Religioso Marista
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Il tema è vasto, ma poco conosciuto. Gli ortodossi sono accanto a noi, ma spesso non sono tanto visibili. Non appaiono nello spazio culturale e nelle comunicazioni; noi vediamo solo badanti, commercianti, turisti, mogli degli italiani... Da un anno anche profughi e non solo ucraini. Ma anche molto prima della guerra, i cosiddetti immigranti economici sono venuti in massa da più di tre decenni; così sul nostro continente si è creato un Arcipelago di comunità ortodosse che appartengono a Chiese diverse. Sono davvero tante.
In Italia, un paese, probabilmente, più aperto agli “ospiti” irregolari, ancora negli anni ‘70-80 del secolo scorso si potevano contare poche chiese ortodosse, per quanto io sappia. Quattro russe: a Firenze, a Bari, a Sanremo e a Merano. Una greca a Venezia, una serba a Trieste, due o tre rumene... Le tre ondate dell’emigrazione ex-sovietica - la prima dopo la Rivoluzione Russa del 1917, la seconda durante la Seconda Guerra mondiale, la terza negli anni ‘70 sotto la copertura, spesso finta, dell’emigrazione in Israele – e l’esodo dei greci dall’Asia Minore, non hanno lasciato in Italia tante tracce ecclesialmente visibili. La quarta ondata, invece, la più massiccia сhe continua ancora adesso, è iniziata con il crollo del comunismo nell’Est europeo all’inizio degli anni ‘90, quando le frontiere sono diventate finalmente attraversabili. Adesso siamo presenti davanti alla quinta ondata, quella dei profughi che scappano dalla guerra: milioni ucraini, centinaia di migliaia di russi.
Così l’Europa si è trovata di fronte ad una nuova realtà, anche sul versante religioso. Ma non lasciamo al margine l’immigrazione da altri paesi dell’Est, prima di tutto dalla Romania, la più numerosa, poi dalla Moldova, dalla Russia, dalla Serbia e dalla Giorgia, molto meno numerosa, naturalmente. Quest’immigrazione non ha fatto tanto rumore quanto le barche che arrivano dall’Africa. In passato una persona arrivava con il visto turistico (o senza visto, come i rumeni, che dal 2007 sono cittadini europei), cercava e trovava un lavoro – prima in nero, poi in regola – e rimaneva per un tempo indeterminato, spesso per sempre. Centinaia di migliaia di famiglie italiane, con i propri cari anziani, ospitano in casa una badante ucraina o rumena, in possesso del permesso di soggiorno o priva di documenti, in modo illegale. Dopo l’inizio della guerra l’Europa ha compiuto un gesto di una grande generosità: i profughi ucraini ricevono questo permesso nel giro di qualche settimana.
Noi, in Europa, siamo abituati a pensare ancora all’Ortodossia in termini etnografici, come confessione destinata a rimanere sempre orientale, senza quasi accorgersi che già da tempo esiste un’Ortodossia occidentale: francese, inglese, tedesca – senza parlare di quella americana, che ha una sua Chiesa autocefala... Ma un’ortodossia propriamente italiana ancora non c’è. Esistono le parrocchie di Costantinopoli, di Mosca, di Bucarest. Non meno di 500 comunità, delle quali 300 circa sono rumene. La maggior parte di esse usufruisce dell’ospitalità della Chiesa Cattolica. Sommando il tutto, si possono contare un paio di milioni di fedeli di origine ortodossa, forse, di più, ma essi restano dispersi tra la popolazione e per la maggior parte svolgono i lavori più umili, spesso non sono identificabili nello spazio pubblico. Non costruiscono una comunità, non si sentono, direi, una minoranza religiosa perché non sono uniti sulla base confessionale, ma piuttosto divisi – non soltanto etnicamente e linguisticamente, ma anche ecclesialmente. Si possono contare in Italia sei o sette Patriarcati canonici, oltre ad una nebulosa incerta di Chiese non canoniche, che non sono riconosciute dalle altre grandi Chiese nazionali e che non si trovano in comunione con loro. Molto spesso non sono in comunione neanche tra di esse. Alcune di queste Chiese appartengono alla cosiddetta “vera ortodossia”, una versione di lefebrismo orientale. Le altre non canoniche sono alcune piccole chiese proprio italiane, che non vogliono dipendere dalle comunità straniere e cercano di creare un’Ortodossia locale a modo loro, ma rimanendo fuori dalla comunione con l’Ortodossia mondiale perché non si può fondare una Chiesa solo a partire dal proprio progetto.
Le Chiese “straniere”, però, anche se perfettamente canoniche, non sono in regola con il principio ortodosso: per ogni paese la sua Chiesa, secondo le parole di San Paolo: La Chiesa di Dio che è in Corinto (1Cor 1,1). Canonicamente è assurda la coesistenza sullo stesso territorio delle diverse Chiese di Dio in comunione eucaristica tra di loro, ma che sul piano umano non si conoscono. Hanno i corrispondenti vescovi che dovrebbero costituire una Chiesa sola, ma sono separate da muri etnici che è quasi impossibile superare. Almeno per due motivi. Le Chiese Madri non vogliono in nessun modo lasciare andare le loro Chiese figlie che si trovano oltre frontiera poiché vogliono mantenere i fedeli per sé, per le cosiddette “cure spirituali” come anche le proprietà, se ci sono. Ma anche gli stessi fedeli non sono pronti a lasciare le proprie abitazioni ecclesiali dove spiritualità, lingua, abitudini nazionali – direi anche l’aria stessa della patria – formano una cosa sola.
Tutto questo si è manifestato in modo ancora più forte con la guerra e l’arrivo dei tanti profughi ucraini e le nuove tensioni. Faccio un esempio. Nella mia parrocchia a Brescia, alcune vecchie e fedelissime (cioè, non meno da 10-15 anni) parrocchiane non vogliono frequentare più una comunità dipendente, anche in modo formale dal Patriarcato di Mosca. Vi ricordo che il nostro Arcivescovado delle Chiese Ortodosse della tradizione russa fino al 2019 faceva parte del Patriarcato di Costantinopoli. Poi, nel 2019 il Patriarca Bartolomeo ha cambiato il nostro statuto diluendo l’Arcivescovado delle Chiese Ortodosse in Europa Occidentale della tradizione russa – che esisteva dal 1921 – nelle diocesi greche che sono presenti dappertutto. La maggior parte dell’Arcivescovado non ha accettato questo cambiamento e ha aderito al Patriarcato di Mosca, ma come diocesi autonoma, cioè che fa parte del Patriarcato, ma non si trova sotto la guida giuridica del Patriarca e del suo Sinodo. Tutto questo era quasi normale per la nostra parrocchia con una presenza al 90% ucraina anche prima della guerra – questa guerra sostenuta oggi pienamente e teologicamente dalla Chiesa di Mosca. Ma un piccolo gruppo di parrocchiani non ha potuto accettare questa dipendenza, anche se puramente simbolica. Accanto c’è un’altra piccola minoranza che sta per staccarsi perché una preghiera non formale per l’Ucraina sofferente e la non commemorazione liturgica del patriarca per loro è diventata insopportabile.
La situazione è ancora più complicata perché le radici della divisione si trovano nell’Ucraina stessa con la sua spaccatura ancora molto dolorosa che ha diviso tra loro tanti milioni di ortodossi. Una parte fa il riferimento al Patriarcato di Costantinopoli, un’altra molto più numerosa dipendeva da Mosca, ma dal maggio dell’anno scorso è formalmente indipendente. Senza Mosca o no, questa Chiesa del metropolita Onufrij rimane la Chiesa-madre con cui essi non possono rompere, neanche nella tragica situazione attuale.
Gli ucraini hanno portato con se all’estero tutte queste divisioni e ferite. Al pari dei russi, che una volta erano i cosiddetti bianchi, e che hanno portato nell’emigrazione e non solo in Occidente le loro ferite e rotture interne tra diversi orientamenti politici e ecclesiali che non si sono cicatrizzati fino ad oggi. E le altre Chiese? Secondo me, tutte soffrono della loro “ghettizzazione”, come può essere chiamata la loro mentalità ecclesiale – senza che nemmeno se ne accorgano. Per quanto ne sappia, la Chiesa rumena, numericamente la più presente in Europa, costituisce una comunità compatta, abbastanza ecumenica, ma ripiegata su stessa. Come anche la Chiesa greca, cioè di Costantinopoli, vive nel suo mondo; ci sono in Italia tanti greci già di madre lingua italiana, che si presentano come ortodossi, ma che spesso vanno in chiesa solo dove la celebrazione è in greco. La stessa cosa è con la comunità serba e con le altre – con alcune eccezioni, naturalmente.
Direi in generale che noi ortodossi, che abitano fuori dei nostri paesi d’origine, ci siamo ritrovati nella gabbia dorata dell’etnofiletismo, condannato sempre in teoria, trionfante sempre nella pratica. Tanti nostri teologi sono convinti che debba nascere in Italia una Chiesa ortodossa autocefala, o almeno nell’Europa Occidentale, ma nessuno la vuole. I fedeli vogliono rimanere nel proprio ghetto nazionale, senza nemmeno conoscere gli uni gli altri.
A questo isolamento bisogna aggiungere anche una vecchia e fatale divisione tra gli ortodossi ed i greco-cattolici. Formalmente, questi ultimi sono cattolici, in Ucraina dal 1596, ma solo formalmente. Tutte e due sono grandi comunità – la greco-cattolica, numerosa e ben organizzata con le sue circa 160 parrocchie in Italia, e l’ortodossa, appartengono non solo alla stessa etnia, ma allo stesso luogo di provenienza, alla stessa lingua, molto spesso condividono anche una religiosità popolare simile.
Nonostante tutte queste divisioni, rotture, ferite, la Chiesa Ortodossa Italiana è in lenta, direi anche, lentissima maturazione. Nelle famiglie degli immigrati della prima generazione crescono i bambini, giovani con la mentalità europea e la madre lingua italiana. La nuova generazione degli ortodossi, legata solo in modo simbolico al paese dei genitori, è comunque in arrivo. Di sicuro questa generazione dovrà svelare la propria identità in senso confessionale e culturale. Gli adolescenti di oggi o i loro figli avranno la voglia di diventare proprio ortodossi italiani, anche in senso strutturale, giurisdizionale e prima di tutto spirituale. I profughi non nascono, vivono tutta la vita e muoiono come profughi. Ma le mentalità strettamente nazionali rimangono l’ostacolo principale per la formazione di un’Ortodossia Italiana o, forse, Europea come un unico corpo, che comunque si affaccia all’orizzonte.
Dobbiamo renderci conto, però, che una fusione decisa “dall’alto” di tutte queste parrocchie (rumene, russe, greche, serbe) in un unico corpo ecclesiale, sarebbe canonicamente buona e giusta, ma porterebbe subito alla creazione spontanea di piccole comunità filetiste, le quali non accetterebbero questa rottura con la propria terra d’origine, anche se in pratica tutto – la lingua e le tradizione locali – rimasse come prima. In altre parole, si potrebbe prevedere un nuovo scisma, la cosa che tutte le Chiese ortodosse temono di più. Nel passato ce ne sono stati tanti. Nel presente, anche di più. Basta ricordare ancora quella linea di divisione che separa Mosca, cioè l’Ortodossia Russa, e Costantinopoli, cioè, l’Ortodossia greca, provocata dalla creazione della Chiesa Ucraina indipendente. È come se l’universo ortodosso fosse spaccato in due. La Chiesa unica sul territorio italiano deve nascere dopo una lunga gestazione sulla base della spiritualità comune e del dialogo con le altre Chiese cristiane. Profittando di questa tribuna vorrei ricordare ai nostri cari ortodossi che le Chiese nazionali separate sul territorio di un’altra nazione, anche per le cure spirituali dei profughi, non è proprio quello che Cristo ha chiesto al Padre nella sua preghiera sacerdotale.
Questa nuova Chiesa può portare il messaggio dell’Ortodossia riscoperta all’interno della società occidentale, per entrare in un dialogo spirituale, etico e filosofico con il cristianesimo occidentale, per aprire uno spazio di confronto e di dibattito. L’Ortodossia è vista spesso in Occidente come la confessione più vecchia che ha perso il treno dell’epoca moderna e, da un punto di vista superficiale, questo potrebbe essere parzialmente vero. Non dimentichiamo che la maggior parte delle Chiese ortodosse sono state incatenate per una buona parte del XX secolo e quando sono uscite dai regimi ideologici hanno deciso di cercare la propria identità nel proprio passato. L’Ortodossia in Occidente nata dopo tante prove, catastrofi, necessità è un’opportunità provvidenziale per la propria rinascita, la nascita nuova, piena delle sue ricchezze secolari, ma liberata dal suo glorioso passato nazionale, dal peso del nazionalismo, dal peso della storia, vissuta nella sua riserva etnica e sociale, separata dagli altri. Mi pare che il cristianesimo occidentale abbia bisogno della testimonianza ortodossa, ma non quella venuta dall’estero – quella nata proprio sul suo territorio, con le sue esperienze, con la sua visione di persona, d’essere umano. L’Occidente e l’Oriente cristiano hanno creato due antropologie diverse e tutte le difficoltà del dialogo ecumenico provengono da questa mancanza di comprensione reciproca. Credo che il concetto o la visione dell’uomo nella Chiesa d’Oriente e nella Chiesa d’Occidente, come anche nelle Chiese della Riforma possa diventare il tema principale del dialogo dei Convegni futuri.
Questa Chiesa appena nata o che sta per nascere avrà bisogno di uno spazio culturale, dei mezzi di comunicazione, della possibilità di scambiare le notizie. Di comunicare con le altre Chiese e con la società civile, ecc. Credo che si tratti di un avvenire non proprio lontanissimo. Credo anche che la nostra unità per cui Cristo ha pregato con i suoi discepoli, abbia maggiori opportunità di essere scoperta in esilio – nell’esilio inteso come patria di una Chiesa nuova, di una nuova Ortodossia.
Quale Ortodossia? - dobbiamo chiedere. L’Ortodossia vista dall’esterno come un grande museo dell’antichità, colmo di antiche icone, decorato dalle cupole dorate, ricco di veri tesori spirituali accumulati nei secoli e custoditi nei depositi del sottosuolo del mondo contemporaneo?
E noi, in questo tempo, quando in tanti si sacrificano per un tempo di guerra, in questa Pasqua, continuiamo ad osare di celebrare la risurrezione con il racconto di un Dio sconfitto...
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Nella società ogni riduzione degli spazi di confronto – anche quelli considerati più dialettici e conflittuali –, moltiplica la fecondità di un terreno ove si coltivano i germi che producono la guerra.
La cosmogenesi proposta da Teilhard può dare un contributo importante – forse addirittura decisivo, definitivo! – alla riflessione sulla “giustificazione di Dio” dopo che, nel ‘900, le grandi teodicee del passato si sono infrante sugli orrori del secolo breve.
Come deve essere, allora, la nostra vita cristiana? Un avvento continuo, una continua attesa dello Sposo che viene.
La conversione di Dio! Il libro di Giona è certamente molto ardito; Dio ha bisogno di convertirsi? Di pentirsi, persino? In realtà, chi ha già ascoltato il racconto del diluvio non si sorprende più di tanto...
L’esempio forse più significativo di questo disagio contemporaneo è rappresentato dal cristianesimo non sacrificale di René Girard. Secondo l’antropologo francese non v’è nulla, nei Vangeli, che possa far pensare alla morte di Gesù come a un sacrificio nel senso di un’espiazione o di una sostituzione.