Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input
di Tiziano Lorenzin
È opinione predominante in campo esegetico che il filo conduttore della predicazione del Deutero Isaia sia la teologia del secondo esodo, anche se da qualcuno in questi ultimi anni si è sollevato qualche serio dubbio sulla presenza di questo tema nel profeta. (2)L'esodo fu l'esperienza fondamentale sulla quale fu edificato il popolo di Israele. Non è solo un fatto avvenuto una volta per tutte, ma possiede un valore paradigmatico in quanto rivela le linee essenziali dell'azione salvifica del Dio d'Israele: egli è colui che «fa uscire dal paese d'Egitto, dalla casa di schiavitù» (Es 20,2). Questo evento storico diventò il simbolo dominante nel pensiero ebraico del passaggio dalla schiavitù alla libertà, dalla morte alla vita.
Il posto del tema dell'esodo nella tradizione e la condizione di perdita della libertà d'Israele a Babilonia resero inevitabile il confronto con l'analoga situazione dei tempi primitivi in Egitto. Tuttavia l'esilio non significò per il popolo semplicemente una ripetizione delle sofferenze d'Egitto: esso comportò anche una profonda crisi di fede. Questa fu provocata da un fatto davanti gli occhi di tutti: il centro del potere mondiale non sembrava più nelle mani di JHWH, ma di un uomo, Ciro. Il Dio d'Israele inoltre pareva aver subito una sconfitta umiliante per opera del dio di Babilonia, Marduk. Le domande che nascevano erano queste: È possibile per un Dio nazionale continuare a vivere, quando il suo popolo è privo di qualsiasi "potere? È possibile mantenere con questo Dio un'alleanza che impegna tutta la vita?
Nel Deutero Isaia a livello letterario possiamo osservare una ripresa dello schema base dell'esodo: uscire, luogo intermedio/cammino, entrare. Si esce dall'Egitto o da Babilonia, si cammina attraverso il deserto, si entra nella terra di Canaan o a Gerusalemme. (3) È uno schema che nei vari testi subisce diverse riletture.
1. Lettura dei testi
Cerchiamo ora di individuare la presenza dello schema dell'esodo in alcuni testi del Deutero Isaia facendone emergere le novità: sostituzioni, esclusioni, sottolineature, ampliamenti.
1.1. Is 40,3-5: la via del Signore nel deserto
3 Una voce grida:
«Nel deserto preparate
la via del Signore (derek yhwh),
appianate nella steppa
la strada per il nostro Dio.
4 Ogni valle sia colmata,
ogni monte e colle siano abbassati;
il terreno accidentato si trasformi in piano
e quello scosceso in pianura.
5 Allora si rivelerà la gloria (k'bôd) del Signore
e ogni uomo la vedrà,
poiché la bocca del Signore ha parlato».
Nel deserto, tappa intermedia nel primo esodo, si prepara la «via del Signore» (derek yhwh), che viene. La gloria del Signore, presente nel Mar Rosso (Es 14,17), nella manna (Es 16,10), sul Sinai (Es 24,16), ad Aronne e agli israeliti (Es 16,10), ora è visibile da ogni uomo nel deserto.
1.2. Is 41,17-20: il deserto trasformato
17 I miseri e i poveri cercano acqua (mayim) ma non ce n'è,
la loro lingua è riarsa per la sete (sāmā');
io, il Signore, li ascolterò; .
io, Dio di Israele, non li abbandonerò.
18 farò scaturire fiumi su brulle colline,
fontane in mezzo alle valli;
cambierò il deserto in un lago d'acqua,
la terra arida in sorgenti.
19 Pianterò cedri nel deserto,
acacie, mirti e ulivi;
porrò nella steppa cipressi,
olmi insieme con abeti;
20 perché vedano e sappiano,
considerino e comprendano a un tempo
che questo ha fatto la mano del Signore,
lo ha creato (berā’āh) il Santo di Israele.
Il testo allude all'esperienza della sete nel deserto, considerato dall'autore come «terra arida» ('eres sîyâ) in 18b e «steppa» (‘ărābâ) in 19b. La risposta divina è una meravigliosa trasformazione della situazione: una nuova creazione. Il deserto si cambia in regione abitabile e in un nuovo paradiso terrestre con i suoi quattro corsi d'acqua (fiumi, fontane, lago, sorgenti) e con sette specie di alberi pregiati. Conseguenza di quest'azione storica è la risposta della fede espressa nei quattro verbi «vedere, sapere, considerare e comprendere». Nel testo non si accenna ad alcun movimento, al cammino, all'attraversare, né si parla di fuggitivi, ma di miseri e poveri.
1.3. Is 43,16-21: «Non ricordate più le cose passate»
16 Così dice il Signore che offrì una strada (derek) nel mare
e un sentiero in mezzo ad acque possenti
17 che fece uscire (carri e cavalli),
esercito ed eroi insieme;
essi giacciono morti: mai più si rialzeranno;
si spensero come un lucignolo, sono estinti.
18 Non ricordate ('al tizkerû) più le cose passate,
non pensate più alle cose antiche!
19 Ecco, faccio una cosa nuova ('ōśeh hădāsâ):proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?Aprirò anche nel deserto una strada (bammidbār derek),immetterò fiumi nella steppa.20 Mi glorificheranno le bestie selvatiche, sciacalli e struzzi,
perché avrò fornito acqua al deserto, fiumi alla steppa,
per dissetare il mio popolo, il mio eletto.
21 Il popolo che io ho plasmato (yāsartî) per me
celebrerà le mie lodi.
Il ricordo dell'antica liberazione (una strada attraverso il mare e il deserto, fornito miracolosamente d'acqua) illumina quella presente. Diversamente però dall'antico esodo, Dio è «colui che fa uscire» (hammôsî’) non gli Israeliti ma gli Egiziani verso la loro rovina: la loro strada terminò bruscamente in mezzo alle acque (v. 17). Il deserto irrigato è un anticipo della terra promessa. Il futuro esodo sarà superiore al primo: una cosa nuova fatta dal Signore. All'antico popolo mormoratore subentrerà il popolo della lode, che cammina per il suo «sentiero» (netîbâ) (Is 43,16): (4) è un popolo nuovo creato da Dio.
1.4. Is 48,20-21: uscita da Babilonia
20 Uscite (se'û) da Babilonia,
fuggite dai Caldei;
annunziatelo con voce di gioia,
diffondetelo,
fatelo giungere fino all'estremità della terra.
Dite: «Il Signore ha riscattato (gā' al)
il suo servo ('abdô) Giacobbe».
21 Non soffrono la sete .
mentre li conduce per deserti;
acqua (māyim) dalla roccia (sûr) egli fa scaturire per essi;
spacca la roccia,
sgorgano le acque.
È presente il tema dell'uscita da Babilonia e dalla terra dei Caldei. L'ordine di uscire, dato nel primo esodo dal Faraone (Es 12,31), ora è pronunciato da Dio stesso. È una fuga nella «gioia». L'azione di Dio è ancora una atto di redenzione (gā' al, cf Es 6,6) dei suoi servi (cf Lv 25,42.55; 26,13; Dt 32,36.43), di Giacobbe (cf Dt 9,27). Il loro cammino attraverso luoghi desertici sarà protetto dal Signore, che come allora avrà cura del suo popolo, donandogli l'acqua. La risposta a questo avvenimento sarà la lode della comunità. A questo coro è invitato anche tutto il mondo.
1.5. ls 49,9-10: il Signore pastore del suo popolo
9 per dire ai prigionieri: Uscite (se'û),
e a quanti sono nelle tenebre: Venite fuori.
Essi pascoleranno lungo tutte le strade (derākîm),
e su ogni altura troveranno pascoli.10 Non soffriranno né fame né sete
e non li colpirà né l'arsura né il sole,
perché colui che ha pietà di loro li guiderà,
li condurrà alle sorgenti di acqua.
Il profeta parla in nome di Dio. Il popolo è invitato ad uscire. Il viaggio di ritorno è descritto come quello dell'uomo pio sotto la protezione del Signore in Sal 77,21 e 78,52: non mancherà né cibo, né bevanda, né ombra per difendersi dal sole come nel primo esodo.
1.6. Is 51,9-10: una strada attraverso il mare
9 Svegliatì ('ûrî), svegliati, rivestiti di forza,
o braccio (zerôa ') del Signore.
Svegliati come nei giorni antichi,
come tra le generazioni passate.
Non hai tu forse fatto a pezzi Raab,
non hai trafitto il drago?
10 Forse non hai prosciugato il mare, le acque del grande abisso
e non hai fatto delle profondità del mare una strada (derek),
perché vi passassero i redenti (la'ăbōr ge’ûlîm)?
È una supplica della comunità in cui si invita Dio a svegliarsi come un eroe e a ricordare il passaggio del Mar Rosso nell'esodo, descritto come un'attualizzazione del mito cosmologico della vittoria del Signore sopra il mostro del mare (cf Sal 74,13; 89,10-11). Vi è una relazione tra il motivo della creazione e il passaggio del mare: l'atto di potenza sulla storia è associato al potere sulla natura. Una strada per i redenti attraversa il mare: il dragone è trafitto definitivamente.
1.7. Is 52,9-12: una carovana in cammino sicuro verso Gerusalemme
In un inno conclusivo le rovine di Gerusalemme si uniscono al coro di lode davanti all'intervento concreto di Dio: il suo «santo braccio» (vv. 9-10). Viene quindi dato l'ordine di partenza (vv. 11-12). Il profeta parla nel nome del Signore. Anche qui il linguaggio richiama quello dell'esodo, con alcune variazioni. Gli Israeliti non devono prendere niente da Babilonia, eccetto gli arredi sacri, mentre i loro antenati presero doni dagli Egiziani (Es 12,31-36). Non devono uscire come i loro padri «in fretta» (behippāzôn): un termine che in tutto l'AT appare solo qui e nei due racconti della pasqua in Es 12,11 e in Dt 16,3. Dio però proteggerà come un tempo la colonna degli israeliti, aprendo davanti a loro il cammino e difendendolo alle spalle (cf Es 14,19): un viaggio fatto in pace e in sicurezza.9 Prorompete insieme in canti di gioia,
rovine di Gerusalemme,
perché il Signore ha consolato il suo popolo,
ha riscattato Gerusalemme.
10 Il Signore ha snudato il suo santo braccio
davanti a tutti i popoli;
tutti i confini della terra vedranno
la salvezza del nostro Dio.
11 Fuori, fuori, uscite (se'û) di là!
Non toccate niente d'impuro.
Uscite da essa, purificatevi,
voi che portate gli arredi del Signore!
12 Voi non dovrete uscire in fretta (behippāzôn)né andarvene come uno che fugge,perché davanti a voi cammina (hōlēk) il Signore,
il Dio di Israele chiude la vosta carovana.
2. La riattualizzazione della tradizione dell'esodo
Nei testi esaminati in nessun passo troviamo uno svolgimento completo del tema dell'esodo: uscita, cammino, entrata.
L'antica uscita dall'Egitto è riattualizzata nell'uscita dalla terra di deportazione, da Babilonia (Is 48,20; 52,11). Non sarà più una uscita «in fretta», come quella dall'Egitto: non sarà una fuga. Allora si portarono via oggetti impuri, donati loro dagli egiziani, ora tutto quello che è impuro viene lasciato oltre i confini della terra santa, che non dovrà mai più essere contaminata: portano solo gli arredi sacri (Is 52,11-12).
Nel deserto che separa Babilonia dalla Siria il Signore si aprirà una via, rivestita di splendore. Davanti e alle spalle della colonna dei prigionieri riscattati non ci sarà come un tempo una nube di giorno e un fuoco di notte, ma egli stesso. Questa via nel deserto diventa il luogo della rivelazione del liberatore: la sua gloria si manifesta a tutto il mondo (Is 40,5). Il deserto è trasformato in un nuovo giardino terrestre: un anticipo della terra promessa (Is(Is 51,9b). Il tempo del deserto non sarà un cammino di stenti, segnato dalla fame e dalla sete: cibo e acqua si troveranno ovunque (Is 49,9-10) perché guida del popolo sarà il Signore. 41,18-19),frutto della vittoria di Dio sulla morte
L'esodo terminerà non più nella terra, ma nella città di Gerusalemme, le cui rovine riprenderanno a vivere con la presenza di una comunità che offrirà a Dio un culto purificato dai compromessi con gli idoli dei popoli pagani (Is 52,9-12). Solo là sarà possibile la liturgia del nuovo Giacobbe: una comunità riscattata, diventata la famiglia del Signore (Is 48,20).
Questo annuncio di un nuovo esodo viene a rispondere ai dubbi profondi che turbavano la fede del popolo in esilio: dopo la rottura dell'antica alleanza sarà ancora possibile un legame con Dio? Ci potrà essere ancora qualcosa di nuovo? Geremia e Ezechiele l'avevano fatto intravedere (Ger 31,31-34; Ez 36,22-38). L'esodo è il nuovo atto di grazia, una nuova creazione come quella del cuore nuovo, che prepara una nuova alleanza. L'evento che apre la strada ad un rapporto con Dio così straordinario, supera addirittura in forza l'atto che ha costituito il popolo d'Israele: l'antico esodo (/s 43,18). È un popolo nuovo che esce da questa esperienza.
Il secondo esodo allora, prima ancora d'essere un movimento di ritorno geografico, è un camminare per il sentiero (netîbâ) (Is 43,16) di Dio, non più con cuore mormoratore, ma ricolmo di gratitudine (Is 43,21). Un popolo paralizzato dal dubbio sull'amore di Dio non potrà mai mettersi in cammino: il suo cuore deve essere prima liberato dalla schiavitù più profonda, la pretesa di conoscere meglio di lui la strada del ritorno (cf Is 40,2). Vedendo e considerando la nuova azione salvifica, gli si riapriranno gli occhi della fede (Is 43,19). Saprà e comprenderà chi sia veramente il suo Dio (Is 41,20): non è solo un liberatore ma anche un redentore (gō’ēl), che mantiene con la comunità d'Israele rapporti familiari; il creatore del mondo è anche il creatore del nuovo popolo.
3. Conclusione
Nonostante qualche incertezza, la maggioranza degli esegeti vede il tema del nuovo esodo nei testi sopra elencati. Lo schema: uscita, tempo intermedio (deserto), dono della terra, presente nella tradizione dell'esodo non si trova mai al completo nei testi esaminati, tuttavia è evidente nell'insieme che ogni singolo momento presuppone gli altri due. Le novità più evidenti del nuovo esodo rispetto all'antico sono la liberazione non solo da una schiavitù politica, ma anche da quella più profonda: il dubbio che il Signore fosse realmente Dio e che perciò la sofferenza dell'esilio non avesse nessun senso, e in secondo luogo l'anticipo dell'esperienza della terra promessa nel deserto: quando il Signore è presente anche la croce più pesante diventa gloriosa. Il paradiso (la vita eterna) è anticipato nella presente esperienza del Dio vicino.
(da Parole di Vita, n.4, 1999)
Note
1) Cf 1. BLENKINSOPP, «La tradition de l'Exode dans le Second-Isaie, 40-55», in Concilium (F) 20 (1966) 41-48; W. ZIMMERLI, Rivelazione di Dio. Una teologia dell'Antico Testamento (Teologia 25), Jaca Book, Milano 1975, pp. 175-185; C. WESTERMANN, Isaia - Capitoli 40-66, Paideia, Brescia 1978; C. WIÉNER, Il profeta del nuovo esodo (deutero-isaia) (Bibbia-Oggi: strumenti per vivere la parola), Gribaudi, Torino 1980; L. ALONSO SCHÖKEL, I Profeti. Traduzione e commento, Borla, Roma 1984, pp. 293-384; A. SPREAFICO, Esodo: Memoria e promessa. Interpretazioni profetiche, EDB, Bologna 1985, pp. 13-16; A. BONORA, Isaia 40-66. Israele: servo di Dio liberato, Queriniana, Brescia 1988; B. MARCONCINI, «Rilettura e profezia dell'esodo nel Secondo-Isaia», in Parola Spirito e Vita 24 (1991) 17-29.di Francesco Mosetto
Nel Vangelo di Giovanni il miracolo dei pani è accompagnato da un dialogo tra Gesù e i Giudei, che ne di schiude il significato simbolico sullo sfondo del racconto biblico della manna (Es 16). In un certo senso l'evangelista rilegge in chiave cristologica la pagina dell'Esodo: il «pane dal cielo», che per mezzo di Mosè il Signore aveva donato ai figli di Israele, prefigura il vero pane dal cielo, lo stesso Gesù, che dà la vita al mondo, ossia a tutta l'umanità. Ma accostiamo anzitutto la pagina giovannea, cercando di scoprire il percorso attraverso il quale l'evangelista conduce i suoi lettori.
Un duplice segno
Dopo la sezione iniziale ( «da Cana a Cana», cc. 1-4), il quarto Vangelo riporta una serie di «segni», accompagnati da discorsi oppure dialoghi che ne enucleano il significato: la guarigione del paralitico (c. 5), il miracolo dei pani e il cammino di Gesù sulle acque (c. 6), l'illuminazione del cieco (c. 9), la risurrezione di Lazzaro (c. 11).
I due «segni» del c. 6 del Vangelo di Giovanni sono collegati tra loro anche nei Sinottici: indizio questo di una tradizione comune molto antica. Se in Marco e in Matteo il miracolo dei pani è narrato due volte (Mc 6,32-44; 8,1-10; Mt 14,13-21; 15,32-39), ciò si può spiegare con lo sdoppiamento dell'unica tradizione. Luca (Lc 9,10-17) si limita al primo dei racconti. A sua volta la versione giovannea presenta contatti sia con la prima sia con la seconda moltiplicazione dei pani. Mentre lo sfondo biblico e le allusioni sacramentali si possono già avvertire nel racconto dei Sinottici, Giovanni accentua la portata cristologica del racconto, che viene ulteriormente esplicata nel dialogo seguente.
Anche il cammino di Gesù sulle acque lascia trasparire uno sfondo biblico che ne orienta l'interpretazione. Mentre in Marco (Mc 6,45-51) l'automanifestazione di Gesù incontra tuttora l'ottusità spirituale dei discepoli, che impedisce loro di cogliere il mistero della sua persona, in Matteo (Mt 14,22-32) esso conduce a una professione aperta di fede. L'espressione con la quale Gesù si presenta ai discepoli e che si legge anche nei sinottici («lo sono»), nel quarto Vangelo assume una valenza caratteristica (cf 8,24.28.58; 13,19), come equivalente del nome divino (cf Es 3,14; Is 43,10s).
Il dialogo
Quasi si direbbe che per il quarto evangelista il segno dei pani è un pretesto per l'autorivelazione di Gesù. Con i vv. 22-25 si passa velocemente da un racconto pieno di realismo, benché carico di suggestioni simboliche, a un dialogo serrato, la cui architettura rivela un disegno preciso. Per semplicità e chiarezza distinguiamo tre parti, tra loro ben concatenate:
- Prima parte (vv. 26-35): il «segno» rimanda alla realtà: «il pane della vita», che è lo stesso Gesù.
- Seconda parte (vv. 35-48): per avere il pane della vita è necessaria la fede in Gesù, vero pane disceso dal cielo.
- Terza parte (vv. 48-58): dando se stesso come cibo, Gesù «dà la vita al mondo».
All'interno di ciascuna parte il dialogo, dall'andamento a prima vista tortuoso, lascia trasparire una precisa intenzionalità teologica. Ne evidenziamo i passaggi:
Dal «segno» alla realtà
Punto di partenza è il segno del pane: i Giudei cercano Gesù perché ha saziato la loro fame materiale, ma non hanno compreso il segno nel suo vero significato (v. 26). Gesù orienta la loro ricerca verso il suo verso oggetto, il cibo che «rimane in vita eterna» (v. 27). Chi dà questo cibo è Il Figlio dell'uomo, l'inviato di Dio, da lui accreditato con il miracolo; cf 5,36: «le opere che il Padre mi ha dato da compiere... testimoniano di me che il Padre mi ha mandato».
I Giudei accolgono l'invito di Gesù a procurarsi «il cibo che rimane in vita eterna», ma lo fraintendono: giocando sul verbo ergazein (v. 26: ergazesthe, procuratevi; v. 28: ergazometha, facciamo) l'evangelista suggerisce che la parola di Gesù è stata interpretata secondo la mentalità farisaica, come esortazione a procurarsi i beni divini mediante le opere della Legge. Ma subito Gesù corregge il fraintendimento e per la seconda volta imprime alla ricerca dei suoi ascoltatori la direzione giusta: «Questa è l'opera di Dio (quella che egli si attende dall'uomo): credere in colui che egli ha mandato» (v. 29).
L'iniziativa passa ai Giudei, i quali provocatoriamente chiedono un «segno», più precisamente quello della manna, che aveva accreditato Mosè come inviato di Dio (vv. 30-31; si cita il Salmo 78, che richiama Es 16). La richiesta appare paradossale, dal momento che il miracolo dei pani appena avvenuto corrisponde puntualmente alla pretesa dei Giudei; ma il richiamo a Mosè e ad Es 16 è soprattutto funzionale all'interpretazione del segno che Gesù ha compiuto.
Difatti la nuova risposta di Gesù offre la chiave di lettura del miracolo dei pani sullo sfondo del racconto biblico della manna e consente di identificare il pane di Dio, quello che «rimane in vita eterna» e che Gesù stesso aveva annunciato fin dall'inizio del dialogo (vv. 32-35; cf v. 27). Interessante notare la triplice contrapposizione, che sottolinea la somiglianza e insieme la novità del dono escatologico: «non Mosè... ma il Padre mio...»; non la manna, ma «il vero pane dal cielo»; non «vi diede», allora, ma «vi dà», adesso. Un ulteriore confronto tra la manna e il vero pane che discende dal cielo sarà istituito più avanti (vv. 49s): «i padri hanno mangiato la manna nel deserto e (= eppure) sono morti»; chi invece mangia del vero pane dal cielo, solo adombrato dal prodigio dell'esodo, «vivrà in eterno».
Il vero «pane di Dio» - continua Gesù - «è quello/colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo». Grazie alla consueta tecnica del fraintendimento l'ultimo scambio di battute tra i Giudei e Gesù conduce al primo vertice del dialogo, ove finalmente si decifra il segno del pane, identificato con Gesù stesso. Come la Samaritana aveva chiesto: «Signore, dammi di quest'acqua...» (4,15), così i Giudei, tuttora prigionieri del senso materiale delle parole, dicono: «Signore, dacci sempre questo pane». Eppure Gesù non respinge la domanda; piuttosto ne fa l'occasione per presentarsi come il vero pane che dà la vita e per invitare a se gli uomini: «lo sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete» (v. 35).
Come avere il pane della vita
La seconda parte del dialogo prende l'avvio dalle parole con le quali Gesù si definisce «il pane della vita» (v. 35) e vi ritorna (v. 48) attraverso un'ampia digressione sul tema della fede; o meglio: tratta della fede come condizione necessaria e indispensabile per ottenere il pane della vita, sviluppando l'accenno introdotto fin dal v. 29.
Con linguaggio sapienziale (cf Is 55,1-3; Prv 9,1-6; Sap 16,26), Gesù invita gli uomini al banchetto della vita: «Chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete» (v. 35). Venire a Gesù equivale a credere in lui come Figlio e inviato del Padre. La fede però non è un'opera umana; alla sua origine c'è l'iniziativa del Padre, che «dà» a Gesù i credenti (v. 37; cf 17,2.12.24), li «attira» a lui (v. 44). «Magna gratiae commendatio», esclama sant' Agostino (in Jo. Tract. XXVI, 2).
A più riprese Gesù ha rivolto il suo appello alla fede (cf 3,14ss.31ss; 5,24.36ss); da ultimo nella parte iniziale del dialogo (v. 29) e con l'invito del v. 35. Ora sollecita la fede dei Giudei e - attraverso il testo evangelico - di tutti gli uomini, insistendo sul senso ultimo della sua venuta nel mondo secondo il disegno del Padre: «Questa è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna» (v. 40). Come un ritornello, le parole «io lo risusciterò nell'ultimo giorno» (vv. 40.43; cf v. 39) contribuiscono a definire il concetto di «vita eterna» come adempimento della speranza giudaica nel mondo futuro.
Vi è però un ostacolo alla fede: l'umanità di Cristo (v. 42). L'interrogativo stupito dei Giudei è noto anche alla tradizione sinottica (cf Mt 13,35; Mc 6,3; Lc 4,22). Il quarto Vangelo ritorna più volte su questo tema (cf 1,45s; 7,25ss.40ss). Senza l'azione invisibile della grazia, l'uomo non riesce a superare il livello dei sensi approdando alla fede nell'Incarnazione del Verbo (vv. 43s).
Mangiare il pane della vita
Riallacciandosi al tema del pane, nella terza parte del discorso (vv. 48-58) Gesù ne sviluppa il simbolismo sotto un duplice aspetto: in riferimento al supremo dono di se, che egli compirà sulla croce, e in ordine all'Eucaristia, memoriale del suo sacrificio e banchetto nel quale egli stesso si fa cibo e bevanda dei credenti.
Dopo aver ripetuto l'affermazione: «lo sono il pane della vita», il vero «pane che discende dal cielo» (vv. 48-51ab), ora Gesù precisa: «il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (v. 51c). Con il linguaggio semitico («carne» nel senso di corpo, persona concreta) e con trasparente allusione al dono di se nella morte («io darò... per...»; cf 10,11.1.5; 11,50.52; 15,13; 17,19;18,14; v. anche 1 Gv 3,16), le parole di Gesù conferiscono ora al pane un valore simbolico più circoscritto rispetto alla identificazione precedente. Lo scopo ultimo della «discesa» del Verbo dal mondo di Dio (il «cielo») è infatti il sacrificio della croce: là e solamente allora Gesù realizza pienamente la figura della manna, pane disceso dal cielo per la vita agli uomini.
La parola di Gesù è rivelazione. Come tale supera le attese e provoca la meraviglia, addirittura lo sconcerto: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?» (v. 53). Ancora una volta la incomprensione serve da trampolino per un annuncio più aperto, una risposta che non elimina lo scandalo, ma invita a superarlo nella piena disponibilità al dono di Dio.
Poiché la «vita», nel senso alto e pieno che il termine ha nella Bibbia e particolarmente nel linguaggio giovanneo, è data agli uomini per mezzo del Verbo (Gv 1,4), il Figlio unigenito che Dio ha donato «perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (3,16), il «pane di Dio», che «dà la vita al mondo» (6,33); e poiché tutto ciò si realizza attraverso la morte sacrificale di Gesù, l'uomo non potrà aver parte a tale vita se non ricevendo quel pane nella verità piena del suo essere donato.
Di qui, con logica rigorosa e sconvolgente oblatività, l'invito di Gesù a «mangiare di questo pane» (v. 51), «mangiare la carne del Figlio dell'uomo e bere il suo sangue» (v. 53); Carne e sangue di Gesù - ove il binomio sottolinea che unica è la persona, mentre la distinzione suggerisce la morte cruenta - sono «vero cibo» e «vera bevanda» perché l'uomo attinge in essi la realtà da cui scaturisce la «vita»; non una realtà astratta e atemporale, ma un essere storico e un evento di salvezza.
L'insistenza sui verbi «mangiare»-«bere» e sui termini «cibo»-«bevanda», «carne»-«sangue», è certo intenzionale: il lettore iniziato al sacramento della Cena non può non intuire che l'invito di Gesù riguarda ultimamente il rito sacramentale. Con le parole: «Questo è il mio corpo... Questo è il mio sangue dell'alleanza...» (Mt 26,26.28) non ha forse egli stesso consegnato il memoriale del suo sacrificio? E tuttavia il corpo e il sangue del Signore, che nell'Eucaristia diventano cibo e bevanda dell'uomo, sono appunto l'umanità glorificata del Verbo, il Cristo risorto sorgente di vita per i credenti. La sua morte e risurrezione, evento che compie l'Incarnazione del Verbo come evento di salvezza, fanno dunque di Cristo il vero «pane disceso dal cielo per la vita del mondo».
Una duplice considerazione completa le parole di Gesù nella sinagoga di Cafarnao (vv. 56-57). La seconda precede e fonda logicamente la prima, perché riguarda la comunione di vita tra Gesù e il Padre. Il Padre, che è il «vivente» per eccellenza (cf Sa142,3 ecc.) e «ha la vita in se stesso» (Gv 5,26), è la sorgente della vita anzitutto nei confronti del Figlio, il quale può dire: «io vivo per il Padre», partecipando cioè alla sua stessa vita.
Il Figlio a sua volta comunica la vita divina agli uomini: chi crede in lui «ha la vita eterna» (vv. 40.47; cf 3,16; 5,24). Alla luce delle cose appena insegnate, ciò si realizza mangiando il «pane della vita»: «colui che mangia di me vivrà per me», ossia: avrà parte alla vita divina che dal Padre per mezzo del Figlio viene comunicata agli uomini.
Tra i credenti e Gesù nasce pertanto una comunione di vita analoga a quella che intercorre tra lui e il Padre: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui» (v. 56). Parole che anticipano gli insegnamenti dell'ultima cena e ne sono illuminati: «In quel giorno saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi... noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (14,20.23); «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui fa molto frutto...» (15,5); «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola... lo in loro e tu in me...» (17,21.23). Fede in Cristo e sacramento della Cena, nel loro inscindibile intreccio, sono dunque il mezzo offerto all'uomo per comunicare intimamente alla vita stessa di Dio, la «vita eterna».
Tu hai parole di vita eterna
L' epilogo registra una duplice reazione alle parole di Cristo e, più generalmente, alla sua rivelazione attraverso i segni e il discorso: il rifiuto dei «molti», che si «tiravano indietro e non andavano più con lui» (6,66) e la fede coraggiosamente professata da Simon Pietro a nome dei Dodici: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (6,68s). Si compie così la «crisi» (3,19; cf 9,36), separazione e giudizio, per la quale gli uomini si dividono davanti a Gesù: da una parte i non credenti, che si scandalizzano della sua persona e per le sue parole; dall'altra quelli che non inciampano nel «duro linguaggio» della rivelazione di Cristo e sono condotti a lui dal Padre.
Gesù stesso commenta lo scandalo e getta luce nell'intimo del cuore umano. La «carne», ossia l'uomo come creatura limitata e fragile, non riesce da sola a percepire la presenza di Dio nel Figlio incarnato. Chi dà la vita «è lo Spirito», la potenza di Dio che rigenera (cf 3,5s) e guida alla conoscenza della «verità» (cf 14,26; 15,26; 16,13). Di questa forza divina sono cariche le parole di Gesù; esse sono «spirito e vita» (v. 63), sono «parole di vita eterna» (v. 68).
D'altra parte, la rivelazione di Gesù è tuttora incompleta: il Figlio dell'uomo deve ancora «salire là dov'era prima». La sua esaltazione (cf 3,14s; 8,28; 12,31ss), oltre a costituire un ritorno alla condizione antecedente la discesa dell'Incarnazione (cf 17,5.7.24), sarà anche manifestazione della sua divinità («Io sono»: 8,28) e conferma suprema delle sue parole.
Dalla manna all’Eucaristia
Il discorso di Gesù nella sinagoga di Cafarnao traccia l'itinerario di un lungo viaggio che ogni credente percorre ogni volta che prende parte all'Eucaristia: dalle steppe del Sinai e dalle pagine del libro dell'Esodo all'incantevole conca del lago di Genezaret, al momento affascinante dell'ultima Cena e a quello terribile della croce, al misterioso incontro con il Risorto nella celebrazione eucaristica, che a sua volta anticipa il banchetto celeste: solo allora il «pane della vita», Cristo, comunicherà definitivamente all'uomo quella vita che egli stesso riceve dal padre, sì che in Lui anche noi possiamo godere la «vita eterna».
L'intero percorso è segnato da un'immagine, quella del pane: prima nella forma di un cibo prodigioso, la manna; poi come segno compiuto da Gesù e da lui stesso interpretato; quindi come cifra dell'Incarnazione del Verbo, «il pane della vita» disceso dal cielo; infine come elemento della cena pasquale, consegnato da Gesù ai suoi come sacramento del suo corpo e memoriale del suo sacrificio.
La prima tappa, quella rappresentata dal miracolo della manna nel cammino dell'esodo, orienta e prefigura quelle successive. Il richiamo al celebre testo biblico nel c. 6 del Vangelo di Giovanni costituisce uno degli esempi classici di quella rilettura dell'Antico Testamento, attraverso la quale il Nuovo Testamento, mentre riconosce al primo un «valore profetico», al tempo stesso ne rivela il «senso spirituale» e ne indica il «compimento» nella realtà nuova e superiore che è Cristo.
Non è certo se il testo citato al v. 31 sia Es 16,4 oppure Sal 78,24 L XX: ciò ha relativa importanza. La citazione porta con se l'eco di una serie di testi, biblici ed ebraici post-biblici, che ricordano il miracolo della manna e ne illustrano il significato. In particolare, sulla scia del Deuteronomio (Dt 8,3), il libro della Sapienza vede nella manna il simbolo della parola di Dio (Sap 16,24-26). L'interpretazione sapienziale è atte stata anche dai commenti rabbinici al libro dell'Esodo (Mekhiltà, Esodo Rabbà) e da Filone di Alessandria (Legum Allegoriae III, 56; Her:.. 39). D'altra parte, all'attesa di un nuovo Mosè era associata l'idea che avrebbe ripetuto il prodigio della manna: «Come il primo salvatore fece scendere la manna... così anche l'ultimo salvatore farà discendere la manna...» (Eccles. Rabba 1,28; v. anche Mekhiltà su Es 16,25; 2 Baruch 29,8).
Al tempo messianico o escatologico si riferisce anche il tema isaiano del banchetto, che il Signore ha preparato sul monte Sion per tutti i popoli (cf Is 25,6-8) ed al quale, nel contesto, è associata la vittoria sulla morte (Is 26,19). Vicino al tema del banchetto messianico è quello della tavola che la divina Sapienza ha imbandito: «Venite a mangiare il mio pane, bevete il vino che vi ho preparato... e vivrete...» (Sap 9,5s: cf Sir 15,1-3; 24,19s). Questi temi tra loro affini si rifanno ultimamente all'«albero della vita» che si trovava nel paradiso (Gn 2,9; 3,22); ad esso probabilmente si ispirano anche le espressioni giovannee «il pane della vita», «l'acqua viva... che zampilla in vita eterna» (Gv 4,10.14), la «luce della vita» (Gv 8,2). È comunque interessante che nella letteratura giudaica, come per il pane, si trovi una interpretazione sapienziale anche dell’albero della vita: «La Torà è un albero di vita per ogni uomo che la studia...» (Targum Neophyti I, Gn 3,24).
Su questo sfondo la parola di Gesù si comprende in modo più adeguato. Egli è il «vero pane disceso dal cielo», «il pane della vita», che compie le figure dell'Antico Testamento e ne realizza l' annuncio profetico. Il miracolo dei pani è un «segno», la cui portata cristologica risalta alla luce del Primo Testamento; d'altra parte, senza di questo e senza l'ulteriore ricerca (midrash) coltivata nei circoli sapienziali giudaici, non sarebbe nemmeno comprensibile l'evento e il messaggio cristiano.
(da Parole di vita, 4, 97)
di Rinaldo Falsini
Una vecchia accusa rivolta all’attuazione del Concilio, che ne riafferma l’uso in linea di principio pur concedendo l’ingresso della lingua volgare (SC 36), e ripetuta di recente non solo dai nostalgici, ma anche da non pochi responsabili che ne reclamano il recupero, specie nella messa (SC 54), riguarda “la scomparsa del latino” come lingua propria della liturgia romana. Non è fuori luogo un chiarimento, a distanza di oltre 40 anni (1965), per una verifica del passaggio dal latino alla “lingua volgare” (accettiamo l’espressione collaudata), nel nostro caso la lingua italiana, e trarne qualche riflessione(1).
La posizione del Concilio. Il problema è stato affrontato dal Concilio con l’affermazione di principio: ”L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini” (SC36). Per “riti latini” in sostituzione di “liturgia occidentale” si intendono quelli romano, ambrosiano, lionese, bragarense, ecc. Ma in pari tempo nel secondo capoverso si dichiara: “Dato però che (….) nella messa non di rado l’uso della lingua volgare può riuscire di grande utilità per il popolo, si possa concedere ad essa una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle monizioni, in alcune preghiere e canti, secondo le norme fissate per i singoli casi nei capitoli seguenti”. Nel terzo paragrafo si demanda agli episcopati locali la determinazione dei limiti e della misura con la conferma degli atti da parte della Sede apostolica.
Sull’art. 36 la discussione dei Padri conciliari, apertasi il 22.10.1962, fu una delle più accese, come dimostra l’elevato numero di ben 81 interventi, con diversità di opinioni e di emendamenti in maggioranza favorevoli. Il clima fu rasserenato con la formulazione che lasciava intatto il principio della lingua latina circa la possibilità, non più obbligatoria ( da tribui debet in tribui potest ) di una parte più ampia alla lingua volgare, specialmente nelle letture e nelle munizioni, in alcune preghiere e canti “secondo le norme”- ecco l’aggiunta risolutiva dei contrasti - “fissate per i singoli casi nei capitoli seguenti”, “in particolare per la messa e i sacramenti”.
A proposito della messa, il n. 41 (diventato l’attuale SC 54) fu oggetto di una vivace discussione su posizioni contrastanti, contrarie o favorevoli alla concessione. Fu scelta, in base al n. 36, la via media accettata da tutti con varie sottolineature. Ecco il testo: “ Si possa concedere (non tribuatur ), nelle messe celebrate con partecipazione di popolo, una congrua parte alla lingua volgare, specialmente (praesertim) nelle letture e nella “orazione comune” e, secondo i luoghi,anche nelle parti spettanti al popolo, a norma dell’art. 36”. E prosegue con una disposizione insolita: “Si provveda però che i fedeli sappiano recitare o cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell’Ordinario della messa che spettano ad essi”. Era stato l’auspicio espresso dal relatore monsignor Calewaert nell’art.36, fatto proprio dalla Commissione ma praticamente dimenticato fino ad oggi. Sulle singole parti del Proprio e dell’Ordinario la competenza è affidata alle Conferenze episcopali e non viene esclusa nessuna parte, nemmeno il Canone. Nella votazione del 14 ottobre 1963, 22 padri espressero il placet iuxta modum con l’esclusione del Canone: ad essi il relatore monsignor Inciso rispose:” Non sembra opportuno che dal Concilio si escluda formalmente ciò che i casi particolari dalla Sede apostolica può essere concesso, come è già stato concesso”.
Il passaggio dal latino alla lingua italiana. L’episcopato italiano si dimostrò fin dall’inizio nettamente favorevole all’uso della lingua italiana. Nell’assemblea del 14-16 aprile 1964 scelse la soluzione della misura più ampia possibile e nominò la Commissione episcopale di liturgia con l’incarico esecutivo. La complessa e tormentata storia della versione italiana dei testi liturgici può essere distribuita in varie tappe o fasi, sia perché condizionata dalle concessioni del Consilium,sia per la variante del gruppo degli esperti, sia dello stesso centro di coordinamento,senza dimenticare il problema dei criteri. A noi interessano le tappe che corrispondono alle tre edizioni del Messale romano: la prima provvisoria del 1965, la seconda, con i testi conciliari, del 1973; la terza del 1983, con un accenno conclusivo alla prossima imminente edizione.
L’edizione del Messale festivo latino-italiano entrata in vigore il 7. 3. 1965 aveva un carattere di “provvisorietà” perché utilizzava il testo del Messale tridentino con alcune modifiche del 1962. Vera novità erano le parti dell’Ordinario (risposte, acclamazioni, preghiere e dialogo del sacerdote con il Gloria e Credo, ecc.) predisposto dalla Commissione diretta da monsignor Carlo Rossi, vescovo di Biella, presidente del Centro di azione liturgica (Cal), con il segretario monsignor Virgilio Noè (oggi cardinale)
L’Ordinario è l’unico elemento del Messale rimasto quasi immutato fino ad oggi e il più delicato, perché di uso quotidiano e familiare a tutti, destinato alla recitazione e al canto, esposto al logorio dell’uso. La versione fu compilata con grande impegno da nove esperti (liturgia, Bibbia, musica) convocati a Saronno (Va) nei giorni 28-29.7.1964, quindi sottoposta al parere di due letterati. Il testo passò all’esame della Commissione che vi apportò due modifiche non concordate con gli esperti, tra cui l’infelice “La messa è finita, andate in pace”. L’Assemblea episcopale il 19 settembre dello stesso anno ne dava l’approvazione definitiva e il giorno seguente il Consilium emanava il decreto di conferma.
La versione del testo s’ispirò ad alcuni criteri che, presentati al Congresso internazionale delle traduzioni (9-11. 11. 1965) risultarono analoghi a quelli seguiti dagli episcopati di altre nazioni. La versione dei Prefazi, a seguito della lettera di concessione da parte del Papa al cardinale Lercaro (27.4.1965), fu messa in cantiere da un piccolo gruppo di esperti sotto la guida del Comitato episcopale, ottenne l’approvazione definitiva il 7 ottobre ed entrò in vigore con la prima domenica di Avvento del 1965. Con il Messale del 1973 il testo dei Prefazi, salito ad una ottantina anche se uniformi nell’inizio e nella conclusione, era ritenuto uno dei più complessi per la variante di contenuto, per la forma stilistica e tono ieratico,per un ordinamento ritmico. Perciò la traduzione fu molto impegnativa. Il Canone romano prese l’avvio con una bozza prima ancora della decisione della Conferenza episcopale italiana: durante l’estate del 1967 fu sottoposto a una consultazione che ottenne 205 placet su 212 votanti.
L’Istruzione Tres abhinc annos del 4.5.1967 da parte della Congregazione dei riti e del Consilium concedeva alle Conferenze episcopali la facoltà di usare la lingua volgare nel Canone romano, accompagnata da una lettera ai presidenti con allegate disposizioni circa i criteri da seguire nella versione. Cadeva così l’ultimo muro del latino nella celebrazione della messa e l’ingresso pieno della lingua volgare. Nessun testo liturgico ha conosciuto un cammino più lungo, più tortuoso e laborioso del nostro: cinque redazioni, due consultazioni dell’episcopato e dieci mesi di esame a tutti i livelli, di esperti, vescovi, della Congregazione della fede e dello stesso Paolo VI. Approvato dal Consilium, entrava in vigore il 24.3.1968. Al Canone romano seguiva la pubblicazione, il 22 maggio 1968, di tre nuove preghiere eucaristiche con le indicazioni relative alla versione e susseguente approvazione (sul testo italiano delle nuove preghiere eucaristiche si può consultare quanto è pubblicato nel volume del Cal Le preghiere eucaristiche nella celebrazione della Messa, Padova 1969).
Non possiamo dimenticare che proprio nel 1969 usciva l’Istruzione circa le traduzioni dei testi liturgici per la celebrazione con il popolo .L’edizione del Messale romano del 1973 riproduceva letteralmente il testo delle preghiere eucaristiche sopra ricordate con qualche ritocco improprio,la traduzioni di tutti i Prefazi e di tutte le orazioni.La novità maggiore fu la separazione delle letture bibliche nel libro del Lezionario.Nel 1974 la Cei istituì l’Ufficio liturgico nazionale con tutti i compiti operativi assieme alla Consulta nazionale di pastorale liturgica, che ebbe dei riflessi nell’organizzazione diocesana. L’edizione 1983 del Messale romano non apportò alcuna modificazione nelle traduzioni.Introdusse il ricambio per gli interventi del sacerdote e collette domenicali in rapporto con le letture bibliche triennali per tutte le domeniche. Invece nel 2003 l’Ufficio liturgico ha organizzato una revisione totale dell’intero Messale con particolare attenzione alle quattro preghiere eucaristiche, escluso l’Ordinario.
Concludendo questa cronistoria relativa al passaggio “totale” dal latino alla lingua italiana nella celebrazione della messa, partendo dalla rilettura del Concilio che stabiliva la conservazione dell’uso del latino pur concedendo l’ingresso della lingua volgare secondo modalità affidate alle Conferenze episcopali e alla conferma della Sede apostolica, possiamo affermare che la volontà del Concilio è stata interpretata e attuata entro il quadro prefissato. Nulla è avvenuto proprio nel primo decennio senza il beneplacito di Paolo VI. Se di fatto l’uso della lingua latina sembra riservato all’”edizione tipica”, salvo casi particolari, lo si deve alle forti esigenze pastorali, le stesse che avevano animato i Padri conciliari, a sollecitare gli episcopati a chiedere e ottenere maggiore estensione dell’uso della lingua volgare. Indietro non si può tornare. Resta aperto per la Chiesa italiana un lavoro di “rilettura totale” in attesa della nuova edizione del Messale
(da Vita Pastorale, 3, 2007)
Note
(1) Scrivo queste pagine come frutto di un’esperienza personale, cioè di testimone del Concilio nella segreteria della Commissione liturgica al 1969 dopo la traduzione delle quattro preghiere eucaristiche, quindi nell’edizione del Messale del 1983 e quella per la revisione delle stesse preghiere del 2003 per la prossima edizione. Segnalo i due convegni sulle traduzioni cui ho partecipato, il primo internazionale organizzato dal Consilium nel 1965 a Roma su Le traduzioni dei testi liturgici (Libreria Vaticana 1965); il secondo organizzato dall’Isr di Trento nel 1994 su La traduzione dei testi religiosi (Morcelliana 1994, Brescia).
BUDDISMO
Generosità: primo gradino per la pace
di Lama Paljin Tulku Rinpoce
DOMANDA
La malvagità è innata nell’uomo?
Il bene è equilibrio e positività. Il male è confusione, che arriva quando ci si allontana dal bene.
Il buddismo è stato fondato dal Buddha Sakiamuni. Nato in India nel 500 a.C., quindi di religione indù, ebbe l’intuizione della sofferenza, da cui cominciò il suo insegnamento. Uomo qualsiasi, con esperienze comuni a tutti gli individui normali, è quindi una figura storica, nonostante la sua realtà umana sia «condita» di leggenda.
Sakiamuni diffuse le conoscenze dai bramini (indù) al popolo, proponendo una liberazione non solo spirituale ma anche concreta e la rivalutazione della figura femminile (ad esempio, prima non c’erano monache). Comunque resta anche lui un po’ maschilista: nella tradizione tibetana i monaci hanno 253 ordini (voti), le monache 436!
Pur nascendo come una filosofia, a mio avviso, il buddismo può essere considerato una religione. Di essa ha, ad esempio, gli ordini monastici. Il fatto che Buddha non abbia parlato di Dio non è perché non ne ritenesse vera l’esistenza, ma perché la figura di Dio è indicibile e la mente umana non può comprenderlo. Penso questo, nonostante sul suo insegnamento ci sia incertezza: sono infatti trascorsi tantissimi anni e altrettante interpretazioni prima che si cominciasse a trascriverlo.
Storicamente in India il buddismo diventa anche religione di stato, ma ne viene espulso dai bramini dopo 700 anni. Successivamente fece presa nel nord della Cina, Giappone, Corea… e oggi in Occidente.
Cercando di adattarsi all’ambiente sociale in cui viene a trovarsi e innestandosi in tutte le culture dei paesi dove arriva, il buddismo ne ingloba le tradizioni locali. Questo genera tante scuole diverse, che seguono differenti tradizioni, legate a quella originaria e tutte fondate sul concetto base e comune della sofferenza.
In Tibet, ad esempio, avviene il sincretismo con la preesistente tradizione sciamanica, che porta a sviluppare il metodo della visualizzazione. In Giappone, invece, si sviluppa un altro modo di concentrarsi: lo zen. Infatti le differenze nell’ambito del buddismo sono legate alla meditazione, assimilabile in un certo senso alla preghiera, perché esistono tanti modi diversi per praticarla e pacificare la mente e gli animi.
Il buddismo, non proponendo una fede o dogmi ma un obiettivo, è una tradizione trasversale applicabile a tutte le religioni e fondata su quattro nobili realtà, fra cui pacifismo, equilibrio, armonia... L’illuminazione (realizzazione) della persona nasce dalle sue esperienze e qualità, la «buddità» viene dall’interno, impegnandosi e agendo secondo i principi di pace, armonia e positività.
Nessuna preghiera e influenza esterna ci può cambiare se non vogliamo cambiare noi. Le scritture (per quanto possano essere attendibili, visto quanto detto in precedenza) e il maestro possono solo indicarci la via.
Desiderio, avversione (discriminazione) e confusione mentale (per desiderio ci creiamo illusioni) sono i tre elementi fondamentali che ci impediscono di redimerci. L’io e il mio condizionano la nostra esistenza. In sostanza il buddismo è una religione facile da descrivere e difficile da attuare.
All’attuale realtà di guerre il buddismo si rapporta considerando alcune parole chiave, fra cui altruismo, compassione, generosità... L’amore è augurare a tutti di essere felici; la compassione è far di tutto per vincere la sofferenza altrui.
Il primo gradino per costruire la pace è la generosità: il saper dare. Molti amici della tradizione buddista sono impegnati per la pace, ma se non la viviamo nel nostro quotidiano, anche praticando il dubbio, dal quale nascono la ricerca e la capacità di migliorarsi, questo genere di impegno è un impegno inutile.
(da Missioni Consolata, gennaio 2007)
Paljin Tulku Rinpoce (Arnaldo Graglia) è da oltre 30 un monaco buddista di tradizione tibetana. Fondatore e guida del centro studi tibetani Mandala di Milano, siede fra i maestri reggenti il monastero di Lamayuru a Ladakh (India) ed ha assunto la guida del monastero di Atitse destinato a diventare un centro internazionale di meditazione.
di Rosa Myoen Raja
DOMANDA:
Constato che nell’essere umano esiste la dimensione del male, ma la domanda mi supera. Nella mia attività con i carcerati sento che non mi è estraneo quel che hanno commesso. Nelle stesse condizioni forse avrei fatto di peggio, la vita mi ha dato una realtà estremamente favorevole. Quando apprendo di eventi drammatici o tragici non riesco a prendere parte per qualcuno.
In realtà, purtroppo, c’è indifferenza in tutti noi per le tragedie dell’umanità che accadono anche in questo stesso istante.
Qualsiasi riflessione sulla pace deve partire dal presupposto che nel cuore di ogni persona brilla sempre una fiamma, una scintilla d’intelligenza. Bisogna poi recuperare la consapevolezza, la forza del «sentire» e del sentirsi parte di un tutto: se io respiro, l’intero universo respira; se raccolgo da terra un mozzicone, è l’intero universo che compie questo gesto; e sbaglia chi, vedendomi, pensasse che sto pulendo il marciapiede: è il mondo che sto pulendo!
È il principio di separazione dal tutto che genera i conflitti. Il buddista rispetta tutti e tutto, perché sa che compongono il «Tutto Universale», al quale appartiene anche lui. Togliendo qualcosa all’universo, lo togliamo anche a noi stessi, e viceversa.
È fondamentale l’azione della persona, il far bene quel che si fa: perché serve al mondo. È la nostra vita che deve essere messa in gioco e costruita sui grandi pilastri dell’Armonia, del Rispetto, della Purezza, e della Pulizia interiore. Non è attraverso il male degli altri che si raggiungono la felicità e la realizzazione di sé. Perciò dobbiamo cambiare partendo da noi stessi e dal nostro ambiente.
Anche la pace non va cercata negli altri, ma dentro di sé. Imparando ad affrontare i problemi quando si presentano, senza vacillare al solo pensiero che «forse arriverà il vento!». Come nulla intacca il diamante, nulla potrà compromettere una coscienza adamantina e pura.
Venendo alla domanda se, ai fini della pace, la religione sia troppa o troppo poca, penso che, se ha radici profonde nella storia dell’uomo, la religione non è mai troppa: i vertici delle organizzazioni e delle religioni predicano sempre bene!
Il mondo però non è migliorato, nel senso che non ha accolto i loro insegnamenti e non vi regna la pace. Sembrerebbe quindi che i grandi maestri abbiano fallito. Ma il maestro può solo aprire la porta; è il discepolo, con il suo piede, che può entrare. Chi non è se stesso fino in fondo deve sapere che nessuno può esserlo al suo posto.
Dunque la religione non sarà mai troppa in quanto a principi etici. Semmai sono troppo pochi a praticarla. Oggi dobbiamo quindi domandarci fino a che punto siamo praticanti: la nostra generazione non sa più bene in cosa sta credendo, ha bisogno di ritrovare i riferimenti giusti.
Dobbiamo anche considerare che mai ci sarà una religione unica sulla terra. Ci sarà, forse, un’integrazione interreligiosa, in vista della quale è necessaria una maggiore comprensione della religione altrui, anche da parte di chi non crede. È quindi importante lo sviluppo di tutte le religioni e la ricerca di opportune occasioni per praticarle assieme.
Per questo credo nella necessità e nel valore del lavoro culturale nella nostra società. I bambini già ci hanno superato, sono già uniti, ma gli adulti devono creare un ambiente favorevole, perché questo atteggiamento spontaneo possa radicarsi nelle loro coscienze.
Più delle ore di religione passate a scuola, conta la testimonianza vissuta dai genitori in famiglia; dove la religione potrebbe aiutare a crescere meglio i figli e a costruire una società migliore. Anche se essere buoni praticanti non è garanzia di successo.
Vorrei infine segnalare che, dal 2000, i leader delle religioni presenti a Milano si stanno incontrando con continuità. Un lavoro che ha portato alla firma, il 21 marzo 2006, dello statuto costitutivo del Forum delle religioni a Milano. Anche se è stato uno sforzo impegnativo, raggiungere questo obiettivo è stato più facile di quanto non sembrasse al principio.
(da Missioni Consolata, gennaio 2007)
Rosa Myoen Raja ha iniziato nel 1988 la pratica zen presso il centro «Il Cerchio» di Milano, di cui è diventata presidente, avendo ricevuto dal maestro Tetsugen l’ordinazione monastica. È membro fondatore della sezione milanese di «Religioni per la Pace», Forum delle religioni a Milano.
Sono assai vetuste le origini del Cristianesimo in Armenia. La tradizione le fa risalire agli apostoli Taddeo e Bartolomeo. La critica moderna ha potuto avvisare tracce di predicazione cristiana già a partire dalla seconda metà del II secolo.
LA STORIA
Il Vangelo in Alaska
di p. Michail Oleosa
Pubblichiamo un estratto della relazione su «San German di Nuovo Valamo e l’evangelizzazione degli aleuti di Kodjak» tenuta a Bose durante il Convegno ecumenico del 2006.
Dopo decenni di esplorazioni e contatti commerciali, gli uomini di frontiera incominciarono ad avventurarsi nei territori degli aleuti, gli indigeni dell’arcipelago di Kodjak nell’Alaska centro-meridionale. Nel 1784 un massacro di centinaia di nativi segnò l’inizio del sistematico sfruttamento della regione da parte della Compagnia russa d’America. All’avamposto commerciale fu associata una missione monastica, che al sovrintendente locale, Aleksandr Baranov, dovette sembrare una vera e propria intrusione. Gli aleuti avevano infatti intuito che questi uomini vestiti di nero li difendevano dai soprusi dei mercanti russi. I monaci, accusati d’incitamento alla ribellione, furono arrestati e allontanati.
A Kodjak rimase padre German. Costretto a ritirarsi nella foresta, il monaco si costruì un piccolo eremo, dove col tempo diede vita a una scuola per i bambini aleuti, iniziando un dialogo di amore e reciproca conoscenza, che conquistò il cuore degli indigeni. La vita religiosa degli aleuti è incentrata sul rispetto del potere spirituale, il Sua, che anima tutte le cose viventi e custodisce l’armonia cosmica. Se l’equilibrio tra uomini e animali è turbato, ci sono gli sciamani che, dopo un viaggio iniziatico nell’oltretomba, ricompongono la disarmonia.
Quando la figlia del prete di Kodjak si ammalò, fu proprio padre German a inviarle uno sciamano perché la guarisse. Aveva intuito che la fede cristiana non era la distruzione o la sostituzione delle antiche tradizioni spirituali degli aleuti, ma il loro compimento. La liturgia ortodossa affiancava le antiche cerimonie religiose che celebravano e ringraziavano il Sua, la forza vitale presente in ogni creatura, ma Cristo stesso è la Vita! I Sua sono Gesù che offre se stesso per la vita del mondo, sono i Lógoi, derivati da Cristo-Logos, di cui parla Massimo il Confessore. Cristiano è infatti «colui che, ovunque guardi, vede Cristo e gioisce in lui» (A. Schmemann). Proprio questa visione aveva permesso ai monaci di presentare il cristianesimo quale compimento di tutto ciò che è buono, vero, onesto e bello nella cultura aleuta, facilitandone il passaggio alla fede cristiana.
Più di trentacinque anni fa mi capitò di leggere la Vita di German a una scolaresca di bambini aleuti. «Tutte queste cose le sappiamo!», si lamentavano. Ma quando arrivai alla fine della biografia, furono sbalorditi. « È morto?!», chiesero. «Sì, è detto qui: “Padre German morì il 13 dicembre 1834”». «Impossibile! - esclamarono -. I nostri genitori e i nostri nonni lo conoscono!».
A loro modo, i bambini avevano ragione. Padre German è vivo in Cristo e con Cristo, e anche in mezzo al suo popolo.
(da Mondo e Missione, gennaio 2007)
Non esiste nessuna prigione corporale per chi riesce a guardare la propria vita con gli occhi aperti del Vangelo.
Dialogo ecumenico
di Andrea Pacini
Le relazioni ecumeniche tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse sembra stiano attraversando un periodo di miglioramento e di maggiore distensione rispetto all’ultimo decennio trascorso. Si tratta di una distensione concretamente testimoniata anche da alcuni importanti eventi, quali la ripresa - nello scorso mese di settembre - dei lavori della Commissione internazionale di dialogo teologico e - in occasione della festa di sant’Andrea lo scorso 30 novembre - la visita fraterna di papa Benedetto XVI al patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I, nonché il clima più disteso - o almeno meno conflittuale - che si respira nei rapporti tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa russa. Ci si può chiedere tuttavia se questo processo di distensione, in sé senz’altro positivo, si sviluppi su un fondamento solido, o se rimanga in qualche modo su un piano ancora superficiale e necessiti di un più profondo radicamento.
E’ chiaro infatti che alcune questioni che hanno complicato non poco i rapporti ecumenici tra ortodossia e cattolicesimo, come quella dello statuto teologico delle Chiese greco-cattoliche, rimangono ancora non risolte; se la sospensione della discussione su tale argomento ha avuto l’innegabile risultato positivo di consentire la ripresa del dialogo teologico, resta il fatto che non aver raggiunto una soluzione condivisa significa che tale punto nodale potrà riemergere come causa di conflittualità nel presente e nel futuro. Tale rischio si prospetta anche perché non si tratta di un problema di ordine puramente teorico, bensì con diretto riferimento esistenziale, dal momento che coinvolge Chiese vive, che convivono all’interno di Stati a maggioranza ortodossa.
Esiste tuttavia un’altra questione, forse meno nota al vasto pubblico, che ha recentemente influenzato le relazioni ecumeniche cattolico-ortodosse e che è destinata a esercitare un’influenza rilevante anche nel futuro: si tratta dei rapporti interni all’ortodossia, ovvero delle relazioni inter-ortodosse, caratterizzate da tensioni non irrilevanti, che si ripercuotono anche sull’ecumenismo.
Dal momento infatti che la comunione ecclesiale ortodossa è costituita da un insieme di Chiese autonome (normalmente, ma non sempre, di rango patriarcale), le relazioni tra le diverse Chiese svolgono un ruolo essenziale per esprimere una posizione univoca e condivisa o, al contrario, frammentaria. E’ un dato di fatto che con gli inizi degli anni ‘90 e la fine dei governi comunisti nell’Europa orientale, il rinnovato ruolo delle Chiese ortodosse di quei Paesi, in particolare della Chiesa ortodossa russa, ha riacutizzato un’antica e non risolta competizione tra il patriarcato di Mosca e il patriarcato di Costantinopoli. La motivazione di tale competizione non è irrilevante, perché riguarda il ruolo e l’esercizio dell’autorità primaziale all’interno della comunione ortodossa. Com’è noto la tradizione orientale riconosce alla sede di Costantinopoli il rango primaziale, che comporta in particolare la prerogativa di concedere lo statuto di autonomia e di autocefalia a nuove Chiese ortodosse e il diritto di appello al patriarcato ecumenico da parte di Chiese ortodosse che abbiano contenziosi reciproci, nonché da parte di singoli chierici che abbiano contenziosi con la propria giurisdizione ecclesiastica.
Il patriarcato di Mosca non intende riconoscere tali prerogative al patriarcato di Costantinopoli, e spesso ha posto atti unilaterali in cui ha assunto prerogative di tipo primaziale che secondo la tradizione spettano al patriarcato ecumenico, quali la concessione dello statuto di autocefalia alle Chiese ortodosse di Cina, Giappone e America (Stati Uniti), e, più recentemente, il rifiuto della mediazione di Costantinopoli per risolvere la crisi interna all’ortodossia ucraina. Ultimamente la competizione tra Mosca e Costantinopoli ha trovato ulteriori elementi di aggravamento in rapporto alla diaspora russa in Europa occidentale. Qui infatti, in seguito alla rivoluzione sovietica, si sono costituiti forti nuclei di emigrati russi, che si sono organizzati in due giurisdizioni ecclesiastiche, di cui una - la diocesi del Chersoneso - dipende da Mosca e l’altra - che ha il maggior numero di parrocchie - costituisce l’esarcato russo dipendente dal patriarcato di Costantinopoli. Quest’ultimo era stato fondato negli anni ‘20 del secolo XX per un’esplicita volontà di sottrarsi alla giurisdizione di una Chiesa russa che si riteneva compromessa con il governo sovietico.
L’esarcato russo ha svolto e svolge un ruolo fondamentale sul piano delle relazioni ecumeniche e come “ponte” culturale e teologico tra l’Occidente cristiano cattolico e protestante e l’Oriente ortodosso. L’istituto teologico San Sergio che da esso dipende è l’istituzione teologica ortodossa più impegnata in tali campi. Grazie al suo impulso le relazioni ecumeniche con l’ortodossia in tutta Europa hanno conosciuto progressi assai importanti. Tuttavia da circa tre anni il patriarcato di Mosca ha cercato di espandere la sua influenza sulla diaspora di origine russa, partendo dalla Gran Bretagna, dove ha invitato le due giurisdizioni a unificarsi riconoscendosi dipendenti dal patriarcato di Mosca. La strategia, messa in atto anche grazie a nuovi gruppi di immigrati russi giunti in Gran Bretagna, mirava a erodere molte prerogative di autonomia di cui godevano le parrocchie e le diocesi “russe” in terra britannica; inoltre il patriarcato russo ha cercato di diffondere la propria linea teologica e culturale, decisamente meno aperta a una ricerca teologica nuova, a una maggiore autonomia locale e a relazioni ecumeniche ricche e costruttive.
Di fronte a queste prospettive i fedeli e buona parte della gerarchia locale hanno protestato, ottenendo nel 2002 il trasferimento del vescovo ausiliare appena nominato proveniente dalla Russia. La situazione è ulteriormente precipitata nella primavera del 2006, quando a fronte della linea promossa dal patriarcato di Mosca, lo stesso vescovo Basilio - successore del noto vescovo Anthony Bloom nella guida pastorale della giurisdizione britannica del patriarcato russo - ha chiesto al proprio patriarca di passare personalmente all’esarcato russo della giurisdizione di Costantinopoli - che mantiene l’apertura teologica, pastorale ed ecumenica tipica dell’ortodossia dell’Europa occidentale - e di lasciare che potessero seguirlo le parrocchie che lo volessero. La risposta del patriarcato di Mosca è stata l’immediata sospensione a divinis. Il vescovo Basilio si è allora appellato al patriarca di Costantinopoli, che ha riconosciuto come anticanonica la procedura da cui era stato colpito e lo ha accolto nella propria giurisdizione con le parrocchie che intendono seguirlo.
Per il patriarcato di Mosca si è trattato di uno smacco notevole, anche perché tutte le principali Chiese ortodosse - con l’eccezione del patriarca di Antiochia - si sono dichiarate solidali con il vescovo Basilio e la decisione del patriarca ecumenico. Per il patriarcato di Mosca la volontà di espandere la propria influenza sulla diaspora europea si è dimostrata un’arma a doppio taglio, a fronte della notevole differenza di prospettiva culturale, teologica e pastorale tra la porzione maggioritaria dell’ortodossia dell’Europa occidentale - specialmente quella di antico insediamento - e le posizioni teologiche e culturali della Chiesa ortodossa russa attuale. Questo spiega perché anche in occasione del recente incontro della Commissione di dialogo teologico cattolico-ortodossa il capo della delegazione russa abbia contestato in modo violento la responsabilità primaziale di Costantinopoli e le connesse prerogative, senza per altro ottenere alcun successo, perché anche in quell’occasione le altre Chiese ortodosse si sono mostrate solidali con Costantinopoli. L’insieme di queste vicende tuttavia coinvolge anche l’ecumenismo inteso come efficace cammino verso l’unità: forti elementi di competizione e di disgregazione interni a una confessione non possono infatti che ulteriormente complicare i processi di riconciliazione e di dialogo ecumenici interconfessionali.
(da Vita Pastorale, gennaio 2007)
di Marino Parodi
La conoscenza delle religioni diverse da quella cristiana si impone a chiunque voglia conoscere il mondo, ma in particolare ai cristiani. Ciò non soltanto a seguito del fenomeno della globalizzazione, grazie al quale circolano regolarmente, con rapidità sino a poco tempo fa impensabile, messaggi di ogni genere, ivi compresi quelli di natura religiosa. Un’altra importante motivazione di fondo consiste nel fatto che il cristiano, per sua stessa natura portato a porre l’anima e quindi l’esigenza spirituale al centro del proprio pensare, sentire e agire, non può non interrogarsi sui mille messaggi di natura chiaramente o vagamente religiosa che circolano nel mondo di oggi un po’ a tutti i livelli. Un mondo che, a Dio piacendo, ha smentito clamorosamente ogni funesta profezia di "eclissi" o "tramonto" del sacro, imperante negli ultimi decenni.L’umanità del terzo millennio è profondamente assetata di spiritualità e di sacro, insomma di Dio. Questo è un dato di fatto innegabile, del quale, ci pare, tutti i cristiani hanno motivo di rallegrarsi. Altro discorso, estremamente complesso, è poi quello di constatare dove questa ricerca sacrosanta e naturalissima vada a finire. A maggior ragione, noi cristiani non possiamo non interrogarci. E, di conseguenza, deciderci a informarci.
«Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono»
Ancora una volta, la prospettiva più autenticamente cristiana e, al tempo stesso, più scientifica, come risulterà sempre più chiaro man mano che esploreremo i vari pianeti dell’affascinante galassia religiosa, è già indicata dallo stesso Vangelo.
Si tratta di trovare l’equilibrio tra due opposte esigenze: quella di conciliare la consapevolezza del fatto che Cristo è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6), con l’altra affermazione evangelica, laddove lo stesso Cristo ci rassicura: «Chi non è contro di noi, è per noi» (Mc 9,40). Un’indicazione assai illuminante, alla quale san Paolo fa eco invitandoci a «esaminare ogni cosa e tenere ciò che è buono» (1Ts 5,21). Cristo ci precisa ancora, parlando dello Spirito, che «il vento soffia dove vuole» (Gv 3,8).
Va da sé che si tratta di un equilibrio non sempre facile da trovare, ma non vi è altra strada.
Nel corso del nostro "viaggio" cercheremo, per quanto possibile, di includere quasi tutte le tappe fondamentali del panorama religioso contemporaneo (il "quasi" è obbligatorio, giacché per affrontarle tutte occorrerebbero spazi e tempi ben maggiori). Seguiremo un ordine in linea di massima cronologico, partendo dalle religioni più antiche, assumendo come punto di riferimento il periodo della loro nascita, per quanto la datazione sia non di rado assai approssimativa.
Così passeremo in rassegna, oltre all’ebraismo e ai pilastri della spiritualità orientale (islamismo, al quale per ovvie ragioni dedicheremo un’attenzione particolare, induismo, buddismo e altri ancora), pure certe forme di spiritualità (ad esempio esoterismo e sciamanesimo), le quali, pur vantando radici antichissime, si sono riproposte all’attenzione generale negli ultimi decenni.
Ci atterremo ad alcune indicazioni di massima che corrispondono poi a una sorta di minuscolo vademecum necessario al cristiano che si prepara ad affrontare il viaggio alla scoperta delle altre religioni.
Superare i pregiudizi e la paura del confronto
Innanzitutto, sgombrare il campo, ossia la mente, da ogni pregiudizio. È facile identificare l’islam col fanatismo e il buddismo col rifiuto del mondo, ma tutto ciò non è assolutamente vero. L’apertura di mente e di cuore costituisce dunque la conditio sine qua non per il cristiano che voglia accostarsi allo studio delle altre religioni. «Non abbiate paura»: la storica esortazione di Giovanni Paolo II, rimasta scolpita nel cuore di chi sa quanti milioni di uomini e donne di ogni razza e religione, si adatta perfettamente allo scopo.
Sicuramente egli stesso non ebbe paura di confrontarsi con le altre religioni: anzi, se si è rivelato e confermato maestro universale, al di là dei confini religiosi e culturali, ciò è di sicuro dovuto anche alla capacità di conciliare ciò che a molti sembra, a torto, la quadratura del cerchio (pur essendo un compito certamente non facile da gestire): ossia fedeltà assoluta al Vangelo da un lato, nella consapevolezza della sua originalità, apertura totale di mente e di cuore alle altre religioni dall’altro.
Il mutato e più rilassato clima nei rapporti tra cristianesimo e altre religioni è sicuramente in buona misura da ricondurre all’insegnamento e alla testimonianza di Giovanni Paolo II, il quale non temette di compiere allo scopo gesti clamorosi, noncurante dello scandalo che inevitabilmente avrebbe suscitato tra i ben pensanti: come il fatto di inginocchiarsi e pregare in una moschea.
Del resto, il rifiuto del dialogo, o addirittura di conoscere l’altro, in definitiva non nasce forse dalla paura? Paura di non possedere in effetti quella verità, di cui si pretende di sbandierare l’esclusiva? Insomma, il sospetto che dietro tanto bigottismo si nasconda in definitiva una fede in realtà insicura e infantile pare tutt’altro che azzardato.
L’esercizio vigile e sapiente di una "coscienza osservante"
In secondo luogo, passo che è logica conseguenza del precedente, occorre accostarsi all’esperienza religiosa altrui collocandola nel contesto storico e culturale di cui essa è al tempo stesso madre e figlia, evitando cioè di applicarle schemi che sono tipici del nostro mondo. In altre parole, esercitare quella che la psicologia di orientamento più avanzato chiama, con termine preso a prestito dalla saggezza orientale, "coscienza osservante". Ossia, osservare senza giudicare, operazione tanto indispensabile quanto difficile, almeno, in quei casi (tutto sommato neppure poi così frequenti) in cui prendere atto di certe realtà come primo impulso non può che suscitare una riprovazione nella nostra coscienza di cristiani e di occidentali. È il caso, ad esempio, del sistema indiano delle "caste".
A relativizzare l’imbarazzo aiuterà comunque un dato confortante: proprio a seguito di un processo di maturazione spirituale portato avanti a livello di opinione pubblica mondiale da svariati fattori, un po’ tutte le religioni tendono a concentrarsi sulla ricerca spirituale, la quale di tutte costituisce poi l’anima, per tralasciare gli aspetti maggiormente legati a fattori storici e culturali (ancora una volta, l’esempio delle "caste" indiane non potrebbe essere più calzante).
Ciò va detto esplicitamente e con forza senza voler negare o minimizzare il deleterio fenomeno dei "fondamentalismi", i quali sono peraltro destinati a sgonfiarsi sempre più man mano che ci si concentra, appunto, su ciò che unisce, invece di sottolineare ciò che divide.
Al di là del "rumore" mediatico, verso differenti approcci al divino
In terzo luogo, occorre mantenere costantemente tale apertura curiosa e benevola, verrebbe voglia di dire, man mano che si procede nella ricerca. Mai dare nulla per scontato, insomma, mai pretendere di aver "compreso tutto" e mai banalizzare. Osservazione assai meno ovvia di quanto si potrebbe pensare se si tiene presente che viviamo nell’epoca dei talk show e del bombardamento mediatico, in cui alla quantità dell’informazione spesso non corrisponde affatto la qualità. Capita spesso che vengano intervistati certi soloni i quali, più che dell’assai complesso mondo religioso e spirituale, del quale pretendono di sapere tutto, sembrano invece esperti dell’arte di intrufolarsi in tutte le platee televisive possibili e immaginabili.
Le sorprese, insomma, possono sempre arrivare. Occorre infatti tenere presente che l’esperienza religiosa e spirituale è per sua natura evolutiva e dinamica: la stessa Chiesa cattolica non ha forse riscoperto in tempi recenti valori quali tolleranza o la libertà religiosa, i quali, benché scritti nel Dna del cristianesimo e abbondantemente praticati all’epoca delle sue origini, erano finiti negli ultimi secoli nel dimenticatoio, a seguito di complesse vicende storiche?
Il discorso si chiarirà man mano che ci addentreremo nelle varie tappe del nostro viaggio e si rivelerà interessante in quanto che scopriremo la diversità dell’approccio al divino di svariate altre scuole rispetto al cristianesimo. Un caso clamoroso riguarda a tal proposito la natura del buddismo, circa il quale si sente spesso dire che «non è una religione». Tale affermazione è al tempo stesso vera e falsa, a seconda della prospettiva che si sceglie di condividere.
Tutto infatti dipende da ciò che si intende per "religione": se con questo termine, infatti, intendiamo riferirci al rapporto con un Dio "trascendente" – ossia altro rispetto all’universo e agli esseri umani, dei quali viene considerato Creatore –, l’affermazione è da considerarsi vera, in quanto tale approccio, tipico delle tre grandi "religioni del Libro" (ebraismo, cristianesimo e islamismo) è estraneo non solo al buddismo, ma a tutta la cultura dell’Estremo Oriente (fatte salve le eccezioni che vedremo a suo tempo). Se invece per "religione" si intende, genericamente, la ricerca del divino, allora il buddismo si può senz’altro considerare una religione.
Partire dal comune e fecondo terreno dell’esperienza spirituale
In quarto luogo – si tratta veramente di un punto cruciale e decisivo – occorre tener presente che, al di là delle notevoli, innegabili e a tratti addirittura abissali differenze a livello di temi certo non trascurabili – quali la concezione dell’uomo, del suo posto nell’universo e in alcuni casi addirittura del suo destino eterno –, resta comunque un terreno di importanza fondamentale nel quale tutte le religioni si incontrano. Ossia, quello dell’esperienza spirituale a livello più profondo, dell’ineffabile incontro col divino che culmina nella mistica.
Il dialogo presuppone innanzitutto la consapevolezza della propria identità: "dialogare" significa aprirsi a un confronto costruttivo che permette di scoprire punti comuni. Tutto ciò non avrebbe senso, se le posizioni fossero già identiche o anche soltanto molto simili.
Infine, essere disposti a imparare dagli altri, ossia, per dirla in termini brutali, a "farsi furbi". Si tratta di un discorso particolarmente importante e urgente per gli operatori pastorali. Mi spiego: il cristianesimo è per sua stessa natura completo, in grado di rispondere in pieno a tutte le esigenze dell’uomo. Se poi vi sono nel mondo, specialmente in alcuni Paesi europei, sempre più cristiani affascinati da altre religioni – discorso bilanciato, sul piano numerico, dalla sostanziale tenuta del cristianesimo nei Paesi occidentali, la quale in alcuni di questi è addirittura un’avanzata, nonché dai suoi passi da gigante in tanti Paesi in via di sviluppo – ciò significa che siamo noi a mancare di vivacità e consapevolezza.
Infatti, se il buddismo e l’induismo fanno presa su molti per la loro obiettiva profondità spirituale, ciò non può che essere uno stimolo per noi, per conoscere e proporre la nostra spiritualità, la quale non può certo essere considerata da meno. Il discorso si fa particolarmente cruciale in un Paese come il nostro, dove, a causa di complesse vicende storiche, si ha troppo spesso l’impressione che la spiritualità cristiana venga messa in ombra a opera di non pochi operatori pastorali, specialmente in alto loco, a beneficio dell’insistenza su tematiche morali, sociali e politiche. A buon intenditor...
Una provocazione dal Concilio,ancora valida e attualissima
Per concludere, un piccolo promemoria per i cultori dell’ortodossia a oltranza: vale sicuramente la pena di citare qualche passo di quel magnifico documento che è la dichiarazione Nostra aetate, sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane. Il documento, che risale al concilio Vaticano II, è tanto più illuminante se si pensa che, redatto quarant’anni orsono, suona estremamente attuale.
«Nel nostro tempo», si dice nel testo conciliare, «in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno più strettamente e cresce l’interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa esamina con maggiore attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non-cristiane. Nel suo dovere di promuovere l’unità e la carità tra gli uomini, e anzi tra i popoli, essa in primo luogo esamina qui tutto ciò che gli uomini hanno in comune e che li spinge a vivere insieme il loro comune destino» (NA 1).
E ancora, prima di ricordare, ovviamente, la propria missione di «annunciare il Cristo, che è via, verità e vita (Gv 14,6), in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le cose» (NA 2), il Concilio afferma che «la Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste [ossia nelle religioni altre rispetto al cristianesimo] religioni. Infatti essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini». Di conseguenza «essa esorta i suoi figli affinché, con prudenza e carità, per mezzo del dialogo e della collaborazione con i seguaci delle altre religioni, sempre rendendo testimonianza alla fede e alla vita cristiana, riconoscano, conservino e facciano progredire i valori spirituali, morali e socio-culturali che si trovino in essi» (NA 2).
(da Vita Pastorale n. 3, 2007)
Le riflessioni che qui pubblichiamo sono tratte da un opuscolo scritto a mano intitolato Impariamo a pregare. L’autore vive da alcuni anni una specie di vita eremitica. Ciò che propone è perciò frutto della sua esperienza, o meglio, del suo cammino spirituale. Si chiama p. Franco. Dietro di sé ha una storia interessante che merita di essere conosciuta, poiché manifesta quanto sono mirabili le vie di Dio, e creative quelle dello Spirito. È lui stesso a raccontarcela.