Formazione Religiosa

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

I Maristi ed il magnificat

di Franco Gioannetti

Nel cantico del Magnificat ci viene presentato un itinerario che occorre percorrere per vivere la virtù della “povertà” in esso; per le nostre comunità, la “povertà” può divenire infatti missione e testimonianza davanti al mondo.

La virtù-povertà è infatti un segno con cui Dio rivela il suo amore verso di noi ed un atteggiamento di vita con cui testimoniamo il suo amore al mondo.

Il Magnificat inizia con un dialogo d’amore “L’anima mia magnifica il Signore”, è l’espressione della gratitudine che risponde al Signore il quale “ha fatto di me grandi cose”.

In questo dialogo noi troviamo Maria “la donna povera” perché da un lato si lascia preparare dal Signore e riceve da lui i doni che le riempiono le mani, e lascia fare grandi cose al Signore, ma nello stesso tempo è povera perché oltre a questa disponibilità ad essere “preparata”, dimostra anche disponibilità ad essere “mandata”. E’ sempre con le mani attivamente vuote per ricevere i doni, come quando si è sentita “colmata di grazia”; è ancora con le mani vuote per offrire questi doni, come quando si è sentita dire “lo chiamerai Gesù”; in una espressione che indicava tutta la missione di Cristo; accanto alla sua, aperta al mondo. Maria è povera, con le mani vuote, “preparata da Dio, cioè continuamente espropriata di se stessa per accogliere i doni del Signore; Maria è povera anche quando è continuamente “mandata” da Dio, perché ancora espropriata dei doni che le ha dato in funzione degli altri.

Noi maristi non possiamo non essere coinvolti in questa povertà, dobbiamo perciò avere le mani attivamente vuote per accogliere tutti i doni che il Signore ci dà. E’ un aspetto fondamentale, mi sembra, della nostra spiritualità. “Mio Dio, fate attraverso di me delle grandi cose... io riconosco il mio nulla, l’onnipotenza di Dio, facendo questa preghiera” (E.S., Doc 132, § 28).

Ma è anche “povertà” permettere che egli ci espropri continuamente di noi stessi e dei suoi doni, quando lasciandoci ancora con le mani attivamente vuote, egli ci chiede di non conservare per noi i doni, perché essi diventano veramente tali quando ce ne sentiamo espropriati dalla missione che il Signore ci affida; diventiamo così i poveri a cui è annunciato e che annunciano il Regno.

A questo punto saremo dei poveri, ma la povertà non sarà solo una nostra virtù, sarà anche il mezzo con cui il Signore rivela il suo amore verso di noi che riempie di doni per invitarci “in missione”.

Così la povertà deve divenire veramente il nostro stile, uno stile che permette a Dio di manifestare il suo amore per ogni singolo “che invia” verso il mondo.

Ma questa povertà che accoglie e che dona non è una virtù anonima, e neanche una virtù innata; è una virtù che ha nella storia della salvezza dei protagonisti, dagli anâwim del Vecchio Testamento di cui il Cantico di Anna è un’espressione, ai due grandi protagonisti del Nuovo Testamento Maria e Gesù.

E’ attraverso questi modelli che riusciamo a comprendere i lineamenti veri di questa povertà.

Di fronte ai grandi problemi della vita dobbiamo ispirarci a questi modelli, per presentarci con una volontà chiara in risposta alle esigenze che ci vogliono presenti nel mondo.

Quali sono questi lineamenti di Maria e Gesù poveri?

Direi che Maria è stata povera e “per la sua umile condizione” e per la sua assoluta adesione alla proposta di Dio: “Sia fatto di me secondo la Tua parola”. Gesù ha abbandonato ogni avere: “il Figlio dell‘uomo non ha neanche dove posare il capo”, ha rifiutato la tentazione del “potere-contare” rifiutando di essere Re, rifiutando le altre proposte, non lasciandosi avvolgere dalle cose che contano quando si è espropriato di se stesso, offrendosi al Padre ed agli uomini nel suo abbassamento (kenosis).

Siamo dunque, come figli di Maria, invitati a far divenire vita questo Cantico; impegnandoci ad essere continuamente in cammino, evitando le posizioni che installano, per vivere veramente al di là dell’avere”, al di là del “potere” attraverso una serie di gradini che l’esperienza di Dio ci farà percorrere.

Può essere questo per noi una parte della scala della nostra kenosis o abbassamento

- dall’avere non solo fino al dare ma... fino ai darsi; dare è sempre un atto di ricco; darsi è…condividere

- dal potere all’accoglienza

- chi ha potere invade la vita dell’altro

- chi accoglie fa come Maria che sa apparire e ritirarsi, per essere “serva” nella missione di Gesù

- chi accoglie non invade la vita degli altri, neppure con la scusa di far loro del bene.

- dal valere al valorizzare

- passare dal “valere” delle cose che contano nel mondo al “valorizzare” ciò che è piccolo.

Un grande impegno ci si offre allora ed un lungo cammino, se crediamo che povertà sia trascurare le cose che valgono di fronte al mondo, per valorizzare le cose trascurate

- essere sempre per via, andando lì dove gli altri non vogliono o non possono andare

- trascurare ciò che “brilla” per scegliere il servizio nelle situazioni di emergenza sia come religiosi che come gruppi laicali

- saper rifiutare la cultura dell’apparire e dell’effimero per realizzare nelle comunità e nelle famiglie ciò che la nostra vocazione esige

- non far contare, nelle comunità, in primo luogo, le grandi iniziative, le statistiche, i successi ma la santità invisibile.

Passare dal valere al valorizzare ci porterà come discepoli e discepole di Colin al servizio degli emarginati: i poveri della malattia, del reato, della fragilità, dell’anonimato; i “pellegrini” della carta bollata” negli uffici della burocrazia, dell’assistenza pubblica.

In questi d’altronde si realizza oggi la kenosis di Cristo, perché ci richiamano una vera presenza del Signore nel mondo.

Maria è la Serva del Signore

Cristo è il Servo di Yawhé

Il Padre ha guardato “alla sua povera serva” o “alla sua umile condizione”. Il Padre ha mandato “il Figlio diletto”.

Mi sembra che questa sia una strada essenziale, per la nostra missione, perché sarà la nostra povertà a divenire servizio come è stato per un Colin, uno Champagnat, una Chavoin, una Perroton.

Questa riflessione ha tentato di presentare Gesù e Maria come poveri.

A noi di seguirli!

E nel seguirli ripensare con fiducia e gioia le parole di Maria:

“Il Signore ha fatto in me grandi cose”

e le parole di Gesù:

“Lo Spirito del Signore è sopra di me”.

Il dono dello Spirito ricevuto, nella docilità, ci renderà capaci di diventare “poveri servi”, che fanno crescere il mondo nella risurrezione di Cristo e che sono un segno trasparente che il mondo viene ricostruito nella verità.

Romania

Una sfida per un futuro prossimo

di Rosangela Vegetti


La situazione di questa nazione è di grande speranza per l’avvenire dell’Europa. Sul piano religioso (l’86% della popolazione è ortodossa), potrebbe essere un terreno di proficue esperienze ecumeniche. In un recente viaggio una delegazione di responsabili degli uffici di ecumenismo delle diocesi lombarde, ha incontrato, mesi addietro, esponenti della Chiesa ortodossa, in vista della III Assemblea ecumenica europea che è stata tenuta lo scorso settembre a Sibiu.

La Romania è un paese vicino a noi, vanta radici culturali latine a partire dalla conquista dell’imperatore Traiano, è membro della comunità europea, assorbe parecchie attività italiane “delocalizzate” e faticosamente sta ricostruendo la propria vita sociale e politica dopo il lungo periodo comunista, per noi però è ancora da scoprire nelle sue varie connotazioni, a partire dalla sua profonda tradizione religiosa. Potrebbe essere un terreno di proficue esperienze ecumeniche di incontro e dialogo in vista di progetti nuovi di amicizia e solidarietà in questo tempo di ricostruzione e apertura al futuro, e questo è l’intento che si sono dati da tempo i responsabili degli uffici di ecumenismo delle diocesi di Lombardia con capofila Milano.

Capofila perché già il cardinale Martini aveva aperto il cammino con, scambi di visite con il patriarca di Bucarest e altri metropoliti, e inaugurato un metodo di “intervento” per progetti di solidarietà connotato da ampie intese di collaborazione per evitare ogni ingerenza o presenze fuori misura. Tale è infatti il timore di chi si trova nella necessità e vede sorgere opere e iniziative che superano ogni possibile gestione locale (ospedali, scuole, chiese, seminari, case religiose, strutture di servizio) e assumono il carattere di “imprese straniere”.

In un recente viaggio, una delegazione lombarda di incaricati ecumenici diocesani, giornalisti e operatori pastorali, con monsignor Coccopalmerio, vescovo delegato per l’ecumenismo della Cei (ora presidente del Pontificio consiglio per le leggi), ha incontrato esponenti della Chiesa ortodossa e insieme valutato quanto si possa fare per il prossimo futuro, sia in vista della III Assemblea ecumenica europea, che culminerà a Sibiu nel prossimo settembre, sia per conoscere la realtà della Chiesa sorella cui appartiene il gruppo più numeroso di immigrati est-europei in Lombardia. I metropoliti hanno manifestato le molteplici difficoltà ed esigenze di vita cui stanno cercando di rispondere perché la popolazione romena molto cammino ha ancora da fare e molto si attende dal sostegno dei popoli europei. Si è parlato di possibili gemellaggi tra parrocchie - in alcune città lombarde esiste già tale forma di collaborazione con parrocchie romene - tra diocesi e istituzioni, magari anche enti locali, e si sono visitati centri diocesani e monasteri.

Attenzione ai gravi bisogni sociali

La Chiesa ortodossa romena conta sei metropolie autonome, ognuna con il suo sinodo dei vescovi, ma solo dopo, il 1989 ha potuto organizzare un dipartimento per l’assistenza «sociale, perché nel periodo comunista non poteva svolgere alcuna attività filantropica. Ora lo Stato non è più in grado di rispondere alle svariate necessità ed è la Chiesa che deve intraprendere iniziative idonee, che vanno dalle mense per i poveri, al sostegno ai disoccupati, a forme di aiuto e protezione per i minori, a interventi contro il dilagare della droga tra i giovani, violenze in famiglia, anziani soli, ecc. «Sono stato 4 anni responsabile del dipartimento dei problemi sociali a Craiova», spiega monsignor Nicodim, vescovo di Severin e Strehaia, «quando ero vescovo vicario del vescovo Teofan. Siccome ero stato quattro anni in Grecia, ho visto il loro sistema messo a punto da tempo, qui invece abbiamo dovuto prima attrezzare gli uffici, poi stabilire i progetti e formare personale; abbiamo assunto assistenti sociali dalla nostra facoltà di teologia ma abbiamo avuto scarsità di spazi; abbiamo ottenuto diversi finanziamenti da ong estere, cercando di stare nei limitati spazi disponibili». In pochi anni si è passati da una vita religiosa circoscritta a monasteri e liturgie al compito complesso di organizzare risposte a gravi bisogni sociali.

«Oggi il rapporto Stato-Chiesa soffre di una certa tensione», spiega il vescovo Nicolae di Timisoara, la seconda città del Paese con 276 parrocchie ortodosse, 300 sacerdoti, e 650.000 fedeli, «perché la Chiesa desidera recuperare le proprietà che le sono state confiscate negli anni passati. Lo stato comunista aveva infatti nazionalizzato e acquisito tutti i beni ecclesiali, e per decine ne ha usufruito, oggi lo Stato dice che la Chiesa è autonoma e può fare quello che vuole, però dimentica come era prima, non sostiene l’attività della Chiesa se non su richiesta e in piccola misura. Il finanziamento ci viene dai fedeli. Circa l’attività sociale-caritativa, nella nostra diocesi, abbiamo un settoreche si occupa di questo .ed è coordinato da un responsabile amministrativo; si volgono attività in particolare per i bambini, che provengono da famiglie sciolte e abitano in strada o in orfanotrofi statali; la diocesi ha cinque case di tipo familiare, dove questi bambini sono presi in affido,e alcuni rappresentanti della diocesi si occupano dei bambini ammalati di Aids per la loro integrazione nella società; lavoriamo anche con i rispettivi genitori e abbiamo una casa che si occupa delle persone che vengono dal traffico degli esseri umani per prostituzione. Attraverso rappresentanti della Chiesa assicuriamo assistenza liturgica, religiosa ed educativa negli asili, nelle scuole e nei licei di Timisoara, abbiamo insegnanti di religione. (uomini e donne) per una minima catechesi nelle scuole. Dopo il 1989 nelle scuole si sono manifestati problemi nuovi come droga e prostituzione, così cerchiamo di assistere questi casi nelle scuole. Adesso ci prepariamo ad aprire un servizio in soccorso agli anziani per assicurare assistenza a domicilio».

La situazione generale è di grande speranza, ma certamente difficile e complessa perché i fedeli non raggiungono il 10% dell’intera popolazione e necessitano di una formazione che vada oltre la sola devozione inoltre i più giovani sono spesso costretti ad emigrare per trovare - sostentamento alle famiglie ed interi paesi sono spopolati; solo la prospettiva di nuove infrastrutture create con l’appoggio europeo fanno sperare nel ritorno di tanti lavoratori emigrati e di donne romene attualmente lontane dalla. famiglia.


Apertura ecumenica


La Chiesa ortodossa romena è comunque interpellata dal corso dell’evangelizzazione dei tempi presenti, secolarizzati e attratti dal progresso materiale, dalla proposta di maggiore apertura ecumenica verso le altre Chiese cristiane e di mediazione tra antiche tradizioni e modernità: «In Romania da molti secoli abbiamo la stessa lingua per la liturgia e la vita quotidiana, per cui il linguaggio liturgico non è distante dal linguaggio parlato; avete sentito che la Chiesa ortodossa è conservatrice ed è così. È difficile introdurre elementi totalmente diversi nella vita e nell’espressione della Chiesa; è impossibile cambiare alcune preghiere della liturgia, portare musica strumentale in chiesa, allontanare la ricchezza iconografica per soddisfare chi vorrebbe uno stile artistico più sobrio, introdurre certe danze nelle celebrazioni. Secondo il mio parere», afferma il vescovo Teofan, metropolita dell’Oltenia e arcivescovo di Craiova, «è un’opera che non va fatta, col rischio di non rispondere alle esigenze di alcune categorie di fedeli.

«L’esperienza storica mostra che il cristiano ha bisogno di cambiare il meno possibile nell’espressione della vita religiosa. Così un’esperienza come il Vaticano Il non pensiamo possa essere necessaria o possibile nella Chiesa ortodossa. Ciò non vuoI dire escludere l’uso di elementi più moderni come i mass media per la diffusione della fede. Certo molti giovani non comprendono il linguaggio della Chiesa e ne vorrebbero un’attualizzazione a loro favore, facciamo poco questo e comunque, se si cambia qualcosa, è solo nelle cose meno essenziali». Qui si collocano le grandi sfide per il futuro.

(da Vita Pastorale, n. 6, 2007)

Nel cristianesimo non tutto
«esiste da sempre così»

di Marco Ronconi




Ricordo con grande affetto la prima lezione di "Storia ecclesiastica recente" all'università. Al suono della campanella, con signorile eleganza gesuitica e lieve cadenza fiamminga, il professore scandì un elenco di date ed eventi disposti a coppie sulla lavagna luminosa. 10 marzo 1791 e 7 dicembre 1965: da un lato il giorno in cui Pio VI definì la libertà religiosa una mostruosità, dall'altro la data di promulgazione di Nostra aetate, in cui il Concilio Vaticano II affermò che il diritto dell'uomo alla libertà religiosa «affonda le sue radici nella rivelazione cristiana». 8 dicembre 1864 e 6 agosto 1964: Pio IX afferma che il Papa non deve venire a patti con la moderna civiltà, mentre un secolo dopo Paolo VI spiega che la Chiesa deve dialogare con il mondo in cui si trova. 20 novembre 1704 e 27 ottobre 1986: Clemente XI vieta ai cristiani di celebrare secondo i riti cinesi, mentre sull'altra colonna Giovanni Paolo II prega ad Assisi con i leader delle principali religioni mondiali. L'elenco potrebbe essere molto lungo, ma penso si sia capito. La storia della Chiesa ha conosciuto grandi continuità ma anche forti discontinuità. Al di là dei giudizi, negarle non è mai un buon segno. Mi torna in mente quella lezione tutte le volte in cui, insegnando ad adolescenti, ho l'impressione che oggi circolino alcuni immaginari molto diversi tra loro, ma accomunati dal dare per scontato che alcuni elementi del cristianesimo (o delle religioni in generale) «esistono da sempre così». Eppure - solo per stare a questioni tipicamente romane - l'ultimo Conclave in cui fu esercitato il veto di un imperatore non risale al Medioevo, ma al 1903: nella Chiesa cattolica la massima autorità è quella papale, ma quando Benedetto XV invocò la pace alla vigilia della prima guerra mondiale, molti vescovi francesi e un cardinale belga lo presero quasi a pernacchie; la lingua latina non è la più antica delle lingue liturgiche e quando la si introdusse al posto del greco ci fu chi si oppose per decenni, ma la fede non crollò...

L'immaginario, poi, mi sembra diventare ancora più fantasioso se si allarga il confine dello sguardo. In questa stessa rubrica ho già presentato alcune figure che incrinano il pregiudizio per cui "mediorientale" "islamico", o comunque non cristiano. Dalle attuali Palestina, Libano, Turchia, Siria, Iraq (per tacer di Egitto e Maghreb, ma sarà per un'altra volta) proviene invece la maggior parte non solo dei protagonisti biblici, ma anche dei Padri della Chiesa. Nella storia, alla voce "arabi e cristiani", non corrispondono solo le crociate, ma anche una quantità di medici, teologi e vescovi che, ad esempio tra il IX e l'XI secolo, «hanno lasciato un patrimonio letterario di primaria importanza che può qualificarsi anzitutto come "patrimonio del dialogo": un dialogo tra credenti che non si sentono ancora figli di religioni contrapposte, ma solo di interpretazioni diverse dell'unico monoteismo»: così, ad esempio, scrive il monaco di Bose Sabino Chialà introducendo la traduzione di Unità e divisione dei cristiani (edizioni Qiqajon), libretto medioevale attribuito al cristiano Ali lbn Dawud Al-Arfadi. È impressionante leggerne alcun brani pensando a come il nostro immaginario rischia di aver pericolosamente riempito la distanza (temporale e geografica) che ci separa. Ali Ibn Dawud, infatti, si rivolge alla Chiesa araba di circa un millennio fa scandalosamente divisa da tensioni e condanne, sottintendendo che imparare il dialogo tra cristiani è condizione indispensabile e previa per praticare la stessa arte all'esterno. Molto prima del famoso discorso di Giovanni XXIII all'apertura di un Concilio non a caso definitosi «ecumenico», è qui invocata la distinzione tra «il patrimonio della fede cristiana» e il «come viene formulato»: «Su quanto divergono a parole, i cristiani (delle diverse fazioni) sono d'accordo nel significato: su quanto si contraddicono in apparenza, sono unanimi nella sostanza (…) Non c'è divisione né separazione, se non per la passione, lo spirito di parte e il desiderio di supremazia». Non è infatti la diversità delle formule e delle consuetudini che può escludere qualcuno dal cristianesimo, quanto piuttosto la «mancanza di amore e umiltà» che fa «svanire la fede». «A mio giudizio sono come della gente che si dirige verso una città, sulla cui autenticità ed esistenza sono tutti d'accordo, ma che dissentono sulle vie e sulle strade che portano a essa. Ogni gruppo prende una strada che afferma essere la via giusta per la città, ad esclusione delle altre. Terminata la via si riuniscono tutti nella città». Tutti, tranne coloro che hanno usato del Vangelo per la propria vanagloria e per seminare odio. Sono essi e solo essi, quelli che si perdono.

Ora, è tornato di moda tra gli oratori contemporanei stupire con dotte citazioni. Avrei un piccolo (e mi rendo conto immodesto) suggerimento: nel prossimo futuro qualcuno potrebbe richiamare - non necessariamente da solo, anche in coppia come faceva il mio professore - un testo come quello di Ali Ibn Dawud Al-Arfadi? Il nome è ostico perché abbiamo perso la familiarità con quel mondo cristiano, ma la sua memoria - fortunatamente in non totale continuità con altri rami della nostra storia - potrebbe tornarci utile.

(da Jesus febbraio 2008, p. 49)

Dio, storia e coscienza.
Dio è intervenuto nella storia?

Juan Luis Herrero del Pozo


La domanda non è di storia, ma di metafisica. Sì, mi dispiace per i più “terreni", ma non si può prescindere dalla metafisica per dare solide basi al nuovo paradigma teologico; senza di essa avremmo solo cosmetica, non un nuovo paradigma. Senza metafisica non è nemmeno possibile il superamento del pensiero magico che continua ad aderire alla mente della maggior parte dei teologi come la pelle al corpo e che è la ragione ultima di quell'interventismo che è alla base dei dogmi. La mitologia cristiana espressa nei dogmi (la “storia sacra") ha una funzione legittima solo quando si scopre come tale, come mitologia, cioè quando viene smascherato il “pensiero magico" che l'ha fatta passare per storia degli interventi di Dio.

Non sembra possibile chiarire se Dio sia intervenuto se non ci intendiamo prima sul termine “intervento". Sebbene venga spiegato più avanti, si può arse favorire la comprensione anticipando che la relazione Dio-creatura non è mai una relazione di causa-effetto (in questo caso sarebbe una relazione magica) ma di fondamento strettamente ontologico, cioè che riguarda l'essere come essere “creato" in tutto quanto è e fa. Per la tendenza ad assimilare tutto alla nostra condizione creata e finita, propendiamo a intendere la relazione Dio-creatura come azione (sia di Lui verso di noi che di noi verso di Lui). Per superare questo equivoco - inconscio? -, non trovo migliore espressione che quella del fondamento ontologico per esprimere quello che intendiamo per “creazione".

1. Nella "creazione" si conclude la teologia...

Questo fondamento ontologico della creatura ha ancora meno a che vedere con un'azione propriamente temporale di Dio che immaginiamo abbia fatto passare il creato dal niente (quando niente esiste) all'essere (quando dopo qualcosa comincia ad esistere). Il fondamento ontologico non ha nulla a che vedere con la dimensione temporale. Il creato è ontologicamente dipendente da Dio anche se non ha avuto un inizio temporale, cioè anche se, riavvolgendo la storia del cosmo, non andassimo ad urtare con il confine del tempo o con il momento prima del quale niente esisteva. Penso perfino che non manchino ragioni per parlare di una creazione ab aeterno e di una coesistenza “eterna” dell'infinito e della realtà creata, il primo Necessario, la seconda Contingente. Teologicamente “Dio è amore”, cosa che filosoficamente corrisponde al concetto di bonum est diffusivum sui, il Bene è per sua natura espansivo, creativo. Niente impedisce di contemplare la possibilità fisica di una serie illimitata di big-bang.

Questa nozione così depurata di “creazione", ben intesa, ingloba tutto in teologia. Ci basta anche per dare conto della nozione, tanto cristiana - e tanto umana -, di gratuità. La comunicazione di Dio è essenzialmente Dono; Bernanos diceva giustamente “Tutto è grazia”. Questo fondamento ontologico, questa gratuità radicale che riguarda le radici e la totalità dell'essere non va mai dimenticata. Ma è sufficiente per affermare con decisione, a partire da esso l'autonomia totale rispetto a Dio di ogni essere che, nel suo ordine e in una qualche maniera, dovrà comportarsi “come se Dio non esistesse”. In questo mondo, una madre può inviare un messaggio telepatico al figlio e io posso trasmettere energia ad un amico malato. Dio è più potente, gli basta sostenere ogni essere o azione nella sua esistenza autonoma; andare più in là e intervenire nel processo storico sarebbe contraddire se stesso. Ovviamente si capirebbe ancor meno che lo facesse alcune volte sì e altre no (sebbene molti ricorrano alla preghiera per chiedere qualcosa).

II. L'”ìnterventismo" divino è magia

L'”interventismo" divino è la conseguenza diretta e naturale del vecchio paradigma nella sua radicale dipendenza dal pensiero magico. Ho parlato di magia perché l'interventismo divino sarebbe come tirar fuori ancora un altro coniglio dal cilindro quando il circo è già pieno di conigli. In ogni caso, è magia attribuire a Dio l'essere causa di un qualche effetto che cominciasse ad esistere, o, esistendo già, sì vedesse modificato contravvenendo alla sua autonomia e alle leggi naturali, fisiche o mentali. Per gli antichi, l'intervento dall'alto faceva parte del meccanismo di funzionamento del cosmo. All'origine del movimento di ogni astro c'era un angelo e il re riceveva l'autorità da Dio. Oggi solo il papa pretende dì conservare questo privilegio. Le leggi fisiche e gravitazionali, in un caso, e il popolo sovrano, nell'altro, finirono col sopprimere il lavoro degli angeli e di Dio che recuperava la sua trascendenza occulta dopo un'immanenza male intesa. Ma poiché l'Illuminismo risultava troppo pericoloso, l'Autorità ecclesiale fece molta attenzione ad assicurarsi che l'autonomia del cosmo non si estendesse alla coscienza sotto forma di libertà di pensiero e decisione.

III. L'intervento "soprannaturale", un falso sovrappiù

Questa attenzione non risultava difficile all'istituzione ecclesiale perché previamente (magari per la necessità di conferire finalità e senso al processo dì divinizzazione di Gesù) era stata operata la distinzione tra “naturale" e “soprannaturale", cioè tra quello che era a portata dell'essere umano per “natura" e quello che gli era arrivato, aggiunto successivamente, come redenzione soprannaturale sovrabbondante dal peccato originale (felice colpa!), nuova suprema gratuità a fondamento di una “nuova creazione”. Un’abbagliante personalità aveva fatto di Gesù qualcuno appena al di sotto dell’Altissimo, figlio di Yahvè. Gesù aveva annunciato il Regno, ma subito Paolo e altri seguaci, a partire dalle loro soggettive esperienze religiose, si erano dimenticati praticamente del Regno di Dio e avevano cominciato a parlare del secondo Adamo, abbondantemente riparatore del peccato del primo. Tutto il racconto mitico della Genesi era stato teologizzato e i racconti sinottici mistificati. Gesù aveva centrato il suo messaggio sul Regno, quello dei poveri e degli emarginati, i suoi discepoli hanno sostituito il Regno con Gesù. La Buona Novella non è più il nuovo statuto dei poveri ma la Persona (divina) di Gesù.

A partire dalla potente irruzione divina del Dio-con-noi si moltiplicano a cascata - in grado superiore a quelli dell'Antico Testamento - gli interventi soprannaturali della divinità, al di sopra e al margine delle leggi della natura e delle possibilità della coscienza e della libertà:

- Infusione della grazia santificante, mozioni soprannaturali (grazia attuale) per rendere possibili atti meritori di eternità e/o sanare e rafforzare la libertà "caduta".

- Efficacia necessaria anche se strumentale dei sacramenti che generano e dotano l'anima di nuove possibilità (virtù soprannaturale).

- Superamento della simbologia eucaristica della condivisione della mensa grazie all'interpretazione letterale di "questo è il mio corpo", con il conseguente modo di "presenza reale" di alchimia transustanziatoria (secolo XI).

- Infusione di un "carattere" indelebile e permanente da parte di certi sacramenti (neanche Dio, mi si perdoni, mi toglie il sacerdozio, così come l'apostasia non cancellerà mai il "carattere" battesimale, l'essere cristiano).

- "Ispirazione" grazie alla quale il profeta o lo scrittore sacro concepiscono certi nuovi contenuti di coscienza (le verità rivelate) irraggiungibili senza uno speciale intervento divino. A partire da qui tutto è più confuso.

- Nessuno ha dubitato che i contenuti parlati o scritti di profeti e agiografi fossero farina del loro sacco, vissuti soggettivi, esperienze religiose personali. Ma vengono rivestiti di una cappa soprannaturale di "ispirazione" divina (ma come distinguere i due livelli?) in virtù della quale ci è dato di aggiungere chiaramente la postilla "parola di Dio" ad ogni lettura (rivelazione). Sarebbe bastata una coscienza sensibile e aperta per discernere il carico di dis-velamento di Dio che veicola l'esperienza spirituale di un uomo di Dio. Sempre... quanto più umano, più divino!

- Una sede speciale dell'azione divina senza rispetto alcuno per l'autonomia cosmica, cioè al di sopra o al margine delle leggi naturali (magia), è l'ambito dei miracoli...

- Per colmo, quando Garibaldi si presenta alle porte della Città Santa, Pio XI si rifugia nell'infallibilità: si guadagna da un lato quello che si perde dall'altro. È il massimo dell'interventismo (per quanto sempre a mezze tinte: va a sapere - con certezza umana, chiaro! - se si danno i requisiti per avere la garanzia dell'”assistenza" dello Spirito in una definizione 'ex cathedra’).

Ancora e ancora... azione, azione e azione (causa-effetto) di Dio che modifica, supplisce, completa l'autonomia - incompleta? - del creato. Si è autolimitato Dio nella creazione; si corregge in seguito al peccato originale mediante la "nuova creazione"?

In una concezione magica di Dio, egli sarebbe in grado di fare "il pio" e non "il meno": potrebbe far emergere l'essere dal nulla ma non dotarlo originariamente di forza evolutiva, trasformatrice, orientata alla pienezza. L’evoluzione verso stadi superiori non è un accidente aggiunto bensì e inerente al concetto di essere limitati) ma perfettibile. Tanto l'evoluzione ascendente delle specie quanto la capacità innata delle coscienze di rigenerarsi moralmente, di "convertirsi", di dire liberamente sì laddove prima si diceva no. È la capacità naturale di discernimento e di decisione che costituisce la persona come coscienza intelligente e libera. Il peccato è inerente all'essere limitato o deficiente ("necessarium est quod deficiens quandoque deficiat", quello che può sbagliate, sbaglia sempre qualche volta). E non rappresenta nessuna cesura irreparabile che avvenga alla coscienza e la renda incapace di riabilitarsi (come pretende la sua teorizzazione come “offesa infinita" a Dio).

IV - Non è deismo

A forza di difendere l'autonomia della creazione in tutti i suoi ambiti, lasciamo spazio a chi ci accusa di deismo. Il deismo è la cosmovisione di una creazione orfana di fronte ad un dio ozioso e annoiato. Perché, se "non interviene", come può occuparsi provvidenzialmente del mondo, che è quello che lui fa? Sbagliamo, credo, se non ci basta che Dio sia il fondamento ontologico e abbiamo bisogno di duplicarlo in un fare provvidenziale. Perché, se Dio non agisce, in cosa occupa la sua solitudine? O, perlomeno, come vetta in nostro aiuto? Come ci salverà?

Non sono deista, neanche lontanamente. Come ho detto, mi oriento a credere che il Dio di Gesù sia l'essenzialmente presente, tanto vicino che non lo si può concepire senza il suo essere visceralmente creatore, diffusivum sui abaeternum et in aeternum. È "attività" trascendente, "Atto puro”.

È necessario riconoscere che la metafisica su Dio è asciutta e austera, e mal si concilia con l'immaginazione spazio-temporale, con similitudini e metafore. Queste rispondono, tuttavia, al mondo in cui siamo immersi, a quello che entra in noi attraverso i sensi, al calore del cuore. Per questo preferisco la mistica, perché la mistica è metafisice con il cuore (profondità e tenerezza).

Il nostro Dio è il contrario dell'orologiaio che si disinteressa del suo orologio. Il rifiuto di ogni interventismo divino non è il rifiuto della sua Presenza, Vicinanza e Amore. L’essere creatura si definisce come essere-a partire da-Dio, cioè essere-a partire dall'amore, ciascuno al proprio livello, in modo che, se non lo fosse, tornerebbe al nulla, smetterebbe di esistere. Stiamo parlando di una Presenza Fondante della realtà e quanto più realtà tanto più Fondante, fino ad arrivare, per quanto riguarda l'essere umano, a quello che diceva Agostino di Ippona: "Dio è più dentro in me della mia parte più profonda" o, nelle parole poetiche del Profeta Maometto, “più vicino della mia vena giugulare". Le immagini sorgerebbero a fiotti, per quanto tutte pervertano la Grande Realtà. Dio è la luce che inonda un prisma di puro cristallo, ad una profondità tale da conferirgli l'essere quello che è. Dio è la respirazione, l'alito, la "ruah" del cosmo. Dio è l'Uno del Molteplice, Pura Energia, Dea Madre eternamente pregna del Mondo... E, soprattutto, la metafisica della poesia mistica: "Passò per questi luoghi con sveltezza, e soltanto effondendo / lo sguardo con mitezza / Ti lasciò rivestiti di bellezza" (Giovanni della Croce, Cantico Spirituale, ndt). Più del Nirvana.

Tale e non altro è, a mio modo di intendere, il mistero dell'immanenza del Trascendente, quello di una creazione che è insieme umanizzazione, incarnazione e salvezza, in un'unica modalità di Presenza in differenti tappe dell'evoluzione cosmica e della maturazione della persona.

V - Una cosmovisione credente e laica

Detto ciò in maniera chiara perché nessuno si inganni, tenteremo di tracciare una cosmovisione semplice, umana, spirituale, valida per tutti, credenti e non credenti (i quali devono solo provvedere ad eliminare l'etichetta Dio con cui non sono conformi).

Lo ripeto di nuovo, tutto è Grazia, tutto è Dono, "chi ha Dio, nulla gli manca", “in lui, Dio, non in Gesù, ci muoviamo e siamo". Una volta affermato questo, nel pensiero e nel progetto di vita del credente (è l'unica fede che non sia magica), il resto della storia e della persona si costruisce "come se Dio non esistesse". Cosa o chi ci impedisce di stabilite che il cosmo, essere umano incluso, nella sua totalità evolutiva, emerge all'esistenza con una capacità "naturale" sufficiente per progredire verso la perfezione? Dio non ha bisogno di fare nient'altro, si è dato interamente e lì rimane alla radice di ogni realtà perché questa raggiunga il suo massimo sviluppo. È lì come massimo Presente, per quanto la coscienza umana possa non percepirlo. Tutto si svilupperà come se Dio non esistesse, per quanto lunga sia, nell'evoluzione della coscienza primitiva (la nostra attuale), la tappa magica in cui l'immaginario collettivo si fabbrica un Dio antropomorfo. Un Dio interattivo che viene inteso come un personaggio familiare, quasi domestico, per quanto di molto superiore, che muove dietro le quinte i fili della storia. Penso che sia un deficit dell'Occidente cristiano (non gesuanico). Dico questo perché probabilmente l'Oriente ha un pensiero e un comportamento più raffinati. Abbiamo supposto che qualcuna delle sue religioni o non avesse Dio o fosse panteista, semplicemente perché si trattava di una spiritualità più evoluta che intendeva il mondo e si sviluppava nella vita "come se Dio non esistesse”.

Noi invece, abbiamo addomesticato Dio molto presto, ce 1o siamo fatto propizio scaricando su di lui la nostra responsabilità e caricandolo della gestione degli avvenimenti. Abbiamo parlato incessantemente di Dio come se nulla ci si nascondesse del suo essere, abbiamo pronunciato il nome di Dio invano, lo abbiamo utilizzato come condimento di tutte le vivande, siamo ricorsi a Lui, perché mi venga concessa una piazza, guarisca la mia mucca, piova sul mio campo, l'immaginetta (il mio amuleto) in macchina mi preservi dagli incidenti, i miei affari abbiano successo con una benedizione inaugurale ecc. Il "come se non esistesse" significa che la provvidenza di Dio non ci toglierà le castagne dal fuoco, perché non esiste provvidenza intesa come intervento di Dio. Dio non distribuirà giustizia né darà da mangiare al Terzo Mondo.

VI - Sviluppo della coscienza autonoma

Ignoriamo, salvo alcuni pochi punti fissi, quale sia stata la dell'essere umano e l'evoluzione della sua coscienza. Ma qualcosa conosciamo della breve storia - alcune poche migliaia di anni - dei nostri predecessori ebrei. E la conosciamo perché essi stessi hanno generato diverse tradizioni orali e scritte, la Bibbia, in cui ogni generazione consegnava il proprio vissuto religioso soggettivo, che magnificava e assolutizzava, facendone coautore lo stesso Dio. A partire da qui si è realizzata l'esegesi del testo, interpretazione di quello che la "Parola di Dio" stava dicendo (senza dubitare che avesse parlato). Esegesi che era appena l'analisi dell'evoluzione della coscienza soggettiva di un popolo. Sapendo a posteriori che, diversamente che in oriente, gli ebrei facevano intervenire costantemente Yahvé come personaggio qualificato della loro storia, sarebbe di grande importanza - ma tutt'altro che facile - isolare dalle credenze più propriamente religiose relative agli interventi divini tutto quanto bisognerebbe spiegare come socialmente, culturalmente, psicologicamente e antropologicamente umano. Sarebbe un po' come avvicinarsi alla storia dell'evoluzione della coscienza di quel popolo senza eguali. Non ci darebbero inquietudine le contraddizioni e le atrocità che ora ci appaiono nel considerare la Bibbia come "Parola di Dio". Dal momento che non so se qualcosa sia stato fatto su questa linea, mi limiterei a formulare un’ipotesi di lavoro a partire dall'esperienza, da dati antropologici e da una riflessione umana critica.

La mente dell'uomo primitivo è impregnata dalla convinzione della propria precarietà a causa delle malattie e della morte e della mancanza di difese di fronte alle forze della natura, il fulmine, il vulcano, il fuoco, il mare, il gelo, le inondazioni. Nel momento stesso in cui l'essere umano diventa cosciente della sua precarietà, avverte la necessità di qualche protezione e salvezza. Nel duplice sentimento di precarietà e ansia di salvezza alberga la sua convinzione di non essere solo, bensì circondato da forze che subito egli personalizza e divinizza. Ha inizio inevitabilmente il processo di fabbricazione di dei "a propria immagine e somiglianza". Un dio o alcuni dei le cui azioni magiche solo l'Illuminismo ci preparerà a scoprire come tali, indicandoci che le cose hanno una propria autonomia e si reggono per leggi proprie e che non è necessario un dio antropomorfo che interferisca nella storia come una causa che produce un effetto inatteso: scelgo questo popolo tra tutti, contraddico le isobare e faccio piovere a richiesta di alcuni credenti, faccio un miracolo perché il papa possa canonizzare questa buona persona (o non così buona) ecc.

Dopo quei tempi arcaici, il progresso umano è stato molto lento in ciò che è veramente sostanziale: le civiltà e le culture sì difendevano come potevano da credenze in base a cui non si poteva stare sicuri che qualche dio, proprio o alieno, non ne facesse una delle sue con la propria bacchetta magica. Fino al tempo assiale, decisivo come lo è stato quello del neolitico, dell'ampio processo del Rinascimento-Illuminismo, pare che l'umanità non riuscisse a raggiungere l'età adulta nel superamento del pensiero arcaico magico: vivere radicati nella Grande Realtà "come se dio non esistesse”.

Una volta che la Modernità ci permette una nuova cosmovisione, un nuovo paradigma, non è difficile concepire un essere umano che procede in solitudine precaria in questo mondo sapendo di non essere solo.

Il mito del “peccato originale" è quel racconto, esistente in un modo o in un altro in quasi tutte le cultore, con cui i gruppi umani tentano di spiegare e di formulare l'esistenza del Male: se Dio non può esserne l'origine (lo è sì nella misura in cui Dio non può "creare" un cosmo illimitato e perfetto), è stato qualche disordine morale dell'essere umano, qualche peccato a sconvolgere la realtà cosmica. È la funzione del mito: di fronte all'ignoto, esprimere e verbalizzare una causa che indichi una qualche spiegazione.

La realtà naturale, fisica o morale, è per sua propria natura limitata, rischiosa, precaria. Chi ci può assicurare che ciò si debba alla perdita di un qualche status anteriore perfetto? E, per la stessa logica, chi può segnalare i limiti del naturale? Contro tutti i pregiudizi della teologia vigente, Blondel osò prendere sul serio questa insaziabile insoddisfazione, questa autentica sete di Infinito del cuore umano e identificarla con l'Immanenza di ciò che chiamiamo "soprannaturale", Dio e la sua attrazione verso la Pienezza.

(Prendiamo fiato: sono molti i castelli dogmatici che traballano. Nonostante ciò, c’è una sensazione di liberazione e di pace che accompagna i credenti in questo processo di decostruzione).

La coscienza umana, in particolare, è perfettamente attrezzata per l'avventura esistenziale, per quanto sia limitata e precaria nelle sue origini biologiche. Ma possiamo star sicuri che ogni storia, individuale o collettiva, si sia costruita senza preferenza o scelta alcuna da parte della divinità. Dalla massima precarietà fino alla pienezza, perché è legge di vita.

Neppure c'è posto per alcuna chiamata divina ad uno stato di vita concreto. Non c'è alcuna scelta legittima a scapito dell'uguaglianza o dei canali democratici nella designazione a qualche carica. Nessun battesimo genera un qualche cambiamento nell'anima. Nessun sacramento produce alcun effetto estraneo al potere della sua simbologia. Nessuna persona supera un'altra per indicazioni soprannaturali, ma solo per qualità o formazione naturali...

Questo tema di somma importanza non si esaurisce qui. Ma credo che quanto detto, per quanto provocatorio e scandaloso, sia sufficiente a sospettare da dove possano soffiare venti nuovi. In realtà sarebbe un beneficio per i teologi, nonostante qualcuno possa credere di perdere lavoro e identità. Per quanto mi riguarda personalmente, ho l'impressione di restare senza compiti propriamente teologici. Al tempo stesso mi si apre davanti un campo immenso di studio e di contemplazione: l'ingente figura di Gesù il Nazareno, apparendomi insipida la teologia (presunzione e orgoglio, senza dubbio!), inizia nel mio spirito a crescere come non avrei mai potuto immaginare nel corso delle ripetute letture dei testi evangelici. Amico credente o non credente... aude sapere!

(da Adista, n. 76, 3.11.2007, pp. 2-5)

Spiritualità per un lavoro di pace

di Richard Friedli




Il discorso sulla Spiritualità della Pace è piuttosto insolito quando si parla di ricerca di pace? Di solito in questa ricerca sono presenti tutte le discipline scientifiche, ma non la teologia o la scienza religiosa. Sono considerate solitamente la sociologia, l'economia, la storia, la scienza militare, la biologia persino (per il problema del razzismo), la geografia e la demografia, ma non la teologia. Anche i temi studiati sono numerosi: teorie dei conflitti, disarmo controllato, diplomazia, le forze di sicurezza dell'O.N.U., l'antisemitismo, ecc., ma non si ricorre mai alla spiritualità come ad un fattore positivo di ricerca per questi problemi. Anzi si parla spesso delle religioni come fattori di disunione, di intolleranza, di proselitismo, di propaganda. E noi invece vogliamo essere con la spiritualità uno dei fattori positivi nella ricerca della pace.

La mia riflessione si articolerà in quattro parti: la missione della chiesa, lo shalom, la strategia per arrivare allo shalom, la meditazione.

La missione della Chiesa

Occorre approfondire questo termine per intenderci. Nel vocabolario spirituale e teologico questo termine è comparso molto tardi, solo nel XVI-XVII sec., al momento della colonizzazione, quando l'evangelizzazione ha accompagnato l'esportazione della civiltà occidentale. Queste spedizioni verso altri continenti, soprattutto verso l'America Latina, ad opera delle comunità carmelitane e gesuitiche della Spagna si sono iniziate a chiamare «missioni». Prima questo termine era utilizzato nella Scolastica quando si trattava di cercare di formulare ciò che noi vedremo nella meditazione e nella preghiera come «Mistero di Dio»; quando si è cercato di afferrare la pienezza, la densità del mistero divino si è cercato di farlo ricorrendo al vocabolario trinitario, Padre, Figlio e Spirito, e quando i teologi cercavano di parlarne, di tradurre questo vocabolario biblico, si è parlato di missionari. Giovanni ci parla della Missione di Cristo: «come il Padre mi ha mandato, così io mando voi». «Come il Padre mi ha amato, così io amo voi. Siate perfetti come il Padre è perfetto». Sempre nel Vangelo di Giovanni c'è questo equilibrio. Gesù stesso ha presentato la sua missione durante la sua prima manifestazione in pubblico, secondo Luca nella sinagoga di Cafarnao, a partire dal testo di Isaia: «Lo spirito di Dio è su di me perché mi ha consacrato con l'unzione, egli mi ha inviato (ecco la missione) per proclamare un anno di grazia del Signore».

Ciò che mi sembra importante è che quando Gesù descrive la sua missione non si riferisce a delle realtà religiose, ma a delle realtà profane, si riferisce ai poveri che devono ricevere il messaggio, cioè alla dimensione economica del mondo, perché presso Giovanni e Luca la povertà non è un termine soprattutto spirituale, è un termine economico molto concreto. Quando Gesù parla della liberazione dei prigionieri si riferisce ad una realtà politica, quando parla dei ciechi che devono riacquistare la vista, si riferisce ad una realtà somatica e parla anche della dimensione teologica, religiosa teologale quando parla di questo giorno del Signore. Dunque quando Gesù definisce la sua missione lo fa in contrasto con una realtà, e gli parla dell'assenza di vita piena nella dimensione economica, politica, psicologica e corporale, e annuncia la salvezza.

Lo 'shalom' dono e impegno

Il senso della sua missione è di inserire nel mondo lo shalom, a tutti i livelli, di far sì che lo shalom si ingrandisca in tutte queste dimensioni. Questa deve essere anche la missione della chiesa, la quale deve adoprarsi, ricorrendo a tutto ciò che le scienze umane possono darci, per evolvere le situazioni reali verso ciò che essa vede come vita pienamente sviluppata, come shalom. La chiesa si trova così in una situazione eccentrica.

Il centro della chiesa è il Mistero di Dio, approfondito come condivisione del suo amore per uomini, ma anche teso verso la situazione del mondo, dove lo shalom non è ancora arrivato. Il suo centro è o in Dio o nel mondo. Non può organizzarsi come se essa stessa fosse il centro; essa deve ingrandire lo shalom. Lo shalom è un'esperienza contrastata e contrastante, non ha un contenuto reale, è una speranza (qui interviene la dimensione profetica, escazologica). Questo termine capta ciò che noi speriamo si realizzi in questa dimensione economica, politica, psicologica e somatica; nella sua etimologia vuol dire «essere in pienezza», perciò non è un termine che entri immediatamente in contrasto con la guerra, non va riferito immediatamente a due grupPi opposti. Nella tradizione biblica shalom è anzitutto riferito a una comunità unica che si è divisa e quando questa comunità ritrova l'armonia, ecco lo shalom ingrandisce. La tematica della guerra come opposta a shalom è assai poco presente nell'Antico Testamento. L'opposto di shalom è l'assenza totale di vita piena, è l'angoscia, la paura, l'ingiustizia, la mancanza di libertà.

Tra queste assenze di shalom vi è pure la guerra, ma come una cosa fra tutte quelle che minacciano la comunità. Questo termine, shalom, dunque è molto più ricco di significati che non come opposto di guerra. Per es. vi è shalom quando dopo una lunga siccità arriva la pioggia, quando gli emarginati (che nell'A.T. sono l'orfano, la vedova e lo straniero) possono contare su un giusto diritto, quando in un gruppo diviso si ritrova la fiducia reciproca.

L'opposto a shalom non è guerra ma violenza. Spesso si discute su che cosa si intende per pace. Io intendo un processo, un'evoluzione, uno sviluppo che avviene all'interno dei gruppi, dalle famiglie fino ai problemi internazionali, ovunque e è ricorso o minaccia di ricorso alla violenza. Violenza è qualsiasi influenza che fa sì che lo sviluppo sociale, politico, psicologico, ecc. sia inferiore a quello che sarebbe possibile. Se una persona o una comunità possono svilupparsi di meno di quanto sarebbe possibile, allora vi è violenza. Facciamo un esempio: un'epidemia o una carestia che nel XVII sec. abbia provocato migliaia di morti non può essere considerata violenza, perché a quell'epoca mancavano i mezzi di informazione e di trasporto che avrebbero permesso di intervenire. Oggi invece situazioni simili sono violente, perché è possibile attualmente sia per i mezzi d'informazione che di trasporto conoscere le situazioni e garantire a tutti gli esseri un pieno sviluppo. Dunque oggi dobbiamo parlare di situazioni di violenza o, come dice spesso il Papa in riferimento all'America Latina, di strutture di peccato.

C'è dunque un legame anche di vocabolario tra la ricerca della pace e la analisi teologica del peccato; il problema della violenza non è solo un problema di persone ma è sovente un problema di strutture che impediscono lo sviluppo. Lo shalom non è soltanto la pace dell'anima e quindi se vogliamo realizzarlo non possiamo farlo unicamente con la liturgia, con invocazioni, con la penitenza, ma dobbiamo intervenire per abbattere le strutture che impediscono lo shalom.

Le strategie per costruire lo shalom

Noi dobbiamo lavorare a diminuire tutte le situazioni di aggressività e di conflitto. Ma a questo proposito voglio considerare i risultati di un'inchiesta molto significativa, che è stata fatta in Canadà, in U.S.A. e in Germania tra gli anni '60 e '70. Le domande erano di questo tipo: Siete a favore del disarmo? Cosa pensate della pena di morte? Siete disposti a contribuire alla guerra in Vietnam? Accettereste un'imposta come cittadino del mondo? Ritenete il patriottismo come la più grande virtù? L'appartenere all'estrema destra o alla estrema sinistra sono per voi elementi di divisione? Parallelamente si è chiesto a queste persone di fare un'autovalutazione su una scala che aveva come gradi: molto religioso, praticante, poco praticante, fino ad ateo e agnostico, con una dozzina di possibilità. Poi si sono confrontate le risposte. Ebbene, i risultati mostrano una contraddizione flagrante con il messaggio d'amore e di pace del cristianesimo: i cristiani sono più favorevoli alla guerra dei non cristiani, i cristiani che si dichiarano molto fedeli alla loro religione sono molto più pronti a punire che non coloro che si dichiarano poco attaccati alla dottrina; i cattolici si augurano le armi più dei protestanti ed i protestanti più degli atei. In tutti i gruppi analizzati i praticanti hanno dimostrato una tendenza nettamente più forte ad accettare la potenza militare come mezzo di risoluzione dei conflitti che i non praticanti. Coloro che professano una visione religiosa del mondo sono meno interessati a una comunità mondiale che coloro che si dichiarano poco religiosi.

Dunque noi dobbiamo lavorare prima di proclamare delle strategie positive per la pace, per diminuire nella nostra stessa comunità tutto questo legame di aggressività e di severità a partire dalla famiglia fino ai problemi internazionali.

In un modo più positivo, facciamo ora un'analisi della prima comunità cristiana, di come essa ha risolto i conflitti presenti al suo interno. Il conflitto non è qualcosa di non cristiano; la maniera di risolverli è più o meno nel dinamismo del Vangelo. Ecco un commento alla prima lettera ai Corinti in cui si vede come Paolo abbia accettato e risolto i conflitti di questa grossa comunità. Nella comunità di Corinto esistevano tre strati, sotto il profilo sociologico. Un primo gruppo era di cittadini liberi, colonizzatori romani, dunque dominatori. Conosciamo molte di queste persone: Tito Giusto, presso il quale Paolo ha abitato, Caio, Crispo, che presiedeva la sinagoga, Erasto, che è nella lista dei saluti, e che è presentato come l'economo della città (oggi potremo dire che era il direttore delle costruzioni della città). Erano dunque persone molto importanti e ricche che offrivano la loro casa per accogliere tutti i cristiani e celebrare l'eucarestia. Il secondo gruppo era costituito dagli schiavi, in genere prigionieri, stranieri. Ciò che è molto interessante è che pare sia stata una donna ad organizzare questi schiavi, CIoè. E lei che informa Paolo che ci sono dei conflitti tra di loro. Il terzo gruppo è ancora di schiavi, ma schiavi istruiti, che lavorano come segretari, burocrati ecc. e collaboravano dunque nelle strutture della città.

In questo contesto si sono sviluppati quattro tipi di conflitti: primo, un conflitto politico, tra cittadini liberi e schiavi ed è interessante vedere come Paolo si comporta a questo proposito, perché lui scrive sempre in una posizione eccentrica della chiesa, tenendo il mondo all'ordine del giorno. In quella situazione particolare c'era un problema di orari, da questa questione pratica parte poi l'insegnamento di Paolo circa l'eucaristia. Infatti i liberi smettevano prima il loro lavoro e cominciavano a bere e a mangiare; quando arrivavano gli schiavi, più tardi, perché il loro lavoro durava di più, dicevano che non c'era più nulla da mangiare e da bere. Ora Paolo dimostra che questa situazione distrugge il senso stesso dell'eucarestia, perché anche se la sua celebrazione è ortodossa, come svolgimento diventa eretica, perché segno di divisione anziché d'amore e di riconciliazione.

Il secondo conflitto a livello sociale è quello a proposito del ruolo dell'uomo e della donna nella chiesa. Le donne insistevano dicendo che se nella vita pubblica ci sono dei ruoli differenti, delle distribuzioni diverse di lavoro tra uomo e donna, nella comunità questa divisione non deve più esistere, a causa della liberazione che Cristo ha portato. In parecchi testi Paolo dice: tra di voi non ci sono più dei maestri e degli schiavi, non vi sono più uomini e donne, a causa della croce che Gesù ha gettato sull'abisso che divideva la gente.

Il terzo conflitto è un conflitto culturale tra i cittadini liberi e gli schiavi analfabeti dall'altra. Ciò si manifestava in occasione dello sviluppo della liturgia, perché gli analfabeti hanno tutto un modo particolare di esprimere i loro sentimenti diverso da chi è legato da una cultura libresca. Ed è proprio tra i non colti che nascono le manifestazioni carismatiche, i trance, i trasporti, la glossolalia, tutte le manifestazioni diverse da quelle di chi ha una formazione intellettuale formata sui libri. ~ un problema culturale che è ancora il nostro.

Il quarto conflitto era teologico e nasceva dalla questione della carne sacrificata agli idoli (1Cor 8). La carne che veniva offerta dai pagani nei templi veniva poi venduta nelle adiacenze dei templi a prezzo meno caro che l'altra carne in città. Allora alcuni cristiani dicevano: Perché non comprarla, dato che costa meno? Noi sappiamo che il solo liberatore è Cristo, gli dei non esistono e questa carne è come le altre, non dobbiamo temere la sua magia. Altri cristiani dicevano: No, non possiamo comprarla perché questa carne è in rapporto con forze demoniache e pagane. Qui Paolo fa intervenire il principio che «aver ragione non è un criterio». Egli dice: anche se teologicamente ho ragione, poiché Cristo è il solo salvatore, se il mio comportamento diviene pietra d'inciampo, scandalo per qualcuno, allora io rinuncio ad avere ragione per non farne un problema per questo fratello o sorella per cui Cristo è morto.

In questo contesto egli ha introdotto, nel cap. 12, il modello del corpo di Cristo, che non è il corpo mistico di Cristo, ma ha un profilo sociologico molto preciso; a Corinto sono questi tre gruppi ed egli cerca di dire che il criterio è quello di costruire questo corpo, ossia di formare una comunità che è in definitiva una comunità di comunità, che deve essere una comunità cristiana eucaristica e credibile. Il criterio è perciò costruttivo. Bisognerebbe far intervenire tutte le nostre tecniche per disinnescare i pregiudizi, le situazioni di classe, le tensioni e qui devono intervenire la antropologia, la sociologia, la psicologia. Ma noi abbiamo la prospettiva, la linea di come lavorare. Quando vi sono delle situazioni in cui, in queste situazioni conflittuali, la speranza già progredisce, noi dobbiamo riconoscerlo e proclamarlo. La dimensione profetica non è solo il denunciare i conflitti, ma far vedere ciò che già progredisce nelle nostre comunità in modo positivo e proclamano. Avete già sentito parlare dell'iniziativa che la Conferenza delle Religioni per la pace ha lanciato verso l'Europa e che è giustamente un tentativo di rafforzare ciò che nei conflitti progredisce positivamente in Europa, così come Amnesty International tutta presa dei diritti dell'uomo denuncia negativamente e parallelamente ciò che contrasta lo shalom.

La meditazione strumento di pace

La meditazione è il quarto punto di riflessione. Oltre alle tecniche che possono diminuire i conflitti e le paure, un altro contributo ci può venire dalla meditazione. Sempre nella 1 Co. 13, Paolo in questa serie di conflitti fa appello al principio di carità, ma io desidero utilizzare qui il termine greco di agape nel suo significato preciso. In ebraico esiste un solo termine per designare l'amore, l'amicizia, il superamento dell'egoismo, in greco invece esistono tre parole, tra cui potevano scegliere gli evangelisti: eros, filia, agape. Il termine eros esprime tutta la dimensione che cerca la soddisfazione personale emotiva e affettuosa del mio corpo e della mia psiche, per mezzo di un partner. Nel N. T. non esiste questo termine eros. La filia indica la simpatia spontanea verso un'altra persona. Questo termine compare spesso nel N.T.: Gesù aveva molti amici e amiche, Marta, Maria, Lazzaro, Giovanni, Pietro. Il termine agape viene usato per indicare l'amore verso il nemico, una relazione di apertura e di responsabilità con l'altro, anche se io non lo posso sopportare, se è socialmente il mio avversario.

Noi dobbiamo trovare una tecnica per sorpassare la dimensione erotica e quella della simpatia e arrivare, in una situazione conflittuale, al livello in cui io posso di nuovo rinnovare i rapporti positivi con qualcuno. Se io sono una persona o un gruppo in una situazione conflittuale con un'altra persona o gruppo e se vogliamo condurre questa lotta in un modo leale, rifiutando il ruolo che egli gioca, allora la meditazione potrebbe essere una tecnica che mi farà arrivare a questo livello dell'agape dove i due si sperimentano come l'amata per Dio, anche se a livello psicologico o sociologico essi sono nemici, dove io arrivo a percepire la profondità della presenza di Dio nel nemico e in me. A partire da questa esperienza io potrò lavorare di nuovo a livello dei conflitti, non per negare i conflitti o rifiutarli semplicemente, dicendo: siamo sempre degli amici, ma lottando ancora.

Voglio rapidamente accennare a due teorie sull'aggressività. Una prima stabilisce il meccanismo che assimila l'aggressività a partire dall'insieme dei bisogni affettivi, sociali, fisici, che a causa di un'influenza diretta o di una struttura violenta non possono ricevere una risposta. Si può parlare allora di una frustrazione che diventerà aggressività contro se stessi (droga, alcool, suicidio) o aggressività verso altri. In una tale teoria, se io arrivo a diminuire la frustrazione diminuisco il rischio dell'aggressività e la meditazione sarebbe, appunto, un mezzo per diminuire i miei bisogni affettivi, fisici, corporali, psicologici; io divento più maturo e non ho il bisogno del conforto altrui. Ecco qui tutte le tecniche del digiuno, dell'ascesi, del pellegrinaggio, delle veglie, ecc.

La seconda teoria (nella linea di Freud e di Fromm) intende l'aggressività come una delle forze istintive, scritte al fondo di tutti i dinamismi. Se è così, io posso lavorare per non essere abbandonato passivamente a tutte le spinte dell'istinto; la meditazione mi permette di inserire una distanza tra questa spinta all'aggressività e l'atto aggressivo che io eseguo. La meditazione mi renderà lucido su ciò che mi capita e allora io posso diminuire questa tendenza verso l'aggressività. S. Paolo nella lettera ai Romani parla della dialettica fra ciò che voglio fare e ciò che non faccio, fra ciò che non voglio fare e ciò che faccio lo stesso. Le tecniche dello Yoga e dello Zen sono delle tecniche che giustamente vogliono avere una presa su queste possibilità intellettuali che sfuggono al nostro controllo e mi alienano. La meditazione ci aiuterà in questo.

In tutti i paesi di immigrazione si impone la necessità di sondare nuovi codici di comunicazione idonei a costruire una nuova rete di relazioni sociali.

La verità dell'Ortodossia

di Nikolaj A. Berdjaev


Tutto il mondo cristiano in Occidente non conosce bene l’Ortodossia. Ne conosce unicamente gli aspetti esteriori e, per di più, solo quelli negativi; non l’intimo tesoro spirituale della Chiesa. L’Ortodossia si è chiusa in se stessa e, non avendo alcuno spirito di proselitismo, non si è manifestata al mondo. Così per lungo tempo l’Ortodossia non ha avuto alcun significato per il mondo occidentale e non è stata oggetto d'attenzioni come il Cattolicesimo e il Protestantesimo. Per centinaia d'anni è rimasta estranea ad ogni appassionata battaglia religiosa. Per secoli ha vissuto protetta da grandi imperi (quello romano orientale, detto "bizantino", e quello russo) e ha preservato la sua eterna verità dagli eventi distruttivi che caratterizzano la storia del mondo. La tipica caratteristica della fede ortodossa è quella di non essere stata ampiamente spiegata ed esposta in trattati. L'Ortodossia non si è mai curata di conquistare alcuno e questo atteggiamento non l'ha adattata sacrificando la celeste Verità della Rivelazione cristiana alle mode correnti. L’Ortodossia è quella forma di Cristianesimo che ha sofferto le minori distorsioni nella sua sostanza a causa dei travagli storici. La Cristianità ortodossa ha avuto i suoi momenti difficili e criticabili quando il legame e la dipendenza esterna con lo Stato l'hanno segnata. Bisogna tuttavia dire che l’insegnamento ecclesiastico e l'intimo percorso spirituale indicato dalla Chiesa non sono stati distorti. La Chiesa Ortodossa è primariamente la Chiesa della tradizione, a differenza della Chiesa cattolica che è principalmente la Chiesa dell’autorità e delle Chiese protestanti che sono essenzialmente le Chiese della fede individuale. La Chiesa Ortodossa non è mai stata soggetta ad una singola autorità esterna. La forza che l'unisce non è data da un'autorità esterna ma dalla stabilità della sua intrinseca tradizione. Rispetto alle altre forme cristiane, l'Ortodossia è quella più vicina all'antichità cristiana. La forza della sua interiore tradizione deriva da quella dell'esperienza spirituale. Tale esperienza è possibile seguendo un percorso spirituale nel quale si afferma il potere della sovrapersonale vita spirituale grazie alla quale ogni generazione si distacca dai propri criteri di autosoddisfazione e di esclusivismo umano e aderisce alla vita spirituale di tutte le generazioni che l'hanno preceduta fino a risalire agli Apostoli.

In questa tradizione il credente ha la stessa esperienza e quindi la stessa autorità dell'Apostolo Paolo, dei martiri, dei santi dell'intero mondo cristiano. Nella tradizione la mia conoscenza non è personale ma sovrapersonale; non vivo isolato ma nel Corpo di Cristo. Ne sono parte poiché sono un singolo organismo spirituale con tutti i miei fratelli in Cristo.

L'Ortodossia è prima di tutto ortodossia di vita e non ortodossia d'indottrinamento. E' perciò che i cosiddetti eretici non sono quelli che confessano una falsa dottrina ma coloro che hanno una falsa vita spirituale e seguono un falso percorso spirituale. L'Ortodossia, fin dal principio, non spicca come una dottrina o un'organizzazione esterna, non dà una norma esterna di comportamento ma indica una vita spirituale, un'esperienza spirituale e un percorso spirituale. La sostanza del Cristianesimo è vista in un'intima attività spirituale. L'Ortodossia non si identifica con una forma legale di cristianesimo (nel senso d'un insieme di norme razionali e di leggi morali) quanto, piuttosto, con la sua forma più spirituale. Questa spiritualità e misteriosità dell'Ortodossia ha spesso contribuito a determinare la sua esterna debolezza. La debolezza esterna e l'insufficiente sviluppo, l'insufficiente presenza di attività esterne e organizzative, colpisce chiunque li noti, ma la sua vita spirituale, il suo tesoro spirituale rimane invisibile e ignoto. Questa è la caratteristica della natura spirituale dell'Oriente, in contrasto con il mondo occidentale che è sempre attivo e visibile ma è frequentemente esausto nel suo spirito a causa di tutte le sue attività. Nel mondo non cristiano dell'Oriente, la vita spirituale dell'India è praticamente ignota agli osservatori esterni e non è riportata nelle descrizioni storiche. Questo può essere detto anche per l'Ortodossia benché la natura spirituale cristiano-orientale è lontana e diversa dalla natura spirituale dell'India. I santi del mondo ortodosso, contrariamente a quelli del mondo cattolico, non hanno lasciato delle opere scritte alla loro morte. Essi sono rimasti ignoti. Anche per questo motivo è difficile giudicare la vita spirituale ortodossa osservandola dall'esterno. L'Ortodossia non ha avuto l'era scolastica, ha sperimentato solo l'età patristica. La Chiesa ortodossa fino ad oggi si appoggia sugli insegnamenti ecclesiastici orientali. L'Occidente considera ciò una prova di arretratezza, come se questo fosse il segno d'una realtà morente, di qualcosa al di fuori della vita creativa. Ma a questo fatto può essere data un'altra interpretazione: nell'Ortodossia il Cristianesimo non è stato razionalizzato nella misura dell'Occidente, com'è avvenuto nel Cattolicesimo con l'aiuto di Aristotele che leggeva tutto attraverso la visione intellettuale greca. Nell'Ortodossia la dottrina non ha mai raggiunto un simile significato e i dogmi non sono stati mai strettamente vincolati a insegnamenti obbligatori di tipo intellettuale e teologico essendo stati capiti principalmente come verità mistiche. Per questo i credenti hanno avuto un atteggiamento diverso nei riguardi delle interpretazioni teologiche e filosofiche che riguardavano i dogmi. Questo ha permesso, nella Russia del diciannovesimo secolo, una genesi d'idee ortodosse creative che esprimevano più libertà e talento spirituale rispetto a quelle cattoliche e protestanti.

Alla natura spirituale dell'Ortodossia appartiene un'originale e inviolabile ontologia che si presenta principalmente come la manifestazione della vita ortodossa e solo in seguito, del suo pensiero. L'Occidente cristiano ha percorso le strade del pensiero critico caratterizzate dall'opposizione tra soggetto e oggetto. In tal modo, l'insieme organico del pensiero e la sua organica connessione con la vita è stata violata. L'Occidente è capace d'una complessa spiegazione del suo pensiero, della sua riflessione, del suo criticismo e del suo preciso intellettualismo. Ma in questo processo esiste una violazione nella connessione tra colui che conosce e pensa e l'esistenza primordiale ed originale. La percezione esce dalla vita e dal pensiero, esce dall'esistenza. La percezione e il pensiero non passano attraverso l'integralità spirituale della persona nell'organica unità di tutte le sue forze. L'Occidente ha compiuto grandi gesta su questa base ma da questo è derivato il decadimento dell'originale ontologismo del pensiero impedendogli di entrare nella profondità della realtà. Questo ha comportato l'intellettualismo scolastico, il razionalismo, l'empirismo e l'estremo idealismo del pensiero occidentale. In campo ortodosso il pensiero è rimasto ontologico, unito all'esistenza, e questo è evidente attraverso l'intero pensiero russo religioso filosofico e teologico del XIX e XX secolo. Il razionalismo, il legalismo e ogni genere di normativizzazione è alieno all'Ortodossia. La Chiesa ortodossa non è definita da concetti razionali, viene espressa in concetti solo per coloro che vivono in essa, per coloro che sono uniti alla sua esperienza spirituale. Le forme mistiche del Cristianesimo non sono soggette ad alcun genere di definizioni intellettuali, non posseggono alcuna firma giuridica o razionale. Fare teologia in maniera genuinamente ortodossa significa fare teologia sulla base dell'esperienza spirituale. L'Ortodossia è quasi totalmente mancante di manuali scolastici. L'Ortodossia comprende se stessa attraverso la religione trinitaria; non con un astratto monoteismo ma in un concreto trinitarismo. La vita della Santa Trinità è riflessa nella sua vita spirituale, nella sua spirituale esperienza e nel suo percorso spirituale. La Liturgia Ortodossa inizia con le parole: "Benedetto è il Regno del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo". Ogni cosa inizia dall'alto, dalla Triade divina, dall'altezza della sua Essenza, non dalla persona e dalla sua anima. Nella comprensione ortodossa è la Divina Triade che discende non la persona che ascende. Nel Cristianesimo occidentale ci sono meno espressioni trinitarie di questo genere. E' più cristocentrico e antropocentrico. Questa differenza è già riscontrabile in nuce tra gli autori patristici orientali e quelli occidentali: i primi si soffermano di più sulla Trinità divina, i secondi sull'animo umano. Così l'Oriente proclama prima di tutto i misteri dei dogmi trinitari e cristologici. L'Occidente insegna prima di tutto la Grazia, la libertà e l'organizzazione ecclesiastica. Comunque l'Occidente ha avuto una grande richezza e una grande varietà d'idee.

L'Ortodossia è quel Cristianesimo in cui avviene la più grande manifestazione dello Spirito Santo. E' perciò che la Chiesa Ortodossa non accetta l'insegnamento del Filioque che viene visto come una subordinazione nell'insegnamento sullo Spirito Santo. La natura dello Spirito Santo non è rivelata tanto dai dogmi e dalla dottrina ma dalla sua azione. Infatti lo Spirito Santo è particolarmente vicino a noi ed è molto più immanente al mondo [di ciò che si creda]. Lo Spirito Santo agisce direttamente sul mondo creato e trasfigura la creazione. Questo insegnamento è stato rivelato dal più grande dei santi russi, Seraphim di Sarov. L'Ortodossia non solo è Trinitaria nella sua essenza ma vede come compito della sua vita terrena, la trasfigurazione del mondo nell'immagine Trinitaria facendolo diventare essenzialmente pneumatico (=spirituale).

In questo caso parlo delle profondità dei misteri dell'Ortodossia e non di opinioni superficiali su di essa. La teologia pneumatologica (=spirituale) , l'anticipazione di una nuova effusione dello Spirito Santo nel mondo, sono elementi molto più attinenti all'ambito ortodosso. L'Ortodossia da un lato è molto più conservativa e tradizionale rispetto al Cattolicesimo e al Protestantesimo ma, dall'altro, nel suo seno, c'è sempre stata una grande attesa di una nuova manifestazione religiosa nel mondo, di un'effusione dello Spirito Santo, della venuta della Nuova Gerusalemme. L'Ortodossia non si è sviluppata storicamente per quasi un millennio; il concetto di evoluzione le è estraneo ma la creatività religiosa vive nascosta ed è come conservata per una nuova, non ancora raggiunta, epoca storica. Questo è apparso evidente nei movimenti religiosi russi del XIX e XX secolo.

L'Ortodossia compie una divisione più profonda tra il mondo divino e quello naturale, tra il regno di Dio e quello di Cesare e non accetta delle possibili analogie che sono frequentemente evidenti nell'ambito della teologia cattolica. Essa concepisce in Dio una sostanza impartecipabile e delle energie che coinvolgono tutto l'universo. Le energie divine agiscono sia nell'uomo che nel mondo. Non si può dire, a proposito del mondo creato, che è dio o che è divino, ma non si può nemmeno dire che è un'espressione esterna alla divinità. Dio e la vita divina non assomigliano al mondo naturale o alla vita naturale; in questo campo non è assolutamente possibile fare delle analogie. Dio è eterno la vita naturale è finita ed è limitata. Ma l'energia divina si riversa da Dio sul mondo naturale, agisce su di lui e l'illumina. Questa è l'ortodossa comprensione dello Spirito Santo. L'insegnamento di Tommaso d'Aquino in base al quale il mondo naturale è in opposizione al mondo soprannaturale è, nell'ottica ortodossa, un modo di secolarizzare il mondo. L'Ortodossia è essenzialmente pneumatologica ed è questo a contraddistinguerla. La sua spiritualità è il risultato finale della sua trinitarietà. Così la Grazia non è la mediazione tra la sfera soprannaturale e quella naturale; la grazia è l'azione delle divine energie nel mondo creato; essa rivela la presenza dello Spirito Santo nel mondo. La caratteristica spirituale-pneumatologica dell'Ortodossia rende il Cristianesimo più completo e rivela il predominio del Nuovo Testamento sui presupposti del Vecchio. Nel suo apice, l'Ortodossia comprende lo scopo della sua vita come la ricerca del conseguimento della grazia dello Spirito Santo. Ciò comporta la spirituale trasfigurazione della creazione. Questa comprensione è essenzialmente opposta alla comprensione legalistica con la quale il mondo divino e il mondo soprannaturale sono composti da una legge e da una norma che devono modellare il mondo creato e naturale.

L'Ortodossia è principalmente liturgica. Il popolo cristiano viene informato e illuminato non solo dai sermoni e dall'insegnamento ma dalle liturgie che infondono e adombrano la vita trasfigurata. La liturgia insegna attraverso la vita dei santi incoraggiandone il culto. Tuttavia l'immagine dei santi non è il punto di riferimento principale: a loro è stata garantita la grazia dell'illuminazione e della trasfigurazione della creazione solo attraverso l'azione dello Spirito Santo. Questo, non essendo per l'Ortodossia una qualche realtà normativa, non è facilmente comprensibile né da chi ha normali stili di vita né dalla storia; considerare l'azione dello Spirito Santo è ben poco attraente per qualsiasi organizzazione. L'ignoto mistero dell'attività dello Spirito Santo sulla creazione non è mai stato compreso in termini storici e culturali.

La peculiare caratteristica dell'Ortodossia è la libertà. Questa realtà interiore non è osservabile all'esterno ma è presente dappertutto. L'idea della libertà come fondamento dell'Ortodossia è stata presentata nel pensiero religioso russo del XIX e XX secolo. L'ammissione della libertà di coscienza distingue radicalmente la Chiesa Ortodossa da quella Cattolica. Ma la comprensione di libertà nell'Ortodossia è differente dalla comprensione di libertà che ha il Protestantesimo. Nel Protestantesimo come in tutto il pensiero occidentale, la libertà è compresa individualisticamente, come un diritto personale, da conservarsi da ogni abuso altrui. Perciò viene dichiarata autonoma.

L'individualismo è estraneo all'Ortodossia. Ad essa appartiene un collettivismo particolare. Una persona religiosa e una collettività religiosa non sono incompatibili tra loro. La persona religiosa è tale grazie ad una collettività religiosa e la collettività religiosa è fondata da persone religiose. In tal modo la collettività religiosa non diviene un'autorità esterna che opprime esternamente la persona stessa con insegnamenti e leggi. La Chiesa non è all'esterno delle persone religiose e tantomeno si oppone ad esse. La Chiesa è con loro e in mezzo a loro. In tal modo non è un'autorità. La Chiesa è una realtà piena di grazia che esprime unità, amore e libertà. Ogni genere di autoritarismo è incompatibile con l'Ortodossia perché questo comporta una frattura tra la collettività religiosa e la persona religiosa, tra la Chiesa e i suoi membri. Non può sussistere alcuna vita spirituale senza libertà di coscienza; non può sussistere neppure un vero concetto di Chiesa dal momento che essa non tollera degli schiavi in sè poiché Dio vuole che la persona sia libera. Ma l'autentica libertà religiosa e di coscienza, la libertà dello spirito, è resa evidente quando non è isolata autonomamente in una singola personalità, divenendo individualismo, quando è in una personalità consapevole d'essere una sovrapersonale unità spirituale, in unità con un organismo spirituale nel Corpo di Cristo, cioè nella Chiesa. La mia coscienza personale non è estromessa o posta in opposizione alla coscienza sovrapersonale della Chiesa, si rivela solo nella coscienza della Chiesa. Tuttavia, senza alcun approfondimento spirituale della mia coscienza personale, della mia personale libertà, la vita della Chiesa non si realizza dal momento che questa vita non può essere esterna alla persona e non può esserle imposta. Partecipare alla Chiesa richiede libertà spirituale. Tale libertà è necessaria non solo quando si abbraccia la fede per la prima volta - cosa che anche il Cattolicesimo riconosce - ma per tutta la vita cristiana. La libertà della Chiesa rispetto allo Stato è sempre stata precaria ma, nonostante ciò, l'Ortodossia ha sempre goduto libertà in seno alla Chiesa. Nell'Ortodossia la libertà è organicamente correlata con la Sobornost ossia con l'attività dello Spirito Santo nella collettività religiosa che è rimasta nella Chiesa in tutti i tempi, non solo nei periodi in cui si celebravano i Concili Ecumenici. Sobornost significa la vita dei cristiani nella Chiesa e non ha mai avuto bisogno di qualche giuridica ed esterna approvazione. Neppure i Concili Ecumenici hanno avuto a che fare con qualche autorità giuridica indiscutibile ed esterna a loro. L'infallibilità e l'autorità sono caratteristiche di cui gode solo l'intero corpo ecclesiale attraverso la sua storia. I trasmettitori e i custodi di quest'autorità sono tutti i credenti che compongono la Chiesa. I Concili ecumenici godono della loro autorità non perché sono conformi ad esterne legali e giuridiche caratteristiche ma perché il popolo della Chiesa, l'intera Chiesa, li ha riconosciuti come ecumenici e genuini. E' genuino solo quel Concilio ecumenico che ha l'assistenza dello Spirito Santo; l'effusione dello Spirito Santo non ha alcun criterio giuridico ed esteriore, è riconosciuta dal popolo cristiano perché si accorda con la loro interiore evidenza spirituale. Tutto ciò indica un carattere non giuridico e non normativo nella Chiesa ortodossa. Oltre a questo la coscienza ortodossa ha una comprensione molto più ontologica della Chiesa. Non la considera come un'organizzazione o una struttura, non come una società di fedeli, ma come un organismo religioso spirituale, come il Corpo Mistico di Cristo. L'Ortodossia ha una natura cosmica che non è sufficientemente espressa né dal Cattolicesimo né dal Protestantesimo. La Cristianità occidentale è principalmente antropologica. Invece la Chiesa è anche il cosmostheosis, di divinizzazione dell'uomo e dell'intero mondo creato. La salvezza non è che la deificazione (theosis). L'intero mondo creato, l'intero cosmo è soggetto alla deificazione. La salvezza è l'illuminazione e la trasfigurazione della creazione, non una giustificazione giuridica. L'Ortodossia si volge al mistero della Resurrezione come al sommo e finale scopo del Cristianesimo. E' per questo che la festa centrale nella vita della Chiesa ortodossa è la festa di Pasqua, la Resurrezione gloriosa di Cristo. I raggi lucenti della Resurrezione pervadono il mondo ortodosso. La festa della Resurrezione ha un incommensurabile e grande significato più nella liturgia ortodossa che nel Cattolicesimo nel quale l'apice è visto nella festa della nascita di Cristo. Così mentre nel Cattolicesimo s'incontra principalmente il Cristo crocefisso, nell'Ortodossia si vede il Cristo risorto. Il percorso della Croce è il percorso dell'uomo ma esso porta l'uomo stesso e il resto del mondo verso la Resurrezione. Il mistero della Crocefissione può essere ignorato dietro a quello della Resurrezione. Tuttavia il mistero della Resurrezione è il massimo mistero dell'Ortodossia. Il mistero della Resurrezione non riguarda solo l'uomo, è una realtà cosmica. Per questo modo di vedere l'Oriente è molto più cosmico dell'Occidente che è antropocentrico. Nell'atropocentrismo occidentale c'è una sua forza e un suo significato ma indubbiamente anche un limite. Le basi spirituali dell'Ortodossia contengono un desiderio di salvezza universale. La salvezza non è compresa soltanto come un evento individuale ma collettivo che abbraccia tutto il mondo. Perciò l'Ortodossia non avrebbe mai potuto concepire quell'affermazione di Tommaso d'Aquino in base alla quale la persona retta del Paradiso sarà deliziata dalla sofferenza dei peccatori in Inferno. Alla stessa maniera l'Ortodossia non potrebbe mai proclamare l'insegnamento sulla predestinazione né nella sua forma estrema (Calvino) né in quella immaginata dal beato Agostino. Contrariamente a ciò diversi padri orientali della Chiesa, da Clemente di Alessadria a Massimo il Confessore, sostenevano l'idea dell'Apokatastasis, della salvezza universale e della Resurrezione. Tale è la carattersitica contemporanea del pensiero religioso russo. Il pensiero ortodosso non è mai stato ossessionato dall'idea della giustizia divina e non ha mai dimenticato l'idea dell'amore divino. Così l'uomo è stato principalmente definito dall'idea della trasfigurazione e della deificazione umana e cosmica, non dalla giustizia divina. cristianizzato; in essa l'intero mondo creato è soggetto all'effetto della grazia dello Spirito Santo. L'apparizione di Cristo ha un significato cosmico, cosmogonico; è e significa una nuova creazione, un nuovo giorno della creazione del mondo. La comprensione giuridica della redenzione, come se fosse un processo giuridico avvenuto tra Dio e l'uomo è piuttosto estraneo all'Ortodossia. Essa ha una comprensione ontologica e cosmica dell'apparizione di una nuova creazione e di un'umanità rinnovata. Ciò che soggiace a questa visione è l'idea centrale e corretta di

Infine la caratteristica più importante dell'Ortodossia è la sua coscienza escatologica. L'antica escatologia cristiana, l'anticipazione della seconda venuta di Cristo e la Resurrezione, era particolarmente diffusa ed è ancora conservata nell'Ortodossia. L'escatologia ortodossa comporta uno scarso attaccamento al mondo e alla vita terrena ma una grande attenzione al Cielo e all'eternità, cioè al Regno di Dio. Nel Cristianesimo occidentale, la realizzazione della Cristianità lungo la storia significa efficienza e organizzazione terrena. Ciò si può realizzare bene solo stornando l'attenzione dal mistero del secondo arrivo di Cristo. Nell'Ortodossia il principale risultato della sua inferiore attività storica ha comportato la conservazione delle grandi realtà escatologiche. Il lato apocalittico del Cristianesimo si è espresso molto meno in Occidente. In Oriente e nell'Ortodossia, specialmente in quella russa, sono sempre esistite tendenze apocalittiche come anticipatrici d'una nuova effusione dello Spirito Santo. L'Ortodossia, essendo la forma cristiana più conservativa e tradizionale, ha conservato meglio le antiche verità e questo può permettere un rinnovamento religioso. Tale rinnovamento non riguarda il pensiero umano - come avviene in Occidente - ma la trasfigurazione religiosa della vita. Il primato della pienezza della vita al di là delle diverse culture è sempre stata la speciale caratteristica dell'Ortodossia. L'Ortodossia non ha avuto quel fiorire di culture che sono sorte attorno al Cattolicesimo e al Protestantesimo. Questo si spiega se si tiene conto che l'Ortodossia si volge al Regno di Dio e ne considera la venuta non come la conseguenza di un'evoluzione storica ma come il risultato d'una mistica trasfigurazione del mondo. Non è l'evoluzione ma la trasfigurazione che caratterizza l'Ortodossia. Perciò essa non può essere conosciuta attraverso dei trattati teologici ma attraverso la vita della Chiesa e dei credenti. L'Ortodossia deve uscire dalla sua condizione di isolamento e di silenzio e testimoniare i suoi tesori ignoti e spirituali. Solo dopo potrà avere un significato per il mondo. Il riconoscimento dell'esclusivo significato spirituale dell'Ortodossia come la più pura forma di Cristianesimo non deve comportare un'autosoddisfacimento nè il totale rifiuto di significato del Cristianesimo occidentale. Al contrario dobbiamo considerare il Cristianesimo occidentale e imparare diverse cose da esso. Dobbiamo andare verso l'unità cristiana e perciò l'Ortodossia è un'ottima base. Tuttavia siccome l'Ortodossia soffre molto di meno della secolarizzazione che pervade in Occidente, può contribuire incommensurabilmente alla cristianizzazione del mondo. La cristianizzazione del mondo non deve significare la secolarizzazione del cristianesimo. Il Cristianesimo non può essere separato dal mondo se il mondo continua a vivere in lui. Mentre resta nel mondo il Cristianesimo lo deve conquistare, non lasciarsi conquistare.

(Articolo tratto da " Vestnik of the Russian West European Patriarchal Exarchate "- Paris 1952)

La Pasqua, festa centrale per Israele, ha un divenire storico assai complesso e in vari punti ancora oscuro. Ciò è dovuto alle varie santificazioni che si sono sovrapposte lungo i secoli.

La Passione nei quattro Vangeli

di Michel Berder

 

 

 

Ognuno dei quattro Vangeli contiene un racconto dettagliato della passione di Gesù. Confrontando le quattro versioni compaiono punti in comune che fanno pensare ad uno schema narrativo di base. Eppure, ogni testo possiede la sua originalità, sia sul piano letterario sia su quello teologico. Cerchiamo di rintracciare a poco a poco i tratti comuni e le differenze. L’analisi paziente ci farà scoprire la ricchezza della riflessione delle prime comunità cristiane su queste scene a lungo meditate.

La prima caratteristica di questi capitoli è il posto primario che la Passione occupa negli scritti evangelici. Il numero dei versetti dedicati al ricordo degli ultimi giorni di Gesù a Gerusalemme è impressionante, rapportato alla lunghezza dei singoli Vangeli. Di più, questo racconto è alla fine di ogni percorso, e ciò dà ai quattro Vangeli l'aspetto di un racconto della Passione e Risurrezione preceduto da una lunga introduzione.

Cronaca di una morte annunciata

Tutti gli astanti che partecipano all’esperienza della proclamazione della Passione in un'assemblea sono colpiti dalla sua coerenza drammatica. Una certa «suspence» è predisposta; il destino di Gesù si sviluppa da un episodio all'altro fino a condurlo alla morte Gli evangelisti invitano anche a interessarci di altri personaggi: Pietro e Giuda, il gruppo dei discepoli, le donne che hanno seguito Gesù, e la stessa folla. Numerosi episodi vengono situati in funzione delle ubicazioni istituzionali nella città di Gerusalemme. La cronologia è concisa: le indicazioni sono a volte annotate in funzione del calendario liturgico giudaico all'avvicinarsi della Pasqua. Certi rimandi all'interno dello stesso racconto rafforzano l’impressione di un gioco tragico che procede a poco a poco verso la sua conclusione: per esempio, l'annuncio fatto da Gesù del rinnegamento di Pietro, con la menzione del canto del gallo.

Queste pagine drammatiche sono state preparate da alcuni elementi disposti nei capitoli precedenti. Il lettore, infatti, non è stato avvertito soltanto dagli espliciti annunci di Passione, morte e risurrezione fatti da Gesù (cf Mc 8,31; ecc.), ma anche da un certo numero di indizi che orientavano verso questo finale. Così si può leggere dopo l'episodio di una guarigione, operata di sabato: «i farisei con gli erodiani tennero consiglio contro di lui per farlo morire» (Mc 3,6). Secondo Matteo, i discorsi di Gesù contengono ammonimenti così severi da provocare conflitti con il suo uditorio.

Luca conclude il racconto della tentazione di Gesù con la seguente precisazione: «Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato» (Lc 4,13). L'appuntamento è fissato. E Luca invita il suo lettore a cogliere il legame con questo episodio quando presenta il complotto contro Gesù: «Allora Satana entrò in Giuda, detto Iscariota, che era nel numero dei Dodici... (Lc 22,3-4). Giovanni, da parte sua, colloca sin dall'inizio del ministero di Gesù l'episodio della purificazione del Tempio di Gerusalemme, insistendo sulla parola di Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Un inciso precisa: «Ma egli parlava del tempio del suo corpo» (Gv 2,13-22).

Avvenimenti riletti nella fede

Anche se la forma letteraria è quella di un racconto, non si tratta di una raccolta di aneddoti. In certi accenti si percepiscono le preoccupazioni delle comunità cristiane all'interno delle quali sono nati i testi. Lo stesso lettore è invitato a farsi coinvolgere. Per esempio, il ruolo svolto da Giuda, il rinnegamento di Pietro, e ancora l'abbandono di Gesù da parte dei suoi intimi costituiscono altrettanti inviti a interrogarsi sulla propria fedeltà di discepoli nei riguardi del Maestro. Negli Atti degli Apostoli, la Passione di Cristo servir in modo esplicito da modello al racconto del martirio di Stefano. Bisogna pure tener conto della portata di certe notizie riguardanti il potere romano o le autorità del popolo giudaico, quando si conoscono i problemi posti alle Comunità cristiane nascenti.

Lo spazio dato ai riferimenti scritturali è un altro indizio di questa rilettura nella fede: è considerevole, in particolare per il libro di Salmi, e in tutti e quattro i Vangeli. Spesso assume la forma di citazioni poste in bocca allo stesso Gesù.

Com’è avvenuto nel resto del Vangelo, tutte queste pagine sono state scritte alla luce della Risurrezione di Cristo. Ed è assai significativo constatare che i narratori non hanno cancellato gli aspetti più crudi: la sofferenza di Gesù, la sua solitudine (compresa quella davanti al Padre), il suo scontrarsi con l'incomprensione, la gelosia, la violenza.

Le quattro passioni sviluppano una stessa trama

Confrontando le quattro versioni della Passione nei Vangeli, si può constatare che è abbastanza facile metterle in parallelo. Ciò appare chiaro da tutte le edizioni sinottiche. Lo stesso Giovanni, che nel resto del suo Vangelo presenta una struttura chiaramente diversa dagli altri tre, qui li segue abbastanza da vicino. Per questa sezione si potrebbe parlare di «quattro Vangeli sinottici», cioè che può essere colta nel suo insieme a colpo d'occhio. Questa osservazione vale dall'entrata di Gesù in Gerusalemme, e ancor più dal suo arresto. Si possono persino rilevare un certo numero di convergenze tra Luca e Giovanni. E ciò potrebbe suggerire una preistoria della tradizione che sarebbe sfociata in due grandi correnti: una avrebbe dato origine alle versioni di Matteo e Marco, l'altra a quelle di Luca e Giovanni.

È difficile precisare quale fosse il tenore del racconto più antico; probabilmente quello di Marco è il più vicino agli eventi. Certi commentatori pensano a un primo «racconto breve», il cui inizio sarebbe costituito dall'episodio dell'arresto di Gesù. In seguito sarebbe stato sviluppato per dare origine a un racconto più lungo, comprendente, come prologo, un certo numero di episodi che attualmente troviamo prima dell’arresto.

Marco: lo «shock» dei fatti

Il racconto dì Marco, il meno sviluppato, ci presenta i fatti in modo sconcertante. Marco fa risaltare il paradosso della Croce di Cristo e, attraverso la narrazione, esprime la sua teologia, senza fare lunghi discorsi e senza troppi interventi personali nel corso del testo.

Tutto il suo Vangelo è una rivelazione dell'identità di Gesù. Il primo versetto orienta già la lettura in questo senso: «Inizio del Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio» (Mc 1,1). A più riprese ritorna l'interrogativo: «Chi è dunque costui?» (Mc 4,41; 1,27; 6,14-16; ecc.). E Gesù manifesta una netta reticenza nell'affermare il suo titolo messianico, ed impone il silenzio al riguardo (Mc 1,34.44; 3,12; 5,43). Una tappa importante si raggiunge quando Pietro, rispondendo a una domanda posta da Gesù, afferma: «Tu sei il Cristo». Gesù ripete il suo comando al silenzio (8.30), ma subito «cominciò a insegnare loro che il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare» (Mc 8,31).

La croce, rivelazione dell'identità di Cristo

La Croce costituirà la tappa definitiva di questa rivelazione di Gesù. Davanti al Sinedrio Gesù viene interrogato dal Sommo Sacerdote che gli chiede se egli è «il Messia, il Figlio del Benedetto». La sua risposta è la seguente: «Io lo sono. E vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra dell'Onnipotente e venire con le nubi del cielo» (Mc 14,62). Questa risposta lo trascinerà alla condanna a morte per bestemmia. Nel Vangelo di Marco, il titolo Figlio di Dio e quello di Figlio dell'uomo sono esplicitamente legati non soltanto alla nozione di gloria, ma anche al tema del pericolo e della morte. La scena della crocifissione lo conferma. La professione di fede del centurione ai piedi della croce viene riportata in questi termini: «Veramente quest'uomo era Figlio di Dio» (Mc 15,39). Secondo Marco è il modo con cui Gesù è morto che farà riconoscere in lui il Figlio di Dio. E questo riconoscimento viene fatto da un centurione dell'esercito romano.

La presentazione paradossale di Gesù in Marco si manifesta anche per il modo con cui viene trattata la figura del re. Di fronte a Pilato, il titolo di «re dei Giudei» è al centro del dibattito. Alla domanda, postagli da Pilato al riguardo, Gesù risponde con riserva: «Tu lo dici» (Mc 15,2). La scena seguente e gli insulti della coorte riprendono il tema della regalità sul registro dello scherno: veste purpurea, corona di spine, saluti, prostrazioni, ecc... (Mc 15,6-20). Marco mette di nuovo il suo lettore davanti allo «shock» delle immagini e dei fatti.

Dati propri a Marco

In Marco troviamo alcuni tratti assenti negli altri Vangeli. Descrivendo la preghiera del Getsemani, è il solo a trascrivere il titolo aramaico 'Abbà che Gesù rivolge al Padre suo (Mc 14,36). Durante la fuga dei discepoli, è l'unico Vangelo a ricordare l'episodio del giovane che, abbandonato il lenzuolo di cui era rivestito, fuggì via nudo (Mc 14,51-52). I commentatori sottolineano sovente il carattere personale di questo dettaglio: è forse un ricordo autobiografico? Altri pensano piuttosto a un significato simbolico, il gesto poteva evocare il rito del battesimo. Marco segnala che Simone di Cirene era il padre di Alessandro e Rufo (Mc 15,21). Si può supporre che questi nomi fossero conosciuti dai primi destinatari del suo Vangelo. È ancora il solo a parlate del coraggio di Giuseppe di Arimatea che chiede a Pilato il corpo di Gesù (Mc 15,43): forse qui si può trovare un'eco di situazioni difficili vissute da alcuni cristiani dell'epoca.

Matteo: potenza di Cristo

Nella Passione secondo Matteo, Gesù appare come il Figlio di Dio che attraversa la prova con potenza. Sin dai primi versetti del capitolo 26, annuncia: «Voi sapete che fra due giorni è Pasqua e il Figlio dell'uomo sarà consegnato per essere crocifisso». E nel Getsemani, durante l’arresto, fa notare a colui che aveva colpito di spada il servitore del sommo sacerdote: «Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio e mi darebbe più di dodici legioni di angeli?» (Mt, 26,53) Ma allo stesso tempo coglie l'occasione per dare un saggio insegnamento: «Tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada» (Mi 26,52). Matteo è il solo a citare queste parole di Gesù. La potenza caratterizza anche le manifestazioni che seguono la morte di Gesù. Matteo ricorre ad alcune immagini che fanno parte degli scenari apocalittici e degli scritti profetici quando descrivono i fenomeni degli ultimi giorni (Mt 27,53-57). In questo modo egli accomuna nel suo racconto la morte e la risurrezione di Gesù.

Matteo sottolinea assai più di Marco e con più insistenza il compimento delle Scritture. Alla fine della scena dell'arresto, il narratore interviene per notare: «Tutto questo è avvenuto perché si adempissero le Scritture dei profeti» (Mt 26,56). Nella descrizione degli insulti rivolti a Gesù in croce (Mt 27,43), solo lui riprende certe espressioni dell'Antico Testamento, in particolare Sal 22,9 e Sap 2,18-19.

Un racconto segnato dai conflitti della sua epoca

Il contesto della vita delle comunità legate a Matteo traspare nel modo di riportare certi episodi. Il conflitto e la rottura tra i discepoli di Cristo e le autorità giudaiche vengono sottolineati nel suo Vangelo. Soltanto in esso leggiamo la dichiarazione della folla a Pilato: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli» (Mt 27,25). L’espressione dev'essere interpretata unicamente nel suo contesto: essa non deve giustificare una qualsiasi chiamata in causa della totalità del popolo giudaico durante i secoli. Queste parole vengono pronunciate durante una scena riportata dal solo Matteo (Mt 27,24-26): Pilato prende dell'acqua e si lava le mani, compiendo un gesto la cui portata simbolica è assai significativa per chi conosce la Bibbia e la tradizione giudaica. Matteo è ancora il solo evangelista a prendere atto di una voce che circolava tra i giudei ,riguardo al corpo di Gesù rubato dai discepoli (27,62-66 e 28,12-15). Si possono anche notare i termini con cui Matteo presenta Giuseppe di Arimatea: «Era diventato anche lui discepolo di Gesù» (27,57). Egli usa qui lo stesso verbo che utilizzerà quando parlerà dell’invio in missione fatto dal Risorto in 28,19: «Ammaestrate (= fate miei discepoli) tutte le nazioni».

Altri dati propri a Matteo

Tra gli elementi narrativi riportati unicamente da Matteo, si possono notare le molte informazioni concernenti l'itinerario di Giuda. Egli ricorda la somma convenuta per il tradimento: «trenta monete d'argento» (Mt 26,15; 27,3.5.9). Questa corrisponde al prezzo di uno schiavo secondo Es 30,21-32. Interrompe il racconto della comparizione di Gesù davanti a Pilato per raccontare la morte di Giuda, in termini assai diversi da quelli di At 1,16-22. Infine conviene notare che, nel racconto matteano dell'ultima Cena, Gesù dà il senso della sua morte: egli parla del suo sangue versato per la moltitudine «in remissione dei peccati», cioè «per ottenere il perdono dei peccati» (Mt 26,28).

Luca: un lavoro da scrivano

Il testo di Luca appare, secondo l’espressione usata nel suo prologo (Lc 1,1-4) come «un resoconto ordinato». La sua arte di scrittore emerge nel modo in cui egli presenta gli attori del dramma, con la loro evoluzione psicologica e spirituale. Nel suo racconto possiamo seguire passo dopo passo il cammino di Pilato che prima si informa delle accuse portate contro Gesù e poi dà inizio all'interrogatorio sul suo titolo di re.

Luca accorda maggior spazio all'espressione dei sentimenti di Gesù: «Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi prima della mia passione» confida, introducendo l'ultima Cena (Lc 22,15). La descrizione della sua angoscia al monte degli Ulivi è commovente (Lc 22,40-46). Egli parla di un sudore che «diventò come gocce di sangue». Le relazioni tra Gesù e Pietro sono evocato con delicatezza: nell'avvertimento espresso in 22,31-32, Luca ricorda la preghiera di Gesù per Pietro. Nel momento del rinnegamento, riferisce che Gesù «guardò Pietro» (Lc 22,61)

Presentazione drammatica dello scontro finale

Questo Vangelo è costruito intorno al cammino di Gesù verso Gerusalemme: e non è un caso se è ancora lui ad offrire la più lunga descrizione della via della Croce (23,26-32). In quest’occasione, il Cristo si rivolge con parole dure alle figlie di Gerusalemme che lo seguono. Nel Vangelo di Luca, la Passione è raccontata come un grandioso dramma che oppone Gesù alle potenze del Male. Luca 22,3 fa riferimento al ruolo di Satana nel tradimento di Giuda. Poi apostrofa quelli che si avvicinano per arrestarlo dicendo: «Questa è la vostra ora, è l'impero delle tenebre» (Lc 22,53).

Durante tutto il suo racconto, si percepisce l'affetto del discepolo Luca nei riguardi di Gesù. Ci tiene ad affermarne l'innocenza. Pilato, secondo Luca, per quattro volte lo proclama innocente (Lc 23,4.14.15.22). Anche uno dei malfattori riconosce che Gesù «non ha fatto nulla di male» (Lc 23,41). Alla morte di Gesù, il centurione ravvisa in lui «un giusto» (Lc 23,47). Questo paradosso del giusto messo alla pari degli assassini è ricordato da Gesù evocando la figura del Servo di Dio in una citazione di Isaia. Dopo un solenne avvertimento ai discepoli, annuncia: «Vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: “E fu annoverato tra i malfattori”. Infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo termine» (Lc 22,37). Solo Luca riporta queste parole di Gesù.

Un riferimento per la vita dei credenti

Luca invita il lettore a meditare queste scene. Si tratta di condividere l'atteggiamento di perseveranza, di pazienza e di perdono, che fu di Cristo. Tra gli elementi che gli Atti riprendono dalla Passione di Gesù per descrivere il martirio di Stefano si può notare la preghiera per i persecutori: «Signore, non imputar loro questo peccato» (At 7,60; cf Lc 23,34). Le ultime parole di Stefano sono un'eco delle parole di Cristo che cita il Sal 31: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito» (Lc 23,46; cf At 7,59). Il tema dello Spirito è particolarmente caro a Luca.

Altri dati propri a Luca

Nel suo modo di presentare la Passione come punto di riferimento per la vita del credente, si constata un'altra particolarità lucana: egli insiste assai meno di Marco e Matteo sul venir meno dei discepoli. All'annuncio del tradimento di Giuda, non riferisce le terribili parole di Gesù che sarebbe stato meglio se non fosse mai nato. Durante 'arresto, non parla della fuga dei discepoli. E, al monte degli Ulivi, trova una spiegazione dell'atteggiamento di coloro che circondano Gesù: «dormivano per la tristezza» (Lc 22,45).

Solo Luca parla di Gesù davanti a Erode (Lc 23,6-12). L'episodio si conclude con una nota ironica del narratore: «In quel giorno Erode e Pilato diventarono amici» (Lc 23,12), un tema che sarà ripreso in At 4,25-27. Infine, possiamo evidenziare la bella formula pronunciata da Gesù durante l'ultima Cena: «E io preparo per voi un Regno, come il Padre l'ha preparato per me» (Lc 22,29).

Giovanni: l’ora del dono e della glorificazione

Nel quarto Vangelo, il racconto della Passione è preparato da lunghi discorsi di Gesù. Egli «sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre», compie un gesto che viene presentato come un atto di amore «sino alla fine» (Gv 13,1). Egli prega in questi termini: «Padre, è giunta l’ora, glorifica il Figlio tuo, perché il figlio tuo glorifichi te. Poiché tu gli hai dato potere su ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che tu gli hai dato» (Gv 17,1-2). I. de La Potterie fa notare che Giovanni «pone l'accento su ciò che, nella Passione, lascia già trasparire la luce di Pasqua e tende verso la risurrezione» Ci fa contemplare un Gesù sovranamente libero, cosciente di ciò che gli sta capitando, che affronta gli eventi con solennità.

La sua Passione è un mettere in pratica quello che egli stesso aveva annunciato con l'immagine del pastore che dà la vita per le sue pecore: ed ha il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo; questo è il comando che ha ricevuto dal Padre (Gv 10,14-18). Egli si comporta con coraggio e si mostra provocatore nei confronti di coloro che lo interrogano, il Sommo Sacerdote o Pilato. A quest'ultimo, precisa che la sua regalità non è di questo mondo.

L'evangelista si colloca esplicitamente sul registro della testimonianza e dell'invito alla fede, rivolgendosi in questo modo ai suoi lettori: «Chi ha visto ne ha dà testimonianza e la sua testimonianza è vera ed egli sa che dice il vero perché anche voi crediate» (Gv 19,.35). Questa nozione di verità, cara all'evangelista, costituisce il punto focale della discussione tra Gesù e Pilato. Costui però conclude il dialogo con il celebre interrogativo: «Che cos'è la verità?» (18,38).

Giovanni ama fare appello a espressioni il cui senso va oltre il livello del significato che possono dare gli attori del dramma.

Così il lettore, avvertito, ha il diritto di dare un senso assai forte ai due titoli che Pilato attribuisce a Gesù quando lo presenta alla folla: «Ecco l'uomo» (Gv 19,5) ed: «Ecco il vostro Re» (Gv 19,14). A proposito del titolo di re, Giovanni nota che Pilato, a chi gli fa osservare che il titolo della scrittura posta sulla croce può prestarsi a equivoci, lascia il testo tale e quale, dicendo: «Ciò che ho scritto, ho scritto» (Gv 19,22).

Anche nel racconto della Passione l'ironia di Giovanni trova il modo di manifestarsi. Così riferisce che quelli che consegnarono Gesù a Pilato non entrarono nella casa del governatore romano «per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua» (Gv 18,28).

Altri dati propri a Giovanni

Benché si avvicini molto ai Sinottici, Giovanni conserva una certa originalità. Nel racconto dell'ultima Cena, non menziona la parola sul pane e il vino, ma riporta la lavanda dei piedi (Gv 13,1-11). Così, non parla della preghiera di Gesù nel Getsemani, ma in 12,27-28 possiamo ritrovare alcuni elementi di questo dialogo patetico con il Padre, fatto in presenza della folla. Alla comparizione di Gesù davanti a Caifa aggiunge quella davanti ad Anna, suo suocero (Gv 18, 12-13.19-24). Solo Giovanni ricorda le parole di Gesù in croce con le quali Gesù affida sua madre al discepolo che egli amava (19,26-27). E descrive in dettaglio un intervento dei soldati per non lasciare in croce i corpi durante il sabato. Non rompono però le ossa di Cristo, ma solo lo colpiscono al costato con un colpo di lancia.

Questa scena diventa esplicitamente oggetto di un'interpretazione simbolica in relazione alle citazioni della Scrittura (Gv 19,31-37). Infine la cronologia del quarto Vangelo non concorda esattamente con quella degli altri evangelisti. Essa ha come scopo di far coincidere la morte di Gesù con l'immolazione dell'agnello pasquale da parte dei giudei.

* Professore al Seminario interdiocesano di Vannes e al SIET di Bretagne-Mayenne

(da Il mondo della Bibbia, n. 32)

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