Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input
di P. Franco Gioannetti
Nacque circa il 949 a Galatai nella Paflagonia (Asia minore), morì il 12 marzo 1022.
Simeone, dopo i primi studi negli ambienti dio corte, si ritirò nel monastero Studion, dove fu formato da Simeone Studita. Ma a causa del suo spirito austero e mistico ed anche di contrasti interni allo Studion, passò al monastero S. Mamas di cui divenne Abate. I venticinque anni del suo abbaziato si distinsero per la sua capacità di riforma, miglioramento ed incremento della vita monastica. Fu predicatore e scrittore. Aveva sempre avuto una grande venerazione per il padre spirituale e ne introdusse il culto. Questo fatto gli creò prima l’opposizione di una parte dei suoi monaci, poi una vera e propria persecuzione da parte di Stefano di Nicomedia. Fu processato ed esiliato. Ma l’esilio non durò a lungo ed egli tornò per ritirarsi nel convento di S. Marina, dove morì.
Le sue opereSpiritualità1. Trentaquattro catechesi o conferenze per i suoi monaci di S. Mamas; contengono elementi della sua teologia ascetico-mistica e note della sua vita.
2. Due eucaristie o ringraziamenti, ricche di dati autobiografici.
3. tre trattati teologici, due trattati etici, cinque lettere. Hanno carattere polemico-apologetico contro i suoi avversari.
4. trentatre logoi o discorsi e 24 Logoi en kephalaiois (discorsi alfabetici), che sono una rielaborazione dell’eredità di Simeone Studita.
5. dei brevi Capitali dedicati all’introduzione ascetico mistica.
6. 58 inni conformi alla sua spiritualità.
Profondo conoscitore della Scrittura e delle opere dei Padri e dei monaci; le ha profondamente assimilate e ne ha fatto un possesso interiore di cui dispone con grande libertà.
Caratteristiche del suo pensiero e perciò della sua vita e del suo insegnamento:
* La convinzione che la forza intima di una vera conversione è l’amore e questo è soprattutto dono del Signore che noi siamo chiamati ad accettare come forza trasformante e vivificante che dà valore a tutte le opere dell’uomo.
* La sua esperienza che lui narra e che propone: per iniziare e progredire sul cammino della perfezione è indispensabile la sottomissione senza riserve alla direzione di un “padre spirituale”.
* Presupposto di una vita monastica autentica è la speranza basata su una fede incrollabile che Dio realizzerà le sue promesse, ed una fedeltà profonda nell’osservanza dei comandamenti che però sono preceduti da conversione e preghiera.
* L’imitazione di Cristo come partecipazione alla sua passione.
* La convinzione, costantemente ribadita e difesa, che la visione di Dio è destinata a tutti già ora, essa è la ricompensa dell’umiltà e frutto dell’amore.
* Le asserzioni che Simeone fa su Dio si muovono lungo la linea apofatica (inesprimibilità della realtà divina): Dio è invisibile, inaccessibile, incomprensibile, ineffabile.
Simeone è ben consapevole dei confini della nostra conoscenza di Dio e ne è tormentato, tanto più che l’essenza di Dio resta del tutto impenetrabile alla nostra comprensione.
Perciò sottolinea con intensità che l’unica via all’incontro con Dio è la nostra esperienza di Lui. È l’esperienza spirituale del cuore a garantirci che noi possiamo acquistare comunione con Lui e partecipare alla sua vita. Naturalmente della grandezza divina riconoscerà soltanto tanto quanto i suoi occhi interiori sono in grado di abbracciare.
La formazione non avviene fuori del mondo, ma è formazione a stare nel mondo, in questo mondo, con le sue ferite e contraddizioni, coi suoi interrogativi e aspirazioni, con la sua novità sempre inedita e imprevedibile.
di Serge Lafitte
“Io permetto che nelle Indie, Gesù Cristo, nostro Dio, sia frustato, martorizzato, schiaffeggiato e crocifisso non una volta , ma mille volte, ogni volta che gli spagnoli spogliano e distruggono queste genti e gli portano via lo spazio della conversione e della penitenza, li privano della vita prima del termine, in modo tale che muoiono senza fede né sacramenti.”
E’ Bartolomeo de Las Casas che parla, in una sua scena del suo racconto, “Storie dell’India”, adesso disponibile in francese in versione integrale.
Monumentale, questa narrazione è meno di un libro di storia come noi lo concepiamo oggi, è la ricapitolazione di una vita sconvolta dai misfatti di una conquista sanguinosa.
Las Casas non fu il solo difensore degli indiani della sua epoca. Altre voci hanno testimoniato un umanesimo molto avanzato rispetto ai tempi.
In compenso il suo discorso e la sua battaglia teologica lo distinguono nettamente dai suoi contemporanei, come mostra l’analisi penetrante che ne fa Gustavo Gutierrez, il padre della teologia della Liberazione latino-americana nel suo libro “Dio e l’oro degli indiani occidentali”.
Se l’ottica di Las Casas è differente - egli nota - “questo è dovuto al fatto che l’approccio segue una via inedita per la sua epoca.Per comprendere ciò che accade nelle Indie, egli cerca di adottare il punto di vista dell’indiano, del povero e dell’oppresso.”
Partendo da questa esperienza, e non da una riflessione puramente speculativa, egli non difende soltanto i diritti degli indiani, ma denuncia il sistema che conduce alla loro eliminazione. E va più lontano, sottolinea Gutierrez, dimostrando “con una perspicacia tutta biblica, l’idolatria di chi considera l’oro come il dio al quale consacrano la loro vita” senza la minima considerazione per quella delle loro vittime.
Buon cattolico e colonizzatore convinto dei benefici della conquista delle Indie, Las Casas non si è convertito in un giorno a questo approccio.
Altri lo hanno preceduto sul cammino della denuncia, soprattutto dei frati domenicani stabilitisi a Saint-Dominique, ai quali egli si avvicina.
Nella sua Storia delle Indie , riferisce il sermone indirizzato da uno di loro, Antonio de Montesinos, ad alcuni coloni sconcertati.
E’ il 30 novembre 1511 e siamo nella chiesa di Saint-Dominique:
“Ditemi dunque quale diritto e quale giustizia vi autorizza a mantenere questi indiani in una condizione di servitù così orribile e crudele?
A nome di quale autorità avete compiuto guerre così detestabili contro queste genti che erano pacate e in pace sulle loro terre, nelle quali voi avete soppresso una così grande quantità di loro con morte o sevizie inaudite?
Perché le tenete così nello scoramento e nell’oppressione, senza dar loro da mangiare né le cure per le malattie causate dal lavoro eccessivo che voi imponete loro e che le fa morire?
Per parlare chiaro, voi le uccidete per prendere ed appropriarvi dell’oro giorno dopo giorno…”
La vita di Las Casas precipita definitivamente, quattro anni più tardi, nel 1514. Allora stabilitosi a Cuba e sempre colono, il prete che era diventato, rilegge i suoi ultimi sermoni e medita sulla Bibbia.
Un passaggio del capitolo 34 de l’Ecclesiaste, lo colpisce: “Sacrificare un bene mal acquisito, non interessa, i doni dei cattivi non sono graditi. Dio non gradisce le offerte degli empi, non è per l’abbondanza delle vittime che perdona i peccati. E’ come immolare un figlio in presenza del padre offrire un sacrificio con i beni dei poveri. Un magro nutrimento, questa è la vita dei poveri, privarne loro è commettere un assassinio.Uccidere il prossimo togliendogli la sussistenza è spargere il sangue come privare il lavoratore del suo dovuto”.
Non è che allora, e dopo molteplici giorni di riflessione, racconta Las Casas, che egli si convince che “tutto ciò che si commette nelle Indie, agli occhi degli indiani è ingiusto e tirannico…”.
Fermamente deciso a consegnare questo messaggio e per rendere credibile la sua predicazione, egli decide di rinunciare alle sue proprietà ed ai suoi indiani.
Il segreto di questa storia è conosciuto. E’ fatta di ombre e di luce, queste ultime sono dovute a quelli che , come Las Casas, si sono sforzati, non completamente invano, di attenuare la miserevole sorte degli indiani.
Ma al di là della sua portata storica, c’è la dimensione teologica della conversione di Las Casas, che dà ai suoi scritti una risonanza sempre attuale. Il suo impegno in effetti, supera la semplice esigenza umanitaria dovuta agli indiani, finalmente riconosciuti come dei veri esseri umani da una Bolla papale promulgata nel 1537.
Come dice Gustavo Gutierrez, Las Casas ha una parte determinante nel confronto tra “due modi opposti di considerare Cristo e il Suo messaggio”.
Il primo, spiega, “fonda la giustificazione teologica della presenza europea sull’idea che le ricchezze delle Indie hanno funzione provvidenziale”. Riassumendo : queste ricchezze sono un dono di Dio agli indiano, perché permettono la loro evangelizzazione. Questo argomento, teologico quanto politico, sarà sviluppato, tra gli altri, da Juan Ginès de Sepulveda, avversario di Las Casas durante la celebre controversia di Valladolid.Se i coloni accettano di correre tanti pericoli, riconosce Sepulveda, è unicamente “per il profitto che essi sperano di ricavare dalle miniere d’oro e d’argento con l’aiuto degli indiani, una volta sottomessi”. C’è da aggiungere che, senza questo, i predicatori non avrebbero i mezzi di effettuare la loro missione di evangelizzazione.
Certamente conoscendo i difensori più illustri di questa ideologia, sarebbe più cristiano trattare meglio gli indiani, ma da qui a riconoscere questo sistema, come chiedono anche La Casas e qualche altro, è più che restituire tutto ciò che è stato rubato…
L’altra prospettiva, riassume Gustavo Gutierrez, “centrata sul Vangelo, vuole, nella storia, sradicare alla povertà gli indiani di questi territori e denunciare come idolatria la prima attitudine”.
Primo, perché questa idolatria è ben più micidiale di quella di cui sono accusati gli indiani.
Gli spagnoli, scrive dunque Las Casas, “hanno sacrificato alla loro tanto amata idea l’avidità,(…) un numero così grande che nello spazio di cento anni non sono stati sacrificati indiani ai loro dei, in tutte le Indie”.
Ma va ancora più in là, per lui questa idolatria condanna e chi la serve e coloro che, a nome della quale, pretendono di giustificare la loro azione, da prevedere la conversione degli indiani al Dio dei cristiani.
E’ “bestemmiare il nome di Cristo”, afferma Las Casas, perché nelle Indie “si stima, si riverisce e si adora più la ricchezza che Dio”.
Per lui, il solo vero comportamento cristiano è liberare gli indiani da una servitù che “è contraria
All’intenzione di Gesù Cristo e contraria all’esperienza della carità che ci ha imposto nel suo Vangelo e contraria a tutti i punti della Sacra Scrittura, se ci si riflette bene”.
Chiave di volta di questa teologia, l’identificazione che opera Las Casas tra Cristo e l’indiano è sicuramente rivoluzionaria per l’epoca. Ma resta.Considera ancora Gustavo Gutierrez “non può essere altrimenti”. Parlare con la voce dei poveri e con loro, ma non soltanto per loro, sarà sempre rimettere in questione gli interessi e i privilegi, così che sussisteranno le ineguaglianze enormi ed ingiuste e l’oppressione che le genera”.
Bisogna che torniamo a dare spazio al silenzio in noi. Se vogliamo che nella nostra vita ci sia resurrezione dei sensi e dei significati.
Alcune riflessioni sui caso Welby e sui molti interrogativi che pone, per andare oltre l’emozione e comprendere meglio il principio del rispetto della vita.
La Chiesa ortodossa russa e la sfida missionaria
di Adalberto Mainardi *
Dopo l’esperienza tragica dell’ateismo di Stato, nuove opportunità si aprono per l’annuncio del Vangelo. Ma come testimoniare la comune passione per Cristo senza tradire il cammino verso l’unità?
«La fonte del Vangelo si è gonfiata d’acqua e ha ricoperto la terra, dilagando fino a noi»: all’alba della storia della Rus’ cristiana, Ilarion di Kiev (XI secolo) guarda con stupore alla corsa del Vangelo che giunge al popolo dei «russi», e vede già aprirsi gli «ultimi tempi».
Mille anni dopo, la Federazione russa è la più estesa formazione geopolitica del globo terracqueo, e con i suoi 143 milioni di abitanti forma un composito mosaico di etnie, credi e religioni; dopo la drammatica esperienza dell’ateismo di Stato, la Chiesa ortodossa russa è tornata a essere un punto di riferimento per la ricostruzione morale del Paese. Quali sono oggi le sfide per la Chiesa russa? Quale il linguaggio per annunciare il Vangelo in una società ancora segnata da una transizione incerta, da nuovi conflitti tra culture e religioni? E soprattutto, come le Chiese possono vivere questo annuncio senza contraddire il cammino comune verso l’unità?
Sono tutte domande a cui si è cercata una risposta al XIV Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa (14-20 settembre 2006), organizzato dal Monastero di Bose con il Patriarcato di Costantinopoli, il Patriarcato di Mosca e la partecipazione di autorevoli rappresentanti delle diverse Chiese ortodosse, della Riforma e della Chiesa cattolica. La seconda sessione del Convegno era infatti dedicata alle «Missioni della Chiesa ortodossa russa» negli immensi spazi del Nord e della Siberia, fino alla Cina, al Giappone e all’Alaska. Quello che sembrava un cristianesimo perfettamente inculturato, ma anche chiuso nella sua forma bizantino-slava, si è rivelato capace di un’esperienza attualissima di ascolto della ricerca di Dio che abita ogni uomo e ogni cultura. «Fino a poco tempo fa», osservava Alexander Schmemann, il grande teologo russo emigrato negli Stati Uniti, «in Occidente era opinione diffusa che il movimento missionario fosse passato a fianco del cristianesimo “statico” dell’Est senza esercitare alcun influsso». Un pregiudizio che il convegno di Bose aiuta a superare.
È in epoca moderna che le esplorazioni nel lontano Oriente mettono a contatto la Russia ortodossa con le popolazioni nomadi dell’Asia centrale, della Siberia, fino agli indigeni della Kamcatka (korjaki, itelmeni, cutkci), dell’Alaska. Se l’equazione tra Stato russo e ortodossia (un’ortodossia che Pietro il Grande aveva completamente asservito allo Stato) trasforma spesso la missione cristiana in uno strumento al servizio della colonizzazione, la storia dei santi missionari russi offre un modello alternativo di incontro tra popoli e culture.
L’archimandrita Spiridone, missionario in Siberia all’inizio del Novecento, avvertiva acutamente l’inconciliabilità tra l’annuncio del Vangelo ai poveri e una predicazione che spesso finiva per essere un momento della russificazione. Nel suo diario annotava la risposta di un Lama: «Se i cristiani credessero e vivessero così come il Cristo ha insegnato, non sarebbe più necessario che predicassero, perché la realtà è più forte delle parole». È inevitabile che gli evangelizzatori siano anche portatori di una determinata cultura; ma l’Evangelo - che è Gesù Cristo - trascende ogni inculturazione, rimane un’istanza di purificazione e rinnovamento in ogni cultura, la apre all’incontro con l’altro.
È proprio questa trascendenza del Vangelo, questa rinnovata apertura delle tradizioni alla novità dell’annuncio cristiano, che ritroviamo nell’esperienza missionaria dei monaci, i primi evangelizzatori delle terre russe: nel XIV secolo Stefano di Perm’ inventa un alfabeto, traduce la Bibbia e la liturgia per le popolazioni zyriane del Nord; tra XVIII e XIX secolo, l’eremita German incarna l’ideale di Cristo tra gli indiani aleuti dell’Alaska; l’archimandrita Makarij (Glucharev) traduce la Bibbia in lingua altaica per le tribù dell’Altaj e contemporaneamente (per la prima volta!) in russo… Il metropolita Innokentij Veniaminov traduce il Padre nostro per gli indiani di Unalaska chiedendo «il nostro pesce quotidiano». Senza utilizzare il termine, i santi missionari russi praticano un’inculturazione del Vangelo capace di diventare dialogo tra le culture, seme di una nuova creazione.
Ma qual è il valore per l’oggi di questa esperienza? Per la Chiesa ortodossa russa la risposta a questo interrogativo sta nella difficile ricerca di un equilibrio tra fedeltà alla tradizione e audacia evangelica di fronte alle nuove sfide.
In una società civile ideologicamente disorientata, disillusa dall’Occidente e a volte attratta dal ritorno del mito autoritario, l’ortodossia rappresenta in Russia un ideale positivo per la ricostruzione di un’identità nazionale e culturale. Se tuttavia la percentuale di quanti si dichiarano ortodossi tocca il 70-80 per cento, analisi sociologiche più dettagliate mostrano che solo il 10 per cento crede alla resurrezione dei morti, e un numero ancora inferiore frequenta regolarmente la chiesa (2 per cento).
Secondo l’arcivescovo Ioann, presidente del Dipartimento missionario del Patriarcato di Mosca e presente al convegno di Bose, uno dei compiti primari della missione è non solo «il lavoro missionario con coloro che cercano Dio, ma anche con coloro che, pur essendo già battezzati, non hanno ricevuto un adeguato insegnamento sui fondamenti della fede e della vita cristiana». Nel mondo contemporaneo, ha proseguito l’arcivescovo, «dove i processi di globalizzazione, la frammentazione sociale, le turbolente migrazioni di massa sono accompagnati dalla pressione della violenza, dell’estremismo e delle tensioni etniche e confessionali, la testimonianza e l’annuncio della riconciliazione è divenuto uno dei fondamenti cruciali della missione ortodossa». È perciò essenziale saper attingere dal Vangelo la creatività necessaria a una nuova inculturazione.
In questo senso è sintomatico che l’identificazione tra ciò che è russo e ciò che è ortodosso, oggi volentieri propagandata dai mass media in Russia, provoca simmetricamente il rigetto dell’ortodossia nelle popolazioni non russe delle Repubbliche centroasiatiche o siberiane, che dopo l’ateismo sovietico ritornano al paganesimo (o all’islam) quale elemento fondante della cultura autoctona.
Questo quadro aiuta anche a comprendere meglio le tensioni sorte tra Chiesa ortodossa russa e Chiesa cattolica sul tema dell’evangelizzazione. La graduale ripresa dell’attività pastorale della Chiesa cattolica in Russia negli anni Novanta ha infatti coinciso paradossalmente con un raffreddamento delle relazioni con la Chiesa ortodossa. Il Patriarcato di Mosca in più occasioni si è ufficialmente lamentato che gruppi cattolici, nel contesto di un rinnovato impegno nell’evangelizzazione, agissero in modo poco rispettoso verso la millenaria tradizione ortodossa russa, fino a forme di proselitismo che contraddicevano l’ecclesiologia di «Chiese sorelle» proclamata dal Concilio Vaticano II. Il Patriarcato si è sovente richiamato alle direttive della commissione pontificia Pro Russia (1992), che chiede ai cattolici «una reale sollecitudine verso i loro fratelli ortodossi» per «preparare con loro l’unità voluta da Cristo». Concretamente, questa sollecitudine avrebbe dovuto tradursi in un costante coordinamento di ogni iniziativa caritativa e missionaria con i vescovi ortodossi locali. «L’attività della Chiesa cattolica in territori profondamente segnati dalla presenza della tradizione ortodossa» deve infatti esercitarsi «secondo modalità sostanzialmente diverse da quelle della missione ad gentes».
Occorre inoltre tener presente il fenomeno delle sètte straniere (Moon, Aum Shinri-kyo, Sri Chinmoy, Scientology e altre ancora), presenti in modo massiccio in Russia dai primi anni Novanta. Questa situazione fluida e spesso confusa ha condotto nel 1997 - per la pressione di nazionalisti e comunisti - a una nuova legge «sulla libertà di coscienza», che di fatto impedisce l’attività missionaria degli stranieri e priva di riconoscimento giuridico le associazioni religiose esistenti da meno di quindici anni. Se le conseguenze più restrittive della legge, spesso in contrasto con la Costituzione, sarebbero state sostanzialmente ridimensionate dai decreti attuativi, l’idea stessa di una «testimonianza comune» dei cristiani era però compromessa. Presso gli ortodossi riprendevano forza gli antichi pregiudizi anticattolici, mentre autorevoli esponenti della Chiesa cattolica ritenevano del tutto incompatibili evangelizzazione ed ecumenismo.
Le relazioni tra le due Chiese si sono ulteriormente raffreddate quando Giovanni Paolo II, nel gennaio 2002, ha eretto in diocesi le Amministrazioni apostoliche nella Federazione russa, con sede a Mosca, Saratov, Novosibirsk e Irkutsk, in un contesto ecumenico deteriorato dalle irrisolte tensioni tra greco-cattolici e ortodossi in Ucraina. Nel 2004, dopo la visita del cardinal Walter Kasper al patriarca di Mosca Alessio II, è stata istituita una commissione mista cattolico-ortodossa per valutare i singoli episodi che potessero essere interpretati come proselitismo di una Chiesa nei confronti dell’altra.
Non sembrano esserci soluzioni immediate o a basso prezzo a questa dolorosa incomprensione. L’unica via per un rinnovato incontro nella carità e nella verità è quella di una comune conversione al Vangelo. Solo allora sarà possibile anche una missione non soltanto spoglia di ogni spirito di proselitismo, ma anche di quella competizione che non è evangelica, perché umilia e non riconosce la qualità ecclesiale di una Chiesa sorella.
«Oggi ci troviamo a uno spartiacque, all’inizio di una nuova epoca», ha detto a Bose padre Georgij Kocetkov, rettore dell’Istituto ortodosso cristiano San Filaret di Mosca: occorre «saper rinnovare ogni cosa, lasciare che il Signore faccia ogni cosa nuova (Ap 21,5)». Proprio in questo senso il metropolita Anthony (Bloom), recentemente scomparso, parlava di missione: «Dobbiamo riscoprire il nostro essere missione in modo nuovo: non dobbiamo metterci nella condizione di insegnare agli altri uomini, ma noi stessi dobbiamo diventare altri, diventare uomini nuovi. Così che la gente, guardando a noi, cominci a interrogarsi, a chiederci conto della speranza che vede in noi». Se i cristiani cominceranno a mettere in pratica il Vangelo gli uni verso gli altri - prima di ogni antagonismo reciproco - il Vangelo stesso susciterà la novità capace di attrarre ogni uomo, ogni cultura.
* monaco di Bose
(da Mondo e Missione, Gennaio 2007)
di Bruno Secondin
Quale immagine di Cristo è l'autentica?
H. Küng, nel suo noto libro Essere cristiani, ce ne offre una sintesi suggestiva.
"È il giovane imberbe, bonario pastore dell'arte paleocristiana o il barbuto trionfante Imperator o Cosmocrator della tarda iconografia relativa al culto imperiale, aulico-rigido, inaccessibile, minacciosamente maestoso sullo sfondo dorato dell'eternità? E' il Beau-Dieu di Chàrtres o il misterioso Salvatore tedesco? E' il Cristo re e giudice del mondo, troneggiante in croce sui portali e nelle absidi romaniche, o l'uomo dolente raffigurato con crudo realismo nel "Christus in Elend" di Dürer e nell'unica crocifissione superstite di Grünewald? È il protagonista della "Disputa" di Raffaello, dall'impassibile bellezza, o l'umano moribondo di Michelangelo? E' il sublime sofferente di Velàsquez o la figura torturata dagli spasimi di EI Greco? Sono i ritratti salottieri, impregnati di spirito illuministico, di Rosalba Carriera e di un Fritsch, in cui muove un elegante filosofo popolare, o le edulcorate rappresentazioni del cuore di Gesù nel tardo barocco cattolico? E' il Gesù del diciottesimo secolo, il giardiniere o farmacista che somministra la polvere delle virtù o il classicistico Redentore del danese Thorwaldsen. che scandalizzò il suo compatriota Kierkegaard eliminando Io "scandalo della croce?"
È il Gesù umano, mite ed esausto, dei nazareni tedeschi e francesi e dei preraffaelliti inglesi o è il Cristo, calato in ben altre atmosfere, degli artisti del ventesimo secolo, i vari Beckmann, Corinth, Nolde, Maserel, Rouault, Picasso, Barlach, Chagall?
Né meno diverse sono le teologie che sottendono le immagini. Quale cristologia è l'autentica?
È, nell'antichità, il Cristo del vescovo Ireneo di Lione o del suo discepolo Ippolito (antipapa di Callisto), quello del geniale compilatore greco Origene o dell'eloquente giurista latino Tertulliano? E' il Cristo dello storiografo e vescovo costantiniano Eusebio o quello di Antonio, il padre del deserto egiziano; quello di Agostino?
E nel medioevo, il Cristo del neoplatonico Giovanni Scoto Eriugena o quello dell'acuto dialettico Abelardo, quello delle tanto commentate sentenze di Pietro Lombardo o quello delle prediche sul Cantico dei cantici di Bernardo di Clairvaux? E' il Cristo di Tommaso d'Aquino o quello di Francesco d'Assisi, quello del potente Innocenzo III o quello degli eretici valdesi e albigesi da lui combattuti
E', nell'età moderna, il Cristo dei riformatori o quello dei papi romani, quello di Erasmo di Rotterdam o quello di Ignazio di Loyola, quello degli inquisitori spagnoli o quello dei mistici spagnoli da loro perseguitati? È il Cristo dei filosofi-teologi dell'idealismo tedesco, di Fichte, Schelling, Hegel, o quello del teologo-antifilosofo Kierkagaard? E' quello della scuola cattolica, storico-speculativa, di Tübingen o quello dei teologi gesuiti e neoscolastici del Vaticano I, quello dei movimenti di risveglio protestante nel secolo XIX o quello dell'esegesi liberale dei secoli XIX e XX, quello di Romano Guardini o quello di Karl Adam,di Karl Barth o di Rudolf Bultmann, di Paul Tillich, di Teilhard de Chardin o di Billy Graham?
Quante le teste, tante le immagini di Cristo? La devozione continua ancora oggi a fornire le più disparate risposte alla domanda: quale Cristo? Che cosa significa Cristo per me?"
I
Il rischio di deformazioni
Come si vede, in circolazione ne esistono mille diversi volti, a volte addirittura contraddittori. C'è il Cristo semplice della pietà popolare e c'è il Cristo sofisticato degli studiosi; c'è il Cristo tranquillizzante di certo cristianesimo borghese e c'è il Cristo rivoluzionario dei moti di ribellione; c'è il Cristo delle "barricate" e quello "socialista" caro a tanta tradizione popolare italiana, e c'è il Cristo tutto spirituale dei movimenti carismatici. Ognuno lo ha "scritto" o dipinto o scolpito o cantato con volti diversi.
La maggior parte di queste immagini sono legittime, nella misura in cui mettono in luce un aspetto vero di Cristo. Ma c'è anche il rischio di una manipolazione. Soprattutto esiste il rischio che siano i cristiani stessi, nella loro ricerca di Cristo, a manipolarlo o deformarlo, magari anche inconsciamente, con la scusa di attualizzarlo o di modernizzarlo.
Un rischio sempre presente, soprattutto nei momenti di transizione culturale come il nostro: per incarnarlo in nuove culture, rischiamo di snaturarlo o di falsificarlo. Per farne una proiezione di sé, la giustificazione dei nostri progetti e delle nostre opzioni, un ideale ritagliato a nostra misura e per nostro consumo.
Ma nonostante questo rischio di manipolazione, anche la nostra epoca deve "dare il nome" a Gesù (Mt 16,13-16).
Lasciarsi guidare dalle ragioni che dall'alto ci vengono suggerite, ma anche lasciarsi provocare dalle nuove condizioni culturali, che "possono stimolare lo spirito ad una più accurata e profonda intelligenza della fede. Infatti gli studi recenti e le nuove scoperte delle scienze, della storia e della filosofia, suscitano nuovi problemi che comportano conseguenze anche per la vita pratica ed esigono anche dai teologi nuove indagini" (GS 62).
II
... I suoi ritorni
Che si stia vivendo una stagione cristologica particolarmente produttiva, forse in parte anche creativa e paragonabile alla stagione dei grandi concili o al tempo della scolastica migliore, sono in molti a sostenerlo. Sintomi ve ne sono tanti, sia sul piano della ricerca teorica, sia nell'ambito dell'esperienza vissuta e perfino anche nell'espressione artistica.In fondo la nostra epoca, connotata da una profonda transizione culturale, per naturale esigenza comporta un'ulteriore elaborazione di tutte le sintesi teoriche e una nuova ricognizione degli orizzonti di riferimento attraverso il ritorno al fondamento.
Come premessa diciamo anche che una tale "concentrazione cristologica" - dopo qualche anno di enfasi ecclesiologica - potrebbe anche rischiare di mettere in ombra una necessaria attenzione al tema "Dio", a motivo dell'assorbimento del tutto in Gesù Cristo. Un'afasia sul Dio Padre di Gesù Cristo la si nota comunque nella teoria e nella pratica: molti possono essere detti "cristomonisti" puri. Perfino il concilio Vaticano Il è apparso a qualcuno come tendente al "cristomonismo".
Le varie tappe del passato e del presente rappresentano ciascuna uno stadio del divenire e del realizzarsi della spiritualità cristiana, un atteggiamento della coscienza collettiva nel suo prendere posizione davanti al mistero di Cristo.
Il Gesù della nuova "religiosità"
È apparso di recente uno studio molto ampio e documentato del teologo francese J. Vernette sulla presenza di Gesù nelle molteplici forme di ricerca religiosa del nostro tempo che egli chiama con espressione sintetica "nuova religiosità" Questo studio ha evidentemente una prospettiva più che altro europea (e francese in particolare). Ma dimostra bene come di fatto numerose "religioni selvagge" stanno fiorendo all'interno del deperimento delle grandi forme ecclesiali istituzionali.
1.CARATTERISTICHE GENERALI
Possiamo evidenziare, nel quadro d'insieme, alcune figure "cristologiche" emergenti:
- Ritorno delle questione religiosa come centrale nel senso della vita: Gesù e il suo messaggio ri-divengono una referenza per la condotta individuale e sociale;
- L'universalismo delle religioni e nomadismo religioso: Gesù si incontra in ognuna delle tappe dell'itinerario: un Gesù dai molti volti;
- Modificazioni delle strutture istituzionali di certe religioni stabilite, per creare spazi di "accoglienza" per le nuove sensibilità: il discorso dottrinale su Gesù si modifica, si fa meno rigido; la metà dei cattolici europei non crede nella divinità di Gesù;
- Estensione del pluralismo religioso, verso un pensiero aperto e tollerante: Gesù diviene un pezzo mobile e banalizzato che si fa entrare nel puzzle religioso più diverso;
- Apparizioni di "nuove religioni", trasversali rispetto alle tipologie esistenti, in nome della religione universale come esigenza di una nuova era (che sarà quella dell'Acquario).
Qual è la fisionomia dominante di Gesù Cristo in questa deriva del fenomeno religioso? Per Vernette si tratta di due grandi famiglie spirituali, due visioni globali della persona di Gesù.
La prima famiglia è costituita dai dissidenti del tronco biblico e giudeo-cristiano. L'intento è di vivere con decisione e conversione totale per Gesù, "accettare Gesù come salvatore", "dire di sì a Gesù". Chiaramente il registro ascetico è dominante, in atteggiamento anche di contro-cultura verso le tendenze permissive della società e anche della chiesa.
La seconda famiglia ha la tendenza a "leggere" il ruolo di Cristo in Gesù di Nazaret, e quindi ad interpretarlo in prospettiva cosmica, in chiave di interpretazione, di maestro e guida. L'incarnazione di Dio in Gesù non è che un caso particolare: la manifestazione di uno "strato" (incarnazione) del divino cosmico.
Gesù fa parte dell'energia cosmica, dell'unità sostanziale dell'universo. E il linguaggio usato è quello simbolico ed esoterico, con grande importanza all'elemento femminino, ai poteri psichici, di guarigione, medianici.
2.IL JESUS MOVEMENT
Un interessante momento di questa "Gerusalemme selvaggia" può essere considerato il Jesus Movement. E' in America dell'ovest - a San Francisco specialmente, rivelatosi in questi decenni come "laboratorio" del prossimo futuro - che nasce, sulle speranze e i sogni falliti di rivoluzione e libertà istintuale, un nuovo interesse per Gesù. Gli studiosi indicano gli anni di nascita intorno al 1966/1967:, e il momento culminante verso il 1971. Molti "figli dei fiori", delusi dalla droga e dal sesso libero, scoprono in Gesù un nuovo ideale e una maniera originale di vivere liberi e alternativi.
Quello che nel 1971 la rivista internazionale"Time" chiamerà Jesus' revolution, comprende tutti i movimenti giovanili che dal 1967 si diffondono in America dall'ovest all'est e poi passano in Europa: è tutto un arcipelago di movimenti e manifestazioni ambivalenti ed entusiasti, che hanno lo scopo di ritrovare un senso alla vita e di superare nella presentazione di Gesù i vecchi schemi.
3.ALCUNI GRUPPI PIU' NOTI
Il fenomeno è stato studiato e si distinguono alcuni gruppi più significativi:
Possiamo anche aggiungere i Children of God, che deriva dagli hippies, ma è finito in sètta.a. Hippies cristiani. Sono l'ala più dinamica e spettacolare del movimento. Si distinguono: "Jesus people" - "Jesus freaks" - "Street Christians" e altri. Sono fondamentalisti: l'unica via di salvezza è tornare a Gesù e a Dio; entusiasmarsi soprattutto per Gesù, come ce lo presentano i "libri sacri".
b. Straigt People (gente diritta, onesta): è di carattere borghese. Sono giovani inseriti in campus universitari, organizzano grandi manifestazioni, propongono un cambiamento radicale, ma di carattere più che altro intimista.
c. Movimento carismatico: da non confondere con l'attuale "movimento carismatico". E' una frangia che cerca di valorizzare nella vita cristiana il dono dello Spirito santo e il ruolo dei carismi
4.OSSERVAZIONI
Tutto il fenomeno è interessante, anche se oggi ormai è superato. Si tratta di un Dio sperimentabile in diretta, cosmico, che si può vedere in faccia. I suoi effetti però perdurano, in quanto ha messo in circolazione la "protesta" contro il Cristo "ecclesiale" definito e congelato in schemi intoccabili e monopolizzato dalle chiese.
Sottolineiamo alcuni aspetti peculiari, circa la figura di Gesù, che:
- Appare come simbolo di un senso pieno e totale della vita: come amico, uomo libero, capace di emozioni comuni, controcorrente;
- E segno della gioia di vivere, del primato della prassi sopra gli schemi teorici, della festa e dell'utopia (rimane dimenticato/rimosso il fatto doloroso della sua morte);
- E via per un contatto immediato con il divino: e ciò porta all'entusiasmo, all'attesa collettiva del suo ritorno. Amare Cristo è entrare nell'avventura della sua attesa;
- Appare come profeta in difesa dell'uomo, di tutti gli uomini, specialmente dei socialmente emarginati, di coloro che sono alla deriva sociale.
5. ALCUNI LIMITI
Non mancano però dei problemi che bisogna sottolineare:
Comunque sta di fatto che attraverso questo movimento Gesù è diventato un prodotto di consumo, rompendo il "monopolio religioso/chiesastico" della sua figura e del suo messaggio. Questa dilacerazione dei confini antecedentemente riconosciuti - cioè la proprietà della figura di Cristo riservata alle organizzazioni "costituite" - è una delle matrici dell'attuale fede in Cristo ma non nella chiesa.
III
... Nella cultura
Il nostro secolo è forse uno dei più ricchi di presenza cristologica nella letteratura e nello spettacolo. Basterebbe citare dei nomi come: Mauriac, Papini, Bulgakov, Dostoiewsky, Green, Böll. Bernanos, Dürrenmatt.
Chi non conosce i nomi e le opere famose di Pasternak (Doctor Zivago), Burgess (L'uomo di Nazareth; originale Jesus Christ and the Love Game), Silone (L'avventura di un povero cristiano), Messori (Ipotesi su Gesù)? Oppure Lettere di Nicodemo di Dobraczynski, Una favola di Faulkner, Getsémani di Saviane, Il grande pescatore di Douglas?
Salvo qualche eccezione, non si tratta di opere esplicitamente dedicate a Gesù, ma piuttosto all'esperienza di odissea, di smarrimento, di misterioso viaggio di ritorno alle sorgenti, ai significati primari, alla salvezza oltre il vuoto e il fallimento o la morte. Si definiscono come testimonianze sul Jesus redivivus.
Per un primo orientamento in tutto questo settore ci appare interessante da segnalare la duplice antologia di J. Imbach su Dio e su Gesù Cristo nella letteratura contemporanea. In questo secondo testo egli studia una trentina di autori (romanzieri), riportandone anche dei testi suggestivi, e analizzando il contenuto delle opere secondo sei categorie interpretative: romanzi tradizionali su Gesù, rispecchiamenti, tracce, attualizzazioni, atteggiamenti, istantanee.
Ancora un filone interessante che sarebbe da analizzare nel campo della letteratura è quello dell'epica e del simbolico, come si trova per esempio nelle opere letterarie di E Kafka, Thomas Mann, J.R.R, Tolkien, J. Barth.
Per gli spettacoli e i films: fin dalle origini dell'arte cinematografica si trovano opere su Gesù Cristo: nella linea tradizionale, perché non si osava andare oltre i canoni della religiosità diffusa. Spettacoli tradizionali si sono realizzati anche nei tempi a noi più vicini: esempio Il Re dei re, La tunica, il segno della croce. Ma chi non conosce le opere di Bresson, Au hazard, Balthazar, o Nazarin di Buňuel?
Una menzione a parte meritano alcuni lavori cinematografici:
- Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini (1965), da leggersi in legame con La ricotta (1962). Gesù è il profeta del sottoproletariato, Pasolini ha in mente il suo Friuli, la religiosità e la mentalità dei friulani dove lui era cresciuto. E' un Gesù rigoroso, tagliente, anti-sistema.
- Il Messia di Rossellini (1975): è un Gesù modesto e comune, dalla parola sapiente; ma non sembra affatto essere il salvatore atteso.
- Gesù di Nazareth di Zeffirelli (1977). Il giudizio su questo lavoro non è unanime. E' certo un Gesù familiare, in cui molti si ritrovano. Predominano delle scene raffinate ed eleganti nelle immagini. Non abbiamo accenti di reazione violenta contro i potenti. Sembra che il mistero sia appiattito e semplificato a livello di romanzo per il grosso pubblico.
Un'osservazione generale: tutti oscillano fra l'introspezione dei sentimenti più genuini di un personaggio così misterioso e la spettacolarità plateale e a volte decadente o kitsch. Al di là delle molte critiche che si possono fare, è certo che tali spettacoli fanno grande effetto sul pubblico. Inoltre si deve sottolineare che spesso le tendenze teologiche o culturali del momento si riscontrano nei prodotti, in maniera spesso fin troppo evidente: così è stata per la polemica antiborghese. per il superman, per l'uomo affascinante e misterioso, per il ribelle contro l'abuso del sacro, ecc.
Un caso a parte è costituito dalla Sindone: le ricerche scientifiche di questi anni, specialmente dopo la sua "esposizione" nel 1977/'78, ne hanno fatto un elemento di spettacolarità del tutto originale. Dobbiamo tener presente che non è tanto in gioco il "mistero" della morte del Signore, quanto la possibilità di poter "ricostruire" la sua immagine, con tutte le risorse tecniche attuali: ciò è molto conforme all'attuale cultura dell'immagine. Anche Dio diviene "immagine" suggestiva e reale, sia attraverso il cinema, che attraverso la traccia della Sindone".
... nei movimenti ecclesiali
Uno dei fenomeni più interessanti e fecondi della vita della chiesa negli ultimi vent'anni è il moltiplicarsi di gruppi, di movimenti, di associazioni: con vari interessi ecclesiali e differenti modalità di approccio all'esperienza religiosa e all'incontro con Cristo. Nella storia della chiesa il fenomeno di questo genere si è ripetuto altre volte: e sempre in situazioni di transizioni culturali, di ripensamento sulle vecchie formule e di creazione di nuove sintesi vitali. In ognuno di questi tornanti storici, questi gruppi e movimenti hanno dovuto anche misurarsi col "volto ereditato di Cristo" e quindi inventare nuove vie di approccio al suo mistero e alla sua sequela. Così è stato nei secoli III e IV, XII e XIII, XV e XVI, XIX e XX.
Molto si parla e anche si discute circa la "funzione ecclesiale" di queste nuove esperienze di apostolato, di evangelizzazione o di spiritualità. Molto meno si studia la differente prospettiva teologica - nel nostro caso cristologica - che li anima. Sarebbe invece un campo molto interessante, anche se molto difficile da esplorare data la reticenza e la "segretezza" che molti fra essi praticano per quanto riguarda lo schema teologico di tutta l'esperienza. Si conosce solo quello che gli stessi movimenti "permettono" che filtri. Quindi non sempre si tratta di elementi oggettivi e sostanziali.
Facciamo qualche accenno alla "cristologia " fenomenologicamente prevalente nei vari gruppi (alcuni solo).
- Rinnovamento carismatico: Gesù è soprattutto il Risorto, il Signore vivente e veniente, suo dono prezioso è lo Spirito con i carismi; egli comunica a noi anche il potere contro il "male". L'assemblea di preghiera (schema centrale) è una esperienza di lode al Signore nella gioia e in clima di attesa dei suoi doni di luce e di grazia.
- Neocatecumenato: il centro dell'annuncio del kerigma è Gesù Cristo, colui che è Parola totale, adempimento delle promesse, padrone della nostra vita. C'è una centralità dell'esperienza pasquale come è stata vissuta dal popolo ebreo e da Cristo stesso: il credente se ne deve appropriare. La croce, la sofferenza, il "servo" sono enfaticamente sottolineati. La "comunità" si riunisce attorno alla Parola e alla pasqua.
- Comunione e liberazione: Gesù Cristo è un "Qualcuno" che si è incontrato, che ci prende per mano, che ci dà la possibilità di una storia nuova. ci "pianta" in una storia nuova. Nella chiesa si vive e si cammina per una conoscenza reciproca in lui e per una presenza specifica caratterizzata e fondata sulla sua presenza . La comunità ecclesiale è sua presenza in mezzo alla storia.
- Comunità ecclesiali di base (CEB): al di là della loro molteplicità e diversità, possiamo notare questi elementi che le caratterizzano come "presenza di Cristo": l'ascolto della Parola, la centralità dell'eucaristia, la sottolineatura dei titoli cristologici: povero, emarginato, servo, paziente, profeta, sapienza del popolo, testimone di pace e giustizia, liberatore.
- Focolarini: sono noti alcuni elementi come: "Gesù in mezzo", Gesù abbandonato, la meditazione della "parola di vita".
- Cursillos de cristiandad: loro scopo è dare all'adulto battezzato la possibilità di riascoltare il lieto annunzio del Vangelo del Signore, e di poterlo vivere in comunità attraverso incontri periodici e verifiche (ultreya, per es.).
- Movimento oasi: si propone di far vivere all'insegna del cristianesimo "senza sconti"; chiede di servire Cristo, essere disponibili per Cristo, consegnarsi a Cristo, rispondere sì a tutto quello che dice, che fa, che chiede, comunque lo chieda; e servire gli altri, tutti gli altri.
- Comunità dell'arche (di J. Vanier): condividere la povertà e l'infelicità del povero e del minorato psichico e fisico, nel quale è presente Gesù.
- Fraternità Charles de Foucauld: privilegiano specialmente alcuni elementi dell'esperienza storica di Gesù di Nazaret: Betlemme, Nazaret, la croce (salvatore nella sofferenza e nell'abbandono). La centralità dell'adorazione eucaristica nella semplicità è un'altra caratteristica nota.
- Gruppi di volontariato (es. in Italia Gruppo Abele, Capodarco, ecc.): Gesù è sentito come l'amico dei poveri e degli esclusi, il "simbolo" di tutti gli ultimi dei senza dignità. La sua dimensione umana concreta (uomo povero, fuori delle sicurezze, affidato a Dio) è molto accentuata. Vi è anche la ricerca di un senso totale della vita al servizio dei suoi "poveri".
Osservazioni: come si può notare, ogni gruppo o movimento - seppure attraverso differenti accentuazioni - persegue un suo approccio all'esperienza di Gesù Cristo. Alcuni sono più a carattere misticheggiante, altri più a carattere sociale: ma tutti fanno asse portante sulla sequela di Cristo, in un contesto di comunità, di evangelismo più o meno fondamentalista, con alcune accentuazioni ecclesiali specifiche, oscillando tra solidarietà con gli ultimi e "comunità calorosa".
Questa ricchezza di esperienze e di itinerari può considerarsi oggi un fenomeno interessante e forse anche una provocazione per tutti gli schemi di spiritualità, che sono accentuatamente individualisti, e mancano più o meno vistosamente della dimensione comunitaria, del riferimento alla dimensione ecclesiale al mistero, dell'attenzione intelligente alla storia, specie la storia dei "senza dignità".
Si può anche notare che delle dimensioni costitutive e permanenti del mistero cristiano (trinitaria - ecclesiale - biblica - dogmatica - storica - antropologica - escatologica) questi movimenti ne mettono in rilievo soprattutto alcune, anche se centrali:
- ecclesiale: tutto ciò che è chiesa è generato dalla forza/presenza di Cristo;
- antropologica: Gesù Cristo rinnova dal profondo l'uomo e lo "spiega" (cf. GS 22);
- storica: ogni approccio a Cristo deve essere "contestuato" per essere vero.
Delle altre dimensioni solo alcuni accentuano quella biblica. Problema, in particolare, ci sembra facciano:
- La mancanza di approfondimento del contesto storico-sociale del Cristo, per cogliere la forza del cambio e il senso "innovativo" di certe sue maniere di fare. Di fatto nei movimenti spesso Cristo è destoricizzato;
- L' eccessiva preoccupazione "ecclesiocentrica": per esigenze di farsi "riconoscere" e ottenere l'approvazione. Pare che la maggiore preoccupazione sia quella di essere "del numero" di quelli che sono lodati e "invitati" nelle occasioni solenni.
Si è trattato sin qui di un universo disorganico, pervaso da fermenti, ma anche da mode, consumista, ma anche tormentato da inquietudini. ricco (di entusiasmi e giovanilismo, ma anche alla ricerca dei significati meno effimeri.
Tuttavia già ci consente di affermare la centralità della figura di Cristo nella nostra stagione culturale ed ecclesiale. E allo stesso tempo tutto ciò postula una verifica, a più ampio raggio, della stessa centralità, attraverso lo studio dei grandi gruppi religiosi, le grandi correnti ideologiche, i principali protagonisti del discorso religioso, in particolare nell'ambito cristiano.
I tempi della liturgia cattolica non sono solo il ricordo delle tappe storiche della salvezza, ma anche l’esercizio per ripercorrerle nel cammino della propria esistenza all’ interno di una comunità. Ogni tempo liturgico è ordinato appunto allo sviluppo di una particolare dinamica salvifica.
Santa Caterina da Genova non amava espressioni quali “lo faccio per Dio” oppure “non la mia volontà ma quella di Dio”.
La Bibbia non offre una teoria unitaria, sistematica, sul male/dolore, ma una serie di tentativi di trovare un senso alla vita attraversata dal dolore e di vincerlo.
Il male/dolore nell’Antico Testamento non è tanto una imperfezione o un limite della creazione, ma è una conseguenza di una libera scelta umana.
Il dolore, la malattia sono l’esperienza umana del male; il male, d’altro canto, non è una “cosa” che semplicemente accade o sta davanti all’uomo, ma è l’emergenza di uno scarto o un ostacolo che si frappone tra l’originario desiderio di vivere e la sua realizzazione. E dunque solo a partire dalla dimensione dell’uomo come libertà, cioè come desiderio di vivere, che può essere pensato sensatamente il tema del male.
Il male/dolore diventa allora scandalo, problema, interrogativo sul senso stesso dell’esistenza. Non si tratta soltanto di chiedersi come superare, vincere o eliminare il male/dolore, ma piuttosto come passare dal non-senso al senso del vivere umano. Ma poiché il male/dolore non è una “cosa” o un ‘oggetto”, il problema del senso non riguarda il male/dolore in sé, bensì la relazione dell’uomo con il senso della sua vita, cioè con Dio. Non si tratta, dunque, di ”spiegare” il male/dolore, ancor meno di giustificarne la sensatezza, ma di trovare un senso per l’uomo che è aggredito e torturato dal male/dolore. Non si tratta di “capire” il male/dolore, ma di comprendere che senso ha l’esistenza umana attraversata e contrassegnata dal male/dolore.
Tentiamo quindi, con timore e tremore, di interrogare la parola di Dio su questo tema tanto grave e imbarazzante. Non andiamo alla ricerca di un farmaco che elimini il male/dolore dalla faccia della terra né speriamo di trovare una formula che bandisca il male/dolore, ma desideriamo scoprire un senso che ci aiuti a integrare e, nello stesso tempo, a esorcizzare il male/dolore nella nostra vita. Il cristiano dovrebbe caratterizzarsi per quel che Paolo chiama il «discernimento degli spiriti» (1Cor 12,10) o la capacità di «discernimento del bene e del male» (Eb 5,14). Il male/dolore comincia ad essere superato, non incute più angoscia quando il credente ne discerne il volto e non si lascia soggiogare dalla paura che rende schiavi. Togliere la maschera al male/dolore, guardarlo in faccia è già il primo passo per esorcizzarlo ritrovando non il vuoto, ma la figura vivente del Dio crocifisso.
Il male non possiede una propria realtà in senso vero. Anche la Bibbia professa, da un capo all’altro, la fede in Dio che chiama all’esistenza e conserva in vita ogni cosa come essenzialmente buona. Già dalla prima pagina biblica si canta la bellezza/bontà del creato su cui Dio stesso emette un giudizio: «E Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco che era molto buono/bello» (Gen 1,31). La finitudine e creaturalità non è identificabile come male. La realtà è creata buona da Dio. E al culmine della sua libera attività creatrice, Dio crea l’uomo a sua immagine e somiglianza (Gen 1,26-27), come essere capace di apertura e di incontro con lui. Il senso della creazione si realizza soltanto quando appare l’uomo, libertà dialogante con Dio; altrimenti creare sarebbe un puro produrre, un fare qualcosa che serva da mezzo per un fine. L’uomo invece è creato per se stesso, per essere partner di Dio. Il comandamento di Dio (Gen 2,16-17), posto insieme con la creazione dell’uomo, fa capire che solo nella prospettiva dialogica dell’alleanza si attua il senso del mondo, precisamente attraverso l’uomo. L’essere-creato raggiunge perciò il suo senso nella dimensione della libertà umana: è perciò un essere Storico, aperto al dialogo con Dio ma anche dischiuso alla possibilità del male, cioè del rifiuto e della chiusura a Dio e ai fratelli.
Il racconto della caduta (Gen 3) illustra plasticamente come il male/dolore non sia derivato dall’azione creatrice di Dio, ma sia emanazione di una libertà creata. Il male, dolore non è una imperfezione o un limite della creazione, ma è conseguenza di una libera scelta umana.
In Dio non c’è la vita e la morte, il bene e il male, il si e il no, ma soltanto la vita, il bene, il sì. Soltanto Dio è veramente buono: «Gli disse Gesù: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, all’infuori di uno solo: Dio» (Mc 10,18). E nella sua bontà Dio dà «cose buone a quanti gliene fanno richiesta» (cfr. Mt 7,11). Egli è la luce che riscalda e fa vivere (cfr. Sap 7,27-30).
La fede di Giobbe
Non è, dunque, possibile parlare del male se non in modo indiretto, poiché propriamente soltanto il bene è comprensibile e, alla fine riconducibile al Creatore. Il male è assurdità, insensatezza, contraddizione. Potremo parlare del male come della “periferia” della realtà, che è bontà creata e salvezza. Stando alla Bibbia non dobbiamo perciò disgiungere il discorso sul male/dolore dalla rivelazione della bontà di Dio che vuole salvarci dal male/dolore per la vita eterna. Giobbe non è un trattato teorico sul problema del dolore e del male, ma è il dramma di un uomo in conflitto col suo Dio e immerso nel dolore.
Giobbe è un giusto che soffre ogni forma di dolore, fisico e spirituale. Il dolore lo isola in una crudele solitudine; anche Dio sembra averlo abbandonato e l’abbandono di Dio è ciò che lo fa soffrire di più. Le domande più angoscianti fluiscono dal cuore di Giobbe: perché Dio, giusto e buono, non interviene a favore del giusto sofferente? Perché Dio si comporta come nemico dell’uomo? Dov’è mai la santità di Dio, dal momento che egli sembra trattare innocenti e malvagi alla stessa maniera? Alla fine, la riuscita positiva del piano di Dio dimostra che anche la prova, per quanto oscura e dolorosa, era compresa in un piano d’amore divino. Giobbe vive la prova nella fede nuda: «Nudo uscii dal seno di mia madre e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto; sia benedetto il nome del Signore» (1,21). La fede di Giobbe è un atto di abbandono fiducioso, filiale e obbediente, nelle mani di Dio: prefigurazione di Gesù Cristo e preludio alla fede cristiana dei martiri.
Il tunnel del dolore
L’amore di Dio per l’uomo non è onnipotenza che impedisce il dolore, ma è libertà che “dona” e “toglie” senza abbandonare mai e, alla fine, “ridà”. Nel gioco delle due libertà, divina e umana, il dolore è il prezzo dell’amore, la condizione nella quale l’uomo matura la sua libera dedizione a un Dio buono dentro un mondo limitato e sconvolto dall’Avversario. La vittoria sul male/dolore è un atto finale d’amore libero di Dio, cui corrisponde un libero affidarsi dell’uomo al datore di ogni bene. Tutta la parte dei dialoghi di Giobbe con gli amici ha affrontato il male/dolore come un problema da risolvere in sede teoretica. Nella sua risposta (cc. 38-41) Dio lascia da parte i pressanti interrogativi affluiti sulle labbra di Giobbe. Egli prende per mano il suo servo Giobbe e gli fa percorrere il meraviglioso giardino dell’universo, ove si dispiegano armoniosamente la sua potenza e la sua sapienza, la sua fantasia e la sua delicata bontà. Dai misteri quotidiani della creazione Giobbe impara a riconoscere il suo posto, i suoi limiti, la sua ignoranza e la via per vivere felice. E impara che il senso della sofferenza è il mistero stesso di Dio, non si trova perciò in una soluzione dottrinale astratta né in una risposta emotiva o consolatoria.
Alla fine Giobbe non ha una definizione del male/dolore da proporre né una rigorosa argomentazione teorica da far valere, ma l’esperienza di un incontro personale con Dio: «Ora i miei occhi ti vedono» (42,5). L’alternativa che Giobbe pone, di fronte al male/dolore, è questa: o tutto è assurdo, compreso Dio, oppure tutto ha un senso nel mistero di un Dio buono, compreso il male/dolore. Giunto al termine della sua avventura spirituale, Giobbe comprende che il mondo è tanto cattivo e pieno di male che non può non esserci un Dio buono!
Il dramma sacro di Giobbe non risolve definitivamente, sul piano teorico, il problema del dolore, che resta una questione aperta. Ma questo libro biblico ci insegna che il problema del male/dolore è legato alla questione su Dio. E Giobbe, alla fine, si arrende non al male/dolore, ma a Dio. Proprio questa “resa” a Dio lo abilita a “resistere” ostinatamente al male/dolore.
Il male/dolore è mistero, anzi, spesso appare un enigma irrisolvibile e inintelligibile. Appare assurdità pura. L’Antico Testamento ha lottato intellettualmente per tentare di capire qualcosa del mistero del male/dolore: la teoria della retribuzione (i giusti sono felici, i malvagi sono infelici), la concezione del valore pedagogico del dolore, la protesta radicale contro il dolore innocente e contro l’immagine di un Dio che arbitrariamente e crudelmente è causa di male/dolore, la rassegnazione quasi fatalistica, la rinuncia ad ogni schema razionale e l’affidamento di sé al Dio nascosto, l’idea di un soffrire in rappresentanza e al servizio di altri, il dolore come solidarietà sono tutti modi con i quali l’AT ha affrontato lo scoglio resistente del male/dolore. Il credente ammette che Dio persegue progetti di salvezza anche attraverso il tunnel del dolore.
L’AT, dunque, non offre una teoria unitaria, sistematica, sul male/ dolore, ma una serie di tentativi di trovare un senso alla vita pure nel dolore e di vincere il male/dolore. Mai si rinuncia a vincere il dolore per la speranza nell’aldilà; mai ci si consegna senza resistenza al dolore fatale; mai ci si abbandona a un destino assurdo. La lotta contro il male/dolore è espressione sia del desiderio inestinguibile di vivere sia del rifiuto di qualsiasi giustificazione del male/dolore. Tutti i grandi eroi della storia del popolo israelitico hanno subito dolori, delusioni, persecuzioni, insuccessi, ma hanno sempre imitato il patriarca Giacobbe che ha lottato con Dio. Giacobbe esce cambiato e sofferente dalla lotta con Dio, ma ha vinto guadagnando il senso della sua vita.