­sa, sono io che devo essere consolato:

Consolami, consolami, o popolo mio.

Altra parola. Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme. Tutto quello che Geremia dice per punire, Isaia viene e (lo) risana. Geremia castiga e dice: Come siede sola la città ricca di popolo! È co­me una vedova la grande fra le nazioni, la principessa tra le province è soggetta a tributo! (Lam 1,1). Isaia viene e dice: Io ho visto la vergine. Sì, non ti si dirà più abbandonata e alla tua terra non si dirà più desolata perché tu sarai chiama­ta «Il mio compiacimento è in lei», e alla tua terra si dirà «Sposata»; perché il compiacimento del Signore è in te e la tua terra sarà sposata. Sì, come il giova­ne sposa la vergine, ti sposeranno i tuoi figli, e, come gioisce lo sposo per la spo­sa, gioirà per te il tuo Dio (Is 62,4s). Ge­remia colpisce e dice: Piange amaramen­te nella notte, le sue lacrime sulle sue guance, non c'è per lei consolatore tra tutti quelli che l'amano; tutti i suoi amici l'hanno tradita, le sono divenuti nemici (Lam 1,2). Isaia viene e risana: Sì, popo­lo che sei in Sion, che abiti in Gerusa­lemme, tu non dovrai più piangere! Alla voce del tuo lamento avrà compassione di te, appena avrà udito ti risponderà! (Is 30,19). Geremia colpisce e dice: Giuda è esiliata. Oppressa dalla miseria e da grave schiavitù, dimora fra le genti, non trova riposo, tutti i suoi persecutori la raggiungono tra le angosce (Lam 1,3). Isaia viene e risana: E sarà in quel gior­no: la radice di lesse, eretta come vessil­lo dei popoli, a lei si volgeranno le genti e la sua dimora sarà gloria. E sarà in quel giorno: di nuovo il Signore stenderà la mano per riscattare il resto del suo po­polo, che sarà scampato a Assur e in Egitto, a Patros, a Cush, a Elam, a Shi­near, a Hamat e nelle isole del mare. In­nalzerà un vessillo sulle nazioni, radu­nerà i deportati d'Israele, raccoglierà i dispersi di Giuda dalle quattro estremità della terra (Is 11,10-12). Geremia colpi­sce e dice: Le vie di Sion sono in lutto (Lam 1,4). Isaia viene e risana: Una voce grida: aprite nel deserto la via del Signo­re, spianate nella steppa un sentiero per il nostro Dio (Is 40,3). Geremia colpisce e dice: I suoi nemici sono alla testa (Lam 1,5). Isaia viene e risana: A testa curva verranno a te i figli dei tuoi oppressori, prostreranno alla pianta dei tuoi piedi tutti coloro che ti disprezzavano, ti chiameranno: Città del Signore, Sion del Santo d'Israele (Is 60,14). Geremia col­pisce: È uscito dalla figlia di Sion tutto il suo splendore (Lam 1,6). E chi è questo suo splendore? È il santo, - sia benedetto -, poiché di lui sta scritto: Di gloria e splendore ti sei rivestito (Sal 104,1). Isaia viene e risana: lo l'ho visto venire. Chi è costui che viene da Edom, da Bosra, con le vesti tinte di sangue? Che è splendido nel suo manto, che incede pieno di for­za? Sono io che parlo con giustizia, che sono grande per salvare (Is 63,1). Gere­mia colpisce: Si ricorda Gerusalemme nei giorni della sua miseria, della sua vi­ta errante, di tutte le sue cose preziose, che possedeva nei giorni antichi (Lam 1,7). Isaia viene e risana: Ecco, io creo cieli nuovi e terra nuova. Non si ricorde­ranno più le cose di prima, non saliranno al cuore (Is 65,17). Geremia colpisce: Ha peccato, ha peccato Gerusalemme, per­ciò è divenuta una sozzura (Lam 1,8). Isaia viene e risana: Ho dissolto come bruma le tue colpe, come una nube i tuoi peccati. Ritorna a me, perché lo ti ho ri­scattata (Is 44,22).

Il passo procede ancora nell'intrecciare ci­tazioni dalle Lamentazioni a quelle di Isaia, in un mirabile effetto di contrappunto fra le sciagure annunciate da Geremia e le conso­lazioni pronunciate dal nostro profeta, rela­tive esattamente ad una stessa espressione ed a una stessa punizione.

Rashi a proposito del versetto Consolate, consolate il mio popolo così commenta: «Ora il profeta ritorna sulle sue profezie de­stinate ad accadere, per il fatto che da qui fi­no alla fine del libro le parole di consola­zione creano uno stacco in questa sezione fra esse e fra le punizioni: consolate, o voi miei profeti, consolate il mio popolo».

Una bella interpretazione del famoso passo isaiano del c. 55,8: Poiché i miei pensieri non sono i vostri pensieri sono riprese in di­verse interpretazioni ad esempio nello Yal­qut Shim' oni (paragrafo 482) e nello Yalqut ha-Makiri dal quale presentiamo questa suggestiva spiegazione.

«Poiché i miei pensieri sono i vostri pensieri ... A che cosa assomiglia ciò? Ad un re di carne e sangue che siede e giudica un uomo, ed il giudice gli dice: "Di' se hai ucciso o se non hai ucciso". Se dice: "ho ucciso", il giudice lo fa uccidere, ma se non lo ammette, egli non lo fa uccide­re. Ma di fronte al Santo, benedetto egli sia, non è così. Al contrario, se uno con­fessa la sua colpa, il Santo, benedetto egli sia, ha pietà di lui, come è detto: Chi nasconde le proprie colpe non avrà suc­cesso, chi confessa e le abbandona tro­verà misericordia (Prv 28,13)».

Vediamo ora alcune interpretazioni relative al servo del Signore proposte da un altro grande commentatore ebreo: Mosheh ben Nachman o Nachmanide, nato a Gerona in Catalogna nel 1194 e morto a Gerusalem­me nel 1270. Riprendiamo i suoi commenti da alcuni passaggi della famosa Disputa di Barcellona, che egli fu costretto a sostenere con i domenicani nel 1263. Uno dei suoi in­terlocutori è un ebreo convertito, il quale cerca di appoggiare la sua tesi che il Messia è già venuto su alcuni passi della letteratura rabbinica. La discussione inizia con un rife­rimento al passo di Isaia 52,13 Ecco il mio servo prospererà, citato dall'interlocutore cristiano. Vediamo il passo:

«25. Quello stesso uomo sostenne: "Vi è un passo (della Scrittura) che dice: Ecco il mio servo prospererà (Is 52,13), e trat­ta della morte del Messia, di come fu cat­turato e fu posto tra i malfattori esatta­mente come è accaduto a Gesù. Tu credi che questo passo si riferisca al Messia?".

26. Gli risposi: "Secondo il suo autentico significato esso non parla d'altro che del popolo d'Israele nel suo complesso. In­fatti molto spesso i profeti si riferiscono al popolo d'Israele con le formule Israe­le mio servo (Is 41,8) e Giacobbe mio servo (Is 44,1)".

27. Intervenne allora fray Paul: "Ma io posso provare, sulla base delle parole dei vostri sapienti che questo passo si riferi­sce al Messia".

28. Gli risposi: "È certamente vero che i nostri maestri, di venerata memoria, nei libri di Haggadot, riferiscono allegoricamente quel passo al Messia. Tuttavia non potrai mai trovare in alcun libro della let­teratura ebraica, né nel Talmud, né nel­l'Haggadah, che il Messia figlio di Davi­de sarà giustiziato né che sarà consegna­to nelle mani dei suoi nemici, né che sarà sepolto in mezzo ai malfattori: infatti, neppure il Messia che vi siete creati, (vi) fu sepolto. lo posso spiegare per voi que­sto passo, se lo volete, con un commento corretto e illuminante, (e si vedrà che) non si dice che sarà giustiziato, come in­vece accadde al vostro Messia". Essi però non vollero stare a sentire. ( ... )

49. Risposi: "No, anzi io credo e so che egli (il Messia) non è venuto. Inoltre non ci fu mai un uomo che dichiarò, o del quale fu detto, che era il Messia se non Gesù, e a me è impossibile credere nella sua Messianicità. Infatti il profeta affer­ma, a proposito del Messia: Regnerà da mare a mare e dal fiume sino ai confini della terra (Sal 72,8); ed egli non ebbe nessun regno, ma anzi nel corso della sua vita fu perseguitato e dovette nascondersi per sfuggirgli ma alla fine cadde nelle lo­ro mani e non poté salvare se stesso. Co­me avrebbe potuto salvare tutto Israele? Nemmeno dopo la sua morte ebbe un re­gno perché l'impero di Roma non deriva da lui, anzi, prima che i romani credesse­ro in lui, la città di Roma dominava sulla maggior parte del mondo, mentre dopo che adottarono la sua fede essi persero numerosi regni. E attualmente i fedeli (servitori) di Maometto hanno un regno superiore al vostro. Inoltre il profeta an­nuncia che all'epoca del Messia Non do­vranno più istruirsi a vicenda e nessuno dirà più al fratello: 'riconoscete il Signo­re', perché tutti mi conosceranno (Ger 31,34). Inoltre è scritto: La conoscenza del Signore riempirà la terra come le ac­que ricoprono il mare (/s 11,9): e inoltre: Forgeranno le loro spade in vomeri ... un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo e non si apprenderà più l'arte della guerra (Is 2,4). Ora, dai tem­pi di Gesù fino a oggi, tutto il mondo è stato ricolmo di violenza e rapina e i cri­stiani hanno sparso più sangue delle altre nazioni e inoltre intrattengono relazioni illecite. Come sarebbe difficile per te, re nostro signore [scil. l'autore si rivolge al sovrano Giacomo I d'Aragona che presenziava alla disputa], e per i tuoi cavalieri se davvero non apprendessero più l'arte della guerra. Inoltre il profeta afferma, a proposito del Messia: Egli colpirà la terra con il bastone della sua bocca (Is 11,4); questo passo è commentato nel libro di Haggadah che ha in mano fray Paul: "Si dirà al re Messia: Una provincia si è ribellata contro di te; ed egli dirà: Che le cavallette si abbattano su essa e la distruggeranno. Gli diranno: Un ducato (eparchia) si è ribellato contro di te; ed egli dirà: vengano i mosconi e la divorino" (Midrash a Salmi, 2). Niente di simile si è verificato per Gesù. Quanto a voi, vi compiacete dei cavalieri in armatura, e forse tutto ciò non significa molto per voi. Per di più io posso portarvi molte prove ricavate dalle parole dei profeti».

50. A questo punto quell'uomo (fray Paul Christiani) levò un grido e mi interruppe: «Ecco di nuovo la sua brutta abitudine di fare discorsi prolissi, ma voglio fargli io una domanda».

51. Allora il re mi disse: «Taci, perché è lui che ha diritto di fare delle domande»

52. Quegli riprese: «I loro sapienti hanno affermato a proposito del Messia che è più onorato degli angeli; non può evidentemente trattarsi di altri che di Gesù per­ché egli è di natura divina. A questo pun­to citò un passo dell'Haggadah: "Ecco (il mio servo) sarà onorato, sarà esaltato e grandemente innalzato (Is 52,13), sarà onorato più di Abramo, sarà esaltato più di Mosè, sarà innalzato al di sopra degli angeli del servizio (divino)"».

53. Gli risposi: «Questa affermazione è applicata dai nostri sapienti a tutti i giu­sti: "I giusti sono più grandi degli angeli del servizio (divino)" (Talmud babilone­se, trattato Sanhedrin 93a). Inoltre Mosè nostro maestro, disse all' angelo: "Nel luogo in cui io siedo, non ti è permesso stare" (Avot de-Rabbi Natan 12). E del­l'intero Israele i nostri sapienti hanno detto: "Israele è più amato degli angeli del servizio (divino)" (Talmud babilonese, trattato Chullin 91b). Ma l'intenzione dell'autore di questa Haggadah a propo­sito del Messia è che Abramo, su di lui sia la pace, convertì alcuni gentili e pre­dicò davanti alle nazioni la fede del San­to, sia benedetto, e si oppose a Nimrod senza averne paura. Mosè poi fece anco­ra di più perché si mantenne umile di fronte al Faraone il grande re malvagio, non gli risparmiò (lett. = ebbe il minimo riguardo per lui) a proposito delle gravi piaghe che lo afflissero e liberò Israele dal suo potere. Ora, gli angeli del servi­zio sono molto zelanti per quanto riguar­da la redenzione, come è scritto: Nessuno mi aiuta in questo se non Michele, il vo­stro principe (Dn 10,21). Inoltre è scritto: Ora tornerò a combattere con il principe di Persia (Dn 10,20). Il Messia però farà ancora di più di tutti costoro, E il suo cuore sarà forte nelle vie del Signore (1 Cr 17,6). Egli verrà e ingiungerà al papa e a tutti i re delle nazioni, in nome di Dio: Lascia andare il mio popolo perché mi possa servire (Es 8,16). Egli compirà in mezzo a loro segni e numerosi mira­coli straordinari, non avrà alcun timore di fronte a loro e si tratterrà nella loro città di Roma finché l'avrà distrutta. lo posso spiegarti tutto questo passo (di Isaia) se vuoi. Ma egli non volle». (2)

Nachmanide ritorna in esplicitazione in al­tra sede sull'interpretazione della pericope isaiana che inizia con le parole Ecco il mio servo prospererà? Egli ribadisce l'interpre­tazione ebraica che riferisce il passo del servo a Israele:

«L'interpretazione corretta di questa peri­cope è che essa si riferisce ad Israele tut­to intero. ( ... ) Tuttavia secondo l'opinione del Midrash essa si riferisce al Messia (cf Yalqut su Isaia par. 476); ora noi dobbia­mo interpretarla in base alle parole dei li­bri. Un'interpretazione diversa afferma che il Messia figlio di Davide, a cui si ri­ferisce il versetto, non sarà sconfitto né sarà ucciso per mano dei suoi nemici, e ciò è indicato chiaramente dai testi. Ecco l'interpretazione della pericope: Ecco il mio servo avrà il discernimento (yaskil) (3),poiché ai tempi della redenzione il Mes­sia capirà e sarà capace di discernere il tempo della fine e saprà che è giunta l'e­poca della sua venuta e che la fine è arri­vata; essa sarà rivelata all'assemblea di coloro che lo attendono. Il testo dice avrà discernimento in conformità a quanto è detto nel libro di Daniele: Queste parole sono nascoste e sigillate fino al tempo della fine. Molti saranno purificati, si renderanno candidi e raffinati, ma gli em­pi agiranno empiamente e nessuno di lo­ro comprenderà; invece i saggi capiranno (we-ha-maskilim yavinu) (Dn 12,9-10). Daniele afferma che fra gli empi ce ne saranno alcuni che agiranno empiamente per insultare i passi del Messia (cf Sal 89,52). Ciò a motivo del suo grande ri­tardo, e non crederanno assolutamente in lui e nessun empio discernerà la fine (dei tempi), poiché ci saranno fra di loro alcu­ni che erreranno andando dietro ad uno che erroneamente essi crederanno essere il Messia. I saggi, invece, comprenderan­no la fine vera ed attenderanno lui. E in rapporto a ciò che Isaia afferma che il Messia servo del Signore discernerà e comprenderà la fine e subito sorgerà, sarà esaltato ed elevato e il suo cuore sarà forte nelle vie del Signore (2 Cr 17,6), venendo a radunare i dispersi d'Israele (cf Is 56,8), non con la potenza né con la forza, ma con il suo spirito (cf Zc 4,6). Egli confiderà nel Signore, allo stesso modo in cui avvenne per il primo reden­tore (scil. Mosè) che venne con il suo ba­stone ed il suo sacco dal Faraone e colpì la sua terra con la verga della sua bocca (cf Is 11,4)» .

Note

1) M. GALLO (a cura di), Sete del Dio vivente. Omelie rabbiniche su Isaia, Città Nuova, Roma 1981, pp. 85­89.

2) Il passo è riportato nella prima e ad oggi sola ver­sione italiana della Disputa curata da S. Campanini, in M. IDEL e M. PERANI, Nachmanide esegeta e cab­balista. Studi e testi, La Giuntina, Firenze 1998, pp. 392-393 e 396-397.

3) Osserviamo che in ebraico si ha yaskil, verbo che significa in prima istanza «aver senno, esser saggio, aver discernimento» e secondariamente «riuscire, aver successo, prosperare» avendo agito con intelligenza.

(da Parole di Vita, 4, 1999)

Mercoledì, 30 Aprile 2008 00:08

Incontro all'Islam (Fabrizio Mastrofini)

Testimonianza I Le Piccole sorelle di Gesù nel Maghreb

Incontro all'Islam

di Fabrizio Mastrofini

La fiducia verso l’altro apre ogni porta. E’ l’esperienza vissuta nel quotidiano con i musulmani. In uno stile di amicizia.

Il dialogo che parte dagli aspetti quotidiani, dal lavoro, dal vivere fianco a fianco, condividendo spazi e problemi della vita di tutti i giorni. È la caratteristica del dialogo interreligioso attuato dalle Piccole sorelle di Gesù, che si ispirano alla spiritualità di Charles de Foucauld, nate nel 1939 in Algeria a Touggourt, dove piccola sorella Magdeleine Hutin ha dato vita alla prima comunità. Sono oggi presenti in 67 nazioni e contano 1.250 religiose. In Italia sono una quarantina e vivono in piccole comunità di 3 o 4 persone a Milano, Torino, Chiusi, Bologna (dove vivono con gli zingari), Roma (una comunità lavora al Luna Park, ma risiede in un appartamento), Assisi, Napoli e Vittoria. A marzo, nel contesto del ciclo di incontri «Storia, storie, luoghi e volti nelle diverse esperienze d’incontro tra musulmani e cristiani», promosso a Roma, dal Centro interconfessionale per la pace (Cipax), tre di loro hanno parlato dell’esperienza che conducono, sia nei Paesi musulmani sia a Milano.

Nella metropoli lombarda sono presenti dal 1952 e fino agli anni Settanta hanno abitato nelle case minime di via Zama. Oggi vivono in un appartamentino di fronte alla chiesa di San Galdino, sempre in zona Forlanini. Suor Fiorella, responsabile della piccola comunità di quattro persone, ha spiegato che «la gente oggi ha bisogno di essere ascoltata, di avere un luogo dove dire liberamente quello che pensa e vive». Da una decina d’anni nel quartiere si assiste a un progressivo insediamento di stranieri: marocchini, egiziani, pakistani, singalesi. Oggi almeno la metà degli immigrati sono di origine islamica. «A motivo del nostro legame con l’islam, già vissuto da fratel Charles in Algeria, ora noi cerchiamo di essere attente in particolare ai musulmani, di fare conoscenza con loro e di entrare in amicizia con le nuove famiglie. Pur conservando le vecchie amicizie, come comunità abbiamo deciso di avere una cura privilegiata per gli stranieri». E nell’approccio «partiamo dagli aspetti più semplici, cominciando a salutare in strada, oppure sull’autobus. Così prende avvio un percorso di conoscenza, che porta alla confidenza e anche all’amicizia. Qualcuno ci parla spontaneamente del cammino spirituale che compie, mettendolo a confronto con il cristianesimo. Oppure in altri casi si affronta il tema della pace, ma sempre incontrandoci come persone, per aiutarci, per rispettarci».

Attraverso il contatto quotidiano, sottolinea suor Fiorella, emerge un’idea che per le Piccole sorelle di Gesù in questi anni è diventata un filo conduttore della loro azione: riconoscere la fede dell’altro, senza volerlo convertire, entrare nel progetto di Dio che è più vasto di quello delle singole religioni. E spiega ancora il «segreto» di una presenza che sa farsi accogliere e accettare: mettersi a disposizione. «Ad esempio per i bambini, quando hanno bisogno di aiuto per i compiti, dare un passaggio in macchina o riceverlo volentieri, fare la spesa insieme, aprirsi alle feste religiose e condividere i momenti difficili, le malattie, le perdite, tutte le occasioni per vivere insieme».

Un’esperienza simile è stata riportata dalle altre religiose presenti all’incontro: suor Odile Marie, oggi in Medio Oriente, ha sottolineato proprio quanto nella cultura orientale sia importante l’esperienza di accoglienza dell’altro; le fraternità, dunque, intendono riproporre l’idea di un modo di vivere insieme capace di rendere le suore vicine a tutte le persone che incontrano sul loro cammino. Come farlo? Di nuovo è l’esperienza di vita che parla, questa volta di suor Maria Cecilia, di origine libanese, otto anni trascorsi nel sud della Tunisia, nel piccolo villaggio di Oudref, dove le religiose hanno imparato la tessitura - attività prevalente - e dove Maria Cecilia ha lavorato per diverso tempo nella lavanderia di un ospedale di montagna. «Ho capito che la fiducia verso l’altro apriva ogni porta. Non avevano mai visto delle suore prima di noi, se non nelle telenovelas latinoamericane, che arrivano anche lì. Così all’inizio ci siamo sentite osservate, per il senso di novità che portavamo e anche per la difficoltà a comprendere cosa ci facéssero tre donne straniere arrivate fin là per vivere insieme e per lavorare. Hanno capito che non avevamo niente da nascondere, che la nostra presenza era per l’incontro con gli altri, e così si sono create relazioni di amicizia».

Relazioni espresse in piccoli gesti significativi, doni lasciati sulla porta della casa delle suore, riconosciute da tutti come donne di preghiera. A proposito di questa forma di dialogo interreligioso e dell’impegno delle Piccole sorelle, l’arcivescovo di Algeri, mons. Henri Tessier, ha scritto qualche tempo fa che «le case d’accoglienza per anziani delle Piccole sorelle dei poveri sono sostenute finanziariamente quasi solo dalle famiglie musulmane più agiate. La stessa collaborazione avviene nelle attività in favore degli handicappati. La relazione islamo-cristiana, dall’essere uno scambio astratto di idee, diventa invece luogo di un impegno comune per l’uomo».

Delle loro storie di vita, le suore preferiscono mettere in ombra gli aspetti problematici o negativi, rilevando che l’unica risposta possibile nel dialogo interreligioso che si compie nei Paesi islamici è data dalla capacità di incontro personale.

E il cammino più lungo da compiere, l’unico però destinato a portare risultati duraturi e soprattutto a far cadere le barriere, come ribadisce anche un recente volume, Francesca De Lellis e intitolato Magdeleine di Gesù e le Piccole sorelle nel mondo dell’islam. Il volume (Emi, Bologna 2006, pp. 224) ricostruisce da vicino l’eccezionale biografia di piccola sorella Magdeleine, meglio conosciuta come Magdeleine di Gesù. La sua è una storia di grande attualità in un momento in cui il pluralismo religioso sembra l’orizzonte inevitabile di ogni sentiero di fede. L’autrice sottolinea come il modello adottato nel dialogo islamo-cristiano dalla fondatrice della Fraternità delle Piccole sorelle di Gesù sia quello del dialogo della vita, che smonta i pregiudizi e apre alla comprensione. Suor Maria Cecilia fa notare che nelle situazioni di conflitto, come in Libano, le difficoltà sono senza dubbio maggiori rispetto alle incomprensioni o ai pregiudizi che possono verificarsi altrove. Niente però che non possa venire risolto dalla preghiera, dalla presenza pacata, dalla testimonianza silenziosa... Lo ha sottolineato anche Luigi Sandri, giornalista, coordinatore dell’incontro del Cipax: «La vocazione delle suore di vivere il Vangelo in mezzo all’islam si rivela sempre di più come una scelta felice di un modo di invocare Dio».

E dal canto suo Gianni Novelli, responsabile dello stesso Cipax, ribadisce l’importanza di diffondere le testimonianze di coloro che giorno dopo giorno vivono all’interno del mondo islamico: «L’Occidente ha i suoi pregiudizi e vede l’islam attraverso gli stereotipi della politica e della divisione del mondo. In realtà il mondo non è diviso come vogliono far apparire gli specialisti del conflitto delle civiltà». Per questo le testimonianze risultano importanti: per evidenziare che è possibile vivere insieme e comprendersi.



La storia «lo, a lezione»

Nadjia Kebour è algerina; dopo la laurea in filosofia ad Algeri su sant’Agostino, oggi sta conseguendo un dottorato a Roma. Ha conosciuto il cristianesimo in Algeria, attraverso il contatto diretto con le Piccole sorelle di Gesù. «Mi sono resa conto - racconta - che abbiamo tanti pregiudizi nei confronti delle altre religioni, verso le quali esiste un atteggiamento di condanna. L’esperienza con le suore mi ha fatto vedere un altro aspetto, nascosto, della religione cristiana. Le suore mi hanno aperto il loro cuore, e così ho potuto sperimentare la loro prassi di tolleranza e apertura al dialogo, al confronto, alla realtà delle persone».

Così, prosegue Nadjia, «abbiamo anche festeggiato insieme le diverse feste delle nostre tradizioni: Natale, Pasqua, il Ramadan e le altre, per poterci conoscere e dunque comprendere meglio, scoprendo quei valori della carità e della tolleranza che prima credevo esistessero soltanto nella mia religione. Un tempo non pensavo che potesse esistere il dialogo interreligioso; in seguito ho compreso che si tratta di un cammino verso la pace e per la prima volta ho sperimentato un’esperienza non solo di apertura ma anche di comprensione verso l’altro, per arrivare a una forma di liberazione dall’egoismo che ci porta a pensare solo a noi stessi e alla nostra religione. Diffondere questo cammino porta, come effetto, a liberarci dall’orgoglio per cercare la verità di Dio».

(f.m.)

(da Mondo e Missione, maggio 2007)

Che minaccia possono costituire le 11.000 anime che formano la comunità dei cristiani in Algeria per il resto dei 32 milioni di musulmani? Se lo domandano i firmatari della petizione e affermano “la libertà di coscienza e il diritto di ognuno di praticare la religione scelta o di non praticarla”.

Se nell’immagine quotidiana la sera rappresenta la fine della giornata, nell’arco del tempo la fine viene vista nei segni imminenti di un futuro incerto. Un futuro che, poiché non può essere conosciuto, finisce con il riservare delle sorprese. Si è spesso portati a pensare a questo futuro con le immagini del disastro e della catastrofe.

Il messaggio della pace
nel Nuovo Testamento

di Ermino Pinciroli

Quando noi parliamo di pace, normalmente pensiamo all'assenza della guerra. Non era così per gli antichi israeliti: quando essi parlavano di pace, quando pregavano, per l'avvento della pace, pensavano a qualche cosa di molto grande, alla somma di tutti i beni: giustizia, armonia, totalità, successo, buona salute, riconciliazione, abbondanza di raccolto, incolumità. Non vogliamo essere come quei falsi profeti dell'Antico Testamento, che predicando la pace dicevano: «Pace, pace», intendendo dire: «Tutto va bene»; mentre niente, o quasi, andava bene. Se noi parliamo di pace non è per chiudere gli occhi sulla realtà storica e porci per qualche momento in un mondo irreale. Se parliamo di pace è perché vogliamo scoprirne le radici profonde; vogliamo farci stimolare da un impegno, che è di tutti; vogliamo porci nel filone di quegli uomini che, a incominciare dai profeti dell'Antico Testamento, fino al Cristo, fino ai profeti di oggi, (per esempio Oscar Romero) hanno saputo mantenere viva, con la loro vita, la speranza in un mondo più giusto.

Anche da un ambiente, sconvolto dalla violenza, può venire un messaggio di pace. Israele è vissuto sempre in balia delle superpotenze del suo tempo; è vissuto in un mondo fatto di invasioni, guerre, deportazioni; eppure è stato capace di trasmetterci un messaggio di pace ricco e profondo. Il tema della pace prima di essere un tema di ordine etico, che riguarda le nostre scelte di vita, è un tema di ordine relativo: cioè ci rivela il volto di Dio, l'identità di Cristo, della Chiesa, che sarà vera nella misura in cui saprà proporre e costruire la pace all'interno di se stessa e fra le nazioni.

Proponiamo alla lettura tre testi: Matteo 5,1-12; 26,47-52; Giovanni 20, 19-27.

Matteo 5, 1-12

Gesù inizia il suo ministero annunciando il Regno (Mt. 4,23); proclama le Beatitudini per dire che il Regno è presente e per far conoscere le esigenze del Regno.

(v. 5) «Beati i miti, perché erediteranno la terra». Makàrioi = felici, fortunati, perché avete i requisiti per far parte del Regno, perché siete preparati a ricevere le benedizioni del Regno. Oi praei's miti, non violenti: in questa parola si sente subito in primo piano il rapporto con il prossimo; si tratta di coloro che realizzano rapporti sociali sulla base della non violenza. Matteo che ha riportato questa Beatitudine, ha voluto presentare in Gesù un modello di uomo mite, non violento, e lo ha fatto, lasciandoci particolarmente due testimonianze: «Prendete il mio giogo sopra di voi e diventate miei discepoli perché io sono mite (praùs) ed umile di cuore (tapeinòs tè kardìa)». (Mt. 11,28-30). Si sente che la non violenza e l'umiltà sono abbinate.

L'altro testo riguarda l'episodio dell'ingresso di Cristo in Gerusalemme (Mt. 21,1-11). Lo stesso episodio era stato prima descritto da Marco (Mc. 11, 1-11); ma mentre Marco pone l'accento sulla acclamazione messianica, Matteo pone l'accento sul fatto che Gesù realizza finalmente l'ideale del Messia disarmato (cfr. Is. cc. 2-9-11), ma soprattutto realizza l'ideale del re che viene con intenzioni di pace, previsto da Zaccaria (9,9-10). Matteo, nel citare Zaccaria, tralascia due appellativi (giusto, vittorioso), ma non tralascia il terzo appellativo, mite, non violento (praùs). «Perché erediteranno la terra». Si noti qui il passivo divino, che è uno dei modi preferiti di dire di Gesù. Erediteranno la terra da parte di Dio; questo è il significato. La terra non in senso storico, ma in senso escatologico.

(v. 9) «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati Figli di Dio». Oi eirenopoioì si tratta di coloro che fanno la pace. Non sono quindi «pacifici», perché la parola pacifico travisa il significato del termine greco, mettendoci davanti coloro che sono tranquilli, cioè che non vogliono compromettersi con la storia. Qui si tratta di operatori di pace: il riferimento immediato in Matteo, è ai rapporti ecclesiali della sua comunità, perché dietro la sua Chiesa c'erano offese gravi, divisioni, ritardate riconciliazioni; ma l'espressione assume un significato per noi molto esteso; quindi gli operatori di pace sono: coloro che compiono gesti di riconciliazione; coloro che edificano la pace all'interno della Chiesa, fra le varie Chiese (Ecumenismo); coloro che ricuciono fili spezzati, rapporti infranti, in famiglia, nel proprio quartiere...; coloro che costruiscono la pace fra le nazioni. Tutti questi saranno chiamati figli di Dio. Si faccia attenzione a questo ebraismo: il quale vuol significare che entreranno a far parte della famiglia di Dio.

Il miglior commento a queste due beatitudini viene dato da Matteo stesso, nel seguito del capitolo quindi del suo Vangelo:

(vv. 21,22) Si esorta ad evitare la violenza fatta con le parole, con l'insulto.

(vv. 23-24) E’ un'altra indicazione per chi vuol essere costruttore di pace dentro la comunità: Matteo vuol dirci che non ha senso spezzare il pane eucaristico, segno di riconciliazione, di unità, se restiamo divisi.

(vv. 38-41) E’ la legge del taglione, che si trova nel libro Esodo (21, 24-25); una legge progressista con la quale Mosè intese superare la logica di Lamech, uno dei discendenti di Caino (Gn. 4,23-24). Quando Mosè propose la legge del taglione, fece fare ad Israele un notevole superamento, dando una legge sacra, capace di arginare la vendetta, era una legge necessaria perché le tribù non si eliminassero a vicenda. Ma Cristo vi recò un superamento impensabile (Mt. 5,38-39), che arriva poi ad un atteggiamento che sconcerta (Mt. 18,21-22). Ci troviamo di fronte ad un cammino: dal1a violenza più spregiudicata (Gn. 4,23-24), a una violenza più contenuta (Es. 21,24), alla totale non violenza proposta da Gesù (Mt. 5,38-39) fino alla misericordia senza limiti (Mt. 18,21-22).

(vv. 43-44) A coloro che entravano a far parte della comunità ecclesiale, Matteo chiedeva la disponibilità a perdonare e ad amare il nemico (i Romani, la sinagoga...).

Matteo 26, 47-52

Tutti e quattro gli evangelisti riportano questo episodio: quindi nella Chiesa delle origini è preso in particolare considerazione. «Uno di quelli che erano con Gesù, messa mano alla spada...». Si tratta di Pietro (cfr. Gv. 18, 10). L'episodio ci dice che è ancora presente nella comunità di Gesù la tentazione della violenza, la tentazione zelota. Al tempo di Matteo gli zeloti erano forti e battaglieri: nel 69 d.C., sono entrati in Gerusalemme ed hanno creato una nuova gerarchia; dopo pochi mesi sono arrivati i Romani e li hanno uccisi nel tempio dove si erano rinchiusi. La tentazione della violenza riemerge nel gruppo di Gesù come nella comunità ecclesiale di Matteo. «Rimetti la spada nel fodero»: Gesù respinge decisamente la tentazione della violenza. Gli zeloti volevano instaurare il regno di Israele, ricorrendo alla violenza e sono falliti.

Gesù ha accettato la momentanea sconfitta, ed ha instaurato il regno con la non violenza: Egli è più che un rivoluzionario non violento; Egli è un profeta e sa vedere con lucidità e chiarezza dentro il groviglio della storia, sa vedere a distanza, superando l'urgenza di certe contingenze storiche. Soprattutto è un uomo, che ha fatto capire che non basta il cambiamento delle strutture politiche o religiose per ottenere la giustizia e la pace; è pure necessaria la conversione del cuore, perché è dal cuore che provengono gli atti di violenza: «i propositi malvagi, gli omicidi, gli adulteri, le prostituzioni, i furti» (Mt. 15,19). Gesù ha saputo fare una profonda diagnosi della storia, perché ha saputo fare una profonda diagnosi dell'uomo.

Giovanni 20, 19-27

Cristo mantiene la promessa, che aveva fatto qualche giorno prima: nei discorsi di addio aveva detto «Vi lascio la pace, vi dò la mia pace. Non come ve la dà il mondo, io la dò a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbiate più timore» (Gv. 14,25-27). La pace qui appare come sicurezza di essere amati da Dio e di essere nelle sue mani. Apparendo ai suoi discepoli, dice loro: «Pace a voi». Non si tratta di un semplice saluto, o augurio; ma di una vera comunicazione della pace. Ora che Gesù è morto ed è risorto, ora che tutto è compiuto, Gesù può fare il dono della pace, sintesi di tutti i beni promessi da Dio, per i tempi messianici. Comunica la pace mostrando le ferite: probabilmente per accantonare delle incertezze e mettere in evidenza che il Cristo della Resurrezione è il medesimo Cristo della Passione (anche se in Giovanni non c'è il problema: «t Lui o è un fantasma?», come è e invece in Luca 22).

A mio avviso, si tratta di un gesto da ricollegare con il tema della fede (cfr. Gv. 20,27). Le piaghe, allora, diventano un segno di credibilità, come un segno fu il lenzuolo, lasciato nel sepolcro, in quella determinata posizione: cioè non piegato, come potremmo pensare noi, ma disteso, però afflosciato perché il corpo di Gesù non era più presente. Ma noi possiamo pensare anche a un altro significato: Gesù ha comunicato la pace ai suoi discepoli, mostrando le ferite, per dire che la pace è un dono insanguinato; frutto non di una vita tranquilla, ma di un martirio; un dono che passa attraverso la passione. Questo si capisce meglio se, abbandonando il contesto di Giovanni, si legge Luca 12,50-53: Gesù è consapevole di dover ricevere un battesimo di sangue e di essere segno di contraddizione. Egli è un uomo di pace, ma non di una pace che provoca conflitti e contrasti tra le persone più intime.

Conclusioni

Abbiamo preso in considerazione tre testi, premettendo che il tema della pace è anzitutto un tema di ordine rivelativo. Che tipo di Cristo si rivela in questi testi? Pietro, nel suo discorso a Cornelio, presenta Gesù come «annunciatore di pace» (Atti 10,36). Nella lettera agli Efesini (2,15), Paolo definisce Gesù come «colui che opera la pace»: quale dovrà dunque essere l'identità del cristiano e della Chiesa?

Essere operatori di pace non significa andar d'accordo con tutti. Gesù non è riuscito ad andare d'accordo con tutti. Egli nel Vangelo non si presenta come colui che cammina nel mezzo, dando ragione a quelli di destra e a quelli di sinistra; egli ha fatto una scelta, la scelta preferenziale dei poveri, dei deboli, degli emarginati. Correremmo il rischio di diventare operatori non di pace, ma di un facile pacifismo, se avessimo la pretesa di andare d'accordo con tutti.

Alla pace appartiene certamente l'ordine psico-fisico dell'individuo: fare la pace, prima di essere un problema sociale, rimane un problema personale: si tratta cioè di costruire la pace nel profondo di noi stessi, riconciliando lo Spirito con il corpo, i nostri ideali interni con il nostro comportamento esterno, superando la dissociazione che alle volte creiamo all'interno di noi stessi e della nostra esistenza.

Al problema della pace appartiene la sfera della natura; il problema ecologico, il problema della difesa dell'aria, dell'acqua, della vita che il Creatore ha diffuso nell'Universo...

Nel valore della pace rientra la sfera socio-politica: dire pace è dire giustizia, lotta all'oppressione ed a varie forme di sfruttamento, protezione dei deboli, degli emarginati, degli anziani, promozione dei diritti umani di tutti gli uomini, ricupero della complementarietà tra uomo e donna.

La pace è la prima ed ultima parola della storia: essa riemerge, sempre a livello biblico, dall'armonia esistente nel Paradiso Terrestre (Gn. 2) e dalla visione della Apocalisse (c. 4) dove si contempla il trono di Dio avvolto dall'arcobaleno, simbolo della signoria di Dio sulla storia e della pace finale.

La pace è la prima ed ultima parola della storia: essa si colloca nel nostro oggi come impegno; sta davanti a noi come speranza.

Arabo-cristiani:
la perduta modernità

di Tarek Osman

Dopo i fasti del passato in Egitto come in tutto il Medio Oriente, il ruolo degli arabo-cristiani è fortemente ridimensionato.

«Con passi come questi, la saggezza e la lungimiranza della maestà vostra porteranno l'Egitto all'avanguardia nella modernità in Oriente»: così diceva Nubar Pasha un importante funzionario pubblico che divenne poi il primo Primo Ministro egiziano) la cui famiglia si era stabilita in Egitto all'inizio del XIX secolo. Il destinatario della lode era il Kedivè d'Egitto, e l'occasione l'inaugurazione del Teatro dell'Opera del Cairo nel 1869 - il quarto del mondo e il primo in tutto il Medio Oriente, Africa e Asia.

Nubar Pasha, al di là dell'ossequio riservato a un potente, non stava esagerando. Era un'epoca di grande progresso sociale in Egitto, segnato dalla nascita di nuove scuole, fabbriche, editori che traducevano libri stranieri, istituzioni culturali. Nubar fu tra i promotori di quest'ondata di modernità; parte di un piccolo manipolo, proveniente da tutta la regione, di visionari, uomini d'affari, leader locali e funzionari pubblici che aiutarono la famiglia del regnante Mohammed Ali in Egitto, i signori feudali sul monte Libano e i Bey di Tunisia (e i governati di altri Stati arabi) a portare il progresso nei loro Paesi. Nubar Pasha, come molti di questi luminari, era cristiano (nel suo caso, di origine armena).

Gli arabi cristiani, nel tardo XIX secolo e agli inizi del XX - soprattutto in Egitto e nel Levante erano all'avanguardia del rinascimento arabo che portò i Paesi arabi verso la ripresa economica e culturale. Questo processo traeva ispirazione dall'Europa, e soprattutto dal motore primo dell'apertura forzata del mondo arabo al mondo moderno: la Francia.

Una forza creativa

Molto accadeva al Cairo e ad Alessandria. Al-Ahram, il principale quotidiano egiziano (e per molti decenni dell'intero mondo arabo) venne fondato nel 1875 da una famiglia arabo-cristiana, i Taklas. Il cinema arabo e il teatro nacquero più o meno in quell'epoca, per mano di un gruppo di artisti in cui gli arabo-cristiani come George Abyad erano le personalità più significative. La seconda macchina da stampa del Medio Oriente venne portata in Egitto da Napoleone nel 1799 (i vescovi e i preti maroniti del monte Libano avevano ricevuto la prima nel 1589).

Furono arabi-cristiani a lanciare l'idea dell'università Fouad Al-Awal (divenuta poi l'università del Cairo), la prima istituzione scolastica di tipo occidentale del mondo arabo. La Dar al-Hikma (Casa della Saggezza) del Levante, una delle scuole più rispettate del XIX secolo, fu fondata e finanziata da arabo-cristiani. Arabo-cristiani come Salama Moussa e Abd al-Nour Pasha guidarono il passaggio da un'istruzione basata sull'insegnamento della religione a un sistema educativo più laico.

Anche la prima banca, la prima società di traduzioni e la prima fabbrica automatizzata della regione furono pensate da arabo-cristiani - ancora una volta, soprattutto in Egitto e nel Levante. Le figure più importanti dell'economia egiziana, per esempio, erano cristiani dell'al-Saeid (Alto Egitto) o discendenti di famiglie levantine e armene che si erano stabilite in Egitto decenni prima.

Le sfere legale e politica, così come quelle culturale e socio-economica, sentirono gli effetti della creatività arabo-cristiana. La loro influenza raggiunse il centro del potere politico delle loro società agli inizi del XX secolo quando le principali famiglie cristiane (gli Andrawe e i Ghali in Egitto, gli Edda e i Khazen nel Levante) fornivano consiglieri e uomini di fiducia dei regnanti. I concetti moderni di Stato di diritto e separazione di autorità religiosa e statale trovarono i loro più decisi sostenitori tra le due principali famiglie cristiane libanesi: l'icona politica Èmile Eddé e l'ex-capo della Chiesa maronita, il patriarca Arida.

I principali partiti politici arabi nei decenni più vivaci del XX secolo - quelli che ispirarono in larga parte la lotta contro il colonialismo europeo e la formazione del nazionalismo arabo - furono l'al-Wafd in Egitto e il Ba'ath nel Levante; i loro leader intellettuali furono due giganti tra gli arabo-cristiani, Makram Ebeid Pasha in Egitto e Michel Aflaq nel Levante.

Un ponte tra Oriente e Occidente

Per un secolo intero - dall'alba del rinascimento arabo nella seconda metà del XIX secolo fino al declino del liberalismo nel mondo arabo dalla metà degli anni '70 - gli arabo-cristiani hanno avuto un ruolo prominente nello sviluppo della regione. La loro presenza superava i confini del mondo arabo: anche in Africa settentrionale (soprattutto la Tunisia) e in Iraq c'erano comunità cristiane ben integrate e influenti.

La prominenza di personalità e famiglie cristiane era il segno visibile di una realtà più importante: che gli arabo-cristiani erano parte integrante del tessuto delle loro società; che i cristiani vedevano le società in cui erano nati e cresciuti come l'ambiente naturale per costruire le loro carriere e le loro fortune; che queste società arabe erano intrinsecamente tolleranti; che queste società arabe erano tenute assieme dall'idea condivisa di appartenere ad una nazione, indipendentemente dalla religione professata: e – soprattutto - che l'identità personale era, in larga misura, definita dall'appartenenza nazionale.

Questa appartenenza e questa identità portavano coerenza. Gli arabo-cristiani avevano svolto per secoli un'ampia gamma di ruoli fondamentali: come legame intellettuale tra la civiltà prevalentemente islamica dell'Est e l'Europa; come motori del progresso; come rappresentanti della diversità dinamica che stava al cuore del mondo islamico; come guardiani della ricchezza e della pluralità dell'identità islamica.

"Sono egiziano per nazionalità, musulmano per cultura": il famoso slogan del cristiano egiziano Makram Ebeid Pasha è forse la definizione più concisa del modo in cui gli arabo-cristiani illuminati vedevano la propria identità, appartenenza culturale e ruolo sociale. Ebeid Pasha (che fu eletto più di sei volte al Parlamento egiziano) riconosceva con questa frase che il mondo arabo è - per storia e demografia – islamico, ma ribadiva anche la responsabilità degli arabo-cristiani di proteggere la civiltà araba islamica dai pericoli dell'isolamento, aprendola al mondo e svolgendo la funzione di un ponte culturale tra essa e l’occidente.

Islam e cristianesimo

Oggi, il ruolo degli arabo-cristiani si sta ridimensionando. Vari fattori sono entrati in gioco a partire dagli anni '70 per portare a questo risultato: il declino (se non la sconfitta) del nazionalismo arabo e la rapidissima crescita del fondamentalismo islamico; la diffusione, operata con spirito missionario, del devoto wahabismo saudita, sostenuta da risorse economiche senza precedenti; e il cambio di mentalità di milioni di egiziani e levantini che si sono trasferiti nella zona del Golfo in cerca di migliori occasioni di lavoro.

Il risultato complessivo è stato un cambiamento nella psiche del mondo arabo: la marea del nazionalismo si è ritirata, lasciando libero un ampio spazio per la religione; la forza dell'identità nazionale si è ridotta, mentre quella religiosa si è fatta più forte; le tradizioni importate dall'Occidente durante i decenni della modernizzazione e dell’illuminismo sono state man mano rimpiazzate da valori fondati sulla religione, la spiritualità e il conservatorismo; l'islam politico è diventato una forza con cui i giovani hanno cominciato ad identificarsi, sostenendone la causa.

Le forze liberali, un tempo potenti, si sono ritirate in salotti e circoli marginali; le società arabe (Egitto, Giordania, Palestina, Algeria e altro) hanno spostato il loro sguardo da Parigi e Londra verso Riyadh, Kuwait e Abu Dhabi - e questo in un'epoca in cui quelle capitali erano molto più isolate di oggi. Inoltre, l'ascesa del fondamentalismo islamico ha stimolato la timida ma a suo modo altrettanto forte crescita del fondamentalismo cristiano - una forza sociale conservatrice e sulla difensiva, con lo scopo di difendere la propria identità e il proprio stile di vita di fronte all'ondata islamica. È molto lontano il cosmopolitismo di una volta. Islam e cristianesimo hanno diviso le società arabe su base religiosa.

É stato rivelatore l'osservare, in Egitto ad esempio, il rapido declino delle storiche istituzioni della società civile (sindacati associazioni professionali, circoli, organizzazioni di beneficenza, di fronte alla sfida della crescita esponenziale della corazzata religiosa. È stato anche significativo vedere la sconvolgente ascesa al potere dell'élite religiosa nei media, nelle università e nelle professioni.

Nell'ultimo quarto di secolo, le associazioni degli avvocati, degli insegnanti, degli ingegneri, dei dottori e dei giornalisti (così come quelle degli studenti in tutte le principali università) state controllate quasi senza soluzione di continuità da gruppi con un orientamento pesantemente islamico.

In quel 15% della popolazione egiziana che è cristiana, gruppi religiosi compatti e chiusi si sono affermati nelle scuole private, nelle aziende di medie dimensioni e nelle professioni - tutti con forti legami con la Chiesa. Il catechismo domenicale ha ritrovato la sua popolarità dopo essere praticamente sparito negli anni '50 e '60; nuovi giornali, club e istituti di beneficenza cristiani sono nati ovunque. Allo stesso tempo, le divisioni settarie hanno cominciato ad assumere proporzioni più pericolose. Nel 2006, uno spettacolo teatrale accusato di ridicolizzare l'islam ha provocato violenti scontri ad Alessandria; la conversione di una signora cristiana all'Islam è stata l'occasione di disordini, articoli infuocati e di un forte segnale di insoddisfazione da parte dell’influentissimo pope copto egiziano (nel 2007, un tentativo di conversione nell'altro senso ha provocato gli stessi furori).

Una perdita di appartenenza

In Egitto non c'è un'allarmante divisione settaria. Ma il Paese sta subendo gli effetti di un sostanziale ritrarsi di una parte significativa dei suoi cittadini cristiani dal cuore della vita socio-economica. Questo fenomeno - e quello ad esso associato dell'emigrazione e del 'compattarsi' delle comunità religiose - non è un buon segno per la società egiziana nel suo complesso.

Il declino dell'attiva partecipazione degli arabo-cristiani in politica e nei principali movimenti sociali del Paese è una perdita grave, sia per il peso demografico della comunità sia perché rappresenta una ritirata dalla partecipazione attiva che una società araba con gravi problemi di sviluppo non può sostenere facilmente.

Gli arabo-cristiani hanno ancora un potere economico sproporzionato in quasi tutte le società in cui sono presenti (la tragica esperienza irachena è un caso a parte). Tuttavia, il loro potere economico è limitato: non si traduce in attiva partecipazione alla formazione del futuro della società. Anzi, è vero il contrario: una parte importante delle attività economiche cristiane viene diretta al di fuori dei Paesi d'origine. Un importante banchiere d'affari libanese ha commentato che grandi somme di soldi arabo-cristiani sono pronte a lasciare il Paese al primo segno di grave instabilità. Certo, il capitale in tutto il mondo non ama l'incertezza ed è tendenzialmente conservatore. Ma rimane il fatto che gran parte del potere economico arabo-cristiano è arrivato a vedere i suoi mercati di origine come nient'altro che questo: mercati, non patrie.

Le nuove sfide della diversità

Il ruolo sempre più ridotto dei cristiani non è un problema solo egiziano. Il Libano deve affrontare un'importante sfida per costruire ponti reali tra le sue diverse comunità confessionali.

I decenni a partire dalla metà degli anni '70 - segnati da una devastante guerra civile e da guerre con Israele, da profonde divisioni settarie e da una rapidissima crescita del fondamentalismo islamico (soprattutto, il movimento degli Hezbollah) - hanno fatto crescere la consapevolezza e l'autostima dei cristiani libanesi. I cristiani di Siria, Palestina, Giordania e Yemen sono molto emarginati. Quelli dell'Iraq sono, semplicemente, in fuga dal loro Paese; più di 200.000 l'hanno lasciato dall'inizio della guerra nel 2003, e pochi torneranno.

A Beirut, il College Siriano Protestante è stato la prima scuola a insegnare la Bibbia in arabo - con l'effetto di "arabizzare" il cristianesimo orientale e integrarlo nella cultura araba, intrecciando allo stesso tempo l'arabismo nel tessuto del cristianesimo orientale. Sembra che istituzioni storiche come queste conservino la loro grandezza. Il College, che è poi divenuto l'Università Americana di Beirut, ha continuato per decenni e guidare, educare e ispirare; tra i suoi leader intellettuali c'era Edward Said, l'arabo-cristiano che ha inventano un nuovo modo di vedere sia l'Oriente che l'Occidente dall'”altro” lato, e che rimane simbolo di un ponte culturale tra il mondo arabo e quello occidentale.

La diversità è simbolo di ricchezza e fonte di vitalità nelle società. L'esempio più luminoso di società araba - e islamica - è al-Andalus, la Spagna medievale. Questa ebbe il suo momento migliore quando divenne una società ricca che integrava musulmani, cristiani ed ebrei, era aperta alle idee creative, liberali e di progresso e - soprattutto - era tollerante. L’Islam ha dato prova, nel corso della sua storia, di essere sufficientemente progressista per abbracciare - e persino allevare – l’"altro”. Non c'è alcun dubbio sul fatto che le forze dell'Islam politico continueranno ad esercitare un'influenza significativa sul mondo arabo - dal Golfo al Maghreh. Il test decisivo arriverà se, una volta vittorioso, l'islam politico apprezzerà il ruolo degli arabo-cristiani e li spingerà al ruolo di partner a pieno titolo; e se gli arabo-cristiani che rimarranno vorranno ricoprire questo ruolo.

(Adista, n. 64, 22 settembre 2007, pp. 9-11)

Le Chiese dell'oriente cristiano

La Chiesa Ortodossa di Albania

di John Nellykullen


Il Cristianesimo arrivò in Albania prima del 4 secolo, da due direzioni. I Ghegs nel nord del paese divennero cristiani latini, il popolo Tosk nel sud divenne bizantino. Però a seguito della conquista turca nel quindicesimo secolo, a causa delle vessazioni, intimidazioni e condizionamenti di tipo socio-economico la maggioranza della popolazione divenne musulmana. Durante l’occupazione turca, la popolazione ortodossa che era rimasta in Albania fu sotto la giurisdizione del Patriarcato di Costantinopoli.

L’Albania divenne è divenne una nazione indipendente dopo la guerra dei Balcani degli anni 1912-1913, e quasi immediatemente iniziò un movimento per la indipendenza della Chiesa ortodosssa in Albania. Dopo il 1918 questo movimento fu guidato da P. Fan Noli, un sacerdote della Chiesa ortodossa di Albania esule negli Stati Uniti. Nel 1922 un congresso ortodosso tenutosi a Berat, proclamò in modo unilaterale l’autocefalia della Chiesa ortodossa albanese. I vescovi greci fuggirono dal paese. Nel 1926 Constantinopoli offrì un accordo che avrebbe portato allo stato autocefalia, però il governo di Albania ne proibì l’accettazione. Nel 1929, il vescovo John Bessarion, con la partecipazione di un vescovo ortodosso della Serbia, ordinò due altri vescovi ortodossi per l’Albania. Un Sinodo episcopale era così formato e la Chiesa Ortodossa Albanese si dichiarò nuovamente autocefala.

Come reazione a questo, Costantinopoli depose i vescovi Albanesi ed il governo dell’Albania espulse il rappresentante di Constantinopoli in Albania. Così di fatto era stato creato uno scisma. Però in seguito Constantinopoli riconobbe lo stato di autocefalia e regolarizzando così la situazione il 12 aprile 1937, ricomponendo scisma

Durante questo periodo vi erano dunque l’archidiocesi di Tirana , e le diocesi ortodosse di Berat, Argyrokastro e Korysta. La lingua greca era usato largamente nella liturgia, però un processo di traduzione dei testi in lingua Albanese cominciò nel 1930. Un seminario ortodosso fu fondato in Korysta nel 1937.

La rivoluzione comunista del 1945 segnò l’inizio di una persecuzione selvaggia dei vari gruppi religiosi albanesi. In tal periodo la popolazione cristiana era composta per un 22% di ortodossi ed un 10% di cattolici. Numerosi sacerdoti autorevoli furono massacrati , e nel 1949 l’arcivescovo Christopher Kissi di Tirana deposto. Verso il 1952 tutti i vescovi ortodossi furono scelti tra le persone accette al regime.

Il governo albanese prese in seguito misure antireligiose molto più forti di quelle degli altri paesi dell’Est e nel 1967 dichiarò che tutti gli edifici religiosi, complessivamente 2169 chiese, moschee, monasteri ed altre istituzioni sarebbero stati chiusi e che tutte le pratiche religiose erano così illegali. Nello stesso anno l’arcivescovo ortodosso Damianos di Tirana fu mandato in prigione, dove morì nel 1973.

Quando il governo comunista cominciò disintegrarsi nel 1990 il lungo ed atroce periodo di persecuzione religiosa giunse al termine. Poichè nessuno dei vescovi ortodossi era sopravvissuto, nel gennaio del 1991 il Patriarcato Ecumenico confermò lo stato di autocefalia della Chiesa Albanese e nomino il Metropolita Anastasios di Androusis, un professore dell’università di Atene,come esarca patriarcale dell’ Albania. Era suo dovere sorvegliare sul processo di ricostruzione canonica della Chiesa Ortodossa Autocefala Albanese. Il 24 giugno del 1992 il Santo Sinodo del Patriarcato Ecumenico elesse Anastasios come arcivescovo metropolita di Tirana e di tutta l’Albania e nominò altri 3 vescovi per le altre diocesi del paese. Il governo non riconobbe la nomina degli altri tre vescovi e tuttavia Anastasios fu intronizzato nel mese di agosto. Quando nel luglio del 1996 il Patriarcato Ecumenico procedette alla ordinazione degli altri tre vescovi il governo albanese vietò loro l’ingresso nel paese non accettandone la nomina ed affermando in modo insistente che a capo delle tre diocesi dovevano essere nominati degli albanesi.

Anche la posizione dell’arcivescovo Anastasios come capo della chiesa ortodossa d’Albania fu minacciata nel 1994. In ottobre il presidente Berisha affermò che l’arcivescovo era stato nominato soltanto temporaneamente ed il governo propose una nuovo progetto di costituzione secondo cui i capi delle maggiori confessioni religiose avrebbero dovuto essere cittadini nati in Albania ed avervi risieduto permanentemente per almeno 20 anni. Però quando il referendum sulla nuova costituzione venne presentato il 6 novembre fu battuto dal 60% dei voti. Dal dicembre i rapporti tra Chiesa Ortodossa e Governo migliorarono ma la posizione dell’arcivescovo rimase incerta. Tensione tra i governi di Grecia e di Albania nacquero sulla condizione della minoranza dei greci in Albania e questo complicò la posizione dell’arcivescovo, che è di nazionalità greca. Il censimento del 1989 ha indicato che ci sono circa 60000 greci in Albania, però la maggioranza degli ortodossi del paese sono di etnicità albanese.

I’impasse sulla nomina dei nuovi vescovi fu risolta nel 1998. Con il consenso reciproco del Patriarcato Ecumenico, della Chiesa ortodossa di Albania e del governo di Albania, due dei vescovi già ordinati hanno rinunciato al loro ufficio ed un’altro di loro il Metropolita Ignatios di Berat, fu intronizzato 18 luglio. Nello stesso giorno l’Arcivescovo Anastasios ed il metropolita Ignatios si incontrarono , in sessione straordinaria con due rappresentanti del patriarcato ecumenico ed elessero due nuovi vescovi di origine albanese: l’Archimandrita John Pelushi fu eletto metropolita di Korça e e P. Kosmo Qirjo fu eletto vescovo di Apollonia. Così fu ricostituito il Santo Sinodo della Chiesa Ortodossa Albanese.


Nei primi 6 anni della ricostituzione della Chiesa furono costruiti 70 nuovi edifici sacri, 63 furono ricostruiti o restaurati e 100 furono rinnovati, questo contro le 324 chiese confiscate dal regime comunista. Nel 1992 L’Accademia Teologica della Risurrezione di Cristo fu inaugurata in un albergo abbandonato di Durazzo dove circa 60 giovani iniziarono gli studi per la formazione al sacerdozio, ma poi verso la fine del 1996 fu spostata nel nuovo monastero di S.Vlash sempre in Durazzo Al momento della caduta del regime comunista in Albania erano sopravvissuti appena 22 preti ortodossi ed all’inizio del 1998 soltanto 5 di questi erano sopravvissuti ma 92 nuovi preti erano stati ordinati, tuttavia il numero non è ancora sufficiente per le necessità pastorali. Un periodico mensile ufficiale dalla Chiesa Albanese, NGJALLIA (Risurrezione), ha iniziato le pubblicazioni nell’ottobre del 1992 e nel 1997 la stazione Radio Ortodossa omonima ha iniziato le sue trasmissioni

Nel nord dell’America esistono due giurisdizioni separate per gli ortodossi albanesi. L’arcidiocesi ortodossa albanese in America, è un distinta diocesi di etnicità dentro la Chiesa ortodossa in America ed ha 13 parrochie, è retta dal metropolita Theodosius.

Inoltre la diocesi ortodossa albanese in America che ha due parrochie è sotto la cura spirituale della arcidiocesi greco ortodossa di America.


Territorio: Albania, piccolo diaspora

Guida: Metropolita Anastasios

Titolo: Arcivescovo di Tirana e di tutta l’ Albania

Residenza: Tirana, Albania

Membri: 160.000

Sito Web: http://www.orthodoxalbania.org/

L'Intercomunione agognata e proibita

di Gaëlle Courtens

Nei Cantoni elvetici, la popolazione è divisa quasi a metà tra protestanti e cattolici. E il tasso di coppie miste è assai elevato. Da qui la sofferenza delle famiglie interconfessionali, unite nella vita e divise al momento dell'Eucaristia.

«Sono molti i cattolici svizzeri che sono stati profondamente scioccati dalle recenti misure romane in materia di Eucaristia e in particolare di ospitalità eucaristica nei confronti dei non cattolici». Non usa mezzi termini padre Pierre Emonet, teologo e caporedattore della rivista Choisir, da sempre fortemente impegnato nel dialogo ecumenico in Svizzera. «In molte regioni, e in particolare in quelle connotate ecumenicamente, l'ospitalità eucaristica era ormai prassi più che consolidata. Il fatto è che la maggior parte dei fedeli si aspettava un'apertura da parte della gerarchia». Invece è arrivata l'enciclica di Giovanni Paolo II Ecclesia de Eucharistia.

Una battuta d'arresto per il dialogo ecumenico? Padre Emonet non ne è convinto. «Non credo che alla base sia cambiato granché. Anzi, ho l'impressione che numerosi preti continuino a praticare l'ospitalità eucaristica in silenzio, senza alzare polveroni. Anche sul piano teologico non ci troviamo di fronte a un'impasse ecumenica», afferma. Padre Emonet cita le eccezioni previste dalla stessa enciclica, nonché le conclusioni a cui giunse il Sinodo 72 della diocesi di Losanna, Ginevra e Friburgo, dove si dice che un cattolico può accostarsi alla Santa Cena protestante - vietata - solo nel caso che l'attaccamento del suddetto cattolico alla sua Chiesa e la sua fedeltà all'insegnamento cattolico siano manifesti e riconosciuti, e solo nel caso che il suo gesto non possa apparire come una rimessa in causa della sua fede nell'Eucaristia, né come l'espressione di un relativismo che banalizzerebbe il sacramento. In tale caso le ragioni di un’interdizione scompaiono, e ognuno viene rimandato alla propria coscienza (Décisions et recommandations, n. 117,6).

Per la natura stessa della posta in gioco, la «questione» è diventata «problema», non solo per i cattolici, ai quali di fatto è indirizzata l'enciclica, ma anche per i protestanti. Nel novembre del 2004 il Consiglio della Federazione delle Chiese evangeliche di Svizzera (Fces) ha pubblicato un documento intitolato La Cena nella visione protestante. Scopo dell'opuscolo è quello di dare un contributo al dibattito e alla collaborazione ecumenici. «Dopo l'enciclica sull'Eucaristia molte piccole vittorie acquisite negli anni attraverso un intenso dialogo ecumenico sono state rimesse in questione», afferma il pastore Thomas Wipf, presidente della Fces, cui fanno capo le Chiese riformate e metodiste. «Rispetto a questi temi desideriamo muoverci con la massima attenzione nei confronti della sensibilità cattolica. Non chiediamo ai preti cattolici di celebrare insieme ai nostri pastori e alle nostre pastore la Santa Cena. Ma non dimentichiamoci che esiste un autorevole documento, la Charta Oecumenica, che ha assegnato alle Chiese la missione di muoversi in direzione dell'obiettivo della condivisione eucaristica».

Non a caso anche l'opuscolo della Fces ricorda gli impegni presi nella Charta Oecumenica varata nell'aprile del 2001 a Strasburgo dal Consiglio delle Conferenze episcopali d'Europa (Ccee), e dalla Conferenza delle Chiese europee (Kek).

Di fatto sono le concezioni di «Chiesa» e «ministero» tra le diverse confessioni a rappresentare il maggiore ostacolo all'ospitalità eucaristica. Spiega Emonet: «La principale difficoltà teologica sottolineata dai vescovi cattolici, è che la comunione eucaristica presuppone la comunione ecclesiale. Essa non è ancora acquisita con i riformati, poiché per i cattolici uno degli elementi essenziali ditale comunione ecclesiale è l'accettazione della successione apostolica, ossia dell'ordinazione dei vescovi, e il riconoscimento del primato papale».

vescovi svizzeri hanno incaricato la Commissione nazionale di dialogo cattolico/protestante, di cui padre Emonet è membro, di studiare più a fondo le varie implicazioni teologiche della relazione tra comunione ecclesiale e comunione eucaristica. «La questione è in cantiere», fa sapere Emonet. Nella visione protestante è Gesù Cristo stesso che invita alla sua Cena; essa viene affidata ai credenti riuniti in suo nome. «Alla nostra cena sono invitati tutti», spiega il pastore Wipf. «Ai protestanti non serve un prete consacrato, poiché unico mediatore tra Dio e gli esseri umani è Gesù Cristo».

Per quanto riguarda la diffusione dell'ospitalità eucaristica nelle Chiese svizzere, Wipf conferma l'impressione di padre Emonet: «Nella stragrande maggioranza dei casi il tutto si svolge in sordina, lontano dai riflettori. Nel nostro Paese vi è una tale commistione tra fede cattolica ed evangelica, a livello individuale, familiare, sociale e culturale, che la situazione elvetica di per sé dovrebbe essere considerata già come "straordinaria". Nella vita quotidiana elvetica, sotto un profilo ecumenico, tutto è indistricabilmente connesso, il numero delle coppie interconfessionali aumenta incessantemente: rispetto a tanti altri Paesi la Svizzera rappresenta un caso a sé».

È con questa idea di «eccezionalità» del caso elvetico che il pastore Wipf tenta di interpellare la sensibilità dei vescovi svizzeri, ricordando appunto che la stessa dottrina cattolica prevede già ora la possibilità di ospitalità eucaristica, ma solo in via eccezionale.

Più scettico il pastore Paolo Tognina, responsabile della comunicazione della Chiesa evangelica di lingua italiana in Svizzera. Profondo conoscitore della situazione socio-religiosa della Confederazione elvetica, si dice «poco fiducioso» in materia di dialogo ecumenico, e ancor meno per quanto riguarda la questione dell'ospitalità eucaristica: «Non è tra le priorità dei vertici della Chiesa cattolica svizzera. Oggi essa non è più, come una volta, minoranza nel nostro Paese».

Dati alla mano Tognina fa notare che tra tutti i cantoni una volta considerati "riformati", l'unico che è rimasto di fatto a maggioranza protestante è il Canton Berna. «La Svizzera non può più dirsi un Paese di cultura protestante. Negli ultimi 40 anni la percentuale degli abitanti di cultura cattolica è andata crescendo a causa dell'immigrazione dai Paesi dell'Europa latina. L'arrivo di italiani, spagnoli, portoghesi ha comportato una "cattolicizzazione" della società svizzera. Questo dato sociologico non ha certo contribuito a una maggiore "attenzione ecumenica" da parte della Chiesa cattolica in Svizzera, al contrario. È forte la sensazione di una involuzione rispetto alle conquiste ecumeniche. Le Chiese cristiane tutte poi, sono impegnate in primo luogo sulla propria sopravvivenza».

La Svizzera infatti, come tutti i Paesi europei, non si salva dall'avanzata della secolarizzazione. Cattolici e protestanti continuano a perdere terreno. Secondo i dati dell'Ufficio federale di statistica riferiti al censimento della popolazione del 2000, si professa cattolico il 42% della popolazione residente in Svizzera, mentre i protestanti sono ormai al 33%. La percentuale delle persone che si riconosce in questi due gruppi è passata tra il 1970 e il 2000 dal 95% al 75%. La non appartenenza religiosa, fenomeno ancora del tutto marginale negli anni '70, è salita a una media dell' 11%, e arriva a picchi del 30% nelle zone maggiormente urbanizzate.

Con i nuovi flussi migratori, poi, si sta verificando una «pluralizzazione» relitiosa. L'Ufficio federale di statistica mette in rilievo come solo negli ultimi 10 anni si sia esteso il fenomeno delle coppie miste, non solo biconfessionali, ma anche bireligiose, o di cui un solo partner dichiara la sua appartenenza religiosa. Nel 1970 l'84% delle coppie era monoconfessionale. Oggi lo sono il 60% delle coppie residenti in Svizzera. La maggiore progressione tuttavia si osserva per le coppie miste cattolico-protestanti, che sono passate dal 3,3 % del 1970 al 17% della popolazione del 2000. «La mia esperienza personale mi dice che sono di più i cattolici ad accostarsi alla Santa Cena protestante, che non gli evangelici a partecipare alla Messa cattolica», nota Tognina, che vive e lavora nel Canton Ticino, tradizionalmente cattolico. «E non è detto che le persone profondamente credenti non soffrano per questa situazione di separazione di fronte alla Cena del Signore».

(Jesus, ottobre 2005, pp. 60-62)
Il valore teologico del sincretismo
nella teologia pluralista

di Alfonso Soares


Questo testo vuole evidenziare, nel modo più schematico possibile, il valore teologico del sincretismo religioso, inserendolo nella dinamica divino-umana della rivelazione. Tenterò di suggerire alle lettrici e ai lettori che il sincretismo è la rivelazione di Dio in atto, considerando che non esiste altro modo di accedere al mistero se non facendolo a poco a poco, in forma frammentata, fra avanzamenti e retrocessioni, luci ed ombre (...).

Di che stiamo parlando e perché insistete su un termine controverso come questo?

Molti termini si contendono l'attenzione della teologia pluralista in questi tempi di incalzante dialogo. Esiste l'ecumenismo (la fede cristiana celebrata fra le varie Chiese in un culto comune), il dialogo interreligioso (la convivenza armoniosa fra tutte le religioni) e perfino il dialogo afro-interreligioso. Quest'ultimo si può intendere a partire da due esperienze. La prima, come avvicinamento alle religioni afroamericane ((Candomblé in Brasile; Vodu ad Haiti; ecc.) è, per un verso, quella di penetrare sempre più nella vita e nella teologia di queste tradizioni; e, per altro verso, quella di impedire che esse siano ignorate o trascurate nelle discussioni ufficiali sul dialogo interreligioso. La seconda esperienza è a partire dalla realtà afro così come si incontra all'interno del cristianesimo: in questo caso si tratterebbe di conquistare sempre maggiore spazio interno per l'espressione e l'attuazione delle differenze culturali nelle Chiese cristiane (. ..).

Oltre a quelli citati, è necessario prendere in considerazione altri termini:

Macroecumenismo, che, ratificato nell'Assemblea del popolo di Dio (Quito, 1992), viene apprezzato dai gruppi popolari, in particolare dagli Operatori della Pastorale per i Neri/e. Implica un ecumenismo dalle frontiere flessibili, basato sull'esperienza delle comunità;

Dialogo Intrareligioso, che coincide con quella che prima è stata definita come seconda maniera di vivere il dialogo afro-interreligioso (...);

Inculturazione, che è attualmente il termine più usato dalla Chiesa cattolica (...). Su questo, hanno trovato un consenso i "conservatori" e i "progressisti". Ed è proprio qui il pericolo: due persone che difendono l'inculturazione magari stanno parlando di realtà o prospettive diametralmente opposte. Nel caso specifico delle comunità culturali autoctone, in genere per inculturazione si intende una costruzione che gli stessi soggetti stanno facendo nel loro proprio contesto a partire dalle sollecitazioni che il Vangelo opera nelle loro tradizioni culturali. Per la gerarchia cattolica, invece, l'inculturazione dovrebbe essere il canale tramite il quale la Chiesa ritorna all'ideale di una cultura cristiana, valorizza e rinnova la sua cultura tradizionale. Questo uso ambiguo è preoccupante. (...) Prendiamo il caso della religiosità afro, per esempio: cos'è l'inculturazione per queste culture? Perché, dopo tutto, quello che sta proponendo recentemente la Chiesa lo facevano già i neri secoli fa, e questo viene definito sincretismo. Di più: attualmente si parla di dialogo fra cristianesimo e religioni di origine africana. Questo costituisce già un passo avanti, a parte il fatto che ci sono voluti 500 anni per riconoscere il Candomblé come religione. Ma in quali termini intraprendere questo dialogo se il 90% dei membri del Candomblé è costituito già da cattolici?

Irreligionare, parola nuova e brutta per una vecchia sfida, che già doveva essere sottintesa nel termine inculturazione: ogni religione si trasforma a partire da sé, attraverso il contatto che stabilisce con le altre; è necessario permettere che la religione si trasformi al ritmo delle crisi, delle scoperte e degli scambi che effettua con le altre religioni. (...) Una comunità religiosa accoglie un'altra religione, assimilando quello che le sembra più appropriato e scartando quello che non le conviene. Come ho affermato in altre occasioni, il popolo irreligiona quello che può o vuole accogliere della nuova tradizione che viene da fuori. Di fatto, molti praticanti della tradizione degli Orixàs, dell'Umbanda, del Vudù, della Santeria o di altre variabili religiose della nostra eredità indigena e africana, si sentono sinceramente cattolici. Accolsero (molte volte obbligati, vale la pena ricordarlo) nelle loro tradizioni di origine l'inserimento cristiano, depurarono quello che sembrava loro inumano o senza senso, mescolarono quello che non aveva molta importanza e finirono per mantenere intatto quello che ritenevano positivo e arricchente per la propria cosmovisione originaria. Se osserviamo attentamente, tutto ciò non differisce in nulla da quello che si conosce con il nome di sincretismo.

Sincretismo. Quando lo menzioniamo, il primo impulso è di pensare a qualcosa di degradato, a un difetto di produzione (...). In realtà il cristianesimo ufficiale, clericale, asettico non è mai esistito nella vita reale. Quello che esiste sono i contatti religiosi che si stabiliscono tra gruppi e individui con forme diverse di dialogo. (...). In definitiva, è un lavoro di Sisifo cercare di contenere la fame religiosa delle persone nella sfera di certi ingredienti e condimenti, soprattutto se teniamo conto di questi tempi postmoderni, di laicità estrema da un parte e di abbondante offerta di significanti religiosi dall'altra. (...)

Il sincretismo è sempre stato e continua ad essere presente nelle relazioni storiche tra le religioni

(...) Il cristianesimo, per essere una religione universalista, non può sfuggire al sincretismo, dal momento che si è assunto la responsabilità di contenere, fin dal principio, tutta la pluralità esistente nel genere umano. La sua principale argomentazione per tale pretesa si fonda sulla certezza che la rivelazione di Dio all'umanità abbia raggiunto in Gesù di Nazareth un livello di profondità senza pari, prima o dopo tale evento (pienezza della rivelazione). C'è qui l'eccellenza e, al tempo stesso, il tallone d'Achille di tutta la storia del dogma cristiano. Come si può conciliare l'assoluto di Dio che si rivela con l'inevitabile relatività del mezzo utilizzato e dei suoi risultati? ... Lo sforzo popolare di unire divinità di diversa provenienza e, in alcuni casi, contraddittorie nel seno di una stessa esperienza religiosa, non avrà alcuna somiglianza con la geniale formulazione simbolico-teorica del dogma trinitario, che cerca di raggiungere il difficile equilibrio tra la convinzione monoteista e l'esperienza del molteplice nella divinità? Da un punto di vista antropologico-pastorale, perché dovrebbe essere sospetto "offrire un culto" agli antenati e agli elementi della natura (Orixàs) quando le devozioni mariane e il culto dei santi cattolici sono considerati positivamente e appaiono pedagogicamente importanti? (...)

È un fatto che la gerarchia cattolica contemporanea, per quanto con più pudore che in passato, continua a interrogarsi sulla miglior forma per combattere la spiritualità sincretica. In fondo, lo fa per una questione di potere. Da parte loro, indifferenti alla controversia, grandi segmenti della popolazione dei nostri Paesi continuano ad offrire un culto alle loro divinità e ad osservare alcuni riti cristiani, pienamente convinti che tali modi di comprendere e di praticare la religione siano sicuramente cattolici ...).

Il sincretismo è, prima di tutto, una pratica che precede le nostre opzioni teoriche e bandiere ideologiche

(. . .) In primo luogo, si tratta di riconoscere il sincretismo de factu; solo dopo può avere un senso la domanda su cosa potremmo apprendere teologicamente da questo dato reale. (.. .) Tollerato dalla pratica pastorale in nome della carità cristiana, il sincretismo è ripudiato nelle dichiarazioni e nei documenti ufficiali. Fortunatamente, questi ultimi anni sono stati caratterizzati da una timida revisione di questa posizione.

D'altro lato, sarebbe ingenuo non tener conto che molte delle pratiche sincretiche vissute dalla nostra gente sono il prodotto della forma violenta con cui il cristianesimo si e imposto in tutta l'America Latina, di modo che ai popoli non sono rimaste che abitudini distorte, camuffate e frammentate delle loro tradizioni. Per questo sono promettenti i movimenti che oggi hanno ripreso queste tradizioni ancestrali evitando di pagare pegno ai rituali cristiani/cattolici. (...)

Allo stesso tempo, un nuovo cammino è iniziato, a fatica, ad opera dei settori cristiani più progressisti, tra i quali il movimento degli Operatori neri di pastorale (Apn) e le sue ramificazioni in America Latina e nei Caraibi. Maggioritariamente cattolici, essi intendono riscattare le tradizioni nere e riaffermare la propria identità culturale. E qui, inevitabilmente, emerge la questione di come affrontare il sincretismo de facto o la doppia appartenenza religiosa dei membri di questa comunità. Fino a che punto un cristiano può permettersi di avanzare nella ricerca delle sue autentiche radici africane? È possibile essere allo stesso tempo un nero cosciente e un cattolico? La questione è la stessa in qualunque latitudine: posso essere aimara e cristiano, hindu e seguace del Vangelo, cinese e partecipante alla funzione domenicale, bantu e credente nella resurrezione?

Una volta che si sia ammesso con tranquillità che tali connessioni si stanno realizzando nella pratica, possiamo passare al punto successivo: questa situazione reale di fatto, non fabbricata artificialmente per mero capriccio di alcuni teologi e teologhe, ci può insegnare qualcosa dal punto di vista non solo pastorale ma più specificamente teologico? (...)

Teologi come M. de F. Miranda preferiscono ancora usare il termine inculturazione a quello del sincretismo e affermano che è preferibile "seppellire per sempre questo concetto del mondo teologico, dal momento che oggi un corretto e ortodosso sincretismo riceve la denominazione di inculturazione, che non è gravata da letture negative del passato come avviene nel caso del termine sincretismo".

La doppia appartenenza religiosa è una delle possibili interpretazioni naturali del dialogo interreligioso

Se il termine non e unanime, perlomeno si verificano sensibili passi avanti per quanto riguarda l'accettazione o la tolleranza della realtà rappresentata dal vocabolo.

(...) Un profeta del dialogo tra le religioni, François de L'Espinay, sacerdote cattolico e ministro di Xangô (orixà della giustizia, giudice e guerriero, ndt) nel II Axé Opò Aganju, passò i suoi ultimi anni di vita a Salvador de Bahia (1974-1985). Arrivò ad essere scelto come mogbà (membro del consiglio di Xangô). "Il giorno in cui il pai-de-santo (autorità religiosa del Candomblé, ndt)mi chiese di far parte del consiglio, sapevo di dover passare per una iniziazione. Fu un grande problema. Non sapevo cosa fosse. Sarebbe andata contro il cristianesimo? Non rinnego nulla né del cristianesimo né del sacerdozio (...). Nel Candomblé io promisi fedeltà a Xangô. Ciò non allontana per nulla dalla fedeltà a Cristo".

Se questa pratica diventasse una regola, si domanderanno molti, come giustificare allora la mediazione della Chiesa o la sua funzione salvifica (Lumen Gentium 14)? Prevenendo questi interrogativi, François in quella occasione ponderava quanto segue: "Perché Dio dovrebbe esigere un contatto per mezzo di un traduttore e non direttamente con la sua parola? Egli si rivela come Padre. Ma un Padre non parla la lingua dei suoi figli? (...) Dio è più grande e più vivo. Non si racchiude in una formula rigida, non è prigioniero delle sue opzioni. Non fa discriminazioni tra i suoi figli. Nessuno può dire: 'È a me che si è rivelato e soltanto a me'”.

La Chiesa uscirà in questo modo ridimensionata? Sinceramente, se questo fosse il prezzo da pagare perché il Regno di Dio sia servito, ben venga. Dopo tutto, affermano che la Chiesa è il lievito e non la torta finale (...). François sarebbe stato d'accordo, giacché, secondo lui: "Basterebbe uscite dai nostri limiti cementati nell'esclusivismo, nella certezza di possedere l'unica verità, e ammettere che Dio non si contraddice, che parla sotto forme molto diverse e complementari le une alle altre e che ogni religione possiede un deposito sacro: la Parola che Dio ha annunciato loro. Ecco tutta la ricchezza dell'ecumenismo, che non deve limitarsi al dialogo fra cristiani". (...)

Un'esperienza ibrida può essere segno del disegno di Dio di comunicare se stesso

(...) Sua Santità Giovanni Paolo II, ricevendo in visita ad limina alcuni prelati brasiliani, ha indicato la religiosità popolare come tema importante e il sincretismo religioso come una delle principali minacce. Per il Santo Padre: 'la Chiesa cattolica guarda con interesse a questi culti, ma considera nocivo il relativismo concreto di una pratica comune di entrambi o della mescolanza di essi, come se avessero lo stesso valore, mettendo in pericolo l'identità della fede cattolica. La Chiesa si sente in dovere di affermare che il sincretismo è dannoso quando compromette la verità del rito cristiano e l'espressione della fede, a detrimento di una evangelizzazione autentica”.

Mi sembra di capire che nel messaggio pontificio esista un margine di dialogo, dal momento che se ne deduce che se il sincretismo non compromette la verità del rito, ecc., questo sarà benvenuto. In definitiva, come ben sapeva il predecessore di Benedetto XVI, la verità del rito e l'esperienza della fede non sorgono da un momento all'altro, e un'autentica evangelizzazione presuppone un lunghissimo processo di incarnazione dello spirito evangelico nella vita delle persone e delle comunità. Inoltre, sembra che il papa riconosca che l'unico complesso di criteri che il popolo possiede per giudicare se il Vangelo è, di fatto, "una buona notizia" è la sua stessa cultura autoctona e, pertanto, che non può abbandonarla automaticamente per diventare "evangelico" (...).

In varie occasioni e già da molti anni, le implicazioni contenute nella pratica e nell'esempio di personaggi come L'Espinay hanno sfidato la fede, la spiritualità e il modo di fare teologia di molte persone. (...) Sembra facile riscattare il sincretismo come condizione sociologica di ogni religione: in definitiva, nessuna di esse, come fatto culturale, esiste indipendentemente dalle altre tradizioni delle quali è tributaria. Ma cosa bisogna dedurre teologicamente dall'opzione di un padre cattolico che non ha mai creduto necessario mettere a rischio la sua fede originaria per abbracciare la spiritualità degli Orixàs? Quale sarebbe la vera funzione della Chiesa in queste situazioni di sincretismo e di doppia appartenenza religiosa? Quali servizi ci si attendono dai cristiani in tali contesti? Guardare al bene del popolo equivale a convertirlo (nella sua totalità) ad un cristianesimo più ortodosso? Insomma, la salvezza-liberazione del popolo di Dio è sinonimo di adesione matura da parte delle persone a questa comunità chiamata Chiesa?

Per rispondere alle questioni poste dalla pratica di padre François così come alle tante persone che attualmente militano in diversi movimenti (macro-)ecumenici, la teologia cristiana dovrà rivolgere la sua attenzione a se stessa e ai fondamenti della fede cristiana, cioè alla possibilità e alle modalità dell'accesso umano alla presunta novità evangelica. Una discussione epistemologica realmente aperta potrà costruire una teologia della rivelazione più capace di includere nei suoi circuiti altre possibili risorse di autocomunicazione divina nella storia, altre interfacce della rivelazione.

Domandiamoci infine: esperienze come quelle del padre L’Espinay sono ancora propriamente cristiane, o si collocano in un'altra tradizione spirituale, che non è più cristiana né propriamente del Candomblé? Sarebbe un caso di "sincretismo di ritorno" (come suggerisce Pierre Sanchis), di inculturazione (come preferiscono molti) o di inreligionazione (vedi Torres Queiruga)? È una strategia rischiosa, conveniamo, per rifondare la plantatio ecclesiae o un gesto vissuto nella gratuità di chi non si aspetta niente in cambio?

Il sincretismo mostra che nessuna religione ha forze, permesso o mandato per esaurire il Senso della Vita

Il vantaggio di una parola controversa come sincretismo rispetto a inculturazione è che la prima mette immediatamente in evidenza dov'è il problema teologico-dogmatico: la rivelazione di Dio comporta evidenti ambiguità, errori e contraddizioni che devono essere spiegati come componenti essenziali e non come fallimenti circostanziali del processo dell'autocomunicazione divina con l'umanità. Come affermava il card. Lercaro già cinquant'anni fa: "bisogna essere prudenti pure di fronte ad errori flagranti, per rispetto alla propria (maniera umana di accedere alla) Verità" (...).

Allora, come leggere teologicamente ed ecclesiologicamente le esperienze sincretiche? Esempi come quello del padre François, che hanno fecondato tante buone esperienze profetiche e liberatrici nelle nostre comunità sono riusciti ad aprire le porte ad un cambiamento nell'autocomprensione cristiana? Una nuova categoria potrebbe essere utile per capire quello che sta succedendo a noi e a quanti ci stanno intorno. Mi azzardo ad introdurla nel dibattito: la fede sincretica. Penso che anche la teologia (fondamentale e dogmatica) più nuova non potrà non riconoscere, con l'ausilio delle scienze religiose, la condizione e i condizionamenti radicalmente umani dell'accesso a qualsiasi fede, religiosa o meno. (...) Di conseguenza, si può parlare di fede sincretica per identificate il modo stesso in cui una fede "si concretizza". Di fatto, non esiste una fede allo stato puro, essa si manifesta nella prassi.

(...) Potremmo perfino domandarci: dove si situa la cattolicità di queste esperienze/testimonianze di sincretismo conosciute, tanto nostre? Questo mi fa venire in mente la nota frase biblica: “Nella casa di mio padre ci sono molte dimore". Ispirandoci ad essa, il segno della cattolicità si amplia fino ad abbracciare una pluralità di esperienze che hanno in comune l'incontro con Gesù di Nazareth. Forse non tutte hanno generato o generano la sequela strictu sensu, ma nel cammino (di Emmaus?) hanno incrociato Gesù. La cattolicità non è proprietà esclusiva della istituzione Chiesa cattolica.

(...) Le esperienze sincretiche, malgrado le inevitabili ambiguità che accompagnano qualsiasi biografia o processo storico, sono anche variazioni di una esperienza d'amore (o, se vogliamo, eventi di grazia o di gratuità, o piuttosto di spiritualità). E dove c'è amore non c'è peccato. Perché il popolo do santo (del Candomblé) non si stacca dalla Chiesa e non si oppone ai suoi rituali? Forse perché, come afferma fra B. Kloppenburg, "sono quelli che più amano la Chiesa in America Latina, sebbene siano quelli che più si servono di essa”.

Mi compiaccio di ripetere che la storia della rivelazione divina è una storia di amore fra Dio e l'umanità, la quale ha per talamo la storia. Perché fa parte della rivelazione anche il modo in cui i popoli sono arrivati ai dogmi, cioè fra avanzamenti e retrocessioni, errori e successi, gesti amorosi e peccaminosi. Solo così possiamo capire come il complesso delle "rivelazioni" autoescludenti raccolte e mantenute le une accanto alle altre dai redattori biblici costituisca oggi, per una gran parte dell'umanità, la "Parola di Dio". Insomma, altre variabili possibili, a partire da una stessa intuizione originaria, si verificano in quello che per convenzione abbiamo chiamato Tradizione cristiana. È il caso della fede abramitica alla quale attualmente fanno riferimento tanto gli ebrei quanto i cristiani e i musulmani. E, se è così, il sincretismo può essere solo la storia della rivelazione in atto, visto che costituisce il cammino reale della pedagogia divina in mezzo alle invenzioni religiose popolari.

L'insistenza/audacia sincretica non desidera abbandonare nessuno dei due amori (cattolicesimo e candomblé; reincarnazione e messa domenicale; culto degli antenati e lotta evangelica contro le ingiustizie; viaggio astrale e via crucis). Li vuole tutti e due; è contraria alla monogamia. Se le chiediamo spiegazioni, offre quello che il poeta Drummond aveva denominato "le irragionevolezze dell'amore". Risposta talvolta disperante per la vecchia scolastica (giacché, come assicurava Vasconcelos, quando la gente racconta, sconcerta”), ma vitale per la mistica di ieri, di oggi e di sempre. Tutto questo è affascinante per chi sta vivendo tale esperienza, ma non per questo meno tremendo, dal momento che è un sapere che si assapora e che, a partire da qui, genera un nuovo potere oriundo di secolari contropoteri (gay, afrodiscendenti, donne, giovani).

Tuttavia, non c'è fretta di battezzare le varie esperienze religiose che andiamo tacendo: queste sono già valide di per sé e occupano il loro posto nel sorprendente mandala di risposte all'autocomunicazione di Colui/Colei che ci ha amato per primo/a. Per chi ha nel sangue le impronte della tradizione cristiana, qui non c'è niente di spaventoso, dato che il modo e il luogo dell'adorazione di Dio non sono importanti, se lo facciamo, come Gesù, in Spirito e Verità. Forse, alla fine, l'equilibrio più difficile, in questi tempi plurali, è quello di una sottile distinzione che dovremmo tenere a mente al momento di parlare di cattolicità: guardarci dal rullo compressore del "c'è posto per tutto", eclettico ritornello post moderno, e rivolgere il cuore al "c'è posto per tutti". Questo, sì, utopicamente evangelico ed evangelicamente plurale.


(Adista, n. 86, 02.12.2006, pp. 10-14)
Venerdì, 18 Aprile 2008 22:29

Dio è amore. E la Chiesa? (Marcelo Barros)

Nella lingua ebraica, il termine compassione viene dalla stessa radice di utero e significa l’amore che, normalmente, una madre sente per il figlio o la figlia che ha generato. Se la nostra vocazione è vivere con tutte le creature questo amore compassionevole, la comunità dei discepoli e delle discepole di Gesù deve, in primo luogo, offrire questa testimonianza d’amore.

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