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Mercoledì, 03 Agosto 2011 00:12

L’indimenticabile grandezza di Romero: un uomo che sapeva vincere la paura per amore

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«Vi sono storie che ti abbracciano così stretto che non riesci più a dimenticarle».

Inizia con queste parole il terzo libro di Ettore Masina su mons. Oscar Romero - L’arcivescovo deve morire. Oscar Romero e il suo popolo (Ed. Il Margine, Trento, pp. 400, 18 euro) -: riscrittura, ampliata e arricchita, della sua celebre biografia pubblicata con lo stesso titolo nel 1996 dalle Edizioni Gruppo Abele, e ormai da tempo esaurita (a sua volta, versione assai aggiornata della prima biografia, Oscar Romero, uscita nel 1993 con le Edizioni Cultura della Pace). Ed è facile capire come la storia di mons. Romero possa figurare tra quelle che «non riesci a dimenticare, neppure quando ne hai altre da scrivere»: perché, come evidenzia Masina nella sua ultima Lettera agli amici (n. 149), è la storia di «un vescovo di quella Chiesa dei poveri che l'istituzione clericale e l’“imperialismo del danaro” (come lo definiva Paolo VI) cercarono (e cercano) di estirpare dal cuore dei popoli in lotta di liberazione; un anziano che seppe lasciare le sedi tranquille del buon senso e delle gerarchie cerimoniose per proclamare l'evangelo di giustizia nel vento della storia. E ancora: un santo desaparecido nella muffa di certe congregazioni vaticane; martirizzato trentun anni fa ma posposto, nell'espletamento delle pratiche per la canonizzazione, a centinaia di virtuosi e virtuose che non seminarono scandali di profezia». Ma è anche la storia di un uomo che sapeva vincere la propria paura per amore, come Masina sottolinea nel primo capitolo, dal titolo “Biografia di un libro” (una delle parti completamente nuove, in cui viene raccontata per l’appunto la singolare genesi dell’opera): «È facile – scrive - pensare che certa gente possa fare certe cose perché è diversa da noi. Io, per esempio, sono un coetaneo del Che Guevara, ma mai il suo esempio mi ha messo in crisi. Quella sua bellezza (…), quella sua irruenza e generosità e audacia, come non pensare a un essere geneticamente diverso da me, altra razza, forse altro pianeta? Leggere le parole gridate da Romero, i suoi atti registrati dalla memoria dei poveri, mi strappava ogni ipocrisia: ecco un piccolo uomo, pieno di paura, che continuava a fare ciò che credeva suo dovere. Ripensavo a quanto papà Cervi aveva scritto in memoria dei suoi sette figli partigiani, fucilati dai fascisti: “Andarono avanti a fare ciò che credevano giusto, anche se sapevano che per questo si poteva morire: come il sole che continua l’arco suo sino al tramonto”».

L’eterno contrasto tra istituzione e profezia

Ma è anche sull’attualissima questione della canonizzazione di mons. Oscar Romero che Masina si sofferma, con l’intensità e la passione abituali, in questa terza biografia dell’arcivescovo martire (che verrà presentata, nel quadro delle celebrazioni romane per il XXXI anniversario dell’assassinio di mons. Romero, il 23 marzo, alle ore 18, nella sala della Comunità di base di S. Paolo e il 26 marzo, alle ore 17, nella parrocchia di san Frumenzio ai Prati Fiscali). Una questione, quella del riconoscimento ufficiale della santità dell’arcivescovo, su cui si confrontano posizioni diverse e persino opposte. C’è quella di quanti ritengono – ed è davvero una immensa folla di credenti, e non solo, all’interno del Salvador e in tutto il mondo – che l’arcivescovo martire sugli altari avrebbe dovuto esserci già da tempo e c’è quella di chi non vorrebbe vedercelo mai. C’è la posizione di coloro che ritengono che mon. Romero debba essere canonizzato, ma solo quando nessuno potrà più manipolarne, politicizzarne e strumentalizzarne la figura, giacché «un santo - ha dichiarato il vicario generale di San Salvador Jesús Delgado - non deve fomentare divisioni, ma essere segno di unità», come se Romero possa mai essere “segno di unità” tanto per le vittime quanto per i loro carnefici. La posizione di chi, mentre accusa altri di strumentalizzare la figura dell’arcivescovo, ne manipola la memoria per farne un santo di Roma, in un accelerato processo di “accaparramento istituzionale” mirabilmente esemplificato dalle parole pronunciate da Giovanni Paolo II sulla tomba di Romero durante la sua visita a El Salvador nel 1983, quando disse, dopo averlo tanto osteggiato quand’era vivo: «Romero è nostro». Infine, c’è la posizione di chi è d’accordo con dom Pedro Casaldáliga sul fatto che nessuno debba canonizzare san Romero d’America perché «gli farebbero un’offesa», in quanto «sarebbe come pensare che la prima canonizzazione», quella compiuta dal popolo, «non è servita» ; di chi, come Enzo Mazzi, pensa che Romero non abbia «vissuto per emergere ma per convergere, per dare forza e voce e potere ai senza potere» e ritiene dunque che occorra «non fare santo lui, ma fare santa tutta questa gente», e «liberarsi e liberare da tutte le mitizzazioni e santificazioni».

Nell’ultimo capitolo del libro (“Santo? Non subito!”), anch’esso completamente nuovo, Masina ripercorre i momenti più significativi di questa complessa vicenda, e lo fa individuando nelle «lentezze del processo di canonizzazione di Romero» l’ennesima riproposizione del contrasto fra istituzione e profezia: «da un lato il Vaticano, dall’altro la storia con le sue asprezze e le sue conquiste; da un lato chi custodisce ciò che è stato costruito, dall’altro chi accetta di camminare sotto cieli tempestosi e su incerti sentieri verso gli infiniti Golgotha della Terra e del Tempo. Da un lato chi difende l’intangibilità dell’ortodossia, dall’altro il pioniere che scopre il regno di Dio in regioni che sembravano deserte e prive di luci. E, infine, forse, si potrebbe dire: da un lato i filosofi, i canonisti, i sacerdoti nel Tempio e  dall’altro chi accetta di ricevere dai poveri la teologia loro affidata dal Padre».

(claudia fanti)

Letto 4790 volte Ultima modifica il Lunedì, 07 Maggio 2012 22:49

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