Formazione Religiosa

Giovedì, 03 Luglio 2008 01:05

Teologia dell'Antico Testamento. Cap. 2.1-2. - La Rivelazione

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Per tutte le religioni il concetto di rivelazione è la comunicazione intelligibile trasmessa dalla divinità all’uomo. Questo concetto è un elemento costitutivo della religione che la distingue dalla filosofia. Il termine usato di “comunicazione intelligibile” include la visione, l’ascolto o altre esperienze sensibili portatrici di significato.

Teologia dell'Antico Testamento

Cap. 2.1-2

La Rivelazione

1. Il concetto di rivelazione

Per tutte le religioni il concetto di rivelazione è la comunicazione intelligibile trasmessa dalla divinità all’uomo. Questo concetto è un elemento costitutivo della religione che la distingue dalla filosofia. Il termine usato di “comunicazione intelligibile” include la visione, l’ascolto o altre esperienze sensibili portatrici di significato. Così la comunicazione intelligibile può comprendere la semplice consapevolezza della presenza, la “preghiera di quiete” della quale parlava Santa Teresa d’Avila. Il contenuto intelligibile qui è il riconoscimento di un altro, inteso come una presenza nuova e mai conosciuta prima, oppure come il ritorno di una presenza già nota. Tiene conto anche della consapevolezza di esperienze che non possono essere distinte più chiaramente di quanto non lo sia il piacere dal dolore, la paura dal coraggio, la gioia dalla sofferenza; queste esperienze emozionali possono essere distinte una dall’altra, e in questa misura sono riconosciute soltanto in modo oscuro. L’elemento comune nella rivelazione è che l’agente della comunicazione e riconosciuto come un essere sovrumano e meritevole di quella risposta che concordemente gli uomini riservano al divino.

L’analogia tra la rivelazione e la comunicazione interpersonale è chiara ed ovvia. È l’unica analogia che l’uomo ha per descrivere la sua esperienza della divinità, sia che si tratti di un’esperienza autentica oppure no. Se la divinità non comunica con noi in quanto persone, non comunica affatto; e una comunicazione così intesa significa di più che non semplicemente suscitare una risposta personale. Io posso rispondere in modo personale alla natura o ad oggetti. La bellezza della natura può suscitare un sentimento di gioia o di stupore; la potenza della natura può suscitare paura. L’animale che mi assale suscita in me paura ed ira. Non ho bisogno di personalizzare questi oggetti per provare un sentimento di piacere, di paura o di ira; però sono ben consapevole che la mia risposta ad essi è diversa dalla risposta che darei alla bellezza, alla potenza o all’ostilità in un’altra persona. È questa la risposta interpersonale, la risposta che manca nel soldato che spara al nemico o che da esso è colpito. L’incontro impersonale può essere facilmente personalizzato; allo stesso modo può essere personalizzato l’incontro con la natura; e la storia delle religioni consiste in gran parte nella storia di come l’uomo abbia personalizzato la natura e gli oggetti trasformandoli in dèi e demoni. L’uomo a volte conserva questa persona­lizzazione anche dopo essersi reso conto che essa si basa su di un errore di giudizio; la conserva semplicemente perché crede ancora che lì vi sia una realtà personale, alla quale è dovuta una risposta personale, anche se non è stata identificata in modo corretto.

Lo studio della rivelazione nella religione è lo studio della risposta alla comunicazione divina, non della comunicazione in se stessa. La risposta è l’unica realtà che cade nell’ambito dei fenomeni. La comunicazione divina è conoscibile soltanto attraverso la risposta, eccezion fatta per coloro che ricevono la comunicazione direttamente. Non è necessaria alcuna dimostrazione per capire che quanti ricevono la comunicazione sono incapaci di farne parte agli altri; essi sono soltanto capaci di dichiarare la loro risposta. Se uno vuole descrivere a un altro il suo incontro con una persona che quell’altro non conosce, può farlo ricorrendo all’analogia; il suo interlocutore ha incontrato delle persone. Se però il suo interlocutore non ha mai incontrato degli dèi, egli non può più ricorrere all’analogia per descrivere una comunicazione divina..

In una religione, la religione è l’esperienza di alcune persone che comunicano le loro risposte ad altri membri della religione. A voler essere precisi, gli altri credono nella divinità sulla parola di costoro e non in seguito ad un’esperienza personale, capovolgendo il detto di Giovanni 4,2. L’esperienza della rivelazione però, come abbiamo visto parlando del culto, si sviluppa in esperienza cultuale, che è una realtà sociale. È nel culto che si fa l’esperienza della divinità, ma grazie alla rivelazione che il culto commemora, custodisce, comunica.

L’oggetto della rivelazione comprende, per definizione, cose nascoste; nascoste in rapporto alla conoscenza che possiede il destinatario della rivelazione. Non si tratta di ciò che è sconosciuto, ma dello sconosciuto che può diventare intelligibile una volta rivelato. L’oggetto proprio della rivelazione è la divinità; la rivelazione è innanzitutto auto-rivelazione. Gli aspetti più interessanti nella divinità sono il suo atteggiamento nei confronti degli uomini e i suoi rapporti con gli uomini Presumibilmente non li si può conoscere all’infuori di una rivelazione, o almeno non abbastanza da giustificare decisioni importanti. Gli uomini percepiscono se la divinità è adirata o ben disposta nei loro confronti da come essa si comporta con loro; ma possono essere certi delle ragioni della sua ira o della sua gioia soltanto in base alle sue affermazioni.

“Il significato dell’esistenza umana” non è un problema che turba tutta l’umanità. Il mondo esiste e l’uomo esiste in esso; questo non fa problema da risolvere, ma il fatto fondamentale in base al quale altri problemi sono risolti. Tuttavia il “nascosto” che viene rivelato comprende oggetti che presumibilmente si situano ad di fuori degli obiettivi della conoscenza umana, comunque se ne ipotizzi lo sviluppo e in particolare la conoscenza delle origini e della fine (protologia ed escatologia). Questi sono gli argomenti principale del mito, inteso come rivelazione e non come il risultato del pensiero e della ricerca dell’uomo. I miti delle origini spiegano perché il mondo è fatto così com’è, e perché la condizione umana nel mondo ha le caratteristiche che ha; naturalmente la spiegazione mitologica della condizione umana riguarda il popolo o la cultura nella quale il mito è nato. L’escatologia spiega la direzione nella quale il mondo e l’uomo si stanno muovendo; è interessante notare che non tutte le religioni hanno miti escatologici e che la condizione umana non è dunque intesa come qualcosa che necessita di una soluzione escatologica. Si pensa che vada avanti per sempre, come il mondo nel quale l’uomo vive.

È tuttavia di estrema importanza per l’uomo conoscere ciò che gli dèi vogliono da lui. In un certo senso, i precetti e le proibizioni importanti sono rivelati o convalidati da una rivelazione. Argomenti di tale importanza comprendono il culto, la legge e la morale. In gran parte del medio-oriente gli dèi non rivelano la legge, ma accordano la loro autorità e la loro sanzione alla legge del re. Tali garanzie non eliminavano dubbi occasionali sul fatto che l’uomo potesse realmente conoscere ciò che piaceva agli dèi. Ulteriori garanzie venivano cercate ricorrendo alla rivelazione occulta, ottenuta attraverso le tecniche divinatorie. Queste tecniche rendevano l’uomo capace di interpretare il presente e di prevedere il futuro. Rivelando le intenzioni degli dèi negli avvenimenti. La divinazione era considerata uno strumento di rivelazione normale ed autorizzato per situazioni particolari e problemi particolari. Rendeva gli uomini capaci di uniformare le loro decisioni al corso degli eventi futuri rivelati dagli dèi.

La divinazione attraverso l’oracolo era praticata piuttosto raramente; più frequente era la divinazione attraverso l’interpretazione di vari fenomeni. A seconda dei fenomeni studiati, le tecniche divinatorie si suddividono in:

- belomanzia (sorti o frecce)
- rabdomanzia (bastoni)
- fisionomica (comportamento umano ed espressione facciale)
- chiromanzia (palmo della mano)
- oniromanzia (sogni)
- teratologia (parti strani o mostruosi)
- epatoscopia (fegato degli animali)
- ornitomanzia (uccelli)
- ofimanzia (rettili)
- dendromanzia (alberi)
- empiromanzia (fiamme)
- capnomanzia (fumo)
- lecanomanzia (olio nell’acqua)
- astrologia (corpi celesti e meteorologia).

La base teorica di queste tecniche consiste nel fatto che gli dèi manifestano le loro intenzioni in quasi tutti gli aspetti della natura, ma il significato è simbolico. La divinazione è una tecnica tradizionale basata sulla rivelazione e sull’accumulo di esperienza. La letteratura mesopotamica mostra come gli indovini arricchissero costantemente il loro bagaglio di osservazioni e conclusioni. La letteratura mostra anche che la rivelazione che gli uomini ricercano con più ardore è quella che svela il corso degli avvenimenti futuri e dà loro un vantaggio rispetto ai loro avversari.

Le forme di divinazione non necessariamente comprendevano l’oracolo pronunciato da un vate, l’oracolo non era una forma di divinazione normale e corrente. Tra le forme di divinazione intelligibile c’è la visione, l’ascolto e altre esperienze sensibili che si crede siano esperienze dirette della divinità. Nell’A.T. la visione è più rara di quanto non lo sia generalmente nel mondo antico; il visionaria poteva più facilmente vedere un dio che già conosceva attraverso le immagini, che non un dio che non era rappresentato da immagine alcuna. Le visioni dell’A.T. sono visioni di simboli della divinità o tracce di essa, come i lembi della sua veste o oggetti naturali che, come gli oggetti della divinazione, devono essere interpretati (Is . 6,1; Ger . 1,11-13; Am . 7,1: 8,1). È possibile avere un’esperienza sensibile di Jahweh anche in altre maniere, più difficili da definire, come quando si afferma che la mano di Jahweh è sopra di uno. Queste allusioni possono essere incluse in quel tipo di esperienza che noi chiamiamo consapevolezza di una presenza. L’esperienza della rivelazione tipica dell’A.T. è l’ascolto della parola.

La parola parlata,sia nell’A.T. che nell’antico medio-oriente, è un’stensione della personalità di colui che parla.. Diventa un’entità indipendente dotata di potere, capace di compiere ciò che significa. Queste qualità, tipiche della parola dell’uomo, si ritrovano in grado eminente nella parola della divinità. La parola di Jahweh è il carisma del profeta.. È la parola che crea e distrugge, che esige di essere compiuta una volta pronunciata, che è il cardine attorno al quale ruota la storia. La parola di Jahweh non è un modo normale e consueto di rivelazione. Nessuno è in grado di esercitare un controllo su di essa, ed essa non è disponibile su richiesta. Quando il profeta la sente, deve proclamarla; quando non la sente, non può produrla in nessun modo.

L’autenticità della rivelazione è problema moderno. Le fonti antiche non ne sembrano coscienti oppure sono indifferenti ad esso. Nell’ipotesi che la divinità comunichi effettivamente con l’uomo, il problema di identificare colui che parla non è più grave in questo caso che quando si tratta di un discorso umano. Ci si può sbagliare quando è un uomo che parla, ma questo errore non può durare a lungo e non è difficile da correggere. Gli dèi, si credeva, comunicavano attraverso i normali canali esistenti in tutte le religioni organizzate. Non si pensava che essi fossero interessati ad ingannare i loro adoratori o si divertissero a prenderli in giro. Noi troviamo questo atteggiamento incredibile e del tutto ingenuo nei confronti della possibilità che l’uomo possa servirsi della parola di Dio per i suoi propri scopi. L’uomo antico avrebbe replicato che gli dèi sono in grado e vogliono proteggere la loro parola contro coloro che vorrebbero abusarne, e che la comunicazione divina, come quella umana, non può escludere ogni possibilità di malinteso. Quando l’uomo ascolta la parola di Dio, è tenuto ad usare la stessa intelligenza e lo stesso discernimento coi quali ascolta la parola dell’uomo.

2. La legge dell’alleanza

La religione di Israele si fondava su una tradizione di norme legate ad un’alleanza che non ha assolutamente alcun parallelo nelle religioni antiche. La rivelazione della legge dell’alleanza è attribuita a Mosè, che ne è il mediatore: e fu la legge dell’alleanza a determinare le caratteristiche della fede, del culto e della società d’Israele. Come vedremo, la monarchia fu una specie di deviazione dell’alleanza, ed ebbe bisogno di una sua propria giustificazione.

I patriarchi – Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe – più che i fondatori, sono i precursori della religione d’Israele. Eccettuato un racconto tardivo a proposito della circoncisione (Gen. 17), nessuna istituzione israelitica era attribuita ad essi o anche solo conosciuta da essi. Il nome di Jahweh, secondo una tradizione letteraria, era loro sconosciuto; e le altre tradizioni erano consapevoli che il nome di Jahweh era sconosciuto prima della rivelazione della legge dell’alleanza. Così i patriarchi sono rappresentati come eroi della fede, ma non come modelli della vita e dell’osservanza israelitica. La necessità di incorporare questi precursori nella tradizione israelitica comporta un problema che si situa fuori della teologia dell’A.T. propriamente detta; essi però costituiscono l’anello che congiunge Israele alla terra, che era un elemento dell’alleanza.

Mosè, in quanto rivelatore della legge dell’alleanza, occupa un posto unico, senza predecessori, soci o successori. Situare in modo preciso Mosè nella storia non è compito della Teologia dell’A.T.; dobbiamo notare che non è un compito semplice, ma nessuno studioso moderno dubita della realtà storica di Mosè né del suo stretto legame con l’alleanza. La ricostruzione degli avvenimenti che portano Israele a diventare la comunità dell’alleanza costituisce un problema complesso che non è ancora stato risolto in modo soddisfacente. I racconti del Pentateuco, che provengono da diverse tradizioni orali e scritte, sono d’accordo nell’affermare che Mosè fa il portavoce di Jahweh in modo unico. In senso stretto, le tradizioni di Mosè salvatore e guida dell’esodo e di Mosè portavoce della legge dell’alleanza non necessariamente devono andare insieme; però, come vedremo, le tradizioni della liberazione sono incluse nella legge dell’alleanza.

Nessun’altra figura di rivelatore nell’A.T. ebbe delle esperienze di rivelazione come Mosè. Alcune delle qualità straordinarie di Mosè sono dovute ai redattori del Pentateuco. Tutte le leggi israelitiche conservate negli scritti sono state incorporate nella raccolta della legge dell’alleanza. Non si tratta tanto di sapere in quale misura questa legge può essere fatta risalire a Mosè, quanto piuttosto se in qualche misura può essere fatta risalire a Mosè. Che l’attribuzione a Mosè andasse via via aumentando, lo si può vedere nella legge sulla divisione del bottino di guerra, attribuita a Mosè in Nm . 31,27, ma, con molto maggiore probabilità storica, a David in 1Sam. 30,24; in effetti, potrebbe trattarsi di una pratica molto più antica e generale che, come sovente accade per le usanze antiche, veniva attribuita a qualche antico eroe considerato come suo fondatore. La redazione del Pentateuco, più che riflettere l’idea della legge dell’alleanza, riflette l’idea più tardiva secondo la quale nessuna legge avrebbe potuto avere validità permanente in Israele se non fosse stata trasmessa a voce da Jahweh a Mosè. I redattori presentano Mosè come colui che proclama ogni legge del Pentateuco, secondo quanto gli detta Jahweh; e i rabbini del periodo postesilico contarono ben 613 leggi nella raccolta. Nonostante questo non si deve pensare che questa compilazione sia una raccolta completa delle leggi di Israele; se così fosse, alcuni importanti settori del diritto civile e penale sarebbero stati lasciati senza un’esplicita regolamentazione legale. L’intento dei redattori è di attribuire tutte le leggi conservatesi per iscritto alla promulgazione da parte di Mosè delle parole che egli aveva ascoltato da Jahweh.

Questa non fu certo la forma più antica nella quale Mosè apparve nella tradizione. Tutte le tradizioni concordano nell’affermare che Mosè si ritirò dall’assemblea di Israele per ascoltare, in solitudine, le parole di Jahweh. La tenda dell’incontro in una tradizione potrebbe essere stato il luogo dove Mosè ascoltò il discorso di Jahweh. In altre tradizioni si parla invece della sommità di una montagna chiamata Sinai e Horeb (due nomi che indicano località diverse a causa della incertezza riguardo la sua localizzazione). L’esperienza dell’alleanza viene collocata da tutte le tradizioni a Sud di Canaan, non necessariamente in quella che a partire dal sec. IV d.C. è stata chiamata la penisola del Sinai. Nelle tradizioni più antiche questa montagna era certamente un luogo ove era localizzata la presenza di Jahweh. Elia si recò all’Horeb e qui incontrò di nuovo Jahweh; Horeb, che si raggiungeva in quaranta giorni e quaranta notti di ininterrotto cammino (1Re 19,8), era situato in una regione sconosciuta all’autore. La localizzazione di Jahweh in un certo luogo non era una credenza esclusivamente israelitica a Canaan. Questa però era la montagna alla quale dovevano recarsi gli antenati degli israeliti in Egitto per adorare il loro Dio (Es . 5,3), e dalla quale Jahweh venne in aiuto ad Israele contro i suoi nemici (Gdc . 5,4); e molti studiosi moderni interpretano Gdc . 5,5 come un titolo, “Quello del Sinai”. Senza dubbio i redattori pensarono che il Sinai fosse anche la montagna di Es . 3. Probabilmente le tradizioni più antiche che localizzavano Jahweh sul Sinai furono amalgamate soltanto in modo imperfetto con le tradizioni della sua presenza mobile nell’arca e nel suo insediamento definitivo nel tempio di Sion. Sion diventa nei Salmi il luogo dal quale Jahweh viene in aiuto (Sal . 14,7; 33,7; 110,2; 128,5; 134,3).

Nelle tradizioni israelitiche non ci sono altre montagne della rivelazione. Confronti con le montagne sacre dove risiedevano gli dèi si possono fare a Canaan (la montagna del nord, sede degli dèi) e in Grecia (Monte Olimpo). Nessuna delle due era montagna della rivelazione; ed Israele non ha tratta questo tema da nessuna fonte conosciuta.

Il carattere misterioso della montagna è descritto ricorrendo ad elementi che noi chiameremmo mitologici. Il fumo e le fiamme che circondano la montagna non devono essere ridotte ad una semplice tempesta o ad un terremoto, anche se la descrizione si basa su fenomeni naturali; questi elementi appartengono alla teofania e non sono normalmente elementi della rivelazione.; appartengono piuttosto alla rappresentazione di Jahweh come salvatore. La rivelazione del Sinai è l’unica che viene data in una simile atmosfera di timore e terrore. In tale atmosfera è evidente l’impossibilità di una comunicazione generale con la divinità (Es . 19,21-25; 20,18-20), e si manifesta al di là di ogni dubbio il carattere prodigioso e straordinario del mediatore della rivelazione: Mosè è l’unico uomo al quale Jahweh parli faccia a faccia, bocca a bocca (Es . 33,11; Nm . 12.7). Questo singolare privilegio è però subito contraddetto in Es . 33.17-23 in favore della credenza generale, secondo la quale chi vedeva Jahweh doveva morire. Questo passo deve essere nato come correttivo di una più antica concezione, che per Mosè faceva un’eccezione alla regola generale; fu conservata la posizione unica di Mosè come destinatario diretto della rivelazione, ma il suo intrattenimento con Jahweh fu limitato all’ascolto.

La rivelazione originaria nella storia di Mosè è la rivelazione del nome (Es . 3); fu una rivelazione attraverso la visione e la parola. Il fuoco è un segno comune della presenza della divinità sia nell’A.T. sia in altre religioni; e il fuoco è presente nella rivelazione dell’alleanza al Sinai, come abbiamo visto. Tuttavia il roveto ardente resta un fatto singolare e il simbolismo alquanto oscuro. Jahweh si rende visibile non in modo diretto, per non causare la morte di chi doveva vederlo, bensì attraverso un fenomeno che attira l’attenzione.

La rivelazione del nome era di estrema importanza. Se non si conosceva il nome di una divinità, non la si poteva invocare né riconoscere. Il racconto nacque in un mondo politeista, in cui gli dèe e le dèe, come gli uomini e le donne si distinguevano gli uni dagli altri grazie ad un nome personale. “Conoscere il nome” nel linguaggio biblico non soltanto avere il cartellino d’identificazione, ma anche fare l’esperienza della realtà della cosa nominata. Il nome non è una semplice etichetta, bensì una manifestazione della realtà. L’autorivelazione di Jahweh incomincia col suo nome.

L’identificazione di Jahweh con il Dio dei padri fu un ragionamento teologico successivo. La storia del sorgere di Israele è oscura e non rientra nell’ambito della teologia dell’A.T.; comunque, l’identificazione del gruppo che per primo riconobbe Jahweh come dio non è sicura. Esso non può essere identificato con certezza con i gruppi che riconoscevano Abramo e Giacobbe come loro antenati. Il gruppo alla guida del quale si pose Mosè non era ancora conosciuto col nome di Israele; e nessun altro nome si è conservato. Le tradizioni indicano che il nome era sconosciuto agli antenati ed implicano conseguentemente in accordo con l’ideologia del nome che pure la realtà di Jahweh era loro sconosciuta.

Sfortunatamente, il significato del nome non può essere desunto in modo sicuro dal testo esistente. Il nome Jahweh è quello costantemente usato nell’A.T.; la pronuncia del nome è stata ricostruita in epoca moderna, poiché le vocali non erano scritte nell’originale ebraico: e gli ebrei, a partire più o meno dagli ultimi secoli prima dell’era cristiana, non pronunciavano più il nome divino per una sorta di timore reverenziale. Etimologicamente il nome fa pensare al verbo ebraico hayah, essere; così intesero i traduttori greci (o on, colui che è) e la Volgata (qui est , colui che è). Ma questa etimologia non è sicura; e anche se il nome derivasse effettivamente dal verbo hayah , non significherebbe ancora che la Settanta e la Volgata lo abbiano spiegato in modo corretto. Il lettore del testo attuale può vedere che alla domanda di Mosè in Es . 3,13 viene data una risposta diretta e senza complicazioni in 3,15. Il tentativo di spiegazione di 3,14 disturba; in realtà non spiega il nome e deve essere considerato come uno sforzo, antico ma posteriore, per mettere in relazione il nome con il verbo hayah . Secondo questa spiegazione, il nome non sarebbe Jahweh ma Ehyeh, o meglio, Ehyeh ‘ašer ehyeh, che sfida ogni traduzione. Può essere reso soltanto con un’espressione come “sono quello che sono”, oppure “sarò quello che sarò”. William Foxwell Albright ha ingegnosamente ricostruito l’espressione yahweh ‘ašer yihweh , “fa essere ciò che viene all’esistenza”; ma è difficile spiegare perché questa frase sia stata modificata. La frase in ebraico sembra suggerire un rifiuto di dire il nome; questo rifiuto, però, è comunque inverosimile. Bisogna accontentarsi delle congetture; Es . 3,14 non può essere il testo originale, che è impossibile ristabilire.

Alcuni studiosi moderni hanno fatto luce sul formulario dell’alleanza e della legge dell’alleanza. Non ci si pose mai il problema se il rapporto di alleanza tra Jahweh e Israele avesse qualche parallelo altrove nel mondo antico; non c’erano paralleli. L’alleanza tra Jahweh e Israele fu modellata sui contratti tra uomini, e in particolare su quelli tipici delle società nelle quali non si fa affidamento sullo scritto per l’esecuzione dei contratti stessi e la conservazione dei documenti. In tali società la parola parlata ha la solennità e il valore di una realtà concreta e autonoma, che invece non ha nelle società più progredite; è circondata da un cerimoniale, attestata da testimoni e sanzionata da imprecazioni. La caratteristica senza paralleli del rapporto tra Jahweh e Israele consisteva nel fatto che questo rapporto si fondava su di un contratto bilaterale, l’elezione di Israele da parte di Jahweh e l’accettazione di Jahweh da parte di Israele. Nessun’altra religione antica concepiva il rapporto tra la divinità e i suoi adoratori in termini positivi come fondata su un atto collettivo del popolo che poteva essere situato nello spazio e nel tempo. Non si sono ancora trovati paralleli a questo tipo di rapporto positivo, ma si sono individuati alcuni paralleli letterari concernenti la formulazione.

Gorge E. Mendenhall ha dimostrato che gli elementi della formulazione dell’alleanza nell’A.T. sono tutti presenti in un tipo di trattato conservatoci in documenti Hittiti databili tra il 1450 e il 1200 a.C., un periodo leggermente precedente al sorgere di Israele e all’alleanza. Quando sopra abbiamo fatto notare che l’avvenimento può essere situato nello spazio e nel tempo, non è ancora possibile, però, situarlo in modo preciso. Il fatto che questi trattati siano conosciuti in lingua hittita è del tutto accidentale; questa forma era usata in tutto l’antico medio oriente, e non è necessario postulare alcun contatto diretto tra Israele e l’impero hittita. Comunque i paralleli letterari testimoniano fortemente a favore di una data antica per l’alleanza di Israele.

Il tipo di trattato in questione viene chiamato “trattato di vassallaggio” ed è imposto dal sovrano. Gli elementi formali di questo trattato sono sei:

1. preambolo, identificazione del sovrano con l’enumerazione dei suoi titoli;

2. prologo storico, enumerazione dei benefici accordati dal sovrano al vassallo;

3. clausole, gli obblighi imposti al vassallo;

4. disposizioni per il deposito nel tempio e per la pubblica lettura;

5. lista degli dèi chiamati a testimoni;

6. imprecazioni e formula di benedizione.

Mendenhall individua altri tre elementi:

7. giuramento formale del vassallo che si impegna ad obbedire;

8. solenne cerimonia che accompagna il giuramento;

9. modalità per iniziare una procedura contro il ribelle.

Quando i redattori svolgevano il loro lavoro, il parallelo letterario del trattato di vassallaggio non era più conosciuto. In Es . 20 e Gs . 24 i paralleli possono essere indicati in questo modo:

1. Esodo 20,2; Giosuè 24,2

2. Esodo 20,2; Giosuè 24,2-13

3. Esodo 20,3-17; Giosuè 24,14-15

4. Manca in Esodo; Giosuè, 24,26

5. Manca in Esodo, Giosuè 24,22.27(e vedi sotto)

6. Manca in entrambi (Mendenhall cita la cerimonia in Deuteronomio 27-28 e Giosuè 8,30-35)

Il primo comandamento, la proibizione di adorare altri dèi ha il suo parallelo nei trattati. Al vassallo è proibito fare professione di fedeltà e persino avere rapporti con un altro sovrano. I trattati danno disposizioni circa la visita annuale che il vassallo era tenuto a fare alla corte del sovrano; questo fa pensare, anche se il parallelo non è esatto, alla clausola secondo la quale gli uomini in Israele erano tenuti a comparire davanti a Jahweh tre volte all’anno (Es . 23,17; 34,23): Giosuè 8,34 dà disposizioni per la pubblica lettura degli accordi; sia questo elemento sia il rito dell’imprecazione sono considerati avvenimenti eccezionali e non regolarmente ricorrenti; per molte ragioni si deve postulare una cerimonia del rinnovo dell’alleanza. La tradizione secondo la quale le tavole della legge venivano conservate nell’arca dell’alleanza, ha una base storica. L’invocazione degli dèi a testimoni era ovviamente impossibile; in Giosuè 24,22 è il popolo stesso che fa da testimone, e in 24,27 una stele-ricordo. Mendenhall ha fatto notare che il cielo e la terra sono chiamati come testimoni (Dt . 32,1; Is. 1,2).

Torniamo alla domanda: qual era il contenuto originario della legge dell’alleanza, o, per restare nell’ipotesi del trattato, quali clausole prevedeva il trattato stesso?Non poteva certamente comprendere l’intero corpo della legislazione israelitica, poiché gran parte di essa è sicuramente posteriore allo stanziamento di Israele in Canaan. Fin dal tempo dei primi interpreti della Bibbia, il Decalogo (Es . 20,1-17; Dt . 5,6,21) ha sempre occupato un posto particolare in quanto fondamento della legge d’Israele, anche se gli ebrei e le chiesa cristiane non si sono mai trovati d’accordo sul modo in cui i dieci comandamenti devono essere contati. Lasciando da parte i comandamenti strettamente religiosi, il Decalogo contiene dei precetti morali fondamentali, così generali che molti di essi hanno bisogno di un’esegesi estensiva. Questi precetti morali generali, formulati in modo positivo e negativo, hanno una grande importanza nella storia delle religioni semplicemente perché mai in precedenza la volontà di una divinità era stata posta in modo così chiaro ed evidente alla base della legge morale fondamentale. Non ci sono buone ragioni per dubitare che questo carattere distintivo della fede israelitica sia stato presente fin dalle origini. Comunque, esso dà al Dio di Israele una caratteristica unica, quale che sia il tempo in cui ebbe origine.

È però difficile che le clausole si limitassero alla morale; la religione è cultuale almeno per la sua storia se non per la sua essenza. Effettivamente la prima tavola contiene precetti e proibizioni in fatto di culto, che però sono molto pochi di numero e molto ristretti nel loro obiettivo rispetto al complesso delle norme cultuali di Israele. Si potrebbe avanzare l’ipotesi che queste fossero le cause cultuali tipiche dell’alleanza e che istituzioni come le feste e il sistema sacrificale fossero comuni ad altre religioni o si fossero sviluppate più tardi nella storia d’Israele. Queste clausole tipiche dell’alleanza o di Israele sono l’adorazione di Jahweh come unico Dio, la proibizione delle immagini, l’uso vano del nome e l’osservanza del Sabato.

Il monoteismo di Israele è incontestabile, e non si può dimostrare che il politeismo sia mai stato accettato in Israele su un piano di parità con il Jahwismo. Qui dobbiamo di nuovo rifarci alla distinzione tra la storia della religione di Israele e la teologia dell’A.T. La storia della religione d’Israele deve comprendere le chiare testimonianze di politeismo che si trovano nei testi dell’A.T. e nei resti archeologici. Il Jahwismo dell’A.T. è sempre intollerante nei confronti del politeismo; ed è impossibile dimostrare che la religione di Israele, nel senso proprio del termine, sia mai stata altro che il Jahwismo.

Strettamente parlando, il primo comandamento non impone il monoteismo come articolo di fede; proibisce il culto di altri dèi, e ciò è ulteriormente spiegato dal secondo comandamento, la proibizione delle immagini. Se si vuole distinguere tra monoteismo speculativo, cioè l’affermazione dell’esistenza di un dio unico, e monoteismo pratico, cioè il culto di un dio unico, allora non soltanto le clausole dell’alleanza, ma anche la maggior parte dell’A.T. presentano un monoteismo pratico. Un inno che afferma che Jahweh è più grande di tutti gli dèi (Sal . 135,5) o chiede quali degli dèi sia simile a Jahweh (Sal . 86,8) non parla in termini di monoteismo speculativo. È molto probabile che la negazione esplicita della realtà degli altri dèi non sia presente in nessuno scritto veterotestamentario anteriore al Deutero-Isaia (Is . 40,18-20; 41,21-24.29; 43,10-13; 45,5.6.14.22.23; 46,9). Ma il monoteismo pratico non deve essere sottovalutato, come se fosse solo poco più di un politeismo colto. Il primo comandamento fa obbligo agli israeliti di ignorare gli altri dèi, di non avere alcun rapporto con essi. Gli israeliti non sono vassalli di altri dèi, che non possono fare nulla per essi o contro di essi. Gli israeliti non possono fare a meno di avere rapporti con gli altri dèi, e in questo modo fanno andare in collera il dio col quale essi hanno stipulato l’alleanza. Nei termini del trattato di vassallaggio gli altri dèi diventano come rivali del sovrano, ma rivali impotenti.

L’uso vano del nome è alquanto oscuro. Abbiamo già accennato all’ideologia del nome nell’antico medio-oriente. Il nome di Jahweh partecipava della sua santità, come l’arca e il tempio. Ma l’uso del nome “per niente” o “per vanità” non è del tutto chiaro. Queste espressioni in certi contesti significano discorso falso, e molto probabilmente l’uso vano consiste nell’invocare Jahweh per affermare qualcosa che non è vero. L’A.T. è ricco di espressioni come questa: “Com’è vero che Jahweh vive”, e sembra che l’antico Israelita fosse disposto ad invocare la divinità a conferma di quasi ogni affermazione che ritenesse importante. Il comandamento, quindi, mira di più a salvaguardare la verità nei discorsi che non al rispetto del nome divino. La mancanza del rispetto al nome stava non nel suo uso frequente, ma nel suo uso per attestare il falso. È stata avanzata l’ipotesi che l’uso vano del nome si riferisce al suo uso nella magia; ma non è evidente che la parola šaw abbia questo significato.

Il Sabato è certamente un’usanza tipica di Israele; non si conosce nulla di simile in altri contesti.. Ma del Sabato raramente si fa menzione in certi testi antichi; lo si trova in alcuni passi del periodo monarchico, ma i riferimenti più numerosi sono del periodo postesilico. C’è anche una qualche incertezza a proposito della natura e dello scopo dell’osservanza sabbatica. Si può subito dire che la rigorosa osservanza del sabato che cominciò con il codice sacerdotale nel periodo postesilico e che si sviluppò con un rigore ancora maggiore nel periodo rabbinico, non si riscontra nel periodo monarchico. Non ci sono prove che l’osservanza del Sabato comprende atti di culto prima del periodo postesilico. Una delle testimonianze più antiche (Am . 8,5) parla di astensione dal commercio. Sembra che la più antica osservanza del Sabato consistesse nell’astensione dalle attività profane; questo è ciò che Es . 20,9-11 e Dt . 5,13-15 chiamano “lavoro”. L’ampliamento del comandamento del Sabato in Es . e Dt ., tuttavia, è quasi certamente un ampliamento nello stile del codice sacerdotale. È impossibile determinare che cosa si intendesse originariamente per attività profane. L’interpretazione rabbinica si preoccupò di definire con estrema precisione i 39 tipi di lavoro proibito; e la teologia morale cristiana nei secoli successivi non ebbe nulla da invidiare ai rabbini nella sua ricerca di un’esatta definizione pratica del “lavoro servile”.

Se il Sabato nella sua forma più antica era la consacrazione di un giorno su sette a Jahweh attraverso l’astensione da ogni attività profana, allora era un’istituzione peculiare ad Israele, senza paralleli. È un concetto nuovo del tempo sacro che altrove, anche nell’A.T. significa tempo di festa. I tentativi di assimilare il Sabato ai giorni infausti della religione mesopotamica sono falliti. La descrizione del Sabato non permette affatto di pensare che fosse considerato un giorno infausto o sfavorevole agli affari. Il Dt . Aggiunge il motivo umanitario del riposo, che manca in Es . ed è probabilmente uno sviluppo più recente, che risale ad un periodo in cui l’idea di mettere da parte un tempo, consacrandolo attraverso la distruzione, come la distruzione dell’olocausto, era diventata un po’ ambigua nella comunità israelitico-giudaica. Il riposo sabbatico è presente anche nel racconto della creazione di P ; Jahweh stesso riposa il settimo giorno, dopo sei giorni di lavoro, e fa del suo riposo il modello del ritmo di lavoro-riposo dell’uomo (Gen . 2,2-3). Gli antichi Israeliti non avevano bisogno di tali razionalizzazioni; e se il Sabato è inteso originariamente come una pura astensione dal lavoro profano e un modo di consacrare il tempo non utilizzandolo, esso può essere incluso senza difficoltà tra le più antiche e più caratteristiche istituzioni israelitiche legate all’alleanza.

Contro l’antichità del Sabato è stato fatto notare che il nomade è incapace di passare un giorno in ozio. Strettamente parlando, questo non è più vero per il nomade di quanto non lo sia per il contadino o per il cristiano moderno. La versione moderna del riposo sabbatico presuppone che gran parte della gente sia occupata in attività profane. Si potrebbe postulare per gli antichi israeliti la razionalizzazione di Gesù a proposito del bue che cade nel pozzo il giorno di sabato (Lc . 14,5) e del dar da bere al bue e all’asino in giorno di sabato (Lc . 13,15). Ancora più eloquente a questo proposito è il dubbio fondato che l’antico Israele possa essere considerato semplicemente come una comunità nomadica. In effetti è difficile che sia esistita nella storia dell’umanità una società nella quale il riposo sabbatico non avrebbe rappresentato un serio inconveniente. Ed è proprio il fatto che fosse un inconveniente che ci induce a pensare che il Sabato fosse una delle osservanze dell’antico Israele.

La comunità dell’Israele premonarchico insediatasi a Canaan è oggi generalmente considerata come una lega di tribù; a questa lega Noth ha attribuito il nome di “anfizionia”, che in Grecia stava ad indicare una lega di città che avevano in comune ed amministravano un santuario religioso centrale. I membri di questa lega, accettando l’alleanza, si legavano a Jahweh e fra di loro l’alleanza comprendeva l’accettazione delle clausole del trattato, che divennero poi la legge dell’alleanza. All’inizio della storia della lega delle tribù si sviluppò un modo di vivere tipico di Israele, al quale fanno riferimento frasi come: “Non si agisce così in Israele” (2Sam . 13,12), oppure “commettere una cosa insensata in Isarele” (Gen . 34,7; Dt . 22,21; Gdc . 19,23-24; 20,10). Questo modo di vivere di Israele era comune a tutte le tribù perché tutte accettavano la legge dell’alleanza; questo, oltre al santuario centrale, era uno degli anelli che tenevano unita la lega. Le clausole originarie dell’alleanza diventarono principi in base ai quali la legge israelitica si ampliò fino a coprire i problemi sorti nelle comunità urbano-agricole di cui Israele era composto. Secondo Noth i “giudici minori” sarebbero stati del funzionari anfizionici il cui compito consisteva nello studiare la legge e nel rispondere ai vari problemi. Quando sorse la monarchia, la comunità israelitica aveva già un’ampia tradizione abbastanza ben definita di legge comune. Non sembra che questo corpo, in continua crescita, della legge dell’alleanza fosse considerato come la legge che Jahweh aveva rivelato a Mosè o a qualche altro mediatore.; si trattava dell’interpretazione e dell’applicazione delle clausole dell’alleanza. La volontà di Jahweh era intesa nel senso che Israele dovesse essere una comunità fondata sulla legge. Colui che violava la legge era una minaccia non solo per i suoi vicini e per l’ordine pubblico, ma anche per il rapporto della comunità con Jahweh. L’antica pena della lapidazione non era applicata semplicemente perché c’erano molte pietre (così appare al visitatore visitando la Terra Santa). Appare piuttosto strano che una comunità non deleghi ad un incaricato singolo l’esecuzione dei crimini. La lapidazione era letteralmente e simbolicamente un’esecuzione da parte dell’intera comunità; nessuna persona, presa individualmente, era responsabile della morte, e in questo modo la comunità dimostrava di respingere l’offesa e il suo autore.

Il periodo monarchico sembra aver segnato per la legge dell’alleanza una battuta d’arresto. Nelle antiche monarchie era il re la fonte della legge e colui che la faceva rispettare. L’A.T. dice poco a proposito della legge del re, di più a proposito del re come giudice e dell’istituzione dei giudici reali. I profeti si appellarono alla tradizione senza invocare esplicitamente la legge dell’alleanza; e noi possiamo dedurne che il re non fu mai riconosciuto superiore alla legge dell’alleanza, qualunque sia stata l’opinione dei re stessi.

Quando, dopo l’esilio, fu restituita una comunità giudaica essa mostrò di avere un profondo senso di colpa; l’insegnamento profetico del giudizio aveva evidentemente lasciato una traccia profonda nei sopravvissuti, e la caduta di Israele e di Giuda fu attribuita alla violazione della legge di Jahweh. Secondo il racconto di Esdra-Neemia, Esdra fu mandato a Gerusalemme con l’autorizzazione regia per promulgare la legge sotto la quale avrebbe dovuto vivere la comunità giudaica (Esd . 7,7-26). La legge fu prodotta dagli scribi giudaici nell’Impero Persiano; e sembra inverosimile che la produzione della legge sia dovuta all’iniziativa del re di Persia. Il documento della legge corrisponde in gran parte alla fonte del Pentateuco conosciuta come P ; e divenne la base del modo di vivere tipico del giudaismo.

Nella comunità giudaica postesilica di Giudea, e ancor più nelle comunità giudaiche che sorsero fuori della Palestina (la Diaspora), molte delle leggi del Pentateuco non erano realistiche. Dopo i profeti e i sapienti, vennero gli scribi, la cui funzione era di copiare e interpretare la legge. Attraverso un singolare tipo di interpretazione essi riuscirono a trovare nel Pentateuco una risposta ad ogni problema morale o rituale che si pose loro; e grazie ad una singolare abilità di trattare con l’irreale, riuscirono anche a risolvere un gran numero di problemi che non erano mai sorti né mai lo sarebbero stati. Così la Legge, la Torah, divenne ciò che non era mai stata prima, una guida completa e onnicomprensiva per il comportamento, che presentava non soltanto un modo di vivere, ma anche un lunghissimo elenco di precetti e proibizioni minute che superavano di gran lunga i 613 precetti enumerati nel Pentateuco. Fu la legge quella che diede più di ogni altra cosa alla comunità giudaica la sua identità permanente; alla fine alleanza e lege divennero sinonimi. Il significato originario delle parole non era stato questo.

Per concludere. Sembra con ogni probabilità che il rapporto originario e fondamentale tra Jahweh e Israele fosse quello di sovrano-vassallo, in opposizione per esempio ad altri tipi di rapporto, come quello di creatore-creatura, o padre-figlio. Il rapporto sovrano-vassallo non è lo stesso che il rapporto re-suddito. Israele, il vassallo, è legato al sovrano dagli atti salvifici che il sovrano ha compiuto. Il sovrano ha salvato il popolo vassallo dall’estinzione e gli ha dato la terra nella quale si è stabilito. Se sarà fedele, potrà contare sull’assistenza del sovrano nella lotta contro i nemici. Il rapporto è una condizione stabile, che non tende ad una crescita o ad una modifica sostanziale; in questo senso l’Israele del periodo premonarchico rappresenta l’”escatologia realizzata”. L’alternativa alla fedeltà, secondo la maledizione di Dt. 28 è l’estinzione. Le formule di maledizione di Lv . 26 si concludono con una possibilità di restaurazione dopo il giudizio; con ogni probabilità, la formula originaria, come Dt . 28, non comprendeva questo elemento di speranza. L’esperienza di Jahweh nella storia e la profezia avrebbero allargato gli orizzonti dell’alleanza vassallica tra Jahweh ed Israele.

Letto 4275 volte Ultima modifica il Mercoledì, 02 Giugno 2010 19:11
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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