I Dossier

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

di Mons. Remi Teissier, arcivescovo di Algeri

La promessa è di Dio e certamente si realizzerà; ma è pure attesa di ogni cuore umano e come tale essa è compito ineludibile di ciascuno.

“Non ci sarà più lutto, né lamento, né affanno» (Ap 21,4). È una promessa di Dio.

Ma è anche un'attesa del cuore. Specialmente in questi tempi dove i disordini della globalizzazione e le ingiustizie in Medio Oriente pesano su ciascuno di noi .

Salvezza in Cristo e vita cristiana

di Pietro Rossano


L’EVENTO CRISTIANO


I discepoli di Gesù

12. Mentre viveva in singolare intimità di preghiera e di colloquio con Dio suo Padre, Gesù manifestò sempre una profonda solidarietà verso gli uomini. Ebbe rapporti di benevolenza e di salvezza con tutti, uomini e donne, giusti e peccatori, poveri e ricchi, connazionali e stranieri; se dimostrò preferenze, queste furono per i sofferenti, i disperati, gli umili. Ebbe per la persona umana un rispetto quale nessuno mai prima aveva manifestato; una grande e sana libertà regnò sempre attorno a lui.

13. La folla si assiepava sui suoi passi e lo seguiva nel suo cammino, ma fin dall’inizio egli si volle circondare di discepoli e collaboratori particolari. Come riferiscono i Vangeli, dopo aver pregato il Padre, egli chiamò a sé quelli che voleva, e ne costituì Dodici perché stessero con lui e per mandarli a predicare il suo messaggio. Per questo diede loro il nome di Apostoli, che significa « inviati ». Ad essi comunicò particolarmente il suo messaggio, la sua missione e i suoi poteri; li vediamo quindi, già vivente Gesù, predicare nei villaggi e nelle località della Palestina. Nel gruppo degli Apostoli dedicò particolare attenzione a Pietro, al quale affidò la direzione e la custodia di tutti quelli che avrebbero creduto in lui, dicendo: « Conferma i tuoi fratelli ».

14. A Pietro e ai Dodici promise una particolare assistenza dello Spirito Santo per illuminarli e dirigerli nella verità, al fine di trasmettere e interpretare fedelmente il suo messaggio a tutte le genti. Essi saranno i depositari e i responsabili sulla terra dell’opera della salvezza da lui inaugurata. A tal fine diede loro il potere di compiere efficacemente atti significativi, come il battesimo, il perdono dei peccati e la celebrazione del mistero della salvezza, (1) sul modello di ciò che egli aveva fatto alla vigilia del suo arresto, quando, nel corso dell’ ultima cena con i Dodici, benedisse il pane e il calice del vino dicendo: «Questo è il mio corpo che viene dato per voi... Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue che viene sparso per voi: fate questo in memoria di me»,

15. Prima di lasciare la terra, dopo la risurrezione, promise agli Apostoli lo Spirito Santo che avrebbero ricevuto tra breve per essere suoi araldi e testimoni su tutta la terra; poi conferì loro questo mandato fondamentale: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra; andate dunque e ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto quello che vi ho ordinato: ed ecco io sono con voi fino alla fine del mondo». Ed in segno di autorità davanti agli uomini diede loro il potere di operare miracoli in nome di Dio, come realmente avvenne.

16. Gli Apostoli iniziarono la loro missione il giorno stesso in cui ricevettero lo Spirito Santo, nella festa ebraica della Pentecoste, 50 giorni dopo la risurrezione di Gesù, e pochi giorni dopo la sua dipartita dalla terra. Pietro, i Dodici e i loro primi collaboratori presero ad annunziare e testimoniare pubblicamente, con franchezza, la «buona novella» della salvezza offerta da Dio in Gesù Cristo. «Sappiate tutti con certezza, proclamava san Pietro, che Dio ha costituito Signore e salvatore quel Gesù che voi avete messo in croce». «Fungiamo da ambasciatori per Cristo» scriveva l’apostolo Paolo, «e Dio esorta per bocca nostra; vi invitiamo dunque in nome di Cristo: riconciliatevi con Dio». E l’apostolo san Giovanni: « Quello che è avvenuto, che abbiamo ascoltato, che abbiamo visto con i nostri occhi, che abbiamo contemplato, e che le nostre mani hanno toccato.., lo annunciamo a voi, affinché anche voi abbiate comunione con noi, e la nostra comunione sia con Dio Padre e con il Figlio suo Gesù.. affinché la vostra gioia sia piena ».

17. Coloro che accettavano la testimonianza degli Apostoli, ricevevano il battesimo e formavano il primo nucleo della «Chiesa» di Dio, termine greco che significa « assemblea», «convocazione», Le testimonianze storiche rivelano chiaramente che la Chiesa primitiva radunava persone provenienti dall’Asia, dall’Africa e dall’Europa. Un documento contemporaneo descrive la Chiesa della prima ora così: «Erano perseveranti nell’ insegnamento degli Apostoli e nell’unione, nello spezzamento del pane (eucaristia) (2) e nelle preghiere…. prendendo il cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo. E il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che venivano alla salvezza».

1) Sul battesimo, il perdono dei peccati e la celebrazione dell’eucaristia vedi i nn. 21 e 22 del c. « La vita cristiana » e il n. 31 del c. « La sapienza cristiana».

2) L’eucaristia è la ripetizione del gesto compiuto da Gesù nella sua ultima cena; sulla natura e significato di essa vedasi il n. 22 e il n. 37 del c. «La vita cristiana» e il n. 31 del c.«sapienza cristiana»

Lo Spirito Santo nel libro degli Atti

di Mauro Làconi



Preannunciato già nell' Antico Testamento per i tempi messianici, come lo stesso libro degli Atti sottolinea fin dal principio (2,17-21), il discorso sullo Spirito di Dio permea, caratterizzandolo, tutto il Nuovo Testamento. In un certo senso tende ad esprimerne l'incomparabile novità: mediante il suo Spirito, Dio interviene nella vicenda umana per farne una storia del tutto nuova. Accentuato in modo particolare negli scritti di Paolo, soprattutto nel contesto della «giustificazione per grazia», si trova sottolineato nei Vangeli fin dall'inizio come per comunicare subito il senso del «divino» presente con Gesù (Mc 1,10; Mt 1,20 e Lc 1,15 e 35; Gv 1,32-34); ma nessun autore vi ritorna su con l'intensità di Luca, particolarmente - senza possibilità di confronti - nel suo «secondo volume»: il libro degli Atti degli apostoli. Il lettore attento ne coglie presto il motivo: mediante la presenza attiva dello Spirito nella Chiesa continua l'opera di Gesù. (1)

1. Il discorso sullo Spirito in Luca: dal Vangelo agli Atti

Nel Vangelo di Luca il discorso sullo Spirito inizia e conclude tutto (Lc 1,35-24,49), e nel corso del racconto compare con frequenza senza dubbio maggiore che negli altri vangeli (per es. Lc 4,18; 10,21; 11,11; ecc.). Ma è soprattutto nel libro degli Atti che ritorna con eccezionale frequenza. Ed è proprio Luca che ha reso abituale nel Nuovo Testamento l'espressione completa «Spirito Santo» destinata in seguito a diventare classica; molto più frequentemente che lo stesso Paolo. Mentre negli altri vangeli, Giovanni compreso, è assai più rara. Praticamente fino al c. 21 Luca menziona lo Spirito - presenza personale e operante nella Chiesa - praticamente in tutti i capitoli. Le eccezioni sono rare. In almeno una decina di essi poi con un rilievo particolare. Per esser più precisi: l) nella prima grande sezione dell'opera (cc. 1-12: la chiesa di Gerusalemme) il tema sullo Spirito raggiunge l'apice; 2) nella seconda (cc. 13-21: attività missionaria di Paolo) rimane insistente, seppure con qualche flessione; 3) nella terza (cc. 22-28: Paolo il prigioniero) misteriosamente - fatto raramente sottolineato - questo tema straordinariamente tipico del libro, scompare quasi del tutto.

A parte questo ultimo fatto di difficile spiegazione, tutto questo dimostra chiaramente che Luca segue il tema dello Spirito verso la Chiesa per se stessa, quasi a volerla definire (e non tanto verso il singolo credente); particolarmente orientandolo verso la Chiesa delle origini (cc. 1-12), fatto storico «di vino» che solo lo Spirito può spiegare; specificamente poi verso la Chiesa missionaria, che Paolo autorevolmente riesce a rappresentare (cc. 13-21).

Questa la visione globale, che ora conviene esaminare maggiormente nel dettaglio.

2. Impostazione cristologica del discorso sullo Spirito

È caratteristica costante del Nuovo Testamento, e specificamente dei Vangeli, la dimensione cristologica in cui si muove la teologia dello Spirito, Luca non fa eccezione; anzi accentua questo aspetto all'inizio del vangelo (Lc 4,1.14.18). Nel libro parallelo degli Atti la cristologia fluisce nell'ecclesialità: come Gesù, anche la Chiesa dà inizio alla sua storia e alla sua attività mossa dallo Spirito Santo, proprio come Gesù stesso aveva predetto (At 1,8). E non si tratta solo di una promessa, ma di un suo «dono» personale - sia pure in stretto rapporto «trinitario» -, affinché la continuità «cristologia» - «ecclesiologia» anche in questo risulti perfetta: «Dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso» sulla Chiesa (At 2,33). E così risulta perfetta anche la continuità storico-letteraria fra i due volumi di Luca: il Vangelo (storia di Gesù) e gli Atti (storia della Chiesa).

Da questo momento l'azione dello Spirito continua inarrestabile, ma sempre in ordine a Gesù. Sarà proprio lo Spirito a mandare Pietro a Cesarea per evangelizzare i primi pagani (10,19; 11,12), ma per annunciare loro Gesù (10,3743). Lo stesso era avvenuto per Filippo (8,29-35) e avverrà per Paolo (13,2.4.23). Con perfetta logica Luca aveva già presentato lo Spirito, nella Chiesa, come «il testimone di Gesù». Impressionanti, e persino audaci a questo riguardo, le parole di Pietro davanti al Sinedrio: «Di questi fatti [riguardanti appunto Gesù] siamo testimoni noi e lo Spirito Santo!» (5,32). Espressione sorprendente, e tuttavia perfettamente in quadro, che troverà un parallelo molto più tardi nel Quarto vangelo (Gv 15,26). Luca distingue senza equivoci Gesù e lo Spirito, ma nello stesso tempo comunica al lettore il senso di una profonda unità; addirittura a un certo punto arriverà - per l'unica volta! - a definire lo Spirito Santo come «lo Spirito di Gesù!» (16,7). Espressione che potrebbe suonare addirittura sconcertante; e tuttavia senza equivoci se letta nel contesto di Luca. Troverà persino un parallelo - anche qui una sola volta! - in Paolo (Fil 1,19)!

Su questo argomento, che evidentemente sta molto a cuore a Luca - tensione cristologica nel suo discorso sullo Spirito -, si è voluto persino scoprire un netto parallelismo letterario all'inizio dei due volumi lucani:

- Vangelo (storia di Gesù): Gesù riceve lo Spirito (Lc 3,22)e pronuncia il suo discorso inaugurale a Nazaret (Le 4,16-27);

- Atti (storia della Chiesa): la Chiesa riceve lo Spirito (At 2,1-4)e Pietro pronuncia il discorso inaugurale cristiano a Gerusalemme (At 2, 14ss).

Una buona conferma: la Chiesa continua - nello Spirito - l'opera di Gesù.

3. La Pentecoste e la dimensione «divina» della storia

All'inizio del suo discorso di Pentecoste, per spiegarne il senso e parlare della discesa dello Spirito, Pietro si rifà al profeta Gioele (Gl 3,1-5); senonché le prime parole della citazione profetica non sono affatto del profeta biblico, ma personali di Pietro, comunque riferite da Luca, e cioè «cristiane»: «Negli ultimi giorni, dice il Signore ... » (At 2,17). Per l'apostolo dunque, e per l'evangelista, con la discesa dello Spirito ha inizio l'era finale e propriamente «divina» della storia. Certo non ancora «il giorno del Signore, giorno grande e splendido» (queste sono parole del profeta: At 2,20), cioè la fine risolutiva di tutto, che anche per Luca rimane lontana e misteriosa; ma in qualche modo il suo inizio, perché, inviando lo Spirito, e quindi con l'annuncio del mistero di Gesù, Dio è entrato da «Signore» nella storia degli uomini, conferendole un significato e una portata completamente nuova. In qualche modo, iniziale e non ancora definitivo, ma tuttavia autentico e operante nella vita di ognuno, l'atteso Regno di Dio si è reso già attuale e presente. È la tesi evangelica di Luca formulata nel suo vangelo con le parole stesse di Gesù: «Il Regno di Dio è in mezzo a voi» (Lc 17,21), che finalmente trova nella Pentecoste la sua autentica interpretazione. Questo dinamismo messo in atto dallo Spirito nella diffusione del Vangelo e nel diffondersi della Chiesa - un fatto per lui autenticamente divino e non puramente umano - trasforma la vicenda umana rendendola «storia della salvezza», anticipo del Regno e della salvezza. Nello stesso senso già Paolo aveva parlato delle «primizie dello Spirito» (Rm 8,23) o anche della «caparra dello Spirito» (2 Cor 1,22; 5,5; e anche Ef 1,13); come anche Giovanni, sia pure senza parlare direttamente dello Spirito, vedrà nel credente in Gesù «la vita eterna» - cioè «divina» - già presente e in atto («Chi crede nel Figlio ha la vita eterna»: Gv 3,36). È caratteristica di tutto il Nuovo Testamento una certa propensione a sentire il fatto della salvezza «futura» già in qualche modo anticipata nella vita «presente» di chi crede nel Cristo Risorto. Il merito di Luca, e anche di Paolo, è quello di aver identificato concretamente questo misterioso anticipo del futuro nella vitalità dello Spirito di Dio all'opera nella missionarietà evangelica.

4. la Pentecoste si rinnova continuamente nella Chiesa

Le fasi di questo sviluppo «pentecostale» vengono marcate minuziosamente. Poco dopo il racconto della Grande Pentecoste (c. 2), inizio decisivo della storia di Dio fra gli uomini, Luca ci fa assistere a una «seconda» (detta anche «piccola») Pentecoste (4,31), come sempre nel clima della preghiera comunitaria (4,24-30: la più antica preghiera ecclesiale che possediamo) e sempre anche se più modestamente, in clima di sconvolgimenti cosmici («il luogo in cui erano radunati tremò»). Questo «secondo miracolo di Pentecoste» (Schneider) non è una semplice ripetizione del primo, in tono minore. Ha una sua autonomia e un significato suo: sostiene la Chiesa in una generosa e impavida proclamazione missionaria (la «franchezza»: vv. 29 e 31; però il termine greco è più forte), date le resistenze che vanno profilandosi e il tempo ormai imminente del «martirio» (cc. 6-7). E così, sostenuta dalla forza dello Spirito, la «Parola» non si ferma: sconfina dal territorio giudaico (c. 8 in Samaria con Filippo, segnando una forte ripresa del tema dello Spirito), e finalmente, per esplicito intervento dello Spirito (10,19), raggiunge i pagani (cc. 10-11). Luca insiste nel sottolineare qui l'iniziativa dello Spirito (e non della Chiesa!: 11,2.15-18), ma soprattutto nel sottolineare il parallelismo fra questo fatto - (che potremmo già definire «terza Pentecoste», o «Pentecoste missionaria») - e la Grande Pentecoste degli inizi: lo Spirito prende l'iniziativa (anticipando addirittura il battesimo!: vv. 44-48) e manifestandosi, anche se in tono più moderato, esattamente come agli inizi («li sentivano parlare in lingue e glorificare Dio»: vv. 45-46). Fatti subito riconosciuti, con stupore e gioia, dalla comunità madre di Gerusalemme (11,17-18). E dopo questa «Pentecoste che segna l'inizio della missione ai pagani» (Schneider), altre se ne potrebbero cogliere nel testo di Luca, senza alcuna forzatura; per esempio quella che segna i veri inizi della chiesa in Efeso, significativamente improntati di aspetti anch'essi «pentecostali» (vedi 19,1-7: una «Pentecoste ... ecumenica»?). Comunque si sente affiorare l'intento profondo che guida Luca nel dedicare questi testi straordinari alla sua comunità: egli invita con forza i suoi lettori a non leggere nella sua testimonianza sulla Pentecoste un semplice, anche se straordinario, ricordo; sta invitando la sua Chiesa a un sincero confronto, per una ripresa di coscienza sulla vitalità dello Spirito che continua a costruirne la storia.

5. Tensione missionaria nel discorso lucano sullo Spirito

Già fin dalle prime righe che il libro degli Atti dedica allo Spirito (1,8) è chiaro che l'interesse di questo discorso è prevalentemente missionario e apostolico. Si potrebbe persino dire esclusivo. Anche i passi, appena elencati, sulla continuità dell' evento pentecostale nella Chiesa, lo provano: il dono dello Spirito, costantemente rinnovato, spinge la Chiesa alla testimonianza, e persino al martirio. Tuttavia questo libro dedica un'intera sezione (cc. 13-21: viaggi di Paolo) alla diffusione missionaria della Parola; ed è proprio lì che si trova la conferma di questo fatto nèl secondo volume di Luca.

Risulta immediatamente dal primo viaggio, quello che porterà all'evangelizzazione della Pisidia; viene deciso direttamente dallo Spirito (13,2), e Luca ricorda esplicitamente che i missionari partono «inviati dallo Spirito Santo» (v. 4). Naturalmente in un contesto ecclesiale: i membri della comunità di partenza (Antiochia) pregano, digiunano, impongono loro le mani (v. 3). Nel secondo viaggio, quello che porterà in Macedonia e in Grecia (Atene e Corinto), la forza dominatrice dello Spirito si manifesta in maniera addirittura estrosa; e cioè bloccando il cammino dei missionari e orientando li in maniera perentoria in una direzione nuova (16,6-8: una lettura persino sorprendente). E tuttavia non è nemmeno una novità: in questo libro è sempre lo Spirito che, ovviamente rivelandosi attraverso i profeti cristiani, decide l'itinerario missionario (vedi 8,29.39 per Filippo, e 11.12 per Pietro). E lo Spirito interviene ancora al termine del terzo viaggio per preannunciare e stabilire autorevolmente l'esito finale di tutta la missionarietà di Paolo: la drammatica testimonianza a Roma e il martirio (20,22-23: espressioni forti di Paolo stesso: «avvinto dallo Spirito!»; inoltre 21,4-14). Nel suo vangelo Luca riesce a variare i suoi interessi teologici a proposito dello Spirito; invece in Atti 1'orientamento missionario sembra proprio assoluto. Difficilmente, in tanta documentazione, si potrebbero trovare appigli di interessi diversi, per la vita religiosa o morale del credente per esempio. Orientamento massiccio, che, osservato frettolosamente, potrebbe lasciare un'impressione di unilateralità. Ma lo scritto lucano esprime nel suo insieme un' evidente impressione di rigore. Anche per questa scelta una motivazione rigorosa ci dev'essere. Per esempio un messaggio forte, riguardante, più che il singolo credente, la Chiesa impegnata nella storia. Lo Spirito, con i suoi interventi vigorosi, la sta trasfigurando, trasformandola in «storia di salvezza». Ma attraverso la Chiesa e la sua generosa testimonianza. Per questo Luca chiede alla sua Chiesa una consapevolezza «pentecostale» e una fedeltà allo Spirito totali e assolute.

(da Parole di vita”, n.1, 1998)

1) Nel loro essenziale schematismo possono risultare preziose le trattazioni sul tema nelle più recenti Introduzioni sul Nuovo Testamento. Ci limitiamo a ricordare le ultime: G. SEGALLA, La teologia di Luca-Atti: storia e teologia della salvezza, in Evangelo e Vangeli, EDB 1992, pp. 250-268; M. LÀCONI, Atti degli apostoli: Il Risorto e la forza dello Spirito, in Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli (Logos 6), Elle Di Ci 1994, pp. 573-579; A. RODRIGUEZ CARMONA, L'Opera di Luca: la dimensione teologica - Cammino ... animato dallo Spirito, in Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli, 6, Paideia 1995, pp. 278-282; R. PENNA, Spirito Santo. Nuovo Testamento, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Ed. Paoline, 1988, pp. 1507-1517. Non vanno trascurate le trattazioni nei commenti, soprattutto i più approfonditi e recenti; ci limitiamo a ricordare la sintesi succosa di G. SCHNEIDER, Gli Atti degli Apostoli (Comm. N.T. V), I, pp. 356-360.
La istituzione dei sette
Un metodo ecclesiale per affrontare
e superare i problemi (At 6,1-7)

di Mauro Orsatti





La finale del cap. 2 del Libro degli Atti presentava una comunità ecclesiale tanto perfetta da non lasciar spazio a ombre, tanto suggestiva da sembrare irreale. Il quadro composto da Luca con dati veri, e quindi da valorizzare anche dal punto di vista storico, non rappresenta tutta la realtà. Egli, infatti, fedele alla sua fine sensibilità di storico e di teologo, continua la descrizione della vita comunitaria, senza tacere le difficoltà che la minacciano dall'esterno e, ancora più gravi, quelle che la minano all'interno. Ad alcune di queste difficoltà riserviamo la nostra attenzione, per osservare come sono state affrontate e superate. Poiché molte sono identiche o affini a quelle che assillano le nostre comunità ecclesiali, potremo valutare se le soluzioni proposte siano idonee a fronteggiare anche i nostri problemi.

Un quadro di luci e di ombre

I primi capitoli degli Atti hanno presentato una comunità cristiana nascente in forte sviluppo e animata da un grande spirito di unità: "Il teatro d'azione è Gerusalemme, i cristiani sono un gruppo omogeneo costituito da giudei palestinesi [ ... ] che vivono la loro fede in perfetta comunione all'interno e tra la benevolenza e la relativa tranquillità all'esterno, guidati dagli Apostoli e soprattutto da Pietro". (1) Un quadro così idilliaco (cf 2,42-48; 4,32-35; 5,12-16) non deve trarre in inganno, perché questa descrizione, tutta luce e niente ombre, è da collegare ad un genere letterario particolare, quello di raccogliere in poche battute un quadro che risponde alle caratteristiche di stilizzazione, di idealizzazione e di modello attrattivo. Luca non fa altro che descrivere "il meglio" per fornire un valido punto di riferimento. Non intende certo negare o tacere le difficoltà che pure avvinghiano la giovane comunità: alcune sono originate all'esterno della comunità, altre all'interno. Tra quelle esterne ricordiamo la persecuzione nei confronti di Pietro e Giovanni, incarcerati, battuti e impediti nell'esercizio del loro ministero. Ci vuole ben altro per bloccare coloro che lo Spirito ha reso intrepidi testimoni! Gli interessati reagiscono con una puntuale disobbedienza, e, insieme alla comunità, con una preghiera corale. Ancora più perniciose le difficoltà che giungono dall'interno. La comunità fa anche l'esperienza di una costitutiva fragilità, nella triste ed enigmatica vicenda di Anania e Saffira. L'appartenenza formale (potremmo dire de iure) al gruppo cristiano non sancisce necessariamente una condivisione profonda del progetto di vita (de facto). Si potrebbero forse applicare anche a loro le parole di Giovanni nella sua prima lettera: "Sono usciti di mezzo noi, ma non erano dei nostri; se fossero stati dei nostri, sarebbero rimasti con noi; ma doveva rendersi manifesto che non tutti sono dei nostri" (1 Gv 2,19). Si trattò di un fatto che riguardava una coppia; il caso fu presto risolto e archiviato, anche se il messaggio rimane a monito perenne.
Con l'episodio di 6,1-7, l'orizzonte si amplia e la crisi rischia di infettare la comunità, lacerandone il tessuto comunionale. Si profilano conseguenze devastanti. Da qui la necessità di capire il problema e di ben impostarlo per una corretta soluzione. Siamo in presenza di un brano, importante per almeno tre motivi: inizia una seconda grande parte degli Atti, in cui la comunità cristiana supera i confini di Gerusalemme e si prepara a portare il Vangelo nel mondo; la comunità cristiana conosce una nuova forma organizzatrice che delinea meglio la struttura della Chiesa e, accanto ai Dodici, si incontra il gruppo dei Sette; infine, non tutto è chiaro e sereno nella vita quotidiana della comunità e sorgono dei problemi; il brano mostra come si affrontano e come si risolvono.
Se analizzato e vivisezionato, il brano offre questa semplice struttura: introduzione (v. 1); proposta degli apostoli (vv. 2-4); accettazione da parte della comunità (vv. 5-6); conclusione (v. 7).

Il problema: diversità che crea contrasto

La nuova difficoltà, sorta all'interno stesso della comunità cristiana, viene meglio compresa se pensiamo ad un gruppo in rapida crescita. L'aumento del numero di cristiani, chiamati qui per la prima volta "discepoli", porta un nuovo problema, racchiuso nel termine complessivo di "malcontento". La rara parola greca gonghysmós conserva qui il semplice significato di mormorio o di mugugno, (2) originato dal fatto che una parte del gruppo si sente trascurato. Anche se finora la comunità è composta da soli giudei, è inevitabile che un accrescimento numerico porti a contatto mentalità diverse. (3) Esistono due diversi gruppi di giudei, distinti con l'appellativo di "ellenisti" e di "Ebrei".
Gli ellenisti sono giudei cresciuti in stretto rapporto con la cultura greca provenienti dalla diaspora, che li ha visti dispersi in tutta la regione del Mediterraneo; oppure essi traggono la loro origine da quelle zone palestinesi o dei dintorni che, in seguito alla penetrazione della cultura ellenistica sotto Alessandro Magno, hanno finito per assimilare la lingua ed i costumi greci. Per quanto riguarda il culto, essi dispongono di proprie sinagoghe nelle quali le Scritture vengono lette in greco. Proprio per venire incontro alle esigenze di questi giudei che conoscevano poco o non conoscevano affatto l'ebraico, si iniziò verso il III secolo a.C. la traduzione delle Scritture in greco, producendo quella poderosa opera conosciuta come la Traduzione dei Settanta (= LXX). Gli ebrei sono i nativi della Palestina, usano come lingua corrente l'aramaico, e leggono le Scritture in ebraico. Costituiscono, all'inizio della Chiesa, il gruppo principale della comunità giudeo-cristiana di Gerusalemme. Li caratterizza un forte attaccamento alle tradizioni dei padri che li porterà ad assumere atteggiamenti di chiusura, a differenza dei più aperti ellenisti che non vedevano di buon occhio.
I due gruppi insieme costituiscono i "discepoli", cioè il primo nucleo della comunità cristiana. Eppure sono divisi da forte contrapposizione, che potrebbe degenerare in aperta lacerazione. Incombe la minaccia di una scandalosa divisione all'interno della comunità. Proprio nel momento in cui la comunione di fede deve diventare visibile e operativa, viene rilevata una discriminazione tra i due gruppi cristiani. Gli ellenisti rimproverano agli ebrei, ai quali era affidata l'organizzazione dell'assistenza giornaliera, di trascurare le loro vedove. Il numero di vedove doveva essere consistente, poiché gli ebrei della diaspora avevano la consuetudine di trasferirsi a Gerusalemme negli ultimi anni della loro vita, per poter essere sepolti nella Città Santa. (4)
Anche se storicamente non siamo ben informati sul tipo di servizio, pensiamo con tutta probabilità che si trattasse di una specie di mensa popolare, capace di garantire il minimo vitale ai più bisognosi. Tale "distribuzione" (in greco diakonia, cf v. 1), già praticata nell'ambiente giudaico dell'epoca, "consisteva nel fornire una scodella di cibo ogni giorno ai poveri, anche quelli di passaggio, da parte di un gruppo che si incaricava della colletta nelle case. Era anche presente una cassa dei poveri che ogni venerdì forniva il denaro necessario per 14 pasti, ma soltanto ai poveri della città". (5) Neppure siamo informati sulla causa della trascuratezza; (6) possiamo invece stabilire, partendo dall'uso del tempo imperfetto (azione continuata nel passato), che la situazione si protraeva da un po' di tempo. Quindi, non siamo in presenza di un "disguido" o di un "imprevisto", al quale si cerca di rimediare all'ultimo momento, ma di un'azione abitudinaria. Da qui il contrasto tra i due gruppi. Come risolverlo? La soluzione arriva per gradi seguendo il metodo semplice ed essenziale di vedere, giudicare, agire.
La soluzione del problemaI Dodici (7) accettano senz'altro la critica mossa dagli ellenisti e sono stimolati a rivedere alcune posizioni. Essi seguono la traiettoria di vedere il problema, di giudicare la situazione e di agire con coerenza. Essi reagiscono senza esitazione per cercare di ovviare alla rottura venutasi a creare: giocano un ruolo mediatore per ristabilire l'unità. La protesta aveva quindi un suo fondamento, non privo di pericoli. Anche se probabilmente non erano loro a regolare il servizio delle mense, restavano i responsabili ultimi in quanto a loro venivano consegnati i beni (cf 4,35; 5,2). Inoltre come autorità costituita e riconosciuta, devono esaminare il caso. I problemi e le difficoltà devono essere affrontati, perché forme di mimetismo o di insabbiamento si rivelano poco produttive, quando non addirittura rovinose. TUTTI vengono convocati per iniziativa dei Dodici (autorità) al tavolo della discussione e TUTTI partecipano: "Allora i Dodici convocarono i discepoli (= i cristiani) e dissero" (6,2a). Per prima cosa essi coinvolgono la comunità, alla quale viene riconosciuta una propria dignità e corresponsabilità. Non si è in presenza di un'autorità dispotica, bensì "di una gestione che si potrebbe chiamare "democratica" e assembleare se i due termini non fossero carichi di connotazioni estranee alla mentalità di Luca". (8) La pedagogia adottata è quella del dialogo, che aiuta a ricomporre ogni situazione dopo una lite. Dopo aver convocato l'assemblea dei cristiani, gli apostoli esprimono la proposta concreta per superare la crisi: la disgiunzione del servizio alla parola di Dio da quello alle mense. Occorre distinguere i ruoli, articolare meglio la comunità. Gli apostoli invitano i "fratelli" della comunità a ricercare sette (9) uomini, che rinunciano a scegliere personalmente, limitandosi ad indicare le due qualità esigite, "buona reputazione e "pieni di Spirito e di saggezza", richieste a coloro che svolgono una mansione pubblica e direttiva (cf 1Tm 3,7-10).
La prima è la buona reputazione presso la comunità. In greco viene usato il verbo martyrein che significa, usato all'attivo, "rendere una buona testimonianza", e, usato al passivo, "riscuotere buona testimonianza". Nel nostro caso ha il senso passivo. In pratica, si esige dal candidato una condotta degna di lode, imparziale e disinteressata. Chi lo sceglie deve quindi fondarsi su ragioni documentabili.
La seconda caratteristica richiesta è la dote di Spirito e saggezza: "Qui il ruolo dello Spirito costituisce una garanzia e un presupposto. La pienezza delle Spirito è richiesta per coloro che dovranno essere scelti e ribadita nel case specifico di Stefano (cf At 6,3.5). In questo caso il ruolo dello Spirito si avvicina a quello di un indicatore di coloro sui quali l'elezione dovrà ricadere e diventa quindi segno distintivo per l'assunzione di un servizio che poi, almeno nei casi di Stefano e Filippo, si esplicherà come servizio della Parola". (10)
Una sostanziale novità viene dunque a inserirsi all'interno della vita comunitaria: per la prima volta si arriva ad una ripartizione dei compiti. La vocazione a predicare la parola di Dio viene così distinta dall'opera di servire alle mense. Gli apostoli riservano per sé il compito della "preghiera" e della "predicazione della parola".
Solo qui, al v. 4, la preghiera è presentata come specifico impegno dei Dodici. Luca non specifica se si tratti di preghiera personale o comunitaria, privata o pubblica. Egli sottolinea che la perseveranza nella preghiera rende possibile il servizio della parola. Questo servizio non appartiene in esclusiva agli apostoli, perché in seguito sarà esercitato da Stefano, Filippo, Barnaba e da tanti altri. Il loro specifico sta in una testimonianza, unica e irripetibile, che risale al ministero stesso di Gesù e a una missione divina. Nessuno più e meglio di loro è in grado di annunciare quel kerygma che salva, perché è annunciare Gesù stesso (cf 4,12).
La completa dedizione a questi due compiti essenziali spinge gli apostoli a liberarsi da altri impegni che potrebbero risultare di intralcio al perfetto adempimento della loro missione. Ben inteso, non vogliono scegliere la parte migliore o ripartire il lavoro tra direttivo e privilegiato da una parte e esecutivo e umile d'altra. Tali categorie sono aliene dallo spirito del testo, oltre che dalla vocazione apostolica. Essi "certamente stimano moltissimo l'attività caritativa, ma al tempo stesso sono anche coscienti della diversa graduazione dei doveri e conoscono il senso immediato della missione ricevuta dal Signore dopo la risurrezione". (11) Tale missione è chiara fin dall'inizio: "mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra" (1,8). Un loro eventuale maggiore impegno per le mense, li sottrarrebbe all'annuncio della Parola. Non sembra quindi saggio tralasciare un compito di loro specifica spettanza per attendere ad un altro, per quanto nobile e valido esso sia.
Fin qui la valutazione dei fatti e l'abbozzo di un progetto di soluzione. Nulla viene imposto autoritativamente da coloro che sono l'autorità costituita e pacificamente riconosciuta. La proposta avanzata dai Dodici incontra il pieno consenso di tutta la comunità, (12) che compie la sua scelta. Non siamo informati sulla modalità di scelta dei sette. Sappiamo però dall'elenco che i nomi sono tutti di origine greca. Il nome greco potrebbe essere portato anche da una persona non greca. (13) Nell'ipotesi, non impossibile, che le persone scelte siano tutte effettivamente di origine greca, potremmo concludere che, per fare cosa gradita ai giudeo-cristiani di origine ellenistica, la scelta sia caduta su esponenti di questa provenienza, mirando così ad un più facile superamento del disaccordo sorto.
Nell'elenco dei nominativi dei sette designati, solo accanto al primo e all'ultimo nome compaiono alcune precisazioni. Per primo viene nominato Stefano, il quale si distingue per la pienezza "di fede e di Spirito Santo". Egli risponde pienamente ai requisiti richiesti e di lui avremo in seguito un discorso dettagliato e il resoconto della sua morte. Di fatto si potrà constatare la pienezza di Spirito di cui si fa qui menzione. Nicola, l'ultimo dell'elenco, viene indicato come un proselito (14) di Antiochia. Degli altri non viene riportata alcuna informazione complementare, anche se Filippo sarà in seguito nominato (cf 8,26ss).
I neoeletti vengono presentati agli apostoli e insediati nel loro ufficio mediante l'imposizione delle mani accompagnata dalla preghiera. Il testo greco permette più di un'interpretazione a questo riguardo: è stata tutta la comunità ad imporre le mani, oppure solo gli apostoli? Il v. 3 b ("ai quali affideremo quest'incarico") lascerebbe intendere che solo gli apostoli sono attivi. Del resto, l'imposizione delle mani, gesto che riprende un'antica usanza giudaica, è già attestata nell'AT per indicare la trasmissione di determinati poteri (cf Nm 27,18; Dt 34,9).
È la prima forma di struttura ecclesiale, dopo la composizione del gruppo apostolico; è un primo passo verso la distinzione dei ruoli e la collaborazione diversificata. Se lo si vuole, possiamo parlare anche di decentramento del "potere", se intendiamo per potere l'esercizio di un'autorità che promuove il bene comune.
Il testo biblico riserva agli studiosi tanti interrogativi e aspetti oscuri come l'identificazione del preciso ruolo sociale, la partecipazione o meno al sacramento dell'ordine (diaconato), la creazione di una struttura parallela a quella esistente e tanti altri. Non è nostro compito affrontare tali questioni nel presente contesto. A noi è bastato mostrare come un problema ecclesiale è stato accolto, giudicato e risolto.
Una indiretta approvazione del metodo seguito e una conferma del ritrovato equilibrio vengono dal versetto conclusivo: "Intanto la parola di Dio si diffondeva e si moltiplicava grandemente il numero dei discepoli a Gerusalemme" (6,7). Grazie alla designazione dei sette, la crisi interna della comunità è superata. La rimozione dell'ostacolo permette alla prima Chiesa di riprendere il suo progressivo e gioioso cammino di crescita. La nuova organizzazione adottata all'interno della comunità è da subito apportatrice di frutti: la Parola di Dio si diffonde, il numero dei discepoli aumenta considerevolmente e persino un gran numero di sacerdoti (15) diviene credente. Questo versetto sembra esprimere il placet dello Spirito Santo che benedice una comunità che ha trovato la capacità e la forza per affrontare e superare i propri problemi.

Un insegnamento per le nostre comunità ecclesiali

Difficoltà e incomprensione accompagnano e turbano anche le nostre comunità ecclesiali. Il brano insegna che davanti ad un problema che rischiava inquinare i rapporti dei primi cristiani si è adottata una linea di soluzione che, partendo dalla istanza iniziale, dopo una valutazione, è approdata ad una conclusione rispettosa delle persone e dei diversi ruoli. L'unità e la comunione di una comunità non sono incrinate dai problemi o dalle difficoltà, bensì dalla non voglia di guardare in faccia i problemi, oppure dalla egoistica difesa cl: interessi di parte. Là dove affiorano buona volontà, serenità di valutazione capacità decisionale, lo Spirito benedice e fa crescere una comunità che si dimostra accogliente e capace di fantasia.
I cristiani maturi sanno che esistono le difficoltà e davanti ad esse né si scoraggiano né si nascondono, ma le valutano e le affrontano alla ricerca di una equilibrata soluzione. Sanno applicare il criterio valutativo e operativo che Paolo indicava alla giovane chiesa di Tessalonica: "Non spegnete lo Spirito [ ... ], esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono" (l Ts 5,19.21). Così la chiesa è cresciuta e si è scoperta una realtà senza frontiere, ha preso coscienza sé, in modo definitivo, come chiesa in dialogo con il mondo, chiesa per il mondo (cf la prima enciclica di Paolo VI Ecclesiam suam e il documento de Vaticano II Gaudium et Spes). Le difficoltà interne ed esterne, accolte e superate, hanno stimolato questa apertura, hanno dimostrato un forte equilibrio, hanno creato comunione tra autorità e semplici fedeli, hanno promosso la maturazione di tutti. Venti gagliardi di opposizione si abbatteranno, passando dalle minacce o dall'imprigionamento alla persecuzione violenta. Stefano è la prima vittima, ma altresì il primo luminoso esempio che si è forti, della fortezza dello Spirito, anche quando si soccombe morendo. Il vero vincitore è proprio colui che muore per la fedeltà al suo Signore. Considerando lo sviluppo degli eventi, forse viene da ripetere anche in questo caso: felix culpa.

Note

1) B. PAPA, Atti degli Apostoli, I, EDB, Bologna 1981, p. 175.
2) Il termine greco ricorre quattro volte nel NT: Gv 7,12; At 6,1; Fil 2,14; 1 Pt 4,9. Solo nel primo caso mantiene il significato più teologico di mormorazione nel senso di mancanza di fede, come spesso nell'AT (cf Es 16,7.8; Nm 17,5.10), cf K. H. RENGSTORF, GLNT, II, coll. 587-590.
3) "È un principio elementare di sociologia: finché un gruppo è ristretto, è facilmente governabile e l'autorità che vi si esercita può essere di tipo famigliare. Ma quando si allarga e quanto più si allarga, diviene sempre meno governabile in quel modo. Sono necessarie un'organizzazione ed una autorità più forti, proprio per evitare inconvenienti e rivalità tra i vari gruppi che inevitabilmente si formano in una grande massa, pur animata da uno stesso alto ideale e fortemente aggregata intorno ad una autorità carismatica da tutti riconosciuta; nel nostro caso quella dei Dodici", G. SEGALLA, Carisma e istituzione a servizio della carità negli Atti degli Apostoli, Libreria Editrice Gregoriana, Padova 1991, p. 95.
4) B. PAPA, Atti degli Apostoli, cit., p. 180.
5) La Bibbia Piemme, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1995, p. 2598.
6) Cf G. SEGALLA, Carisma e istituzione a servizio della carità negli Atti degli Apostoli, cit p. 97 "La causa potrebbe essere stata anche banale, come la non comprensione della lingua aramaica e la conseguente impossibilità di spiegarsi".
7) L'uso assoluto "i Dodici", frequente nei Vangeli, appare solo qui e in 1 Cor 15,5 nel resto del NT, cf G. SCHNEIDER, Gli Atti degli Apostoli, I, Paideia, Brescia 1985, p. 590.
8) R. FABRIS, Gli Atti degli Apostoli, Borla, Roma 1984, p. 203.
9) Scrive G. SEGALLA, Carisma e istituzione a servizio della carità negli Atti degli Apostoli, cit., p. 98: "Il numero sette per consigli amministrativi era abbastanza diffuso sia in ambiente giudaico che romano. Sette erano i membri del consiglio amministrativo delle comunità giudaiche locali. Sette erano pure i membri degli antichi collegi romani, chiamati "semptemviri", cui incombeva il compito di organizzare le funzioni liturgiche (a Giove) per i giochi popolari".
10) G. BETORI, Lo Spirito e l'annuncio della parola negli Atti degli apostoli, "Rivista Biblica" 35 (1987), p. 425.
11) J. KORZINGER, Atti degli Apostoli, cit., p. 156.
12) La traduzione CEI "tutto il gruppo" potrebbe essere intesa come una delle due parti in causa; il termine greco pléthos indica inequivocabilmente tutta la comunità.
13) Per il fatto che nell'elenco solo Nicola sia detto proselito, qualche autore propende a ritenere tutti gli altri di origine giudaica, cf R. PESCH, Atti degli Apostoli, Cittadella, Assisi 1992, p.299.
14) Precisa A. MISTRORIGO, Guida alfabetica alla Bibbia, voce Proseliti, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1995, p. 485: "Erano i pagani convertiti al giudaismo. Ce n'erano due classi: da un lato stavano coloro che accettavano la circoncisione e la Legge ed erano, perciò, riconosciuti Giudei di nazione e di religione; dall'altro non mancavano i riluttanti al rito della circoncisione, i quali si limitavano ad osservare il monoteismo, il riposo del Sabato, la frequenza alla sinagoga e il contributo al Tempio. Costoro erano assai numerosi e si trovavano sparsi dappertutto. San Paolo nei suoi viaggi ne incontrerà molti e li troverà ben disposti ad accogliere il Vangelo".
15) Difficile interpretare rettamente l'identità di queste persone. I commentatori sono divisi: per R. FABRIS, Gli Atti degli Apostoli, cit., p. 206, sono sacerdoti di rango inferiore, per B. PAPA, Atti degli Apostoli, cit., p. 180, è gente proveniente dagli esseni di Qumran, per G. SCHNEIDER, Gli Atti degli Apostoli, cit., p. 598, sono i sacerdoti del tempio.

(da Parole di vita, n.2, 1998)

La dimensione ecclesiologica

 

Ricerca di un orizzonte di relazioni e di presenza

 

di Silvano Pinato





Il Concilio ha riconosciuto alla vita religiosa uno statuto teologico che la colloca nel cuore stesso della Chiesa. Ma questa scoperta va valorizzata. Ecco quindi farsi avanti una nuova coscienza ecclesiale nei religiosi, che fa intravedere un orizzonte di relazioni e di comunione: i modi sono in parte ancora da inventare.

Come rendere oggi percorribile
l’esperienza religiosa e interreligiosa

di Javier Melloni

Solo nel cammino comune le religioni possono liberare il meglio delle energie umane per trasformare il mondo.

Nel passaggio attraverso il deserto non ci sono solo sete e desolazione. Ci sono anche incontri sorprendenti, e albe e tramonti di una bellezza sconvolgente di fronte ad un orizzonte aperto e illimitato. Ma tutto questo non si conosce se non si inizia la traversata se non si esce dalla città, dove la luce del Sole si intravede solo attraverso le strade strette del già noto e troppe volte attraversato.

All'inizio dell'esodo c'è solo il dolore perché lo sradicamento ci lacera. Però, andando avanti nel cammino, sorge una domanda: e se la nostra casa, il nostro focolare, le nostre famiglie non fossero alle nostre spalle, ma davanti a noi?

I viandanti di piccoli ponti
(il Centro di San Clemente a Kiev)

di Vladimir Zelinskij




 

I tanti anni di ricerca di una rapida e visibile unità ci hanno convinto che non esiste ancora un unico grande ponte che possa unire le due estremità del burrone che da mille anni separa l’Oriente dall’Occidente. Ma si può trovare o, piuttosto, costruire di nuovo dei piccoli ponti – se non ancora tra le Chiese storiche, almeno tra le persone, le culture, le iniziative, gli slanci dello spirito che cercano uno spazio comune nelle realtà divise. Uno di questi ponti porta il nome di San Clemente, papa e confessore della fede del I secolo, morto nel 101 (secondo la tradizione, martire) a Chersones sul Mar Nero. Nella stessa città, quasi 9 secoli dopo, ha ricevuto il battesimo il gran principe di Kiev San Vladimir, il quale ha trasportato a Kiev una parte delle reliquie del papa. Un’altra parte del corpo del Santo fu portata da San Metodio a Roma. Oggi, 19 secoli dopo la morte, San Clemente, presente nelle sue reliquie a Roma e a Kiev, può fare un lavoro – discreto, ma miracoloso – per la costruzione di quei piccoli legami di unità che a volte si mostrano più resistenti e duraturi di tanti ambiziosi progetti.

L’ultimo di questi miracoli è stata l’apertura del Centro “San Clemente” a Kiev l’8 dicembre scorso (proprio nel giorno del Santo, secondo il calendario giuliano e della festa dell’Immacolata per la Chiesa Cattolica). Il Centro è stato inaugurato da una parte dal cardinale Walter Kasper, presidente della Commissione Pontificia per l’unità dei cristiani e dall’altra, dall’arcivescovo di Poltava Filippo, presidente della Commissione per l’educazione religiosa, il catechismo ed il lavoro missionario della Metropolia ucraina del Patriarcato di Mosca. Questa iniziativa ha ricevuto il pieno appoggio e la benedizione anche dal capo della Chiesa Ucraina, il metropolita Vladimir Sabodan e del capo della Chiesa greco-cattolica in Ucraina, il cardinale Lubomir Husar.

“Con la vostra benedizione – ha detto il cardinal Kasper durante la sua omelia davanti al pubblico riunito nella sala – l’importante Centro ecumenico, come speriamo, sarà un punto di riferimento, per lo studio, il dialogo e l’incontro fraterno tra le Chiese. Sembra che questo sia un albero piccolo, ma con l’aiuto di Dio e con il vostro sostegno, esso potrà portare buoni frutti”.

Certo, l’apertura in un appartamentino di tre stanze a Kiev dove si trova il nuovo Centro, non è avvenimento che possa attirare l’attenzione dei grandi quotidiani in Occidente. Ma chi conosce dall’interno la situazione ecumenica nell’Est dell’Europa capisce che anche le piccole cose possono acquistare un significato simbolico. Prima di tutto è significativo il contesto storico di oggi, condizionato da due avvenimenti che non sono legati fra di loro. Il primo è l’incontro di Ravenna (dove la Chiesa Russa non ha partecipato) e nel quale si è fatto un grande passo verso la riscoperta della lingua comune del primo millennio cristiano. La lingua comune presto o tardi aprirà la strada anche alla piena comunione – e pur se il cammino sarà lungo e difficile, un passo importante è stato fatto. Un altro avvenimento o, meglio, processo – molto meno visibile per l’Occidente, che si sta svolgendo proprio nei nostri giorni – è “l’ucrainizzazione” graduale della Chiesa Russa in Ucraina. Processo che si esprime anche nella sua crescente indipendenza, se non canonicamente, di certo nella sua “linea” ecumenica e pratica. Davvero, bisogna avere un po’ di fantasia per immaginare nelle condizioni attuali che un cardinale della Chiesa Romana insieme al nunzio apostolico abbiano partecipato ad ogni azione comune – specialmente all’apertura comune del Centro ecumenico – con un arcivescovo ortodosso. Anzi, con il responsabile degli affari interni della Chiesa Ucraina, l’arcivescovo Mitrofan Yurchuk, accanto al nunzio apostolico Ivan Yurkovic, con il rettore dell’Università Cattolica di Lviv, Boris Gudziak ed il presidente dell’Università nazionale Pietro Mohila, Vyacheslav Briuchovetsky e con tanti altri. Basta ricordare la visita recente del patriarca Alessio in Francia, accolto con grande entusiasmo a Notre Dame di Parigi, ma sospettato in Russia dai fondamentalisti ortodossi per il “reato” di aver pregato per qualche istante insieme con i cattolici. I fondamentalisti non mancano, certo, anche in Ucraina, ma non sono loro a dare il là. Così l’ultimo Concilio della Metropolia Ucraina ha condannato senza mezzi termini la cosiddetta “Unione dei cittadini ortodossi”, il bastione dell’integralismo locale.

Il Centro di San Clemente, secondo il progetto del suo promotore e direttore Constantin Sigov, è destinato a costruire – attraverso gli incontri, le conferenze, i corsi teologici, i seminari – un altro ponte che possa mettere in comunicazione l’educazione nelle scienze umane con la formazione propriamente religiosa – la quale rappresenta il nucleo di ogni conoscenza autentica dell’uomo. Il Centro stesso è collegato al Campus Universitario Politecnico, la più importante fra le università ucraine. Tutti i paesi dell’Est europeo soffrono della totale mancanza del sapere più elementare in materia spirituale, a causa del vuoto lasciato in eredità dall’epoca sovietica.

Un altro scopo del Centro è la fondazione, in un futuro abbastanza vicino, di una nuova casa editrice, la “San Clemente”, la quale pubblicherà nella traduzione ucraina e russa degli agevoli volumetti (che presenteranno alcuni classici del pensiero teologico del nostro tempo). Una collana del tipo “Farsi un’idea”, dedicata proprio all’ambito del pensiero spirituale. Fra gli autori previsti ad essere pubblicati per primi: Yves Congar, Hans Urs von Balthasar, Jean Danielou, Tomas Spidlik, Enzo Bianchi ed altri ancora...

Ma lo scopo, se dobbiamo formularlo in una frase, è la creazione di un clima per la comunione, proprio nel suo senso originale di koinonia – oggi si potrebbe chiamare anche “ecumenismo nello spirito”. “Possa lo Spirito di Cristo risorto, - ha detto il cardinale Kasper durante l’apertura, - consentire al nostro cuore e alla nostra mente di recare i frutti dell’unità nelle relazioni tra le nostre Chiese, affinché possiamo servire insieme l’unità e la pace di tutta la famiglia umana. Possa lo stesso Spirito condurci alla piena espressione del mistero della comunione ecclesiale, che noi riconosciamo con gratitudine come un dono meraviglioso di Dio al mondo, un mistero la cui bellezza rifulge specialmente nella santità alla quale siamo tutti chiamati. Ed il centro di San Clemente dovrebbe diventare un segno di speranza”.

Nello stesso giorno durante il ricevimento a casa del metropolita Vladimir, il metropolita stesso ha fatto un brindisi per coloro che lavorano per l’unità. Il suo tono era sobrio, ma pieno di speranza. “Noi lavoriamo per l’unità, ma non riusciremo a fare tutto durante la nostra vita. Tuttavia il nostro lavoro sarà compiuto da coloro che attraverseranno i ponti costruiti da noi”.

Il buddismo offre attraenti metodi di lavoro su di sé. Ma è sempre ben compreso dagli Occidentali che tendono ad applicarvi delle categorie che non sono necessariamente le sue?

Martedì, 06 Maggio 2008 00:53

L'autore de La nube della non conoscenza

La nube della non conoscenza (XIV secolo)








I. LA MISTICA MEDIEVALE IN INGHILTERRA


Anche in Inghilterra la mistica ha vissuto nel medioevo un eccellente periodo di fioritura. Qui ricevette un impulso decisivo allorché monaci cistercensi vennero inviati dal loro abate Bernardo di Chiavaralle sull’isola, per diffondervi quella nuova religiosità «affettiva» che considerava come vertice della vita cristiana la dedizione d’amore dell’anima alla persona del Dio fatto uomo. Ancora oggi chi viaggia per l’Inghilterra può ammirare le rovine impressionanti delle abbazie cistercensi di Byland, Fountains e Rievaulx (tutte nella contea dello Yorkshire).

Martedì, 06 Maggio 2008 00:42

L’annuncio trinitario (Giovanni Vannucci)

L’annuncio trinitario

di Giovanni Vannucci




«Andate, battezzate nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo tutte le genti» (Mt 28, 19).

Due brevi precisazioni sulla terminologia di questa frase. Battezzare è sommergere qualcuno nell’onda vivificante e purificatrice. L’onda in cui i credenti son chiamati a sommergere l’umanità è il Nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Cos’è il Nome? Per gli antichi, il nome non era un qualcosa di convenzionale o di secondario, definiva l’essenza della cosa o della persona che lo portava. Per noi che valutiamo il nome dal punto di vista delle nostre lingue esclusivamente fonetiche, è molto difficile capire questa particolarità. Il nome divino specificato nelle sue tre personali componenti, sulle labbra di Cristo indica la viva realtà di Dio, avente un legame diretto con tutta la realtà cosmica, come Creatore, come animatore di vita e di ascesa, come compimento del faticoso e glorioso cammino della creazione nello sconfinato oceano dell’Amore.

Siamo chiamati a immergerci e a immergere in quest’onda divina tutto il creato! A vivere cioè nella consapevolezza che la creazione non è la risultante di un cieco impulso di cellule e di facoltà, ma il frutto di un intervento costante, a-temporale, sempre nuovo, la cui natura, pur sfuggendo alla coscienza razionale - tributaria com’è del tempo e dello spazio - è avvertita e creduta per la fede. A vivere nella certezza profonda che il tribolato cammino del creato non è abbandonato a se stesso, ma accompagnato da una Presenza che prende su di sé gli errori, i peccati, la morte, bruciandoli per trasformarli in germinazione di vita. A muoverci nella fiducia che l’esistenza creata, nonostante le sue tragiche ombre, le sue dure chiusure, le sue disperanti esperienze, un giorno sarà illuminata da una luce, una pace, una pienezza di gioia e di amore inimmaginabili.

Sì, il cammino è duro. La mèta sognata dalle più profonde esperienze umane è in contraddizione con l’esperienza normale. Immersi in una forma di coscienza embrionale, tortuosa, avida, aneliamo al possesso di Dio; legati a una mente incerta e oscura, sogniamo una luminosa e completa conoscenza; lacerati da guerre, ingiustizie, bramiamo trasformare le lance in aratri; aneliamo a una libertà assoluta e costruiamo delle società sempre più condizionanti; avendo un corpo fragile e caduco, nutriamo la speranza che la nostra mortalità si rivesta d’immortalità. La ragione, constatando il divario insormontabile tra l’ideale e la realtà, diffida degli elevati sogni e preferisce l’umile e dolorosa realtà, chiudendosi in più limitati orizzonti e in uno, apparentemente giustificato, scetticismo.

Noi che crediamo, che per la nostra fede vivente siamo chiamati ad accendere nei cuori i più folli sogni, ad annunciare la parola magica della speranza, a comunicare a tutti la coppa del vino migliore, non possiamo che continuare ad attendere e ad annunciare il compimento del miracolo della trasmutazione della morte nella vita, della coscienza imperfetta nella luminosa pienezza della coscienza vivente in Dio, della carne nello Spirito.

Nell’insufficienza dell’esistenza c’è il germe della redenzione e della pienezza della vita. Nelle tenebre esiste la luce che le consumerà, nelle strutture limitatrici un’energia liberante.

Sono sogni di una mente esaltata? Proviamoci ad avere pensieri immensi come l’immensità divina, rompiamo i nostri piccoli amori in un amore sempre più vasto, dilatiamo le nostre piccole libertà nella sconfinata libertà dei figli di Dio. E vedremo che la realizzazione di Dio, nell’intimo e nell’esteriore, è il più alto e legittimo senso della vita umana.

«L’annuncio trinitario», Ascensione del Signore, Anno A; in Risveglio della coscienza, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984, pp. 81-82