I Dossier

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 Capitolo III

Il Crocifisso, volto teologico del Risorto

Per capire quale sia questo nuovo significato occorre prima di tutto rinsaldare il legame tra crocifissione e resurrezione, legame che spesso si è portati a sciogliere o quantomeno a non considerare. Se è vero che «senza risurrezione la morte di Gesù dimostrerebbe soltanto la non-esistenza di Dio»95 – o, peggio, la sua impotenza di fronte al male – è altrettanto vero che concentrarsi sulla resurrezione senza riflettere adeguatamente sulla crocifissione rischia di gettare nell’ombra aspetti fondamentali dell’economia della redenzione e delle modalità d’azione di Dio. Scrive al riguardo G. Rossé: «Certamente il punto di partenza della fede cristiana, e di conseguenza dell’annuncio apostolico, è la risurrezione di Gesù. [...] Ma annunciare dinanzi a Israele che Dio ha risuscitato Gesù implica necessariamente proclamare come Messia e Signore un morto in croce. Chi annuncia Gesù risorto deve affrontare lo scandalo della croce. Il Crocifisso è parte integrante del messaggio pasquale. L’attenzione della giovane Chiesa non poteva non portarsi su quel Crocifisso che la Scrittura dice “maledizione di Dio”, e che Dio ha risuscitato ponendosi totalmente dalla parte di quel maledetto. Ciò che per l’ebreo è scandalo, per la fede cristiana diventa la rivelazione suprema di chi è Dio. È nel Crocifisso, considerato come respinto da Dio, che si manifesta paradossalmente la verità ultima su Dio e sul suo agire a favore dell’umanità. Il Crocifisso è il volto teologico del Risorto»96.

Paolo concentra l’attenzione proprio sulla morte di Gesù in croce, attribuendole una funzione critica nei confronti dei sapienti e dei forti di questo mondo: la croce svela l’illusione della loro forza e sapienza; Gesù crocifisso rovescia completamente la gerarchia dei valori: Dio si rivela là dove l’uomo non lo cerca, nella debolezza e nella morte; il Cristo sulla croce stravolge l’immagine di Dio che l’uomo religioso tende a costruirsi, quella di un Dio potente, glorioso, spesso lontano e tirannico. Come dice Udo Schnelle: «Per Paolo, la croce di Cristo è il criterio teologico decisivo; egli non argomenta sulla croce, ma parla a partire dalla croce»97. Nella morte del Figlio, l’amore divino ha preso definitivamene dimora, ha stabilito la sua tenda; Gesù crocifisso è il luogo della conoscenza ultima del vero Dio. «Gesù crocifisso – scrive ancora Rossé – è la via migliore che Dio abbia potuto scegliere per raggiungere il Suo fine di salvezza: penetrare fino in fondo nella condizione umana, per rivelarsi vicino all’umanità nella sua lontananza da Dio e salvarla dal di dentro portandola in Lui, al suo compimento escatologico»98.

L’adesione incondizionata al disegno del Padre ha condotto Gesù a solidarizzare totalmente con l’assenza di Dio che caratterizza la condizione non escatologica e di peccato dell’umanità. Il Crocifisso rivela che ogni situazione di non-Dio può essere trasformata in comunione piena con Dio. La croce di Cristo mette in crisi tutti i sistemi religiosi costruiti dall’uomo per conoscere e raggiungere l’Essere Supremo99 in questo senso la passione di Gesù è per molti versi l’opposto del sacrificio: se i sacrifici sono un momento di incontro del fedele con Dio (cfr. Es 20,22 – 26)100, la croce di Cristo è un momento (e un luogo) in cui Dio sembra del tutto assente; se il sacrificio è una pratica cultuale con cui l’uomo offre doni alla divinità per ringraziarla o guadagnarne i favori, sul Golgota appare chiaro che pratiche di questo genere, peraltro messe in atto dall’élite religiosa del popolo eletto, non solo sono vane, ma hanno esiti disastrosi: il deicidio. Gli sforzi che i più religiosi tra gli uomini compiono per difendere Dio si traducono – paradosso dei paradossi – nell’uccisione di Dio.

Marco Galloni

 

95 G. Rossé, op. cit., p. 107.

96 Ivi, p. 17.

97 U. Schnelle, Paulus. Leben und Denken, Walter de Gruyter GmbH & Co., Berlin, 2003, p. 209.

98 G. Rossé, op. cit., p.19.

99 Ivi, pp. 19 – 21.

100 Cfr. G. Deiana, op. cit., p. 51.

 

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 Capitolo II (continua)

§3. Il sacrificio convertito

Questa rassegna, per quanto breve, rivela quale diffusione e importanza avesse il sacrificio nell’Antico Testamento e quanto sia inaccettabile la proposta di eliminarlo dalla storia della salvezza: «L’abbondanza con cui la categoria del sacrificio è attestata nella Scrittura ne fa un polo essenziale della soteriologia cristiana. Né essa è meno attestata nella tradizione», scrive B. Sesboüé[86]. Ma la rassegna appena vista mostra anche un’altra cosa: che la passione di Cristo non rientra in nessuna delle categorie sacrificali dell’Antico Testamento. Niente fa pensare che una simile morte potesse avere una dimensione sacrificale, dal momento che non ebbe luogo nel tempio e neppure per mano dei sacerdoti; fu anzi perpetrata da empi (cfr. At 2,23). Del resto la morte di un uomo non fu mai considerata un sacrificio dalla tradizione veterotestamentaria; nei sacrifici dell’Antico Testamento si offrivano agnelli, capretti, tori, tortore, colombe o, in modo incruento, prodotti della terra, mai uomini. A tal proposito può essere illuminante il parallelo tra la morte di Gesù e quella di Giovanni Battista: tutti e due sono vittime dell’odio dei loro nemici (Lc 3,19; Mt 14,1 – 12), ma solo la morte di Gesù sarà inquadrata nella categoria del sacrificio; il supplizio del Battista sarà classificato come martirio[87].


La morte di Gesù, anzi, ha tutte le carte in regola per essere considerata l’esatto contrario del sacrificio, dell’atto gradito a Dio: se è vero che «i sacrifici sono anzitutto un momento di incontro del fedele con Dio, durante il quale il Signore concede la sua benedizione, ossia la fertilità e il benessere»[88], allora la crocifissione di Cristo è un antisacrificio, il momento non dell’incontro con l’Altissimo ma del suo rifiuto e della sua maledizione. Secondo Gérard Rossé, infatti, con ogni probabilità Gesù è caduto sotto la sanzione della Legge espressa in Dt 21,22 – 23: «Se un uomo avrà commesso un delitto degno di morte e tu l’avrai messo a morte e appeso a un albero, il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte sull’albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l’appeso è una maledizione di Dio e tu non contaminerai il paese che il Signore tuo Dio ti dà in eredità»[89].


È opinione diffusa che Gesù sia morto sulla croce perché questa era la pena che i romani comminavano a schiavi ribelli, banditi famigerati e criminali particolarmente pericolosi; se Roma non fosse stata solita togliere lo ius gladii ai popoli sottomessi, Gesù sarebbe probabilmente morto per lapidazione, la pena di morte ebraica più praticata. In realtà, fa notare Rossé, il supplizio della crocifissione era conosciuto e praticato in Israele anche prima che i romani ne facessero uso sistematico; esisteva una crocifissione come punizione giudaica, eseguita nel nome della Legge e in riferimento alla sentenza di Dt 21,22 – 23. La LXX, coordinando i verbi dei versetti in questione («se un uomo ha commesso un delitto degno di morte e sia messo a morte e che lo appendiate a un legno...»), suggerisce il seguente svolgimento: il condannato è prima ucciso per lapidazione (influenza probabile di Dt 21,18 – 21), poi il suo cadavere è appeso a un legno (albero, palo). Tuttavia l’interpretazione più primitiva e più comune leggeva Dt 21,22 nel modo seguente: «Se un uomo ha commesso un delitto degno di morte e tu l’avrai messo a morte, tu l’appenderai al legno»; in questo caso la condanna riguarda una morte per crocifissione, non una lapidazione seguita dall’impiccagione del cadavere. La testimonianza più diretta e importante di tale pena capitale si trova nel Rotolo del Tempio, scoperto nelle grotte di Qumran. A differenza di Dt 21,22, che parla in modo generico di delitto degno di morte, il manoscritto del Mar Morto menziona due crimini specifici: il caso di un traditore che consegna il suo popolo a una nazione straniera; il caso di un condannato a morte che, riuscendo a fuggire, si rifugia in altre nazioni dalle quali maledice il suo popolo. Per tali delitti il rotolo prescrive: «Lo appenderete al legno, e morirà (...). E non lascerai il loro (sic) cadavere sul legno durante la notte, ma li dovete seppellire il giorno stesso, perché sono maledetti da Dio e dagli uomini coloro che sono appesi al legno e tu non contaminerai la terra che ti ho dato in eredità» (11 Q 19 LXIV 6 – 13). Il Rotolo del Tempio, insomma, confermerebbe che, attorno all’era cristiana, il testo di Dt 21,22 – 23 era applicato alla crocifissione di criminali, pena sentenziata nel nome della Legge e compresa come punizione giudaica. Non si può quindi escludere, prosegue Rossé, che il Sinedrio stesso abbia condannato Gesù alla crocifissione con l’accusa di essere un bestemmiatore o un falso profeta, anche se il potere esecutivo era in mano a Pilato[90]. Come sia, è plausibile ritenere che Gesù, condannato in nome della Legge e crocifisso, fosse considerato da molti, in Israele, un maledetto da Dio, sulla base di Dt 21,23. Paolo è il primo ad affermarlo in modo esplicito in Gal 3,13: «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno». Va precisato, fa ancora notare Rossé, che l’apostolo attribuisce la maledizione non a Dio ma alla Legge: Gesù crocifisso subisce la maledizione della Legge e si trova così in piena solidarietà con l’uomo sotto la Legge, per riscattarlo; nondimeno la citazione di Dt 21,23 in Gal 3,13 testimonia che Paolo conosce il legame tra il supplizio della croce e la maledizione a esso legata[91].


Anche il processo intentato a Gesù, non solo la sua passione, sfugge alle tradizionali categorie ebraiche e romane: la morte del Messia è stata decisa non dal Sinedrio al completo, riunito in modo regolare, ma durante una seduta notturna di alcuni sinedriti. Gesù fu ritenuto pericoloso al punto da essere consegnato a Pilato. E il prefetto romano, la cui crudeltà era conosciuta, ne sentenziò la morte per crocifissione in maniera del tutto ingiustificata[92]. Scrive Rossé: «Con ogni probabilità il motivo dell’arresto e della condanna sono stati il gesto e la profezia contro il tempio; ruolo attivo hanno avuto i Sadducei; motivo nascosto: Gesù metteva in discussione l’ordine stabilito; motivo politico da portare a Pilato: una pretesa regalità (vedi il titulus della croce). Ma se Pilato avesse ritenuto Gesù politicamente o socialmente pericoloso, avrebbe anche fatto ricercare e arrestare i suoi complici, cioè i discepoli, ma non lo fece»[93].


Quanto fin qui esposto rende facile condividere ciò che Joseph Moingt dice sulla passione di Cristo: «La croce è un sacrificio sotto il modo di non esserlo, sacrificio unico nel suo genere, che non entra nel genere sacrificale, un sacrificio che si compie consumando in sé la ragion d’essere e il senso sacrificale degli altri sacrifici religiosi, i quali sono inefficaci e non sono graditi a Dio, un sacrificio che trasforma radicalmente l’atteggiamento religioso degli uomini per renderli degni della rivelazione e del culto del Dio nuovo rivelato sulla croce»[94]. Possiamo in un certo senso dire – riprendendo il pensiero di Sesboüé, che parla di «senso convertito assunto dal termine sacrificio» (cfr. op. cit., n. 79) – che la morte di Gesù redima anche il sacrificio. Non elimina il sacrificio dalla storia della salvezza, non lo rinnega, anzi abbraccia un po’ tutte le pratiche sacrificali della storia di Israele e di alcune riprende il linguaggio (il pasto sacro, l’effusione di sangue), ma nello stesso tempo – secondo quella logica di tradizione e novità, di continuità e compimento/superamento che lega in modo indissolubile Antico e Nuovo Testamento – le trascende, va oltre, dà loro un significato del tutto nuovo.

 

Marco Galloni

 

[86] B. SESBOÜÉ, op. cit., libro I, p. 291.

[87] Cfr. G. DEIANA, op. cit., p. 73.

[88] Ivi, p. 51.

[89] G. ROSSÉ, Maledetto l’appeso al legno. Lo scandalo della croce in Paolo e in Marco, Città Nuova Editrice, Roma, 2006, pp. 8 – 9.

[90] Ivi, pp. 9-11.

[91] Ivi, pp. 11-12.

[92] Ivi, p. 8.

[93] Ivi, p. 8, n. 1.

[94] J. MOINGT in Mort pour nos péchés. Recherche pluridisciplinaire sur la signification rédemptrice de la mort du Christ, Publications des Facultés universitaires Saint-Louis, Bruxelles, 1976, p. 167.

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 Capitolo II (continua)

§2. I sacrifici nell’Antico Testamento: una breve rassegna

L’etimologia fa risalire il verbo sacrificare a sacrum facere, che significa rendere sacro, mettere un oggetto a disposizione del divino. La storia generale delle religioni attesta che il sacrificio è una delle sue categorie centrali. Il sacrificio esercita funzione di comunicazione e di scambio tra il mondo dell’uomo e la sfera del sacro, il mondo di Dio o degli dei. In questione, nel sacrificio, c’è il rapporto dell’uomo con il divino [82]. Il Dizionario di Teologia di Karl Rahner ed Herbert Vorgrimler definisce il sacrificio come segue: «Il concetto di sacrificio, nella sua forma più completa che peraltro non sempre si ritrova in tutti i sacrifici [...], si potrebbe all’incirca descrivere così [...]: sacrificio è un atto nel quale ad opera di persone che ne hanno legittimamente il potere in quanto rappresentanti di una comunità di culto, un dono controllabile con i sensi viene trasformato nel corso di un rito cultuale e così sottratto all’uso profano, immesso nella dimensione del “sacro” e dato pienamente a Dio per esprimere la dedizione di sé, nell’adorazione, al Dio santo; in tal modo il dono, da Dio accettato e santificato, nel banchetto sacrificale della comunità di culto diventa il segno della volontà divina di instaurare un rapporto comunitario con l’uomo» [83].
La Bibbia attesta l’esistenza, e spesso la coesistenza, di diversi tipi di sacrificio. Il libro del Levitico, nei capitoli 1 – 7, li espone in modo sistematico e in linguaggio tecnico: l’olocausto (‘ôlah); l’offerta; il sacrificio di comunione (con lode, votivo o volontario); il sacrificio per il peccato (del sommo sacerdote, dell’assemblea di Israele, di un capo, di un uomo del popolo); il sacrificio di riparazione (’ašam); l’offerta. L’olocausto, il cui termine greco corrispondente significa combustione completa, è il sacrificio in cui la vittima viene per intero bruciata in onore di Jahve. Nei testi più antichi aveva lo scopo di rendere omaggio a Dio, supplicarlo, ringraziarlo e adempiere un voto; solo più tardi assunse valore espiatorio. L’olocausto è il sacrificio ordinario del culto pubblico e ne rappresenta la massima espressione; la sua mancanza costituiva la più grande minaccia contro il popolo ebraico (Dn 8,11ss). Sempre accompagnato da oblazioni e libagioni (Nm 15,2 – 16), l’olocausto era l’unico sacrificio che potesse essere offerto anche da un pagano (Lv 22,18.25). Il sacrificio espiatorio era imposto dalla Legge a colui che la trasgrediva per inavvertenza; la materia e la vittima variavano alquanto secondo la condizione del trasgressore, ma ciò che più caratterizzava questo sacrificio era il rito del sangue: parte del sangue veniva sparso attorno all’altare dell’olocausto, mentre la maggior parte era aspersa sette volte in direzione del velo del tempio e sui corni dell’altare dei profumi; benché fossero praticati in ogni periodo dell’anno, i riti espiatori raggiungevano la loro massima solennità nello jôm kippûr, il giorno dell’espiazione. Nel sacrificio di riparazione, che aveva lo scopo di riparare un danno arrecato al diritto di proprietà divina o umana, la vittima era un agnello il cui valore veniva valutato simbolicamente in relazione alla riparazione da compiere [184].
Un’altra categoria di sacrificio, assai diffusa tra i semiti, consisteva essenzialmente in un pasto sacro (šelāmîm) in cui il fedele mangiava e beveva «dinanzi a Jahve» (Dt 12,18; 14,16); l’alleanza del Sinai è suggellata da un sacrificio di questo genere. Certo non ogni banchetto sacro presuppone necessariamente un sacrificio; tuttavia nell’Antico Testamento questi banchetti di comunione di fatto implicavano il sacrificio: parte della vittima (bestiame grosso o minuto) spettava di diritto a Dio, padrone della vita, mentre la carne serviva da cibo per i commensali. Nei diversi rituali codificati dal Levitico il concetto di sacrificio tende a concentrarsi attorno all’idea di espiazione. Il sangue vi svolge una parte importante, ma in definitiva l’efficacia del sacrificio deriva dalla volontà di Dio (Lv 17,11; cfr. Is 43,25) e presuppone sentimenti di penitenza. La riparazione delle impurità rituali e delle colpe non volontarie iniziava i fedeli alla purificazione del cuore, così come le leggi sul puro e l’impuro orientavano le anime verso l’astensione dal male. Il pasto dei šelāmîm traduceva e realizzava nella gioia e nell’euforia spirituale la comunione dei commensali tra loro e con Dio, perché tutti partecipavano della stessa vittima [85].

 

Marco Galloni

 

[82] Cfr. B. SESBOÜÉ, op. cit., libro I, p. 293.

[83] K. RAHNER /H. VORGRIMLER, Dizionario di teologia (titolo originale Kleines Theologisches Wörterbuch, Verlag Herder GmbH & Co. KG, Freiburg, 1968), trad. it., Editori Associati, Milano, 1994, p. 612.

[84] Cfr. A. ROLLA in Introduzione generale alla Bibbia, Elledici, Torino, 2006, pp. 263 - 264.

[85] Cfr. C. HAURET in Dizionario di Teologia Biblica (titolo originale: Vocabulaire de Théologie Biblique, Les Editions du Cerf, Paris), a cura di Xavier Léon-Dufour e di Jean Duplacy, Augustin George, Pierre Grelot, Jacques Guillet, Marc-François Lacan, trad. it., Editrice Marietti, Genova, 2001, pp. 1125 - 1126.

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 Capitolo II (continua)

§1. Importanza e universalità del sacrificio

Il cristianesimo non sacrificale di Girard può essere comprensibile come reazione a certe soteriologie grossolane nate da cattive interpretazioni dell’opera di Anselmo e in particolare del Cur Deus homo, ma non può essere accettato, preso per buono: Girard ragiona a partire da un’idea troppo restrittiva del sacrificio, che non tiene conto della realtà complessa e sfaccettata che la teologia vede invece racchiusa in questa categoria. C’è senz’altro del vero e del buono nella visione dell’antropologo francese, fa notare Sesboüé: «Girard non mette il dito su un qualcosa di molto reale nel cristianesimo storico? Non è vero che, stando a certi discorsi teologici, pastorali, spirituali, l’idea di sacrificio ha funzionato in terra cristiana così com’egli dice?» [74] . Resta il fatto che il sacrificio non può essere espunto dal cristianesimo con tanta disinvoltura. Anzi, non può esserne espunto affatto: farlo significherebbe sfigurare la Sacra Scrittura. Dice il Dizionario di Teologia Biblica di Xavier Léon-Dufour alla voce sacrificio: «Un rapido sguardo alla Bibbia ci informa sull’importanza e sull’universalità del sacrificio. Esso costella tutta la storia: umanità primitiva (Gen 8,20), vita dei patriarchi (Gen 15,9...), epoca mosaica (Es 5,3), periodo dei giudici e dei re (Giud 20,26; 1 Re 8,64), età postesilica (Es 3,1 – 6). Ritma l’esistenza dell’individuo e della comunità. L’episodio misterioso di Melchisedech (Gen 14,18), in cui la tradizione ravvisa un pasto sacrificale, l’attività liturgica di Jetro (Es 18,12) allargano ancora l’orizzonte: fuori del popolo eletto (cfr. Gn 1,16), il sacrificio esprime la pietà personale e collettiva. I profeti, nelle loro visioni del futuro, non dimenticano le offerte dei pagani (Is 56,7; 66,20; Mal 1,11). Così, quando tracciano a grandi linee il loro affresco della storia, gli scrittori dell’Antico Testamento non concepiscono vita religiosa senza sacrificio. Il Nuovo Testamento preciserà questa intuizione e la consacrerà in modo originale e definitivo» [75]. Vero è che alcuni profeti dell’Antico Testamento prendono recisamente posizione contro i sacrifici (cfr. Is 1,11 – 17; Ger 6,20; 7,21 – 22; Os 6,6; Am 5,21 – 27; Mi 6,6 – 8), ma la loro polemica, afferma Sesboüé, è di tipo dialettico, va ben compresa: non condanna i sacrifici in quanto tali ma la loro perversione, allorché sono contraddetti da una condotta di vita incoerente [76] .
Eliminare il sacrificio dal Nuovo Testamento sembrerebbe più agevole. Chi volesse farlo troverebbe facile appiglio in certi passi evangelici, come Mt 9,13 («Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio») e Mc 12,33 («amarlo con tutto il cuore, e con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso val più di tutti gli olocausti e i sacrifici»). Ma un’operazione del genere entrerebbe in conflitto con altri versetti dei Vangeli, dai quali emerge, sottolinea G. Deiana, che Gesù non intende affatto annullare il sistema rituale del tempio: al lebbroso, dopo la guarigione, chiede di offrire il sacrificio prescritto dalla Legge (Mt 8,4); egli impone la riconciliazione con il fratello prima di offrire il sacrificio (Mt 5,23 – 24); e del resto il compito di Gesù è formulato senza possibilità di equivoco in Mt 5,17 – 19:

«Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla Legge, senza che tutto sia compiuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli».

C’è dunque una conferma esplicita delle istituzioni veterotestamentarie. La Chiesa delle origini, a parere di Deiana, deve aver faticato non poco per trovare il giusto equilibrio tra la tradizione giudaica e l’innovazione cristiana. Se ne può avere conferma mettendo a confronto At 15 e 21,20 – 25: secondo At 15 la comunità cristiana, già ai tempi del cosiddetto concilio di Gerusalemme, avrebbe superato il vincolo delle norme giudaiche; a giudicare da At 21,20 – 25, invece, sembrerebbe che la comunità di Gerusalemme fosse ben ancorata alle tradizioni cultuali e rituali dell’Antico Testamento [77].
Diversa è l’opinione di Sesboüé: «Quando passiamo al Nuovo Testamento, dobbiamo riconoscere con R. Girard la scarsa rilevanza del tema sacrificale nei vangeli. La menzione più significativa messa sulle labbra di Gesù è negativa» [78]; a riprova Sesboüé porta gli appena citati Mt 9,13 (cfr. 12,7) e Mc 12,33. Il teologo gesuita ammette che al momento della presentazione di Gesù al tempio i suoi genitori hanno senza dubbio offerto nel tempio «un paio di tortore o due giovani colombe» (Lc 2,24) e che «il senso delle parole dell’istituzione eucaristica è certamente sacrificale, il termine sacrificio non viene però adoperato, e gli esegeti discutono su ciò che, in tali parole, risale effettivamente a Gesù e su quanto è il frutto dell’attualizzazione liturgica della comunità primitiva» [79]. Tuttavia, aggiunge Sesboüé: «L’essenziale è manifestamente altrove. Tutta la vita prepasquale di Gesù è stata una pro-esistenza, cioè un’esistenza per il Padre e per i fratelli, un dono totale di sé che si spinge fino al dono della vita. Tutta la sua vita assumeva così il valore d’un sacrificio esistenziale, che fungerà da fondamento al senso convertito assunto dal termine sacrificio nella tradizione cristiana dal Nuovo Testamento in poi. Tale esistenza di servizio è orientata verso il passaggio di Gesù al Padre e mira correlativamente al passaggio di tutti i suoi fratelli riconciliati al Padre. Il sacrificio di Gesù, espresso anche nella preghiera, è la forma che assume il ritorno del Figlio al Padre quando egli rimette il proprio spirito nelle sue mani. Gesù, istituendo l’eucaristia, ci dice quale senso egli dona alla sua morte» [80]. Sesboüé conclude così la sua riflessione: «Tale complesso è molto coerente. Se Gesù “sembra preoccuparsi dei sacrifici rituali solo per stigmatizzarne gli abusi”, non si vede perché si sarebbe servito della categoria del sacrificio “per caratterizzare la propria vita e la propria morte”. Non stupisce quindi che i Vangeli non dicano nulla che indichi che Gesù associò la sua vita e la sua morte alla nozione di sacrificio rituale. In compenso tutta la sua vita ci invita a riconsiderare il senso del sacrificio a partire dalla sua proesistenza. Tale distanza tra la realtà e il vocabolario era senza dubbio indispensabile per operare la necessaria conversione del senso del sacrificio, senso che i profeti avevano già indicato» [81].

Marco Galloni

 

[74] B. Sesboüé, op. cit., libro I, pp. 43 – 44. 

[75] C. HAURET in Dizionario di Teologia Biblica (titolo originale: Vocabulaire de Théologie Biblique, Les Editions du Cerf, Paris), a cura di Xavier Léon-Dufour e di Jean Duplacy, Augustin George, Pierre Grelot, Jacques Guillet, Marc-François Lacan, trad. it., Editrice Marietti, Genova, 2001, p. 1124.

[76] B. SESBOÜÉ, op. cit., libro I, p. 299. 

[77] G. DEIANA, Dai sacrifici dell’Antico Testamento al sacrificio di Cristo, Urbaniana University Press, Roma, 2006, pp. 71 - 73.

[78] B. SESBOÜÉ, op. cit., libro I, p. 300. 

[79] Ibidem

[80] Ibidem

[81] Ivi, pp. 300 – 301; le frasi riportate tra virgolette alte sono di X. Léon-Dufour. 

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L’esempio forse più significativo di questo disagio contemporaneo è rappresentato dal cristianesimo non sacrificale di René Girard. Secondo l’antropologo francese non v’è nulla, nei Vangeli, che possa far pensare alla morte di Gesù come a un sacrificio nel senso di un’espiazione o di una sostituzione.

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La teoria della soddisfazione di Anselmo d’Aosta è spesso considerata un po’ come la madre di tutti gli equivoci in materia di soteriologia cristiana, la causa principale, se non addirittura l’unica, di ogni errore e fraintendimento.

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Al carattere intrinsecamente contraddittorio e scandaloso della croce-evento si aggiunge il linguaggio con cui la croce-simbolo, che vediamo esposta nelle chiese, nelle aule scolastiche, negli ospedali, ci parla. Un linguaggio tutt’altro che esplicito.

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