Vita nello Spirito

Sabato, 23 Agosto 2008 22:15

Perdonare le offese (Luciano Manicardi)

Vota questo articolo
(8 Voti)

Una lucida analisi di ciò che si sviluppa nell’io della persona “vittima” diviene il primo passo per una crescita spirituale ed un cammino di fede adulto che consentirà al soggetto di attuare il Vangelo dell’amore. “..Rimetti a noi i nostri debiti; come noi li rimettiamo ai nostri debitori...” Il perdono è onnipotente, nel senso che tutto può essere perdonato, al tempo stesso è infinitamente debole, in quanto nulla assicura che l’offensore cesserà di fare male.

 

Il Cristo risorto che si manifesta ai discepoli mostrando le ferite della crocifissione nel suo corpo e donando ai discepoli lo Spirito Santo che consentirà loro di perdonare i peccati (Gv 20,19-23), rivela che perdonare significa donare attraverso le sofferenze e il male subito. Significa fare anche del male ricevuto l’occasione di un dono. Nel perdono non si tratta di attenuare la responsabilità di chi ha commesso il male: il perdono perdona ciò che non è scusabile, ciò che è ingiustificabile - il male commesso - e che tale resta, Come restano le cicatrici del male infetto. Il perdono non toglie l’irreversibilità del male subito, ma lo assume come passato e, facendo prevalere un rapporto di grazia su un rapporto di ritorsione, crea le premesse di un rinnovamento della relazione tra offensore e offeso.

Il perdono pertanto si oppone alla dimenticanza (si può perdonare solo ciò che non è stato dimenticato) e suppone un lavoro della memoria. Freud afferma che se il paziente non ricorda, ripete. Il ricordo del male subito apre la via al perdono nella misura in cui elabora il senso del male subito: noi uomini non siamo infatti responsabili dell’esistenza del male o del fatto di averlo subito ingiustamente (e magari nell’infanzia o comunque in situazioni di assoluta nostra impotenza a difenderci e magari da persone da cui avremmo dovuto aspettarci solo bene e amore), ma siamo responsabili di ciò che facciamo del male che abbiamo subito, Il lavoro del ricordo che sfocia nel perdono può così liberare l’offeso dalla coazione a ripetere che lo potrebbe portare a ripetere e riversare su altri il male che egli a suo tempo ha subito. Dietro all’atto con cui una persona perdona vi è già la guarigione della memoria: non si resta vittime del ricordo indurito e ostinato, divenuto fissazione, non si resta in balia del risentimento, prigionieri dell’ombra lunga del male subito, ostaggi del proprio passato.

Al tempo stesso il perdono implica un “lasciar andare”, uno spezzare non certo il ricordo, ma il debito contratto da chi ha commesso il male. L’atto del perdono si mostra così capace di guarire non solo l’offensore, ma anche l’offeso: “il perdono è l’unica reazione che non si limita a reagire, ma che agisce nuovamente e inaspettatamente, non condizionato da un atto che l’ha provocato, e che quindi libera dalle sue conseguenze sia colui che perdona sia colui che è perdonato” (Hannah Arendt).

Proprio Hannah Arendt ricorda come il perdono possa estendersi al piano sociale e politico e divenire “un principio guida politico”. E Edgar Morin ha ricordato che il conflitto israelo-palestinese potrà trovare una via di conciliazione grazie anche a un “grande atto etico: il perdono reciproco per tutti i crimini perpetrati da una parte e dall’altra. Non si può dimenticare né dissimulare, ma occorre rompere con la legge del taglione”. Questo implica il costituirsi in un popolo di una cultura della memoria: che significa liberarsi dal risentimento e dal rancore dovuto a un eccesso di memoria, ma anche dalla rimozione del passato per non fare i conti con esso. La storia della rivelazione biblica è anche la storia della rivelazione del Dio “capace di perdono” (Es 34,6-7; SaI 86,5; 103,3) che nella pratica di umanità di Gesù Cristo, nel suo vivere e nel suo morire, ha rivelato l’estensione e la profondità del suo amore per gli umani, un amore che anche dell’offesa ricevuta fa l’occasione non di giudizio o di condanna, ma di amore (Mc 2,5; Lc 7,36- 50; 23,34; Gv 8,11).

In Cristo, morto per noi mentre noi eravamo peccatori (Rm 5,6-10), il perdono è già dato a ogni uomo, e dunque anche la possibilità di viverlo. Essere perdonati significa scoprirsi amati nel proprio odio. Il figlio prodigo darà il nome di perdono all’amore fedele e mai venuto meno del padre che l’ha sempre atteso e gli è sempre stato vicino anche mentre lui si allontanava da casa e lo metteva simbolicamente a morte chiedendogli in anticipo l’eredità (Lc 15,11-32).

Questo significa che il perdono precede e fonda il pentimento e che quest’ultimo potrà sorgere solo dalla presa di coscienza di tale amore unilaterale, gratuito e incondizionato, precedente ogni nostro “merito”. Ormai la comunità cristiana è chiamata a essere il luogo del perdono: “Perdonatevi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo” (Ef 4,32). E la preghiera quotidiana del cristiano, echeggiando le parole del Siracide (“Perdona l’offesa al tuo prossimo e allora, per la tua preghiera, ti saranno rimessi i peccati”: Sir 28,2), pone in relazione la richiesta del perdono divino e la prassi del perdono al fratello (Mt 6,12; Lc 11,4).

Certo, il cammino del perdono è lungo e faticoso. Possiamo seguirne le tappe psicologiche e spirituali all’interno di un cammino personale.

Per non darla vinta al male che abbiamo subito e che potrebbe continuare a legarci a sé impedendoci di proiettarci nel futuro, occorre anzitutto rinunciare alla volontà di vendicarsi, di compiere ritorsioni contro l’offensore. Cedere a questa tentazione equivarrebbe a entrare nella spirale del male da cui si vuole uscire. Equivarrebbe a rinunciare per sempre a riconciliarsi.

Quindi occorre riconoscere che si soffre per il male subito, riconoscere la propria ferita e la propria povertà. Ovvero si tratta di riconoscere che il male subito ci ha tolto quell’integrità che avremmo potuto avere e ci ha resi diversi, più vulnerabili perché vulnerati, più poveri perché abbiamo perso irrimediabilmente qualcosa. Il male subito ha realmente ucciso una parte di noi, una possibilità di vita che avremmo avuto se .., non fosse successo ciò che è successo. La storia di Giuseppe e dei suoi fratelli è emblematica: Giuseppe ha realmente perso una possibilità di vita a causa dell’opera dei suoi fratelli (Gen 37-50).

Essenziale nel cammino di guarigione dal male subito è allora il poter condividere con qualcuno la propria sofferenza. Raccontare la propria sofferenza a chi sa ascoltare con amore e partecipazione significa essere liberati dalla penosa sensazione di assoluta solitudine che chi ha subito il male nutre in Sé: egli infatti vede che il peso della propria sofferenza è condiviso da un altro.

Può iniziare così un processo di riconciliazione con l’immagine dell’altro che non è sequestrata unilateralmente dall’immagine negativa e odiosa dell’offensore, Ora, abbiamo accanto anche un viso amico e accogliente.

Occorre poi dare il nome a ciò che si è perso con il male subito: solo così si può farne il lutto e assumerne la perdita. Vi sono infatti dei mali subiti che noi rimuoviamo impedendoci di guardarli in faccia e di accettarli. Ma così ne restiamo succubi.

È anche importante, in questo itinerario, da un lato, accettare il fatto che noi vorremmo ripagare l’offensore con la sua stessa moneta e, dall’altro, dare alla collera il permesso di esistere in noi e giungere ad esprimerla. Del resto, perdonare non è naturale, a noi è molto più facile la ritorsione, la vendetta.

Ulteriore tappa è quella del necessario perdono a se stessi, Spesso il male subito, soprattutto se da persone amate e vicine, produce in noi sensi di colpa che rischiano di paralizzarci e di schiavizzarci: non ci si perdona di avere iniziato una relazione che si è rivelata un inferno, di essersi messi in situazioni che si sono rivelate a cielo chiuso, di avere pazientato troppo a lungo in situazioni difficili fino a subirle supinamente... Un giusto e sano amore di sé richiede che si sappia perdonare a se stessi. Se non ci si riconcilia con sé, sarà difficile farlo con l’altro. Se il perdono sta all’interno dell’amore per il nemico, come sarà possibile amare il nemico fuori di noi se noi non iniziamo ad amare il nemico che è in noi? Se non vinciamo con l’amore l’odio di noi stessi?

Allora si potrà anche comprendere il proprio offensore. Certo, “comprendere” non nel senso di scusarlo, ma di guardarlo come un essere umano e un figlio di Dio: allora si aprirà la strada al perdono come atto in cui ritrovo colui che è già mio fratello ma che il male ha allontanato da me.

Tappa ulteriore sarà di trovare un senso al male ricevuto: se “i fatti passati sono incancellabili, il senso di ciò che è avvenuto, sia che l’abbiamo fatto, sia che l’abbiamo subito, non è fissato una volta per tutte” (Paul Ricoeur). Nel perdono il male non ha l’ultima parola: la morte non vince sulla vita e la riconciliazione può sostituirsi alla fine della relazione. Il perdono ci fa entrare nella dinamica pasquale. Ma poi, in questo cammino, in ambito cristiano è fondamentale riscoprirsi perdonati noi stessi da Dio in Cristo, e questo farà sì che l’atto di perdono che si compirà non sarà tanto (o soltanto) un atto di volontà, ma l’apertura al dono di grazia del Signore.

Il perdono poi, una volta accordato, può riaprire la relazione e allora può avvenire la riconciliazione. Può. Non è detto che avvenga: il perdono può sempre essere rifiutato. Ma una volta accordato (con quella forza performativa che ha l’espressione “io ti perdono”) non sappiamo come esso agirà nel cuore e nella mente dell’offensore che ormai è il perdonato.

E qui noi cogliamo un aspetto del perdono che lo assimila alla paradossale potenza della croce. Il perdono è onnipotente, nel senso che tutto può essere perdonato (“può”, non “deve”: la grandezza del perdono consiste nella libertà con cui è accordato), al tempo stesso è infinitamente debole, in quanto nulla assicura che l’offensore cesserà di fare il male. In questo senso il perdono cristiano può essere compreso veramente solo alla luce dello scandalo e del paradosso della croce, dove la potenza di Dio si manifesta nella debolezza del Figlio. Il Cristo crocifisso è colui che dalla croce offre il perdono a chi non lo chiede, vivendo l’unilateralità di un amore asimmetrico che è l’unica via per aprire a tutti la via della salvezza.

Riflesso dell’evento pasquale, il perdono cristiano si colloca sul piano escatologico ancor prima che etico: dove c’è perdono, là c’è lo Spirito di Dio, là c’è Dio che regna, là il Cristo si rende presente.

(da L’Ancora, 1/2, 2008)


La Gioia dell’amore

Testimonianza di Giacomo Rotolo (detto mimmo)

Nato a Mottola il 28 dicembre 1925, Giacomo Rotolo è il secondo degli otto figli di Antonio e Stella. Dopo una fanciullezza operosa e serena, nell’ambiente contadino in cui era cresciuto, è avviato dal padre ad apprendere una professione artigianale più redditizia del lavoro nei campi. Giacomo scelse di lavorare come “basolatore”, scalpellando le pietre atte alla pavimentazione stradale. In questo contesto lavorativo avviene un insolito incidente che dà inizio al progressivo degenerare della salute di Giacomo, con una paralisi progressiva.

Mentre è intento a sollevare una pietra, durante la pavimentazione di una strada a Taranto, il caposquadra lo colpisce alla nuca, con un gesto che voleva essere di complimento per il lavoro ben svolto. Una fitta dolorosa è presagio di una lesione ben più grave di quanto riscontrato immediatamente. La compromissione midollare causata dall’incidente lo conduce fino all’immobilità completa. Il cammino interiore che accompagna il suo doloroso sentiero, rende Giacomo un testimone sempre credibile dell’amore del Padre e della gioia autentica della vita cristiana.

Accogliendo di condividere l’apostolato del Centro Volontari della Sofferenza, nel 1982 accolse l’incarico di Capogruppo, notificatogli dal Fondatore stesso, mons. Luigi Novarese.

All’età di 63 anni, il 10 settembre 1989, Mimino si spense serenamente, circondato dall’affetto dei familiari e dalla stima fraterna di tanti concittadini.

Compiere la volontà di Dio

Qual è la volontà di Dio? Che il deserto fiorisca, che il deserto porti vita. Quello che umanamente è inconcepibile, che apparentemente è morte, diventa sorgente di vita. Non dobbiamo perdere di vista questo messaggio, è un grandissimo dono che il Signore ci fa. Ed è un dono perché non solo vogliamo approfondire di più l’esperienza spirituale di Mimino, ma soprattutto perché siamo chiamati a fare i conti continuamente con la sofferenza, con la sofferenza dei propri cari, fratelli, sorelle, mariti, figli, genitori, vicini di casa, compari, persone a cui comunque siamo legati, e poi l’infinito popolo di persone che in questo mondo sperimentano la sofferenza... Proprio a partire dalla sofferenza comincia un dialogo nuovo tra l’essere umano e Dio... In questa situazione ci viene incontro Colui per mezzo del quale si compie la volontà del Signore: Gesù. Portando la nostra storia al Padre, Gesù fa sì che questa storia prenda luce, acquisti senso... Ed è allora che quanto più sei unito a Cristo, tanto più sei presentato da Lui ai Padre, tanto più ricevi la luce di cui hai bisogno, per accogliere con amore la tua storia, tanto più la trasmetti questa luce, anche senza parole...

(dall’omelia di mons. Pietro Maria Fragnelli, il 22 ottobre 2006, nel ricordo della figura e dell’esempio di Giacomo Rotolo)

Letto 5838 volte Ultima modifica il Venerdì, 24 Gennaio 2014 17:33
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Search