I Dossier

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Risposte raccolte da Aurelie Godefroy e Frédéric Lenoir

“Per me è naturale entrare in una chiesa, accendere una candela e pregare”.

Figura insostituibile dell’intellighentia francese, Philippe Sollers occupa da quarant’anni il primo piano della scena letteraria parigina. Dopo i suoi inizi, celebrati da François Mauriac e Louis Argon, questo osservatore ironico della società non smette di punzecchiare i costumi del suo tempo. Detestato o adulato, questo scrittore provocatore non lascia nessuno indifferente. Il mistero Sollers, come alcuni si compiacciono di designarlo, turba con le sue prese di posizione anticonformiste.

La contemplazione buddista è un’autentica esperienza interiore, che ha come fine illuminare il più profondo dell’essere umano. Non si tratta di un’esperienza di tipo religioso, cioè dell’incontro con”Qualcuno”, ma piuttosto del divenire partecipi,coscientemente, della realtà di ciò che è l’Uno e della sua unione con la dottrina universale. Questa contemplazione, non consiste soltanto nell’adozione di tecniche [somatiche(?)] posturali o psicologiche, ma è piuttosto un fatto vitale (esistenziale).

Nello zen, l’esperienza della meditazione guida ad un approfondimento verso il centro del proprio essere, verso quella natura originaria che possiede le caratteristiche dell’assoluto. Lo zen può essere avvicinato alla meditazione mistica cristiana, in quanto anch’essa aspira ad incontrare nel profondo dell’essere, colui che vi abita. In Santa Teresa di Avila, la settima stanza del suo Castello interiore, è il luogo centrale in cui risiede il Re. Il cammino verso il centro dell’essere è presente sia nella mistica orientale che nella mistica cristiana.

Seguendo questo itinerario,il contemplativo zen,attraversa il vuoto ed il nulla;la stessa esperienza è stata fatta anche dai mistici cristiani come S. Giovanni della Croce. Nello zen, inoltre, l’abbandono, il superamento dei pensieri, delle immagini, dei ragionamenti, è uno stato psicologico ricercato, provocato artificialmente per mezzo di tecniche particolari. Nella mistica cristiana tradizionale, colui che medita non è invitato ad abbandonare pensieri, ragionamenti, immagini, ricordi se non quando è divenuto capace di una preghiera semplificata e sa attendere dalla grazia il dono della liberazione dai sensi.Provocare questo stato artificialmente,può rappresentare come un’invasione dello spazio di libertà,proprio dello Spirito Santo. É comunque di grande aiuto cercare di allontanare pensieri, preoccupazioni, ricordi, per concentrarsi solo sul momento presente,sul fatto che siamo al cospetto di Dio,e che soltanto questo è quello che conta.

La contemplazione nella mistica zen culmina nell’illuminazione, che è l’incontro con il centro dell’essere; nella mistica cristiana l’illuminazione avviene nell’incontro con Dio alla luce della fede. Ci si è chiesto se i metodi zen possono essere applicati nella meditazione cristiana;questo è possibile, in quanto possono aiutare il cristiano a progredire nell’arte della meditazione, a condizione che si evitino forme di sincretismo religioso e ricordando sempre che l’incontro con Dio non può essere risultato di tecniche. In ogni caso la meditazione è un esercizio benefico in particolare come metodo di concentrazione. Il distacco dalle cose che crea un vuoto completo attraverso un percorso simile allo zen è possibile anche al cristiano. Dobbiamo tuttavia tener presente che per accedere all’illuminazione cristiana, dobbiamo sempre ricordare che è solo il Cristo la luce del mondo.

Per questo motivo nelle sessioni cristiane dello zen, il koan Mu sarà sostituito dal Koan Shu (Signore)un addestramento alla morte di Gesù in vista della redenzione dell’uomo nuovo. Divenire uno con Gesù, morire con lui e risuscitare grazie a lui, questa è l’Illuminazione cristiana.

Bilancio e prospettive a 40 anni dalla «Sacrosanctum Concilium»

Monachesimo e riforma liturgica

Monastero Trappista di Valserena

La comunità monastica di Monte Oliveto Maggiore ha ospitato un evento significativo e bello accogliendo il convegno che si proponeva di fare un bilancio della attuazione della Riforma Liturgica a 40 anni dalla costituzione SC, la prima votata al concilio Vaticano II.

Il lavoro del Convegno è stato scandito come ogni giornata monastica dal canto dei salmi in gregoriano, la Messa all’inizio della giornata, celebrata con pacatezza e solennità, cantata con arte rara, pregata dal coro e dagli ospiti, e al termine della giornata raccolti in una cripta laterale il canto del Salve Regina, tradizionale chiusura della giornata per ogni monaco o monaca.

Attualmente la Congregazione benedettina di Monte Oliveto ha monasteri in Italia, Francia, Inghilterra, Brasile, Guatemala, Stati Uniti, Israele e nella Corea del Sud. Tutti questi monasteri sono talmente uniti all’Archicenobio di Monteoliveto in modo da formare una sola famiglia, un «unico corpo», sotto la guida dell’Abate di Monte Oliveto, che perciò è anche Abate Generale della Congregazione e che è ora Dom MICHELANGELO RICCARDO TIRIBILLI1.

Egli ha presieduto sia la celebrazione dell’ufficio Liturgico, sia lo svolgimento del convegno, la cui segreteria scientifica era affidata a Dom Roberto Nardin.

Padre Roberto Nardin OSB, docente di teologia dogmatica alla Pontificia Universitas Lateranensis, e docente a S. Anselmo, in un’intervista rilasciata al Sir, dice: «Il convegno è stato una grossa opportunità per approfondire e riconfermare l’importanza della liturgia per la vita spirituale in genere oper la vita monastica in particolare... Ha permesso di spaziare all’interno delle tre fasi che hanno contraddistinto la liturgia negli ultimi decenni. La prima fase èstata quella del movimento liturgico, con la crescente consapevolezza da parte dei credenti dell’importanza di una liturgia più vissuta e partecipata. La seconda fase ha coinciso con il Concilio Vaticano II e con le novità introdotte. La terza fase, quella attuale, consiste invece - continua p. Nardin - nella necessità di formazione alla riforma».

In tutto questo percorso storico, che abbraccia vari decenni, durante il convegno si è riflettuto — in particolare — sul ruolo avuto dal monachesimo. «Dai lavori del convegno è emersa chiaramente aggiunge p. Nardin la disponibilità del mondo monastico, maschile e femminile, a rendere partecipe il popolo di Dio alla liturgia, collaborando all’animazione e formazione liturgica e cercando di agire come il lievito nella pasta».

Tra le notazioni emerse durante i lavori, i rappresentanti delle comunità monastiche francesi hanno mostrato una particolare «unità di intenti» per quanto riguarda l’adozione di forme e preghiere liturgiche. Lo ha testimoniato Dom Marie Gèrard Dubois, per più di vent’anni abate della Grande Trappe e presidente della commissione di Liturgia dell’o.c.s.o. raccontando il lavoro della Commissione Francofona cistercense, che ha come suo strumento di diffusione la rivista Liturgie e che offre sempre una ampia scelta di studi, documenti del magistero, proposte di testi per la liturgia a servizio del mondo monastico. Da parte italiana sono intervenuti, tra gli altri, i rappresentanti delle comunità di Valserena, Praglia, Camaldoli e Bose.

Il mondo monastico italiano è più vario, e non esiste in esso uno strumento di coordinamento come la CFC.

Ogni comunità si muove un po’ all’interno dell’ordine cui appartiene senza troppo collegamento con altre realtà... Il convegno è stato anche un buon tentativo in questo senso di conoscenza e di confronto.

«L’aspetto visibile, concreto della religione, il rito e il simbolo, viene compreso sempre meno, non è più colto e vissuto in modo immediato — ha detto uno dei relatori, il prof. Andrea Grillo, coordinatore della specializzazione in teologia dogmatico — sacramentaria presso il Pontificio Ateneo S. Anselmo di Roma. Grillo ha sottolineato che trattare oggi di liturgia significa «l’approfondire quelli che appaiono ancora come luoghi comuni: il primo è la formazione liturgica intesa come istruzione circa i riti, il secondo è il rafforzamento della separazione tra formazione e spiritualità e il terzo riguarda la soggezione della formazione liturgica ad una lettura sostanzialmente clericale della Chiesa».

Tra i relatori oltre il Prof Grillo e il prof. GIORGIO BONACCORSO, Preside dell’istituto di Liturgia pastorale Abbazia di santa Giustina di Padova. Goffredo Boselli, monaco di Bose ha parlato de prima e dopo la riforma liturgica. PAUL DE CLERKDirettore della rivista La Maison Dieu, membro del Comitè national de Pastorale liturgique (CNPL) già direttore dell’lnstitut Supérieur de Liturgie (ISL) di Parigi ha descritto la ricezione teologica, applicazione pratica e tentazioni di ripiego rispetto alla Sacrosanctum Concilium oggi, mentre DANIEL SAULNIERDirettore dell’istituto di Paleografia musicale dell’Abbazia Saint Pierre di Solesmes e docente presso il Pontificio Istituto di Musica Sacra di Roma, ha parlato del canto gregoriano, del suo recupero e del compito che lascia oggi alle generazioni in cerca di una formula musicale altrettanto duratura e valida.

Le relazioni erano seguite da testimonianze delle varie comunità rispetto al lavoro fatto da ciascuna per applicare al proprio interno gli esiti della riforma liturgica, e ora per dare una adeguata formazione liturgica. Una sorpresa per chi ha partecipato al Convegno è stata la presenza viva e numerosa di molta parte del mondo benedettino italiano, comunità giovani e in piena evoluzione, numerica e vitale, ad esempio la comunità di Santa Marta di Firenze, o la Comunità di Poffabro, così come, da parte francese, la Comunità del Bec. Ci si può augurare che si sviluppi ancora meglio l’apporto della dimensione sapienziale femminile così che ad incontri simili ci si possa rallegrare di vedere coniugati insieme relazioni dotte e testimonianze di esperienza, comunità maschili e comunità femminili, nella edificazione di un mondo monastico che proprio nella nostra Europa pare chiamato a ritrovare la sua funzione positiva e profetica, e ha necessità dunque di ogni apporto e di ogni voce. A Monte Oliveto il doppio apporto di testimonianze e relazioni dottrinali ha dato al convegno l’aspetto non solo di un incontro puramente accademico ad alto livello ma di un reale incontro di comunità monastiche in ricerca all’interno di una chiesa desiderosa di riscoprire e riappropriarsi delle fonti della preghiera.

Quali luoghi più appropriati a questo se non i monasteri benedettini, olivetani, cistercensi e trappisti?

(1) Abate ordinario di Monte Oliveto Maggiore, OSB. Nato a Firenze, il 18 marzo 1937, Ordinato presbitero il 2 luglio 1961, nominato abate ordinario di Monte Oliveto Maggiore il 3 ottobre 1992; confermato il 16 ottobre 1992. Membro della Conferenza Episcopale Toscana.

Mi capita spesso di incontrare persone che si dichiarano non credenti. E c’è un aspetto che sorprende. Ben presto, parlando, emergono elementi che mi lasciano stupito...

I Maristi ed il magnificat

di Franco Gioannetti

Nel cantico del Magnificat ci viene presentato un itinerario che occorre percorrere per vivere la virtù della “povertà” in esso; per le nostre comunità, la “povertà” può divenire infatti missione e testimonianza davanti al mondo.

La virtù-povertà è infatti un segno con cui Dio rivela il suo amore verso di noi ed un atteggiamento di vita con cui testimoniamo il suo amore al mondo.

Il Magnificat inizia con un dialogo d’amore “L’anima mia magnifica il Signore”, è l’espressione della gratitudine che risponde al Signore il quale “ha fatto di me grandi cose”.

In questo dialogo noi troviamo Maria “la donna povera” perché da un lato si lascia preparare dal Signore e riceve da lui i doni che le riempiono le mani, e lascia fare grandi cose al Signore, ma nello stesso tempo è povera perché oltre a questa disponibilità ad essere “preparata”, dimostra anche disponibilità ad essere “mandata”. E’ sempre con le mani attivamente vuote per ricevere i doni, come quando si è sentita “colmata di grazia”; è ancora con le mani vuote per offrire questi doni, come quando si è sentita dire “lo chiamerai Gesù”; in una espressione che indicava tutta la missione di Cristo; accanto alla sua, aperta al mondo. Maria è povera, con le mani vuote, “preparata da Dio, cioè continuamente espropriata di se stessa per accogliere i doni del Signore; Maria è povera anche quando è continuamente “mandata” da Dio, perché ancora espropriata dei doni che le ha dato in funzione degli altri.

Noi maristi non possiamo non essere coinvolti in questa povertà, dobbiamo perciò avere le mani attivamente vuote per accogliere tutti i doni che il Signore ci dà. E’ un aspetto fondamentale, mi sembra, della nostra spiritualità. “Mio Dio, fate attraverso di me delle grandi cose... io riconosco il mio nulla, l’onnipotenza di Dio, facendo questa preghiera” (E.S., Doc 132, § 28).

Ma è anche “povertà” permettere che egli ci espropri continuamente di noi stessi e dei suoi doni, quando lasciandoci ancora con le mani attivamente vuote, egli ci chiede di non conservare per noi i doni, perché essi diventano veramente tali quando ce ne sentiamo espropriati dalla missione che il Signore ci affida; diventiamo così i poveri a cui è annunciato e che annunciano il Regno.

A questo punto saremo dei poveri, ma la povertà non sarà solo una nostra virtù, sarà anche il mezzo con cui il Signore rivela il suo amore verso di noi che riempie di doni per invitarci “in missione”.

Così la povertà deve divenire veramente il nostro stile, uno stile che permette a Dio di manifestare il suo amore per ogni singolo “che invia” verso il mondo.

Ma questa povertà che accoglie e che dona non è una virtù anonima, e neanche una virtù innata; è una virtù che ha nella storia della salvezza dei protagonisti, dagli anâwim del Vecchio Testamento di cui il Cantico di Anna è un’espressione, ai due grandi protagonisti del Nuovo Testamento Maria e Gesù.

E’ attraverso questi modelli che riusciamo a comprendere i lineamenti veri di questa povertà.

Di fronte ai grandi problemi della vita dobbiamo ispirarci a questi modelli, per presentarci con una volontà chiara in risposta alle esigenze che ci vogliono presenti nel mondo.

Quali sono questi lineamenti di Maria e Gesù poveri?

Direi che Maria è stata povera e “per la sua umile condizione” e per la sua assoluta adesione alla proposta di Dio: “Sia fatto di me secondo la Tua parola”. Gesù ha abbandonato ogni avere: “il Figlio dell‘uomo non ha neanche dove posare il capo”, ha rifiutato la tentazione del “potere-contare” rifiutando di essere Re, rifiutando le altre proposte, non lasciandosi avvolgere dalle cose che contano quando si è espropriato di se stesso, offrendosi al Padre ed agli uomini nel suo abbassamento (kenosis).

Siamo dunque, come figli di Maria, invitati a far divenire vita questo Cantico; impegnandoci ad essere continuamente in cammino, evitando le posizioni che installano, per vivere veramente al di là dell’avere”, al di là del “potere” attraverso una serie di gradini che l’esperienza di Dio ci farà percorrere.

Può essere questo per noi una parte della scala della nostra kenosis o abbassamento

- dall’avere non solo fino al dare ma... fino ai darsi; dare è sempre un atto di ricco; darsi è…condividere

- dal potere all’accoglienza

- chi ha potere invade la vita dell’altro

- chi accoglie fa come Maria che sa apparire e ritirarsi, per essere “serva” nella missione di Gesù

- chi accoglie non invade la vita degli altri, neppure con la scusa di far loro del bene.

- dal valere al valorizzare

- passare dal “valere” delle cose che contano nel mondo al “valorizzare” ciò che è piccolo.

Un grande impegno ci si offre allora ed un lungo cammino, se crediamo che povertà sia trascurare le cose che valgono di fronte al mondo, per valorizzare le cose trascurate

- essere sempre per via, andando lì dove gli altri non vogliono o non possono andare

- trascurare ciò che “brilla” per scegliere il servizio nelle situazioni di emergenza sia come religiosi che come gruppi laicali

- saper rifiutare la cultura dell’apparire e dell’effimero per realizzare nelle comunità e nelle famiglie ciò che la nostra vocazione esige

- non far contare, nelle comunità, in primo luogo, le grandi iniziative, le statistiche, i successi ma la santità invisibile.

Passare dal valere al valorizzare ci porterà come discepoli e discepole di Colin al servizio degli emarginati: i poveri della malattia, del reato, della fragilità, dell’anonimato; i “pellegrini” della carta bollata” negli uffici della burocrazia, dell’assistenza pubblica.

In questi d’altronde si realizza oggi la kenosis di Cristo, perché ci richiamano una vera presenza del Signore nel mondo.

Maria è la Serva del Signore

Cristo è il Servo di Yawhé

Il Padre ha guardato “alla sua povera serva” o “alla sua umile condizione”. Il Padre ha mandato “il Figlio diletto”.

Mi sembra che questa sia una strada essenziale, per la nostra missione, perché sarà la nostra povertà a divenire servizio come è stato per un Colin, uno Champagnat, una Chavoin, una Perroton.

Questa riflessione ha tentato di presentare Gesù e Maria come poveri.

A noi di seguirli!

E nel seguirli ripensare con fiducia e gioia le parole di Maria:

“Il Signore ha fatto in me grandi cose”

e le parole di Gesù:

“Lo Spirito del Signore è sopra di me”.

Il dono dello Spirito ricevuto, nella docilità, ci renderà capaci di diventare “poveri servi”, che fanno crescere il mondo nella risurrezione di Cristo e che sono un segno trasparente che il mondo viene ricostruito nella verità.

Romania

Una sfida per un futuro prossimo

di Rosangela Vegetti


La situazione di questa nazione è di grande speranza per l’avvenire dell’Europa. Sul piano religioso (l’86% della popolazione è ortodossa), potrebbe essere un terreno di proficue esperienze ecumeniche. In un recente viaggio una delegazione di responsabili degli uffici di ecumenismo delle diocesi lombarde, ha incontrato, mesi addietro, esponenti della Chiesa ortodossa, in vista della III Assemblea ecumenica europea che è stata tenuta lo scorso settembre a Sibiu.

La Romania è un paese vicino a noi, vanta radici culturali latine a partire dalla conquista dell’imperatore Traiano, è membro della comunità europea, assorbe parecchie attività italiane “delocalizzate” e faticosamente sta ricostruendo la propria vita sociale e politica dopo il lungo periodo comunista, per noi però è ancora da scoprire nelle sue varie connotazioni, a partire dalla sua profonda tradizione religiosa. Potrebbe essere un terreno di proficue esperienze ecumeniche di incontro e dialogo in vista di progetti nuovi di amicizia e solidarietà in questo tempo di ricostruzione e apertura al futuro, e questo è l’intento che si sono dati da tempo i responsabili degli uffici di ecumenismo delle diocesi di Lombardia con capofila Milano.

Capofila perché già il cardinale Martini aveva aperto il cammino con, scambi di visite con il patriarca di Bucarest e altri metropoliti, e inaugurato un metodo di “intervento” per progetti di solidarietà connotato da ampie intese di collaborazione per evitare ogni ingerenza o presenze fuori misura. Tale è infatti il timore di chi si trova nella necessità e vede sorgere opere e iniziative che superano ogni possibile gestione locale (ospedali, scuole, chiese, seminari, case religiose, strutture di servizio) e assumono il carattere di “imprese straniere”.

In un recente viaggio, una delegazione lombarda di incaricati ecumenici diocesani, giornalisti e operatori pastorali, con monsignor Coccopalmerio, vescovo delegato per l’ecumenismo della Cei (ora presidente del Pontificio consiglio per le leggi), ha incontrato esponenti della Chiesa ortodossa e insieme valutato quanto si possa fare per il prossimo futuro, sia in vista della III Assemblea ecumenica europea, che culminerà a Sibiu nel prossimo settembre, sia per conoscere la realtà della Chiesa sorella cui appartiene il gruppo più numeroso di immigrati est-europei in Lombardia. I metropoliti hanno manifestato le molteplici difficoltà ed esigenze di vita cui stanno cercando di rispondere perché la popolazione romena molto cammino ha ancora da fare e molto si attende dal sostegno dei popoli europei. Si è parlato di possibili gemellaggi tra parrocchie - in alcune città lombarde esiste già tale forma di collaborazione con parrocchie romene - tra diocesi e istituzioni, magari anche enti locali, e si sono visitati centri diocesani e monasteri.

Attenzione ai gravi bisogni sociali

La Chiesa ortodossa romena conta sei metropolie autonome, ognuna con il suo sinodo dei vescovi, ma solo dopo, il 1989 ha potuto organizzare un dipartimento per l’assistenza «sociale, perché nel periodo comunista non poteva svolgere alcuna attività filantropica. Ora lo Stato non è più in grado di rispondere alle svariate necessità ed è la Chiesa che deve intraprendere iniziative idonee, che vanno dalle mense per i poveri, al sostegno ai disoccupati, a forme di aiuto e protezione per i minori, a interventi contro il dilagare della droga tra i giovani, violenze in famiglia, anziani soli, ecc. «Sono stato 4 anni responsabile del dipartimento dei problemi sociali a Craiova», spiega monsignor Nicodim, vescovo di Severin e Strehaia, «quando ero vescovo vicario del vescovo Teofan. Siccome ero stato quattro anni in Grecia, ho visto il loro sistema messo a punto da tempo, qui invece abbiamo dovuto prima attrezzare gli uffici, poi stabilire i progetti e formare personale; abbiamo assunto assistenti sociali dalla nostra facoltà di teologia ma abbiamo avuto scarsità di spazi; abbiamo ottenuto diversi finanziamenti da ong estere, cercando di stare nei limitati spazi disponibili». In pochi anni si è passati da una vita religiosa circoscritta a monasteri e liturgie al compito complesso di organizzare risposte a gravi bisogni sociali.

«Oggi il rapporto Stato-Chiesa soffre di una certa tensione», spiega il vescovo Nicolae di Timisoara, la seconda città del Paese con 276 parrocchie ortodosse, 300 sacerdoti, e 650.000 fedeli, «perché la Chiesa desidera recuperare le proprietà che le sono state confiscate negli anni passati. Lo stato comunista aveva infatti nazionalizzato e acquisito tutti i beni ecclesiali, e per decine ne ha usufruito, oggi lo Stato dice che la Chiesa è autonoma e può fare quello che vuole, però dimentica come era prima, non sostiene l’attività della Chiesa se non su richiesta e in piccola misura. Il finanziamento ci viene dai fedeli. Circa l’attività sociale-caritativa, nella nostra diocesi, abbiamo un settoreche si occupa di questo .ed è coordinato da un responsabile amministrativo; si volgono attività in particolare per i bambini, che provengono da famiglie sciolte e abitano in strada o in orfanotrofi statali; la diocesi ha cinque case di tipo familiare, dove questi bambini sono presi in affido,e alcuni rappresentanti della diocesi si occupano dei bambini ammalati di Aids per la loro integrazione nella società; lavoriamo anche con i rispettivi genitori e abbiamo una casa che si occupa delle persone che vengono dal traffico degli esseri umani per prostituzione. Attraverso rappresentanti della Chiesa assicuriamo assistenza liturgica, religiosa ed educativa negli asili, nelle scuole e nei licei di Timisoara, abbiamo insegnanti di religione. (uomini e donne) per una minima catechesi nelle scuole. Dopo il 1989 nelle scuole si sono manifestati problemi nuovi come droga e prostituzione, così cerchiamo di assistere questi casi nelle scuole. Adesso ci prepariamo ad aprire un servizio in soccorso agli anziani per assicurare assistenza a domicilio».

La situazione generale è di grande speranza, ma certamente difficile e complessa perché i fedeli non raggiungono il 10% dell’intera popolazione e necessitano di una formazione che vada oltre la sola devozione inoltre i più giovani sono spesso costretti ad emigrare per trovare - sostentamento alle famiglie ed interi paesi sono spopolati; solo la prospettiva di nuove infrastrutture create con l’appoggio europeo fanno sperare nel ritorno di tanti lavoratori emigrati e di donne romene attualmente lontane dalla. famiglia.


Apertura ecumenica


La Chiesa ortodossa romena è comunque interpellata dal corso dell’evangelizzazione dei tempi presenti, secolarizzati e attratti dal progresso materiale, dalla proposta di maggiore apertura ecumenica verso le altre Chiese cristiane e di mediazione tra antiche tradizioni e modernità: «In Romania da molti secoli abbiamo la stessa lingua per la liturgia e la vita quotidiana, per cui il linguaggio liturgico non è distante dal linguaggio parlato; avete sentito che la Chiesa ortodossa è conservatrice ed è così. È difficile introdurre elementi totalmente diversi nella vita e nell’espressione della Chiesa; è impossibile cambiare alcune preghiere della liturgia, portare musica strumentale in chiesa, allontanare la ricchezza iconografica per soddisfare chi vorrebbe uno stile artistico più sobrio, introdurre certe danze nelle celebrazioni. Secondo il mio parere», afferma il vescovo Teofan, metropolita dell’Oltenia e arcivescovo di Craiova, «è un’opera che non va fatta, col rischio di non rispondere alle esigenze di alcune categorie di fedeli.

«L’esperienza storica mostra che il cristiano ha bisogno di cambiare il meno possibile nell’espressione della vita religiosa. Così un’esperienza come il Vaticano Il non pensiamo possa essere necessaria o possibile nella Chiesa ortodossa. Ciò non vuoI dire escludere l’uso di elementi più moderni come i mass media per la diffusione della fede. Certo molti giovani non comprendono il linguaggio della Chiesa e ne vorrebbero un’attualizzazione a loro favore, facciamo poco questo e comunque, se si cambia qualcosa, è solo nelle cose meno essenziali». Qui si collocano le grandi sfide per il futuro.

(da Vita Pastorale, n. 6, 2007)

Nel cristianesimo non tutto
«esiste da sempre così»

di Marco Ronconi




Ricordo con grande affetto la prima lezione di "Storia ecclesiastica recente" all'università. Al suono della campanella, con signorile eleganza gesuitica e lieve cadenza fiamminga, il professore scandì un elenco di date ed eventi disposti a coppie sulla lavagna luminosa. 10 marzo 1791 e 7 dicembre 1965: da un lato il giorno in cui Pio VI definì la libertà religiosa una mostruosità, dall'altro la data di promulgazione di Nostra aetate, in cui il Concilio Vaticano II affermò che il diritto dell'uomo alla libertà religiosa «affonda le sue radici nella rivelazione cristiana». 8 dicembre 1864 e 6 agosto 1964: Pio IX afferma che il Papa non deve venire a patti con la moderna civiltà, mentre un secolo dopo Paolo VI spiega che la Chiesa deve dialogare con il mondo in cui si trova. 20 novembre 1704 e 27 ottobre 1986: Clemente XI vieta ai cristiani di celebrare secondo i riti cinesi, mentre sull'altra colonna Giovanni Paolo II prega ad Assisi con i leader delle principali religioni mondiali. L'elenco potrebbe essere molto lungo, ma penso si sia capito. La storia della Chiesa ha conosciuto grandi continuità ma anche forti discontinuità. Al di là dei giudizi, negarle non è mai un buon segno. Mi torna in mente quella lezione tutte le volte in cui, insegnando ad adolescenti, ho l'impressione che oggi circolino alcuni immaginari molto diversi tra loro, ma accomunati dal dare per scontato che alcuni elementi del cristianesimo (o delle religioni in generale) «esistono da sempre così». Eppure - solo per stare a questioni tipicamente romane - l'ultimo Conclave in cui fu esercitato il veto di un imperatore non risale al Medioevo, ma al 1903: nella Chiesa cattolica la massima autorità è quella papale, ma quando Benedetto XV invocò la pace alla vigilia della prima guerra mondiale, molti vescovi francesi e un cardinale belga lo presero quasi a pernacchie; la lingua latina non è la più antica delle lingue liturgiche e quando la si introdusse al posto del greco ci fu chi si oppose per decenni, ma la fede non crollò...

L'immaginario, poi, mi sembra diventare ancora più fantasioso se si allarga il confine dello sguardo. In questa stessa rubrica ho già presentato alcune figure che incrinano il pregiudizio per cui "mediorientale" "islamico", o comunque non cristiano. Dalle attuali Palestina, Libano, Turchia, Siria, Iraq (per tacer di Egitto e Maghreb, ma sarà per un'altra volta) proviene invece la maggior parte non solo dei protagonisti biblici, ma anche dei Padri della Chiesa. Nella storia, alla voce "arabi e cristiani", non corrispondono solo le crociate, ma anche una quantità di medici, teologi e vescovi che, ad esempio tra il IX e l'XI secolo, «hanno lasciato un patrimonio letterario di primaria importanza che può qualificarsi anzitutto come "patrimonio del dialogo": un dialogo tra credenti che non si sentono ancora figli di religioni contrapposte, ma solo di interpretazioni diverse dell'unico monoteismo»: così, ad esempio, scrive il monaco di Bose Sabino Chialà introducendo la traduzione di Unità e divisione dei cristiani (edizioni Qiqajon), libretto medioevale attribuito al cristiano Ali lbn Dawud Al-Arfadi. È impressionante leggerne alcun brani pensando a come il nostro immaginario rischia di aver pericolosamente riempito la distanza (temporale e geografica) che ci separa. Ali Ibn Dawud, infatti, si rivolge alla Chiesa araba di circa un millennio fa scandalosamente divisa da tensioni e condanne, sottintendendo che imparare il dialogo tra cristiani è condizione indispensabile e previa per praticare la stessa arte all'esterno. Molto prima del famoso discorso di Giovanni XXIII all'apertura di un Concilio non a caso definitosi «ecumenico», è qui invocata la distinzione tra «il patrimonio della fede cristiana» e il «come viene formulato»: «Su quanto divergono a parole, i cristiani (delle diverse fazioni) sono d'accordo nel significato: su quanto si contraddicono in apparenza, sono unanimi nella sostanza (…) Non c'è divisione né separazione, se non per la passione, lo spirito di parte e il desiderio di supremazia». Non è infatti la diversità delle formule e delle consuetudini che può escludere qualcuno dal cristianesimo, quanto piuttosto la «mancanza di amore e umiltà» che fa «svanire la fede». «A mio giudizio sono come della gente che si dirige verso una città, sulla cui autenticità ed esistenza sono tutti d'accordo, ma che dissentono sulle vie e sulle strade che portano a essa. Ogni gruppo prende una strada che afferma essere la via giusta per la città, ad esclusione delle altre. Terminata la via si riuniscono tutti nella città». Tutti, tranne coloro che hanno usato del Vangelo per la propria vanagloria e per seminare odio. Sono essi e solo essi, quelli che si perdono.

Ora, è tornato di moda tra gli oratori contemporanei stupire con dotte citazioni. Avrei un piccolo (e mi rendo conto immodesto) suggerimento: nel prossimo futuro qualcuno potrebbe richiamare - non necessariamente da solo, anche in coppia come faceva il mio professore - un testo come quello di Ali Ibn Dawud Al-Arfadi? Il nome è ostico perché abbiamo perso la familiarità con quel mondo cristiano, ma la sua memoria - fortunatamente in non totale continuità con altri rami della nostra storia - potrebbe tornarci utile.

(da Jesus febbraio 2008, p. 49)

Dio, storia e coscienza.
Dio è intervenuto nella storia?

Juan Luis Herrero del Pozo


La domanda non è di storia, ma di metafisica. Sì, mi dispiace per i più “terreni", ma non si può prescindere dalla metafisica per dare solide basi al nuovo paradigma teologico; senza di essa avremmo solo cosmetica, non un nuovo paradigma. Senza metafisica non è nemmeno possibile il superamento del pensiero magico che continua ad aderire alla mente della maggior parte dei teologi come la pelle al corpo e che è la ragione ultima di quell'interventismo che è alla base dei dogmi. La mitologia cristiana espressa nei dogmi (la “storia sacra") ha una funzione legittima solo quando si scopre come tale, come mitologia, cioè quando viene smascherato il “pensiero magico" che l'ha fatta passare per storia degli interventi di Dio.

Non sembra possibile chiarire se Dio sia intervenuto se non ci intendiamo prima sul termine “intervento". Sebbene venga spiegato più avanti, si può arse favorire la comprensione anticipando che la relazione Dio-creatura non è mai una relazione di causa-effetto (in questo caso sarebbe una relazione magica) ma di fondamento strettamente ontologico, cioè che riguarda l'essere come essere “creato" in tutto quanto è e fa. Per la tendenza ad assimilare tutto alla nostra condizione creata e finita, propendiamo a intendere la relazione Dio-creatura come azione (sia di Lui verso di noi che di noi verso di Lui). Per superare questo equivoco - inconscio? -, non trovo migliore espressione che quella del fondamento ontologico per esprimere quello che intendiamo per “creazione".

1. Nella "creazione" si conclude la teologia...

Questo fondamento ontologico della creatura ha ancora meno a che vedere con un'azione propriamente temporale di Dio che immaginiamo abbia fatto passare il creato dal niente (quando niente esiste) all'essere (quando dopo qualcosa comincia ad esistere). Il fondamento ontologico non ha nulla a che vedere con la dimensione temporale. Il creato è ontologicamente dipendente da Dio anche se non ha avuto un inizio temporale, cioè anche se, riavvolgendo la storia del cosmo, non andassimo ad urtare con il confine del tempo o con il momento prima del quale niente esisteva. Penso perfino che non manchino ragioni per parlare di una creazione ab aeterno e di una coesistenza “eterna” dell'infinito e della realtà creata, il primo Necessario, la seconda Contingente. Teologicamente “Dio è amore”, cosa che filosoficamente corrisponde al concetto di bonum est diffusivum sui, il Bene è per sua natura espansivo, creativo. Niente impedisce di contemplare la possibilità fisica di una serie illimitata di big-bang.

Questa nozione così depurata di “creazione", ben intesa, ingloba tutto in teologia. Ci basta anche per dare conto della nozione, tanto cristiana - e tanto umana -, di gratuità. La comunicazione di Dio è essenzialmente Dono; Bernanos diceva giustamente “Tutto è grazia”. Questo fondamento ontologico, questa gratuità radicale che riguarda le radici e la totalità dell'essere non va mai dimenticata. Ma è sufficiente per affermare con decisione, a partire da esso l'autonomia totale rispetto a Dio di ogni essere che, nel suo ordine e in una qualche maniera, dovrà comportarsi “come se Dio non esistesse”. In questo mondo, una madre può inviare un messaggio telepatico al figlio e io posso trasmettere energia ad un amico malato. Dio è più potente, gli basta sostenere ogni essere o azione nella sua esistenza autonoma; andare più in là e intervenire nel processo storico sarebbe contraddire se stesso. Ovviamente si capirebbe ancor meno che lo facesse alcune volte sì e altre no (sebbene molti ricorrano alla preghiera per chiedere qualcosa).

II. L'”ìnterventismo" divino è magia

L'”interventismo" divino è la conseguenza diretta e naturale del vecchio paradigma nella sua radicale dipendenza dal pensiero magico. Ho parlato di magia perché l'interventismo divino sarebbe come tirar fuori ancora un altro coniglio dal cilindro quando il circo è già pieno di conigli. In ogni caso, è magia attribuire a Dio l'essere causa di un qualche effetto che cominciasse ad esistere, o, esistendo già, sì vedesse modificato contravvenendo alla sua autonomia e alle leggi naturali, fisiche o mentali. Per gli antichi, l'intervento dall'alto faceva parte del meccanismo di funzionamento del cosmo. All'origine del movimento di ogni astro c'era un angelo e il re riceveva l'autorità da Dio. Oggi solo il papa pretende dì conservare questo privilegio. Le leggi fisiche e gravitazionali, in un caso, e il popolo sovrano, nell'altro, finirono col sopprimere il lavoro degli angeli e di Dio che recuperava la sua trascendenza occulta dopo un'immanenza male intesa. Ma poiché l'Illuminismo risultava troppo pericoloso, l'Autorità ecclesiale fece molta attenzione ad assicurarsi che l'autonomia del cosmo non si estendesse alla coscienza sotto forma di libertà di pensiero e decisione.

III. L'intervento "soprannaturale", un falso sovrappiù

Questa attenzione non risultava difficile all'istituzione ecclesiale perché previamente (magari per la necessità di conferire finalità e senso al processo dì divinizzazione di Gesù) era stata operata la distinzione tra “naturale" e “soprannaturale", cioè tra quello che era a portata dell'essere umano per “natura" e quello che gli era arrivato, aggiunto successivamente, come redenzione soprannaturale sovrabbondante dal peccato originale (felice colpa!), nuova suprema gratuità a fondamento di una “nuova creazione”. Un’abbagliante personalità aveva fatto di Gesù qualcuno appena al di sotto dell’Altissimo, figlio di Yahvè. Gesù aveva annunciato il Regno, ma subito Paolo e altri seguaci, a partire dalle loro soggettive esperienze religiose, si erano dimenticati praticamente del Regno di Dio e avevano cominciato a parlare del secondo Adamo, abbondantemente riparatore del peccato del primo. Tutto il racconto mitico della Genesi era stato teologizzato e i racconti sinottici mistificati. Gesù aveva centrato il suo messaggio sul Regno, quello dei poveri e degli emarginati, i suoi discepoli hanno sostituito il Regno con Gesù. La Buona Novella non è più il nuovo statuto dei poveri ma la Persona (divina) di Gesù.

A partire dalla potente irruzione divina del Dio-con-noi si moltiplicano a cascata - in grado superiore a quelli dell'Antico Testamento - gli interventi soprannaturali della divinità, al di sopra e al margine delle leggi della natura e delle possibilità della coscienza e della libertà:

- Infusione della grazia santificante, mozioni soprannaturali (grazia attuale) per rendere possibili atti meritori di eternità e/o sanare e rafforzare la libertà "caduta".

- Efficacia necessaria anche se strumentale dei sacramenti che generano e dotano l'anima di nuove possibilità (virtù soprannaturale).

- Superamento della simbologia eucaristica della condivisione della mensa grazie all'interpretazione letterale di "questo è il mio corpo", con il conseguente modo di "presenza reale" di alchimia transustanziatoria (secolo XI).

- Infusione di un "carattere" indelebile e permanente da parte di certi sacramenti (neanche Dio, mi si perdoni, mi toglie il sacerdozio, così come l'apostasia non cancellerà mai il "carattere" battesimale, l'essere cristiano).

- "Ispirazione" grazie alla quale il profeta o lo scrittore sacro concepiscono certi nuovi contenuti di coscienza (le verità rivelate) irraggiungibili senza uno speciale intervento divino. A partire da qui tutto è più confuso.

- Nessuno ha dubitato che i contenuti parlati o scritti di profeti e agiografi fossero farina del loro sacco, vissuti soggettivi, esperienze religiose personali. Ma vengono rivestiti di una cappa soprannaturale di "ispirazione" divina (ma come distinguere i due livelli?) in virtù della quale ci è dato di aggiungere chiaramente la postilla "parola di Dio" ad ogni lettura (rivelazione). Sarebbe bastata una coscienza sensibile e aperta per discernere il carico di dis-velamento di Dio che veicola l'esperienza spirituale di un uomo di Dio. Sempre... quanto più umano, più divino!

- Una sede speciale dell'azione divina senza rispetto alcuno per l'autonomia cosmica, cioè al di sopra o al margine delle leggi naturali (magia), è l'ambito dei miracoli...

- Per colmo, quando Garibaldi si presenta alle porte della Città Santa, Pio XI si rifugia nell'infallibilità: si guadagna da un lato quello che si perde dall'altro. È il massimo dell'interventismo (per quanto sempre a mezze tinte: va a sapere - con certezza umana, chiaro! - se si danno i requisiti per avere la garanzia dell'”assistenza" dello Spirito in una definizione 'ex cathedra’).

Ancora e ancora... azione, azione e azione (causa-effetto) di Dio che modifica, supplisce, completa l'autonomia - incompleta? - del creato. Si è autolimitato Dio nella creazione; si corregge in seguito al peccato originale mediante la "nuova creazione"?

In una concezione magica di Dio, egli sarebbe in grado di fare "il pio" e non "il meno": potrebbe far emergere l'essere dal nulla ma non dotarlo originariamente di forza evolutiva, trasformatrice, orientata alla pienezza. L’evoluzione verso stadi superiori non è un accidente aggiunto bensì e inerente al concetto di essere limitati) ma perfettibile. Tanto l'evoluzione ascendente delle specie quanto la capacità innata delle coscienze di rigenerarsi moralmente, di "convertirsi", di dire liberamente sì laddove prima si diceva no. È la capacità naturale di discernimento e di decisione che costituisce la persona come coscienza intelligente e libera. Il peccato è inerente all'essere limitato o deficiente ("necessarium est quod deficiens quandoque deficiat", quello che può sbagliate, sbaglia sempre qualche volta). E non rappresenta nessuna cesura irreparabile che avvenga alla coscienza e la renda incapace di riabilitarsi (come pretende la sua teorizzazione come “offesa infinita" a Dio).

IV - Non è deismo

A forza di difendere l'autonomia della creazione in tutti i suoi ambiti, lasciamo spazio a chi ci accusa di deismo. Il deismo è la cosmovisione di una creazione orfana di fronte ad un dio ozioso e annoiato. Perché, se "non interviene", come può occuparsi provvidenzialmente del mondo, che è quello che lui fa? Sbagliamo, credo, se non ci basta che Dio sia il fondamento ontologico e abbiamo bisogno di duplicarlo in un fare provvidenziale. Perché, se Dio non agisce, in cosa occupa la sua solitudine? O, perlomeno, come vetta in nostro aiuto? Come ci salverà?

Non sono deista, neanche lontanamente. Come ho detto, mi oriento a credere che il Dio di Gesù sia l'essenzialmente presente, tanto vicino che non lo si può concepire senza il suo essere visceralmente creatore, diffusivum sui abaeternum et in aeternum. È "attività" trascendente, "Atto puro”.

È necessario riconoscere che la metafisica su Dio è asciutta e austera, e mal si concilia con l'immaginazione spazio-temporale, con similitudini e metafore. Queste rispondono, tuttavia, al mondo in cui siamo immersi, a quello che entra in noi attraverso i sensi, al calore del cuore. Per questo preferisco la mistica, perché la mistica è metafisice con il cuore (profondità e tenerezza).

Il nostro Dio è il contrario dell'orologiaio che si disinteressa del suo orologio. Il rifiuto di ogni interventismo divino non è il rifiuto della sua Presenza, Vicinanza e Amore. L’essere creatura si definisce come essere-a partire da-Dio, cioè essere-a partire dall'amore, ciascuno al proprio livello, in modo che, se non lo fosse, tornerebbe al nulla, smetterebbe di esistere. Stiamo parlando di una Presenza Fondante della realtà e quanto più realtà tanto più Fondante, fino ad arrivare, per quanto riguarda l'essere umano, a quello che diceva Agostino di Ippona: "Dio è più dentro in me della mia parte più profonda" o, nelle parole poetiche del Profeta Maometto, “più vicino della mia vena giugulare". Le immagini sorgerebbero a fiotti, per quanto tutte pervertano la Grande Realtà. Dio è la luce che inonda un prisma di puro cristallo, ad una profondità tale da conferirgli l'essere quello che è. Dio è la respirazione, l'alito, la "ruah" del cosmo. Dio è l'Uno del Molteplice, Pura Energia, Dea Madre eternamente pregna del Mondo... E, soprattutto, la metafisica della poesia mistica: "Passò per questi luoghi con sveltezza, e soltanto effondendo / lo sguardo con mitezza / Ti lasciò rivestiti di bellezza" (Giovanni della Croce, Cantico Spirituale, ndt). Più del Nirvana.

Tale e non altro è, a mio modo di intendere, il mistero dell'immanenza del Trascendente, quello di una creazione che è insieme umanizzazione, incarnazione e salvezza, in un'unica modalità di Presenza in differenti tappe dell'evoluzione cosmica e della maturazione della persona.

V - Una cosmovisione credente e laica

Detto ciò in maniera chiara perché nessuno si inganni, tenteremo di tracciare una cosmovisione semplice, umana, spirituale, valida per tutti, credenti e non credenti (i quali devono solo provvedere ad eliminare l'etichetta Dio con cui non sono conformi).

Lo ripeto di nuovo, tutto è Grazia, tutto è Dono, "chi ha Dio, nulla gli manca", “in lui, Dio, non in Gesù, ci muoviamo e siamo". Una volta affermato questo, nel pensiero e nel progetto di vita del credente (è l'unica fede che non sia magica), il resto della storia e della persona si costruisce "come se Dio non esistesse". Cosa o chi ci impedisce di stabilite che il cosmo, essere umano incluso, nella sua totalità evolutiva, emerge all'esistenza con una capacità "naturale" sufficiente per progredire verso la perfezione? Dio non ha bisogno di fare nient'altro, si è dato interamente e lì rimane alla radice di ogni realtà perché questa raggiunga il suo massimo sviluppo. È lì come massimo Presente, per quanto la coscienza umana possa non percepirlo. Tutto si svilupperà come se Dio non esistesse, per quanto lunga sia, nell'evoluzione della coscienza primitiva (la nostra attuale), la tappa magica in cui l'immaginario collettivo si fabbrica un Dio antropomorfo. Un Dio interattivo che viene inteso come un personaggio familiare, quasi domestico, per quanto di molto superiore, che muove dietro le quinte i fili della storia. Penso che sia un deficit dell'Occidente cristiano (non gesuanico). Dico questo perché probabilmente l'Oriente ha un pensiero e un comportamento più raffinati. Abbiamo supposto che qualcuna delle sue religioni o non avesse Dio o fosse panteista, semplicemente perché si trattava di una spiritualità più evoluta che intendeva il mondo e si sviluppava nella vita "come se Dio non esistesse”.

Noi invece, abbiamo addomesticato Dio molto presto, ce 1o siamo fatto propizio scaricando su di lui la nostra responsabilità e caricandolo della gestione degli avvenimenti. Abbiamo parlato incessantemente di Dio come se nulla ci si nascondesse del suo essere, abbiamo pronunciato il nome di Dio invano, lo abbiamo utilizzato come condimento di tutte le vivande, siamo ricorsi a Lui, perché mi venga concessa una piazza, guarisca la mia mucca, piova sul mio campo, l'immaginetta (il mio amuleto) in macchina mi preservi dagli incidenti, i miei affari abbiano successo con una benedizione inaugurale ecc. Il "come se non esistesse" significa che la provvidenza di Dio non ci toglierà le castagne dal fuoco, perché non esiste provvidenza intesa come intervento di Dio. Dio non distribuirà giustizia né darà da mangiare al Terzo Mondo.

VI - Sviluppo della coscienza autonoma

Ignoriamo, salvo alcuni pochi punti fissi, quale sia stata la dell'essere umano e l'evoluzione della sua coscienza. Ma qualcosa conosciamo della breve storia - alcune poche migliaia di anni - dei nostri predecessori ebrei. E la conosciamo perché essi stessi hanno generato diverse tradizioni orali e scritte, la Bibbia, in cui ogni generazione consegnava il proprio vissuto religioso soggettivo, che magnificava e assolutizzava, facendone coautore lo stesso Dio. A partire da qui si è realizzata l'esegesi del testo, interpretazione di quello che la "Parola di Dio" stava dicendo (senza dubitare che avesse parlato). Esegesi che era appena l'analisi dell'evoluzione della coscienza soggettiva di un popolo. Sapendo a posteriori che, diversamente che in oriente, gli ebrei facevano intervenire costantemente Yahvé come personaggio qualificato della loro storia, sarebbe di grande importanza - ma tutt'altro che facile - isolare dalle credenze più propriamente religiose relative agli interventi divini tutto quanto bisognerebbe spiegare come socialmente, culturalmente, psicologicamente e antropologicamente umano. Sarebbe un po' come avvicinarsi alla storia dell'evoluzione della coscienza di quel popolo senza eguali. Non ci darebbero inquietudine le contraddizioni e le atrocità che ora ci appaiono nel considerare la Bibbia come "Parola di Dio". Dal momento che non so se qualcosa sia stato fatto su questa linea, mi limiterei a formulare un’ipotesi di lavoro a partire dall'esperienza, da dati antropologici e da una riflessione umana critica.

La mente dell'uomo primitivo è impregnata dalla convinzione della propria precarietà a causa delle malattie e della morte e della mancanza di difese di fronte alle forze della natura, il fulmine, il vulcano, il fuoco, il mare, il gelo, le inondazioni. Nel momento stesso in cui l'essere umano diventa cosciente della sua precarietà, avverte la necessità di qualche protezione e salvezza. Nel duplice sentimento di precarietà e ansia di salvezza alberga la sua convinzione di non essere solo, bensì circondato da forze che subito egli personalizza e divinizza. Ha inizio inevitabilmente il processo di fabbricazione di dei "a propria immagine e somiglianza". Un dio o alcuni dei le cui azioni magiche solo l'Illuminismo ci preparerà a scoprire come tali, indicandoci che le cose hanno una propria autonomia e si reggono per leggi proprie e che non è necessario un dio antropomorfo che interferisca nella storia come una causa che produce un effetto inatteso: scelgo questo popolo tra tutti, contraddico le isobare e faccio piovere a richiesta di alcuni credenti, faccio un miracolo perché il papa possa canonizzare questa buona persona (o non così buona) ecc.

Dopo quei tempi arcaici, il progresso umano è stato molto lento in ciò che è veramente sostanziale: le civiltà e le culture sì difendevano come potevano da credenze in base a cui non si poteva stare sicuri che qualche dio, proprio o alieno, non ne facesse una delle sue con la propria bacchetta magica. Fino al tempo assiale, decisivo come lo è stato quello del neolitico, dell'ampio processo del Rinascimento-Illuminismo, pare che l'umanità non riuscisse a raggiungere l'età adulta nel superamento del pensiero arcaico magico: vivere radicati nella Grande Realtà "come se dio non esistesse”.

Una volta che la Modernità ci permette una nuova cosmovisione, un nuovo paradigma, non è difficile concepire un essere umano che procede in solitudine precaria in questo mondo sapendo di non essere solo.

Il mito del “peccato originale" è quel racconto, esistente in un modo o in un altro in quasi tutte le cultore, con cui i gruppi umani tentano di spiegare e di formulare l'esistenza del Male: se Dio non può esserne l'origine (lo è sì nella misura in cui Dio non può "creare" un cosmo illimitato e perfetto), è stato qualche disordine morale dell'essere umano, qualche peccato a sconvolgere la realtà cosmica. È la funzione del mito: di fronte all'ignoto, esprimere e verbalizzare una causa che indichi una qualche spiegazione.

La realtà naturale, fisica o morale, è per sua propria natura limitata, rischiosa, precaria. Chi ci può assicurare che ciò si debba alla perdita di un qualche status anteriore perfetto? E, per la stessa logica, chi può segnalare i limiti del naturale? Contro tutti i pregiudizi della teologia vigente, Blondel osò prendere sul serio questa insaziabile insoddisfazione, questa autentica sete di Infinito del cuore umano e identificarla con l'Immanenza di ciò che chiamiamo "soprannaturale", Dio e la sua attrazione verso la Pienezza.

(Prendiamo fiato: sono molti i castelli dogmatici che traballano. Nonostante ciò, c’è una sensazione di liberazione e di pace che accompagna i credenti in questo processo di decostruzione).

La coscienza umana, in particolare, è perfettamente attrezzata per l'avventura esistenziale, per quanto sia limitata e precaria nelle sue origini biologiche. Ma possiamo star sicuri che ogni storia, individuale o collettiva, si sia costruita senza preferenza o scelta alcuna da parte della divinità. Dalla massima precarietà fino alla pienezza, perché è legge di vita.

Neppure c'è posto per alcuna chiamata divina ad uno stato di vita concreto. Non c'è alcuna scelta legittima a scapito dell'uguaglianza o dei canali democratici nella designazione a qualche carica. Nessun battesimo genera un qualche cambiamento nell'anima. Nessun sacramento produce alcun effetto estraneo al potere della sua simbologia. Nessuna persona supera un'altra per indicazioni soprannaturali, ma solo per qualità o formazione naturali...

Questo tema di somma importanza non si esaurisce qui. Ma credo che quanto detto, per quanto provocatorio e scandaloso, sia sufficiente a sospettare da dove possano soffiare venti nuovi. In realtà sarebbe un beneficio per i teologi, nonostante qualcuno possa credere di perdere lavoro e identità. Per quanto mi riguarda personalmente, ho l'impressione di restare senza compiti propriamente teologici. Al tempo stesso mi si apre davanti un campo immenso di studio e di contemplazione: l'ingente figura di Gesù il Nazareno, apparendomi insipida la teologia (presunzione e orgoglio, senza dubbio!), inizia nel mio spirito a crescere come non avrei mai potuto immaginare nel corso delle ripetute letture dei testi evangelici. Amico credente o non credente... aude sapere!

(da Adista, n. 76, 3.11.2007, pp. 2-5)

Spiritualità per un lavoro di pace

di Richard Friedli




Il discorso sulla Spiritualità della Pace è piuttosto insolito quando si parla di ricerca di pace? Di solito in questa ricerca sono presenti tutte le discipline scientifiche, ma non la teologia o la scienza religiosa. Sono considerate solitamente la sociologia, l'economia, la storia, la scienza militare, la biologia persino (per il problema del razzismo), la geografia e la demografia, ma non la teologia. Anche i temi studiati sono numerosi: teorie dei conflitti, disarmo controllato, diplomazia, le forze di sicurezza dell'O.N.U., l'antisemitismo, ecc., ma non si ricorre mai alla spiritualità come ad un fattore positivo di ricerca per questi problemi. Anzi si parla spesso delle religioni come fattori di disunione, di intolleranza, di proselitismo, di propaganda. E noi invece vogliamo essere con la spiritualità uno dei fattori positivi nella ricerca della pace.

La mia riflessione si articolerà in quattro parti: la missione della chiesa, lo shalom, la strategia per arrivare allo shalom, la meditazione.

La missione della Chiesa

Occorre approfondire questo termine per intenderci. Nel vocabolario spirituale e teologico questo termine è comparso molto tardi, solo nel XVI-XVII sec., al momento della colonizzazione, quando l'evangelizzazione ha accompagnato l'esportazione della civiltà occidentale. Queste spedizioni verso altri continenti, soprattutto verso l'America Latina, ad opera delle comunità carmelitane e gesuitiche della Spagna si sono iniziate a chiamare «missioni». Prima questo termine era utilizzato nella Scolastica quando si trattava di cercare di formulare ciò che noi vedremo nella meditazione e nella preghiera come «Mistero di Dio»; quando si è cercato di afferrare la pienezza, la densità del mistero divino si è cercato di farlo ricorrendo al vocabolario trinitario, Padre, Figlio e Spirito, e quando i teologi cercavano di parlarne, di tradurre questo vocabolario biblico, si è parlato di missionari. Giovanni ci parla della Missione di Cristo: «come il Padre mi ha mandato, così io mando voi». «Come il Padre mi ha amato, così io amo voi. Siate perfetti come il Padre è perfetto». Sempre nel Vangelo di Giovanni c'è questo equilibrio. Gesù stesso ha presentato la sua missione durante la sua prima manifestazione in pubblico, secondo Luca nella sinagoga di Cafarnao, a partire dal testo di Isaia: «Lo spirito di Dio è su di me perché mi ha consacrato con l'unzione, egli mi ha inviato (ecco la missione) per proclamare un anno di grazia del Signore».

Ciò che mi sembra importante è che quando Gesù descrive la sua missione non si riferisce a delle realtà religiose, ma a delle realtà profane, si riferisce ai poveri che devono ricevere il messaggio, cioè alla dimensione economica del mondo, perché presso Giovanni e Luca la povertà non è un termine soprattutto spirituale, è un termine economico molto concreto. Quando Gesù parla della liberazione dei prigionieri si riferisce ad una realtà politica, quando parla dei ciechi che devono riacquistare la vista, si riferisce ad una realtà somatica e parla anche della dimensione teologica, religiosa teologale quando parla di questo giorno del Signore. Dunque quando Gesù definisce la sua missione lo fa in contrasto con una realtà, e gli parla dell'assenza di vita piena nella dimensione economica, politica, psicologica e corporale, e annuncia la salvezza.

Lo 'shalom' dono e impegno

Il senso della sua missione è di inserire nel mondo lo shalom, a tutti i livelli, di far sì che lo shalom si ingrandisca in tutte queste dimensioni. Questa deve essere anche la missione della chiesa, la quale deve adoprarsi, ricorrendo a tutto ciò che le scienze umane possono darci, per evolvere le situazioni reali verso ciò che essa vede come vita pienamente sviluppata, come shalom. La chiesa si trova così in una situazione eccentrica.

Il centro della chiesa è il Mistero di Dio, approfondito come condivisione del suo amore per uomini, ma anche teso verso la situazione del mondo, dove lo shalom non è ancora arrivato. Il suo centro è o in Dio o nel mondo. Non può organizzarsi come se essa stessa fosse il centro; essa deve ingrandire lo shalom. Lo shalom è un'esperienza contrastata e contrastante, non ha un contenuto reale, è una speranza (qui interviene la dimensione profetica, escazologica). Questo termine capta ciò che noi speriamo si realizzi in questa dimensione economica, politica, psicologica e somatica; nella sua etimologia vuol dire «essere in pienezza», perciò non è un termine che entri immediatamente in contrasto con la guerra, non va riferito immediatamente a due grupPi opposti. Nella tradizione biblica shalom è anzitutto riferito a una comunità unica che si è divisa e quando questa comunità ritrova l'armonia, ecco lo shalom ingrandisce. La tematica della guerra come opposta a shalom è assai poco presente nell'Antico Testamento. L'opposto di shalom è l'assenza totale di vita piena, è l'angoscia, la paura, l'ingiustizia, la mancanza di libertà.

Tra queste assenze di shalom vi è pure la guerra, ma come una cosa fra tutte quelle che minacciano la comunità. Questo termine, shalom, dunque è molto più ricco di significati che non come opposto di guerra. Per es. vi è shalom quando dopo una lunga siccità arriva la pioggia, quando gli emarginati (che nell'A.T. sono l'orfano, la vedova e lo straniero) possono contare su un giusto diritto, quando in un gruppo diviso si ritrova la fiducia reciproca.

L'opposto a shalom non è guerra ma violenza. Spesso si discute su che cosa si intende per pace. Io intendo un processo, un'evoluzione, uno sviluppo che avviene all'interno dei gruppi, dalle famiglie fino ai problemi internazionali, ovunque e è ricorso o minaccia di ricorso alla violenza. Violenza è qualsiasi influenza che fa sì che lo sviluppo sociale, politico, psicologico, ecc. sia inferiore a quello che sarebbe possibile. Se una persona o una comunità possono svilupparsi di meno di quanto sarebbe possibile, allora vi è violenza. Facciamo un esempio: un'epidemia o una carestia che nel XVII sec. abbia provocato migliaia di morti non può essere considerata violenza, perché a quell'epoca mancavano i mezzi di informazione e di trasporto che avrebbero permesso di intervenire. Oggi invece situazioni simili sono violente, perché è possibile attualmente sia per i mezzi d'informazione che di trasporto conoscere le situazioni e garantire a tutti gli esseri un pieno sviluppo. Dunque oggi dobbiamo parlare di situazioni di violenza o, come dice spesso il Papa in riferimento all'America Latina, di strutture di peccato.

C'è dunque un legame anche di vocabolario tra la ricerca della pace e la analisi teologica del peccato; il problema della violenza non è solo un problema di persone ma è sovente un problema di strutture che impediscono lo sviluppo. Lo shalom non è soltanto la pace dell'anima e quindi se vogliamo realizzarlo non possiamo farlo unicamente con la liturgia, con invocazioni, con la penitenza, ma dobbiamo intervenire per abbattere le strutture che impediscono lo shalom.

Le strategie per costruire lo shalom

Noi dobbiamo lavorare a diminuire tutte le situazioni di aggressività e di conflitto. Ma a questo proposito voglio considerare i risultati di un'inchiesta molto significativa, che è stata fatta in Canadà, in U.S.A. e in Germania tra gli anni '60 e '70. Le domande erano di questo tipo: Siete a favore del disarmo? Cosa pensate della pena di morte? Siete disposti a contribuire alla guerra in Vietnam? Accettereste un'imposta come cittadino del mondo? Ritenete il patriottismo come la più grande virtù? L'appartenere all'estrema destra o alla estrema sinistra sono per voi elementi di divisione? Parallelamente si è chiesto a queste persone di fare un'autovalutazione su una scala che aveva come gradi: molto religioso, praticante, poco praticante, fino ad ateo e agnostico, con una dozzina di possibilità. Poi si sono confrontate le risposte. Ebbene, i risultati mostrano una contraddizione flagrante con il messaggio d'amore e di pace del cristianesimo: i cristiani sono più favorevoli alla guerra dei non cristiani, i cristiani che si dichiarano molto fedeli alla loro religione sono molto più pronti a punire che non coloro che si dichiarano poco attaccati alla dottrina; i cattolici si augurano le armi più dei protestanti ed i protestanti più degli atei. In tutti i gruppi analizzati i praticanti hanno dimostrato una tendenza nettamente più forte ad accettare la potenza militare come mezzo di risoluzione dei conflitti che i non praticanti. Coloro che professano una visione religiosa del mondo sono meno interessati a una comunità mondiale che coloro che si dichiarano poco religiosi.

Dunque noi dobbiamo lavorare prima di proclamare delle strategie positive per la pace, per diminuire nella nostra stessa comunità tutto questo legame di aggressività e di severità a partire dalla famiglia fino ai problemi internazionali.

In un modo più positivo, facciamo ora un'analisi della prima comunità cristiana, di come essa ha risolto i conflitti presenti al suo interno. Il conflitto non è qualcosa di non cristiano; la maniera di risolverli è più o meno nel dinamismo del Vangelo. Ecco un commento alla prima lettera ai Corinti in cui si vede come Paolo abbia accettato e risolto i conflitti di questa grossa comunità. Nella comunità di Corinto esistevano tre strati, sotto il profilo sociologico. Un primo gruppo era di cittadini liberi, colonizzatori romani, dunque dominatori. Conosciamo molte di queste persone: Tito Giusto, presso il quale Paolo ha abitato, Caio, Crispo, che presiedeva la sinagoga, Erasto, che è nella lista dei saluti, e che è presentato come l'economo della città (oggi potremo dire che era il direttore delle costruzioni della città). Erano dunque persone molto importanti e ricche che offrivano la loro casa per accogliere tutti i cristiani e celebrare l'eucarestia. Il secondo gruppo era costituito dagli schiavi, in genere prigionieri, stranieri. Ciò che è molto interessante è che pare sia stata una donna ad organizzare questi schiavi, CIoè. E lei che informa Paolo che ci sono dei conflitti tra di loro. Il terzo gruppo è ancora di schiavi, ma schiavi istruiti, che lavorano come segretari, burocrati ecc. e collaboravano dunque nelle strutture della città.

In questo contesto si sono sviluppati quattro tipi di conflitti: primo, un conflitto politico, tra cittadini liberi e schiavi ed è interessante vedere come Paolo si comporta a questo proposito, perché lui scrive sempre in una posizione eccentrica della chiesa, tenendo il mondo all'ordine del giorno. In quella situazione particolare c'era un problema di orari, da questa questione pratica parte poi l'insegnamento di Paolo circa l'eucaristia. Infatti i liberi smettevano prima il loro lavoro e cominciavano a bere e a mangiare; quando arrivavano gli schiavi, più tardi, perché il loro lavoro durava di più, dicevano che non c'era più nulla da mangiare e da bere. Ora Paolo dimostra che questa situazione distrugge il senso stesso dell'eucarestia, perché anche se la sua celebrazione è ortodossa, come svolgimento diventa eretica, perché segno di divisione anziché d'amore e di riconciliazione.

Il secondo conflitto a livello sociale è quello a proposito del ruolo dell'uomo e della donna nella chiesa. Le donne insistevano dicendo che se nella vita pubblica ci sono dei ruoli differenti, delle distribuzioni diverse di lavoro tra uomo e donna, nella comunità questa divisione non deve più esistere, a causa della liberazione che Cristo ha portato. In parecchi testi Paolo dice: tra di voi non ci sono più dei maestri e degli schiavi, non vi sono più uomini e donne, a causa della croce che Gesù ha gettato sull'abisso che divideva la gente.

Il terzo conflitto è un conflitto culturale tra i cittadini liberi e gli schiavi analfabeti dall'altra. Ciò si manifestava in occasione dello sviluppo della liturgia, perché gli analfabeti hanno tutto un modo particolare di esprimere i loro sentimenti diverso da chi è legato da una cultura libresca. Ed è proprio tra i non colti che nascono le manifestazioni carismatiche, i trance, i trasporti, la glossolalia, tutte le manifestazioni diverse da quelle di chi ha una formazione intellettuale formata sui libri. ~ un problema culturale che è ancora il nostro.

Il quarto conflitto era teologico e nasceva dalla questione della carne sacrificata agli idoli (1Cor 8). La carne che veniva offerta dai pagani nei templi veniva poi venduta nelle adiacenze dei templi a prezzo meno caro che l'altra carne in città. Allora alcuni cristiani dicevano: Perché non comprarla, dato che costa meno? Noi sappiamo che il solo liberatore è Cristo, gli dei non esistono e questa carne è come le altre, non dobbiamo temere la sua magia. Altri cristiani dicevano: No, non possiamo comprarla perché questa carne è in rapporto con forze demoniache e pagane. Qui Paolo fa intervenire il principio che «aver ragione non è un criterio». Egli dice: anche se teologicamente ho ragione, poiché Cristo è il solo salvatore, se il mio comportamento diviene pietra d'inciampo, scandalo per qualcuno, allora io rinuncio ad avere ragione per non farne un problema per questo fratello o sorella per cui Cristo è morto.

In questo contesto egli ha introdotto, nel cap. 12, il modello del corpo di Cristo, che non è il corpo mistico di Cristo, ma ha un profilo sociologico molto preciso; a Corinto sono questi tre gruppi ed egli cerca di dire che il criterio è quello di costruire questo corpo, ossia di formare una comunità che è in definitiva una comunità di comunità, che deve essere una comunità cristiana eucaristica e credibile. Il criterio è perciò costruttivo. Bisognerebbe far intervenire tutte le nostre tecniche per disinnescare i pregiudizi, le situazioni di classe, le tensioni e qui devono intervenire la antropologia, la sociologia, la psicologia. Ma noi abbiamo la prospettiva, la linea di come lavorare. Quando vi sono delle situazioni in cui, in queste situazioni conflittuali, la speranza già progredisce, noi dobbiamo riconoscerlo e proclamarlo. La dimensione profetica non è solo il denunciare i conflitti, ma far vedere ciò che già progredisce nelle nostre comunità in modo positivo e proclamano. Avete già sentito parlare dell'iniziativa che la Conferenza delle Religioni per la pace ha lanciato verso l'Europa e che è giustamente un tentativo di rafforzare ciò che nei conflitti progredisce positivamente in Europa, così come Amnesty International tutta presa dei diritti dell'uomo denuncia negativamente e parallelamente ciò che contrasta lo shalom.

La meditazione strumento di pace

La meditazione è il quarto punto di riflessione. Oltre alle tecniche che possono diminuire i conflitti e le paure, un altro contributo ci può venire dalla meditazione. Sempre nella 1 Co. 13, Paolo in questa serie di conflitti fa appello al principio di carità, ma io desidero utilizzare qui il termine greco di agape nel suo significato preciso. In ebraico esiste un solo termine per designare l'amore, l'amicizia, il superamento dell'egoismo, in greco invece esistono tre parole, tra cui potevano scegliere gli evangelisti: eros, filia, agape. Il termine eros esprime tutta la dimensione che cerca la soddisfazione personale emotiva e affettuosa del mio corpo e della mia psiche, per mezzo di un partner. Nel N. T. non esiste questo termine eros. La filia indica la simpatia spontanea verso un'altra persona. Questo termine compare spesso nel N.T.: Gesù aveva molti amici e amiche, Marta, Maria, Lazzaro, Giovanni, Pietro. Il termine agape viene usato per indicare l'amore verso il nemico, una relazione di apertura e di responsabilità con l'altro, anche se io non lo posso sopportare, se è socialmente il mio avversario.

Noi dobbiamo trovare una tecnica per sorpassare la dimensione erotica e quella della simpatia e arrivare, in una situazione conflittuale, al livello in cui io posso di nuovo rinnovare i rapporti positivi con qualcuno. Se io sono una persona o un gruppo in una situazione conflittuale con un'altra persona o gruppo e se vogliamo condurre questa lotta in un modo leale, rifiutando il ruolo che egli gioca, allora la meditazione potrebbe essere una tecnica che mi farà arrivare a questo livello dell'agape dove i due si sperimentano come l'amata per Dio, anche se a livello psicologico o sociologico essi sono nemici, dove io arrivo a percepire la profondità della presenza di Dio nel nemico e in me. A partire da questa esperienza io potrò lavorare di nuovo a livello dei conflitti, non per negare i conflitti o rifiutarli semplicemente, dicendo: siamo sempre degli amici, ma lottando ancora.

Voglio rapidamente accennare a due teorie sull'aggressività. Una prima stabilisce il meccanismo che assimila l'aggressività a partire dall'insieme dei bisogni affettivi, sociali, fisici, che a causa di un'influenza diretta o di una struttura violenta non possono ricevere una risposta. Si può parlare allora di una frustrazione che diventerà aggressività contro se stessi (droga, alcool, suicidio) o aggressività verso altri. In una tale teoria, se io arrivo a diminuire la frustrazione diminuisco il rischio dell'aggressività e la meditazione sarebbe, appunto, un mezzo per diminuire i miei bisogni affettivi, fisici, corporali, psicologici; io divento più maturo e non ho il bisogno del conforto altrui. Ecco qui tutte le tecniche del digiuno, dell'ascesi, del pellegrinaggio, delle veglie, ecc.

La seconda teoria (nella linea di Freud e di Fromm) intende l'aggressività come una delle forze istintive, scritte al fondo di tutti i dinamismi. Se è così, io posso lavorare per non essere abbandonato passivamente a tutte le spinte dell'istinto; la meditazione mi permette di inserire una distanza tra questa spinta all'aggressività e l'atto aggressivo che io eseguo. La meditazione mi renderà lucido su ciò che mi capita e allora io posso diminuire questa tendenza verso l'aggressività. S. Paolo nella lettera ai Romani parla della dialettica fra ciò che voglio fare e ciò che non faccio, fra ciò che non voglio fare e ciò che faccio lo stesso. Le tecniche dello Yoga e dello Zen sono delle tecniche che giustamente vogliono avere una presa su queste possibilità intellettuali che sfuggono al nostro controllo e mi alienano. La meditazione ci aiuterà in questo.

In tutti i paesi di immigrazione si impone la necessità di sondare nuovi codici di comunicazione idonei a costruire una nuova rete di relazioni sociali.

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