Mondo Oggi

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

L’amore di sé è un tema centrale nella cultura contemporanea. Ma è anche un tema ambivalente se non regolato da un sano equilibrio. Non si pecca solo di gretto egoismo, ma anche di falso altruismo. C’è un egoismo sano e un altruismo patologico.

La parola di Dio
ci educa alla pace

di Rinaldo Fabris

Che cosa può dire la «parola di Dio» in rapporto alla pace? Il suo messaggio si può riassumere con questa espressione: «La parola di Dio ci educa alla pace». Questo può sembrare una cosa scontata. Il vero problema è questo: quale uso viene fatto e si può fare della Bibbia che testimonia la parola di Dio? Questa Bibbia che per venti secoli è stata letta, proclamata nelle Chiese non ha impedito che i cristiani organizzassero le guerre e in nome anche di quella stessa fede che fondavano sulla parola di Dio testimoniata nella Bibbia. Mi domando allora se la parola di Dio, la Bibbia, può educare alla pace dal momento che le generazioni che ci hanno preceduto pur ascoltando questa parola non sempre hanno costruito la pace ma anche in nome della fede cristiana hanno prodotto la guerra. Si impone allora l'interrogativo: quale uso della Bibbia per costruire e fare la pace?

Credo che ci siano tre modi sbagliati di usare la Bibbia in maniera non «pacifica» non per produrre la pace, ma per costruire in maniera subdola, astuta, una situazione che produce la guerra.

Primo: uso ideologico della Bibbia. È l'uso della Bibbia come fonte di teorie sulla guerra, la cosiddetta «legittima difesa». Non si può usare la Bibbia per giustificare la guerra giusta da una parte o dall'altra. Questo è un uso ideologico della Bibbia, e tanto più pericoloso quanto più si appella all'autorità di Dio. È ancora un uso ideologico della Bibbia quello in cui si ricavano dai testi sacri teorie sulla pace intesa come pacifismo più o meno bucolico o mitico, la pace dell'Eden; l'uso di alcuni testi profetici e anche messianici che sono legati all'ideologia regale dove la pace è la sottomissione degli altri popoli. Alcuni testi che leggiamo con tanto entusiasmo sono nati all'interno dell'ideologia regale, dove il re conduce le guerre per sottomettere gli altri popoli. La pace era il frutto di sottomissione più o meno violenta degli altri.

L'uso ideologico della Bibbia ba giustificato le guerre condotte e prodotte dai cristiani.

Secondo: uso moralistico della Bibbia. Troviamo certo nei comandamenti e anche nel Vangelo la espressione «non uccidere». Ma questo comando, relativo all'assassinio, non ha impedito di organizzare le orge di sangue, l'omicidio e l'assassinio legittimato. Anche se i cristiani sanno che c'è il comando di Dio «non uccidere», una volta ogni tanto si può sospendere questa legge perché l'avversario va ucciso. La legittimazione dell'omicidio collettivo, in base a un uso moralistico della Bibbia è contro la pace. Anche l'altro uso moralistico della Bibbia che si appella alla frase del Vangelo «Porgi l'altra guancia» per sostenere un pacifismo rassegnato e passivo, non serve a produrre la pace. Molte volte questo pacifismo in nome dello slogan «porgi l'altra guancia», è stato l'alibi per non partecipare alla lotta, alla faticosa costruzione della pace per sedersi al tavolo e spartire i frutti delle lotte degli altri.

Terzo: uso spiritualista della Bibbia. La pace, si dice, è dono di Dio, dono finale atteso per gli ultimi tempi. Dunque durante la storia, la nostra povera storia umana, rassegnamoci a limitare, a contenere la guerra entro limiti sopportabili, in una situazione di violenza necessaria. Ancora si dice la pace di Cristo non è la pace del mondo, dunque ogni sforzo mondano, umano e civile per costruire la pace non serve a produrre la pace che è dono di Dio e del Cristo. Questo è un uso spiritualista della parola di Dio che molte volte conduce a una soluzione intimista: la pace si costruisce solo con la riforma delle anime, con la preghiera, aspettando che questo mondo di peccato passi e venga la pace definitiva. E questa posizione assolve il sistema di morte. Anche se è una richiesta di pace non è un costruire la pace, ma la fuga verso l'egoismo anche se è fatta in nome della spiritualità e della fede.

Allora qual è l'uso corretto della Bibbia? Quale confronto onesto con la parola di Dio per lasciarci educare da essa a una pace attiva, storica, che è dono di Dio ma senza che questo diventi un alibi alla rassegnazione o alla dimissione? Prima di tutto la Bibbia non deve essere intesa come un concentrato di formule dottrinali, di sentenze o massime morali. La Bibbia è la storia dove Dio si rivela prendendo una forma umana. È una storia vissuta, raccontata, scritta e riscritta; una storia che ha il suo momento culminante nella vicenda umana di Gesù di Nazareth, il falegname, il maestro, il profeta ucciso dagli uomini, ma risuscitato da Dio e che ci rivela il volto di Dio come amore. Qui mi piace ricordare una pagina della lettera scritta a Tito, il Vescovo di Creta: «L'amore benigno e gratuito di Dio per la salvezza liberante di tutti gli uomini si è manifestata storicamente; quest'amore ci educa a rinnegare l'egoismo elevato a sistema per attuare rapporti giusti tra di noi nel mondo, in attesa dell'ultima piena realizzazione della salvezza che è dono del salvatore nostro Gesù Cristo. Quelli che hanno accettato questo progetto si impegnano come uomini liberi per una prassi che costruisce la pace», (Tito 2,11-14). La pace è dono di Dio, ma anche impegno degli uomini.

Ecco allora tre momenti per un ascolto e una attuazione della parola di Dio che ci educa a costruire la pace.

Primo: una presa di coscienza. il problema della pace oggi è un problema di rapporti umani giusti, liberi e vitali. Questo rapporto giusto, libero dell'uomo con l'uomo è la sostanza del progetto di Dio. Un progetto che parte dalla Genesi, ha il suo momento culminante nella proclamazione del regno di Dio per mezzo di Gesù. Questo è il senso della pace biblica, della pace dell'alleanza: è la libertà degli oppressi; è la libertà per realizzare una vita piena; questo è il sogno di Isaia che per i deportati scriveva questa pagina immaginando il ritorno di quelli che erano stati deportati in esilio, come una carovana di liberati: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero dei lieti annunzi, che annuncia la pace; messaggero di bene che annuncia la salvezza, che dice a Sion: regna il tuo Dio» (Is. 57,2). Il regno di Dio è annuncio di pace che vuoi dire salvezza, e bene. Nel linguaggio biblico salvezza e bene è la libertà per gli oppressi; è ritorno in patria dei profughi deportati. Questo è il contenuto essenziale del regno di Dio che Gesù ha annunciato come «buona notizia» per i poveri. Il regno di Dio si è fatto vicino come libertà, come rapporti giusti: libertà dei corpi malati; rapporti giusti fra le persone. E allora la storia conflittuale umana fatta di oppressione e di ingiustizia, stando a questa parola di Dio che annuncia la pace come giustizia, come rapporti liberi tra le persone, questa storia conflittuale non può essere superata con la violenza. La violenza non costruisce la pace. Questa affermazione oggi suppone una nuova presa di coscienza.

Secondo: una nuova mentalità. La giustificazione della violenza, intesa come necessità, come risposta a un'altra violenza, oppure come forza da usare in maniera limitata contro altre forze per legittima difesa, è una giustificazione fatta in una situazione di peccato e in nome del peccato. Questo modo di pensare nasce da una logica di peccato, cioè di non-libertà, di non-redenzione, cioè da una logica di morte. Quando si dice: siccome c'è una violenza già organizzata si può rispondere a questa violenza organizzata con un'altra violenza come legittima difesa, questo modo di ragionare è logica di peccato, che nega la redenzione e la libertà creativa dell'amore di Dio rivelato in Gesù. A questa logica di peccato anche i cristiani si sono appellati per la legittima difesa, per proclamare la «guerra giusta». A questi si oppone spesso la concezione della non-violenza intesa come scelta passiva, rassegnata, vittimistica in nome della non-resistenza. Ma questo non è la buona notizia del regno di Dio. La novità evangelica contro questa interpretazione propone un nuovo modo di concepire il superamento della violenza: non la legittima difesa, non la difesa limitata o l'uso limitato della violenza ma l'amore attivo.

Questo contenuto essenziale del Vangelo è stato deformato in una lettura moralistica o intimistica. Quando Gesù propone un modo alternativo di leggere la parola di Dio, «i dieci comandamenti», fa questa proposta concreta. Il «non uccidere» non può essere più limitato all'assassinio ma esso abbraccia anche il nemico, perché anche il nemico fa parte del prossimo. Quindi in nome di nessuna ideologia o sistema politico si può giustificare l'uccisione dell'altro. I cristiani non possono mettere fra parentesi il «non uccidere» in nome di una necessità, di una legittima difesa. Questo sarebbe ancora una concessione nella logica del peccato rinnegando la novità liberatrice del Vangelo. Educarci alla pace vuol dire ascoltare la parola di Dio senza riduzioni, superando questa mentalità moralistica che si appella alla parola di Dio per giustificare l'uccisione dell'altro, cioè il peccato. Il «non uccidere» per il Vangelo vale anche per il nemico che è il mio prossimo: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori perché siete figli del Padre vostro celeste che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? Se date il saluto soltanto ai vostri fratelli che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?» (Mt. 5,43-47). Il Vangelo non solo critica l'odio del nemico ma denuncia anche la logica della rappresaglia come logica di peccato e propone non la rassegnazione, non la resistenza passiva, ma l'amore attivo che libera anche il nemico da una situazione di violenza (Mt. 5,21-25). L'uso della violenza giustificata in nome di Dio o di una necessità storica è logica di peccato che viene smascherata dall'annuncio evangelico.

La proposta alternativa allora non è la semplice non-violenza, non è semplicemente la resistenza passiva, ma è un amore che porta anche l'avversario nella situazione di giustizia o di libertà; libera l'altro dalle radici della violenza. La parola di Dio ascoltata senza riduzioni di comodo ci lascia forse nell'incertezza sui mezzi da usare, ma certamente non ci dà licenza di servirci di strumenti di morte per organizzare la legittima difesa, per uccidere l'altro. Questa stessa parola di Dio deve portarci anche a smascherare l'ipocrisia dei cristiani che vedono la violenza distruttiva solo da una parte. E violenza non solo quella della rapina, ma anche quella delle evasioni fiscali, anche quella delle esportazioni di capitali all'estero; è violenza non solo quella dal basso, non solo la protesta, ma anche quella burocratica, anche quella legittimata dall'alto.

Terzo: quale decisione operativa ci suggerisce allora la parola di Dio? Non solo una presa di coscienza, non solo una nuova mentalità, che ci fa superare il moralismo oppure la rassegnazione passiva, ma gesti e fatti di pace. Una parola di Dio che deve diventare storia, perché è stata storia, opera di pace in Gesù di Nazareth fino al punto di accettare di morire per il suo progetto di pace fondata sulla libertà e l'amore. (...)

Prima di tutto si deve avere il coraggio, in nome della parola di Dio che ci giudica, di chiamare le cose con il proprio nome. È violenza anche l'insediamento di nuove strutture militari in una zona già depauperata e strangolata dai vincoli militari. È violenza anche la decisione e la pianificazione fatta sulla testa e sulla pelle della gente che non può difendersi e non può parlare dentro la giungla burocratica. È violenza l'espropriazione culturale della propria lingua, delle proprie abitudini e tradizioni vitali in nome di un assetto sociale efficentistico e omogeneo. È opera di pace invece una scelta antimilitare come il servizio civile alternativo; sostenere e promuovere in prima persona un servizio alternativo è opera e gesto di pace come risposta alla parola di Dio che ci chiama a costruire una storia di pace. È opera di pace la partecipazione effettiva della popolazione per costruire le proprie case, il proprio paese, mantenendo la propria fisionomia. È opera di pace la restituzione, la difesa, la promozione della fisionomia culturale(...), della lingua, delle minoranze etniche. Tutto questo allora può essere una risposta effettiva a quella parola di Dio che è diventata storia, vita, passione e morte di Gesù Cristo e che ci educa oggi ad una prassi di amore attivo per costruire la pace.

Sabato, 24 Novembre 2007 21:09

Speranza (Werner Post)

La speranza abbraccia un campo così vasto di significato, che una sua definizione formale non può essere sufficiente, come del resto non può essere completa una sua definizione storico-descrittiva.

Sabato, 24 Novembre 2007 20:50

Verginità di Maria (Luigi De Candido)

Non esiste per questa verità mariana una proclamazione dogmatica solenne. Eppure pastori e fedeli hanno sempre onorato Maria con questo titolo. La sensibilità odierna per questo appellativo mariano.

Nella costituzione dogmatica sulla Chiesa, ma non solo, il concilio ha dedicato una attenzione particolare al sacerdozio comune o battesimale dei fedeli. Essa si spiega con la ripresa della riflessione sulla natura e sull’identità della Chiesa, iniziata in modo originale subito dopo la prima guerra mondiale, e dunque negli anni ’20 del XX secolo.

Venerdì, 23 Novembre 2007 01:38

Minucio Felice (Lorenzo Dattrino)

MINUCIO FELICE

di Lorenzo Dattrino






Della sua vita abbiamo alcune notizie da Girolamo: «Minucio Felice, distinto avvocato in Roma, scrisse un dialogo, in cui riporta una discussione tra un cristiano e un pagano, intitolato Octavius (Ottavio). Sotto il suo nome circola pur un altro libro Sul destino o contro i matematici; ma per quanto sia opera d’uomo di talento, non mi sembra concordi nello stile con l’opera già menzionata. Minucio è altresì ricordato da Lattanzio nelle sue opere». (1)

Indubbiamente il nostro uomo appartenne a un’età compresa fra gli ultimi decenni del Il secolo e gli inizi del III. Sembra ormai accertato che la sua patria fu l’Africa, (probabilmente Cirta, oggi Costantina, Algeria). Presto egli si portò a Roma, dove esercitò l’avvocatura. Era dapprima pagano: si ignora se la sua conversione avvenisse prima del suo arrivo nella capitale dell’impero, oppure dopo.

L’opera, intitolata Ottavio, si presenta in forma di dialogo, svolto da parte di tre intimi amici: Cecilio Natale, pagano; lanuario Ottavio, cristiano e Minucio Felice, arbitro tra i due interlocutori. L’occasione che diede motivo alla discussione fu un bacio che Cecilio, il pagano, aveva indirizzato, come espressione di religioso ossequio, alla statua di Serapide, davanti alla quale erano venuti a trovarsi i tre amici, mentre compivano una loro serena passeggiata lungo la strada che da Ostia portava a Roma.

L’opera si articola nelle seguenti parti: dopo una breve introduzione (cc. 1-4), ecco un’esposizione del paganesimo, dichiarata con piena convinzione da parte di Cecilio (cc. 5-13). Interviene allora Ottavio con una risposta di ben maggiore convinzione in difesa del cristianesimo (cc. 14-38)

Il carattere di quest’opera è strettamente apologetico. Specialmente in passato essa è stata oggetto di indiscussa ammirazione. Rimangono tuttavia alcuni problemi ancora insoluti. Resta dubbia innanzitutto una prima questione: il dialogo è realmente avvenuto, oppure è opera d’una mera finzione letteraria? I critici rilevano, nella struttura dell’opera, la presenza di due orazioni abilmente introdotte dall’autore stesso e poi collegate fra loro, così da risultarne un dialogo.

Dopo tutto, lo scrittore si sofferma poco sulla trattazione dei dogmi e sui principi essenziali della fede cristiana, come tale. Egli sa che di fronte al suo obiettore deve difendere il cristianesimo più nella sua parte esteriore che non per la profondità dei suoi dogmi. Pertanto «le ragioni delle caratteristiche dell’opera di Minucio vanno ricercate nell’epoca in cui l’autore visse, come pure nell’educazione e nel carattere della sua mentalità, ben diversa dal carattere e dalla mentalità di un Tertulliano». (2) Quella che egli intende difendere e valutare è la vita dei cristiani, ben più che il complesso dottrinale della loro fede.

1) Girolamo, De viris illustribus, Torino 1971 (trad. di E. Camisani), p. 166
2) U. Moricca, Letteratura latina, I, pp. 84-85.




Per l’approfondimento

Edizioni

L 3,231-360; CSEL 2.1-71

Traduzioni

E. Paratore, Minucio Felice: Ottavio, Bari 1971; L. Rusca, Minucio Felice: Ottavio. Contraddittorio tra un pagano e un cristiano, Milano 1957

Studi

E. Paratore, La questione Tertulliano-Minucio, ha «Ricerche Religiose» 18 (1947), 132-159; I. Vecchiotti, La filosofia politica di Minucio Felice, Urbino 1974 Girolamo, De viris illustribus, Torino 1971 (trad. di E. Camisani), p. 166 U. Moricca, Letteratura latina, I, pp. 84-85.

Appollaiata sulle alture della Galilea, Safed (Tsfat) città santa del giudaismo, accoglie ogni anno decine di migliaia di pellegrini che si stringono sulle tombe dei saggi e dei grandi maestri della mistica ebraica.

Risposte raccolte da Frédéric Lenoir e Karine Papillaud


Celebra le donne e la Ragione, il sacro e il dovere, la Storia e il romanzo, in una trentina di libri come La Gloire de l’Empire, Histoire du Juif errant; la Douane de mer o Une fête en larmes: Jean d’Ormesson è uno degli scrittori francesi più conosciuti e soprattutto più amati dai suoi lettori. Entrato all’Académie française nel 1973, è stato, a 48 anni, il più giovane accademico da lungo tempo. Aristocratico, repubblicano, innamorato di Chateaubriand e di Venezia, è un erede dei Lumi per la sua cultura enciclopedica, un libero pensatore affermato e soprattutto un focoso innamorato della vita e dei suoi piaceri. Dall’alto delle sue 81 primavere piene di fascino e di vitalità, Jean d’Ormesson è, da solo, una parte del patrimonio letterario francese. Agnostico, flirta volentieri con il problema di Dio.

Venerdì, 23 Novembre 2007 00:53

Il buon uso di Giuda (Frédéric Lenoir)

Il buon uso di Giuda

di Frédéric Lenoir



Il Vangelo di Giuda è stato il best-seller internazionale di questa estate. (1) Destino straordinario per questo papiro copto strappato alle sabbie dopo diciassette secoli di oblio e di cui non si conosceva finora l’esistenza se non dall’opera di sant’Ireneo Contra hereticos (180). Si tratta dunque di una scoperta archeologica importante. (2) Tuttavia esso non apporta nessuna rivelazione sugli ultimi momenti della vita di Gesù e non è assolutamente possibile che questo libricino possa “agitare fortemente la Chiesa”, come proclama l’editore in quarta pagina di copertina.

Anzitutto perché l’autore di questo testo scritto alla metà del II secolo non è Giuda, ma un gruppo di gnostici che ha attribuito la paternità del racconto all’apostolo di Cristo per dargli più senso e autorità (procedimento frequente nell’Antichità). E poi perché, dopo la scoperta di Nag Hammadi (1945), che ha permesso di portare alla luce una vera biblioteca gnostica che comprende molti vangeli apocrifi, si conosce meglio la gnosi cristiana, e infine perché Il Vangelo di Giuda non porta alcuna luce nuova sul pensiero di quel movimento esoterico.

Il suo successo fulmineo, perfettamente orchestrato dal National Geografic che ha acquistato i diritti per tutto il mondo, non dipende soltanto dal suo titolo straordinario: “Il Vangelo di Giuda”. Associazione di parole stupefacente, impensabile, sovversiva. L’idea che colui che i quattro Vangeli canonici e la tradizione cristiana presentano da duemila anni come “il traditore”, “il cattivo”, “l’adepto di satana” che ha venduto Gesù per una manciata di soldi, abbia potuto scrivere un vangelo è intrigante. Che abbia voluto dire la sua versione degli avvenimenti per tentare di allontanare l’obbrobrio che pesa su di lui è anche formidabilmente romanzesca, quanto il fatto che questo vangelo perduto sia ritrovato dopo tanti secoli di dimenticanza.

In breve, anche quando non si conosce nulla del contenuto di questo libretto, non si può che essere affascinati da un simile titolo. Tanto più che, come ha ben rivelato il successo del Codice da Vinci, la nostra epoca dubita dei discorsi ufficiali delle istituzioni religiose sulle origini del cristianesimo e che la figura di Giuda, come quella della lunga lista delle vittime o degli avversari vinti dalla Chiesa cattolica, è riabilitata dall’arte e dalla letteratura contemporanea. Infatti come avrebbe potuto il Cristo compiere la sua opera di salvezza universale se non fosse stato consegnato da quel disgraziato? Il vangelo attribuito a Giuda cerca d’altronde di risolvere il paradosso facendo dire esplicitamente a Gesù che Giuda è il più grande degli apostoli, perché è lui che permetterà la sua morte: “Ma tu li superi tutti! Perché sacrificherai l’uomo che mi serve da involucro carnale” (56). Questa parola riassume bene il pensiero gnostico: il mondo, la materia, il corpo sono l’opera di un dio perverso (quello degli Ebrei e dell’Antico Testamento); lo scopo della vita spirituale consiste, mediante l’iniziazione segreta, in questo: che i rari eletti, che possiedono un’anima divina immortale, dono del Dio buono e inconoscibile, possano liberarla dalla prigione del loro corpo. È piuttosto divertente constatare che i nostri contemporanei, infatuati della tolleranza piuttosto materialisti, e che rimproverano al cristianesimo il disprezzo della carne, si appassionino per un testo nato da una corrente che a suo tempo fu condannata dalle autorità della Chiesa per il suo settarismo e perché considerava che l’universo materiale e il corpo fisico fossero un’abominazione.

1) L’Évangile de Judas, traduction et commentaire de R. Kaiser, M. Meyer et G. Wurst, Flammarion, 2006, 221 p., 15 €. Rodolphe Kasser, Marvin Meyer, Gregor Wurst, Bart D. Ehrman (a cura di), Il Vangelo di Giuda, Vercelli, National Geographic Society - White Star, 2006. È la versione italiana della traduzione "ufficiale" del testo, accompagnata da alcuni saggi.

2) Vedere Le monde des Religions, n° 18.
(da Le monde des religions 19, p. 5)

di Andrea Pacini

La grande sfida è trovare vie che portino alla conoscenza della fede cristiana, con uno sforzo di mediazione culturale dell’annuncio.