Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input
Gli studi degli ultimi decenni non soltanto mettono a disposizione un ricco patrimonio culturale ignorato per secoli, ma pongono anche in risalto il fatto che l’Africa deve essere ripensata come variegato luogo filosofico.
di Samir Khalil Samir
Il dialogo con l’islam richiede amore sincero. Non gesti ambigui.
Subito dopo Natale è scoppiata una polemica a Cordoba, orchestrata dalla stampa internazionale: il vescovo Juan José Asenjo Pelegrina ha osato rigettare la richiesta della Giunta islamica di Spagna presieduta dal convertito Mansur Escudero, che chiedeva che i musulmani potessero pregare nella cattedrale. Il motivo è che otto secoli fa la cattedrale era una moschea, senza ricordare che tredici secoli fa era una basilica. Il vescovo ha spiegato che una cosa simile avrebbe «generato confusione tra i fedeli» e «non contribuirà a una coabitazione pacifica tra i credenti». «Noi, cristiani di Cordoba, desideriamo vivere in pace con i credenti di altre religioni, ma non vogliamo essere sottomessi a pressioni continue che non contribuiscono alla concordia». Allora Mansur ha steso il tappeto davanti alla cattedrale e vi ha pregato.
Poco prima, i musulmani di Colonia avevano chiesto di poter pregare nel famoso duomo della città, e il cardinale Joachim Meisner vi si era opposto. A novembre, lo stesso porporato aveva vietato ai professori di religione cattolica della diocesi di organizzare preghiere interreligiose, perché i bambini non erano in grado di fare le dovute distinzioni. È stato vivamente criticato da politici e insegnanti. A quando il prossimo scandalo europeo?
Nonostante questi casi, a me sembra che il dialogo con l’islam stia entrando in una fase più autentica. Questi due rifiuti si capiscono. Negli anni Settanta-Ottanta si è un po’ diffusa la pratica di prestare ai musulmani - non senza ambiguità - luoghi di culto cristiani, ma già il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, l’aveva vietato nella sua diocesi. Oggi tutte le città europee in cui ci sono musulmani hanno una moschea, e dunque questa pretesa non si capisce più. Un conto è pregare insieme in un’aula, su testi non sacri, un conto è farlo in una cattedrale.
Ma il Papa, si dirà, ha pregato con il gran muftì d’Istanbul nella moschea blu, il 30 novembre scorso. È stato un gesto bellissimo, spontaneo, su proposta dello stesso Mustafa Cagrici: ambedue si sono raccolti in preghiera per un minuto, orientati verso la Kaaba, e il Santo Padre ha adottato l’atteggiamento del muftì. Personalmente, quando mi succede di entrare in una moschea, la prima cosa che faccio è di pregare per i musulmani, affinché Dio li sostenga e li colmi di benedizioni. Dopo tutto, una moschea è un luogo dal quale salgono milioni di preghiere verso il Padre di tutta l’umanità.
Una cosa è un gesto personale e puntuale, un’altra è un atto collettivo e organizzato. E se, per qualche motivo legittimo, un altro vescovo decidesse di far cessare questa pratica, come ci riuscirebbe senza suscitare ancora più veleno? Nel 1974 Saddam Hussein, allora vicepresidente del Consiglio della Rivoluzione, in visita a Cordoba, pregò nella cattedrale: non fu un precedente, ma un’eccezione. Che i musulmani, entrati in un luogo cristiano, preghino discretamente e silenziosamente, è bello. Ma se si mettessero a compiere la salât, cioè la preghiera rituale musulmana, sarebbe irriverente. Lo stesso andrebbe detto se io celebrassi la nostra salât, cioè la Messa, in una moschea: sarebbe una provocazione!
Il dialogo richiede discernimento. Ogni gesto ambiguo porta più danno che beneficio, anche se l’intento è buono. Il dialogo richiede amore sincero. Il musulmano è mio fratello. L’islam può essere un progetto sociologico, culturale, politico o militare, oppure spirituale e religioso; ma il musulmano non è un progetto, è un uomo come me, che va rispettato nella sua dignità di persona e di credente, e amato con lo stesso amore che nutro verso il cristiano. Amore e verità, affetto e discernimento sono inseparabili e ci permettono di basare il dialogo interpersonale su fondamenta solide. Trattandosi di musulmani, il fondamento è Dio stesso. Anche per questo il vero dialogo non può fare a meno dell’annuncio del Vangelo, come d’altronde il musulmano sincero e pio che mi vuol bene mi annuncia Dio come l’intende lui. Lungi dall’essere un’aggressione, l’annuncio è amore servizievole. Noi cristiani ci sentiamo solidali con tutti coloro che, proprio in base alla loro convinzione religiosa di musulmani, s’impegnano contro la violenza e per la sinergia tra fede e ragione, tra religione e libertà. In questo senso, i dialoghi di cui ho parlato si compenetrano a vicenda.
(da Mondo e Missione, Febbraio 2007)
di Rino Cozza csj
Realizzare un progetto di vita innovativo significa pensarsi in modo nuovo per poter pensare il nuovo; ma ciò non è possibile se si deve fare riferimento a realtà nate nel contesto di quella cultura secolare in cui ciò che in quel tempo è percepito come “verità” assume il carattere di immutabilità.
Anche nella nostra vasta area geografica, imprevedibilmente, stiamo assistendo a una inaspettata vitalità delle forme di vita evangelica delle quali la vita religiosa ne è un particolare modello. Numerose sono le nuove fondazioni, che esprimono una incuriosente vitalità, sorte in questi ultimi decenni, la cui forma aggregativa è originale rispetto alle canoniche. Il fine primario – che è quello di rendere attuale la presenza di Cristo e la sua missione sanante – è comune a tutte queste e alle forme di antica fondazione.
Quanto sta avvenendo ci induce a essere attenti scrutatori di orizzonti ove convergono le linee dei tramonti e delle aurore.
SPERANZA E RICOLLOCAMENTI RICHIESTI
Si tratta di rispondere alla domanda: che cosa debbo fare per avere la vita?” consapevoli che le risposte del Signore sono sempre all’interno di un dato contesto culturale e storico.
In alcuni interventi dello scorso anno, su questa rivista, mi ero soffermato nel dire che la speranza era riposta nella capacità di riacculturare la spiritualità, che non significa soltanto diventare più spirituali ma avere la capacità di marcarla con le attuali coordinate di vita e di ridirla con il linguaggio di coloro a cui ci si rivolge, non essendo più sufficiente quello delle nostre origini. Secondo: che per poter essere fermento la vita religiosa deve cercare spazi nel dinamismo della vita ecclesiale, impastandosi con le altre vocazioni. E ancora: rispondere alla istanza di fraternità, vale a dire alla esigenza di passare dall’essere “confratelli” all’essere “fratelli” per una esperienza spirituale vissuta insieme, in funzione del divenire “creatura nuova” nell’oggi, non estranea alla maturazione delle esigenze che vanno meglio a esprimere autenticamente la persona.
Ora, nella attuale riflessione enucleo altri “semi” in cui è riposta la speranza.
Nel passato, per i Religiosi/e l’identità era data per lo più da ciò che facevano, ora – e questo è stato detto più volte e da più parti – le opere apportano pochissimo all’identità: «Questo fatto può essere letto come un segno provvidenziale che invita a recuperare il proprio compito essenziale di lievito, di fermento».(1)
NUOVE TRACCE DI SENSO
È tempo dunque di passare dalle opere alle sfide e di accogliere in particolare le povertà a cui nessuno risponde. Dire questo non significa preclusione a ogni tipo di opera ma a quelle che non sono trasparentemente strumento in funzione delle sfide. Come andare avanti non frenati da verità virtuali (non nel senso teologico) espresse con parole senza senso per l’attuale sensibilità culturale? La chiave è nella capacità di inventiva o creatività, che significa capacità di produrre nuove rappresentazioni dei problemi e delle soluzioni; di rifigurare a ogni appello i propri sistemi organizzativi e mentali ricollocando dinamicamente l’identità a misura del bisogno per poter porre il Vangelo nell’oggi della storia. Creatività è la capacità di proporsi dei progetti che siano passibili di continuo adattamento ai bisogni sempre nuovi. Tutto ciò può essere prodotto da quei gruppi capaci di pensare mondi possibili, spinti dal sogno, vale a dire da un valore intravisto e sostenuto da una positiva emozione e dalla voglia di “esserci”, perché nessun valore entra nella vita della persona se questa non ha partecipato a costruirlo. Il futuro è «in piccoli gruppi di giardinieri che si sostituiscano ai notai»,(2) e in “spazi” che consentano di liberarsi da eccessive pressioni di conformità per poter essere grembo fertile di significati nuovi in riferimento a un valore, in grado di inventare nuove forme di vita individuale e collettiva.
BISOGNA DE-ISTITUZIONALIZZARE
Ogni fondatore, al gruppo di iniziatori ha dato il nome di “famiglia” religiosa; con il passare di pochi decenni lo stesso gruppo si è ritrovato “istituto” religioso, non solo per esigenze di diritto canonico ma per un processo naturale che si chiama istituzionalizzazione. Il carisma nasce da una inedita e libera azione dello Spirito, l’istituzione viene in aiuto con la sua funzione di volano che è quella di immagazzinare la forza dinamica delle origini per riproporla via via nel cammino della sua storia. Il momento però diventa critico quando finisce un’epoca, per il fatto che il volano (istituzione) non è capace di disimparare per apprendere. Quando sopravvengono nuovi contesti l’originalità di ispirazione deve essere tutta incentivata dai nuovi orizzonti sociali ecclesiologici e antropologici e non solo dai “saperi” immagazzinati dal “volano”. Certamente i termini carisma e istituzione non sono in contrapposizione, ma è altrettanto certo che il loro rapporto rimane sempre dialettico e che in ogni caso l’istituzione è in funzione del carisma e non viceversa. La storia di san Francesco è quasi il paradigma di questa conflittualità permanente tra carisma e istituzione, tra VR come segno profetico e VR come modello istituzionale (3) Non è certo possibile prescindere dalla dimensione istituzionale essendo questa un rilevante patrimonio di memoria e intelligenza ma è altrettanto vero che un carisma nato in controtendenza, estemporaneo alle norme sociali ed ecclesiali finisce dall’essere da queste “normalizzato”. Per poter abitare il futuro la vita religiosa dovrà ricomporre l’equilibrio ora sbilanciato sulle norme. G. Riglet, un sacerdote belga vicerettore dell’università di Lovanio, sintetizza bene questo punto: i nostri contemporanei vogliono senso, sì, ma rifiutano l’esorbitante pensiero normativo. E la Chiesa fa fatica a produrre senso senza produrre norme. Ecco la straordinaria conversione che è chiesta alla vita religiosa. E capisco che sia un cambiamento vertiginoso: proporre senso senza rinchiuderlo. Un senso che dia respiro”. (4)
Che dire di varie nuove comunità monastiche che nella riplasmazione di nuovi modelli hanno scelto di non far parte dell’ Ordo monasticus per dar vita a un monachesimo nella Chiesa locale? In effetti realizzare un progetto di vita innovativo significa innanzitutto pensarsi in modo nuovo per poter pensare il nuovo, il che non è possibile se si deve fare riferimento a realtà nate in contesto di quella secolare cultura secondo la quale ciò che in quel tempo è percepito come “verità” assume il carattere di immutabilità.
CARISMA CONDIVISO CON LE ALTRE VOCAZIONI
Questo discorso – è bene riproporlo – è presente nello strumento di lavoro del Congresso 2004 dove si dice che «si sta definendo un nuovo modello di vita consacrata attorno a nuove priorità, nuove forme organizzative e di collaborazione aperta e flessibile con tutti gli uomini e le donne di buona volontà». (5) Nel processo rifondativo il punto di partenza dei religiosi è l’accoglienza di alleanze come una questione radicale dell’esistenza consapevoli che un sistema chiuso va verso l’entropia e l’asfissia: laici e religiosi sono due polmoni che favoriscono la dinamica respiratoria. (6) La maggior parte delle nuove forme di vita evangelica – come già ho avuto modo di dire in un altro articolo – adotta, in funzione del carisma, la forma di realtà concentriche che consiste nel diverso livello di partecipazione e di appartenenza. Al centro c’è un cerchio più piccolo che sceglie a tempo pieno la forma della consacrazione, stabilendo vincoli giuridici stretti con l’istituzione. Radialmente poi ci sono cerchi sempre più ampi, formati da quelli che si riconoscono nell’ispirazione carismatica in forme di impegno diversificato. Nella strategia delle realtà concentriche dunque sono possibili livelli di maggiore o minore prossimità integranti l’unico carisma in modo differenziato, dinamico e progressivo.(7) Da tale forma organizzativa è derivata, anche, la fortuna dei movimenti. Per parte dei laici e dei religiosi partecipare a uno stesso carisma significa, assumendone la globalità, condividerlo in qualche suo aspetto, come parte di un tutto con il quale confrontarsi, integrarsi, sistematizzarsi, senza “confondersi”, a partire dal presupposto che come religiosi «non solo abbiamo qualcosa da dare ma anche molto da ricevere», specialmente quello di riesprimere in situazione di secolarità il nostro bagaglio spirituale a partire dalla consapevolezza che le risposte di ieri non bastano più.
Segno di un carisma che ha fatto la scelta della integrazione è dato dal sentire che ognuno cresce nell’esercizio dello scambio di doni che sono quelli della laicità e della consacrazione. Allora per carisma condiviso si intende una realtà nuova «in cui si dilata e si arricchisce il carisma spirituale e apostolico del fondatore». Questa è grande novità: la ricchezza di un carisma che si manifesta in pienezza quando si concretizza nei diversi modi di vivere la vita cristiana e fa maturare una comunione di vocazioni. Quanto espresso conduce a dire che il carisma nelle sue due dimensioni, spirituale e apostolica, per poter essere dono alla Chiesa nella pienezza delle sue potenzialità, non soltanto concede spazi ma necessita di complementarietà.
CARISMI D’ISTITUTO IN COMUNIONE TRA LORO
L’immagine comunionale della Chiesa è centrale nella teologia del Vaticano II. È interessante quanto fa notare al riguardo Von Balthasar secondo il quale il termine communio, dal punto di vista filologico può derivare da cum-munio che significa difendersi insieme, fare corporazione, oppure, altra lettura, da cum-munus, che vuol dire mettere insieme i propri doni, due significati che non si oppongono. S. Paolo si esprimerebbe così: “a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune” (1 Cor 12,4-5). C’è come una tensione nella Chiesa, cioè un movimento incessante: dalla diversità all’unità, dall’unita alla diversità. La diversità senza l’unità porta alla frantumazione, al caos; l’unità senza la diversità porta alla massificazione, quindi all’inerzia, alla paralisi nella Chiesa. L’esortazione apostolica Vita fraterna in comunità parla di indebolimento della fraternità nella Chiesa originata dalla “scarsa qualità della fondamentale comunicazione dei beni spirituali. Ogni carisma è rilevante, perché dono della Trinità alla Chiesa per il mondo, tanto che non è possibile immaginare di esaurirlo all’interno della propria vocazione. I carismi, per manifestarsi pienamente, devono far leva sulla condivisione perché sono doni che non appartengono esclusivamente a chi li detiene. Condivisione di carismi significa scambio reciproco di un qualcosa che non si possiede come proprietà privata ma come dono da ricevere e donare.
Allora è tempo di un ripensamento creativo circa le relazioni tra carismi, perché la Chiesa non può essere «un supermarket di valori (carismi) ma un’unica grande comunione, a somiglianza trinitaria». Questa comunione non significa sfondersi ma prendere coscienza della propria identità per aprirsi all’alterità, diversamente ci si consegna a un inevitabile destino di estraneità e diversità, con la conseguenza che un dato carisma diventa insignificante.
In conclusione si può dire: la vita religiosa non è soltanto in funzione dell’annuncio dell’aldilà atteso, ma è costituita perché l’aldilà sia presente nella storia con sforzi di prefigurazione, di profezia reale, di storie vissute, in funzione dell’avere più vita. Per questo uno sceglie di consacrarsi: per avere la vita in abbondanza, certamente secondo logiche evangeliche, che però oggi si calano su un concetto di persona evoluto secondo alcune istanze antropologiche in precedenza misconosciute. Da questi presupposti «sorgono da ogni parte nuove proposte – particolarmente dal laicato – che per la loro spontaneità e il loro entusiasmo di gioventù, tracciano un sentiero dinamico e stimolante».(8) La maggior parte degli iniziatori sono laici e come tali portano all’interno della consacrazione la sensibilità ai valori terreni, specie la gioia dello stare assieme, l’amicizia.
Per quanto riguarda la VR quali gli ostacoli alla speranza di futuro? Il Congresso 2004 avvisava del pericolo in atto di investire il più delle forze sul possibile del “già” piuttosto che sul possibile del “non ancora”. È l’istinto di autoconservazione, di autodifesa di fronte all’incertezza del futuro (9) che porta a cogliere la propria identità prevalentemente dal tempo precedente: ma questo è come volere che un giovane in fase evolutiva leghi la propria identità nel passato. La preoccupazione del “già” induce a operazioni di ordinaria manutenzione, deboli in tempi in cui non sono neppure sufficienti i lavori di straordinaria manutenzione ma necessita mettere mano alle fondamenta della “casa”.
Le prospettive di futuro chiamano in causa il tipo di formazione dei consacrati. Perché tanti insegnamenti non generano apprendimento? M. Guzzi risponde così alla domanda che lui stesso si pone: «perché l’apprendimento è inteso come trasmissione di informazioni e non come ristrutturazione di significati e muove da una concezione individuale e non relazionale, nega dimensioni come le emozioni, il tempo, l’ambiente… Ciò avviene perché la maggior parte di coloro che insegnano, lo fanno in base a quello che hanno imparato quando sono stati allievi. Lo stile è quello indicativo di nozioni certe, lineari, e aconflittuali.
Al centro della formazione non c’è la creatività ma la ripetitività, mentre è un processo continuo di definizione e ristrutturazione del significato”. (10) Da quanto detto si può presumere che usciranno dall’attuale situazione critica quelle forme di VR che sapranno cogliere il momento presente come parola di Dio iscritta nella odierna storia di salvezza e con quella sollecitudine che solo la novità può alimentare, senza cedere alla tentazione di racchiuderla negli schemi cristallizzati di un sistema culturale che ci portiamo dietro perché “fedeli” a logiche di quel tempo che non c’è più.
Note
1) Ripartire da Cristo (n. 13).
2) M. Guzzi.
3) P. Arnold.
4) M. Guzzi in Servitium, Bergamo 2000, pag. 169.
5) Instrumentum laboris, Congress 2004 n. 73.
6) P. Generale Fatebenefratelli.
7) J.B. Libanio.
8) S.P. Arnold, Dove ci porta il Signore – Paoline p. 111.
9) F. Ciardi.
10) M. Guzzi.
(da Testimoni, 15 settembre 2006 n. 15)
di Henri de Lubac
In Gesù Cristo, che ne era il fine, l’antica Legge trovava in precedenza la sua unità. Di secolo in secolo, tutto in questa Legge convergeva verso di Lui. È Lui che, della «totalità delle Scritture», formava già «l’unica Parola di Dio». [...]
In Lui, i «verba multa» (le molte parole) degli scrittori biblici diventano per sempre «Verbum unum» (l’unica Parola). Senza di Lui, invece, il legame si scioglie: di nuovo la parola di Dio si riduce a frammenti di «parole umane»; parole molteplici, non soltanto numerose, ma molteplici per essenza e senza unità possibile, perché, come constata Ugo di San Vittore, «multi sunt sermones hominis, quia cor hominis unum non est» (numerose sono le parole dell’uomo, perché il cuore dell’uomo non è uno). [...]
Eccolo, dunque, questo Verbo unico. Eccolo tra noi «che esce da Sion», che ha preso carne nel seno della Vergine. «Omnem Scripturae universitatem, omne verbum suum Deus in utero virginis coadunavit» (tutto l’insieme delle Scritture, ogni sua parola, Dio l’ha riunito nel seno della Vergine). [...]
Eccolo adesso, totale, unico, nella sua unità visibile. Verbo abbreviato, Verbo «concentrato», non soltanto in questo primo senso che Colui che è in sé stesso immenso e incomprensibile, Colui che è infinito nel seno del Padre si racchiude nel seno della Vergine o si riduce alle proporzioni di un bambino nella stalla di Betlemme, come san Bernardo e i suoi figli amavano parlarne, come ripetevano M. Olier in un inno per l’Ufficio della vita interiore di Maria, e, ancor ieri, padre Teilhard de Chardin; ma anche e nello stesso tempo, in questo senso, che il contenuto molteplice delle Scritture sparse lungo i secoli dell’attesa viene tutt’intero ad ammassarsi per compiersi, cioè unificarsi, completarsi, illuminarsi e trascendersi in Lui. Semel locutus est Deus (Dio ha pronunciato una sola parola): Dio pronunzia una sola parola, non solo in sé stesso, nella sua eternità senza vicissitudini, nell’atto immobile con cui genera il Verbo, come sant’Agostino ricordava; ma anche, come insegnava già sant’Ambrogio, nel tempo e tra gli uomini, nell’atto con cui egli invia il suo Verbo ad abitare la nostra terra. «Semel locutus est Deus, quando locutus in Filio est» (Dio ha pronunciato una sola parola, quando ha parlato nel suo Figlio): perché è Lui che dà il senso a tutte le parole che lo annunziavano, tutto si spiega in Lui e solamente in Lui: «Et audita sunt etiam illa quae ante audita non erant ab iis quibus locutus fuerat per prophetas» (e si sono allora capite anche tutte quelle parole che non erano state intese prima da coloro ai quali egli aveva parlato attraverso i profeti). [...]
Sì, Verbo abbreviato, «abbreviatissimo», «brevissimum», ma sostanziale per eccellenza. Verbo abbreviato, ma più grande di ciò che abbrevia. Unità di pienezza. Concentrazione di luce. L’incarnazione del Verbo equivale all’apertura del Libro, la cui molteplicità esteriore lascia ormai percepire il «midollo» unico, questo midollo di cui i fedeli si nutriranno. Ecco che con il fiat (accada) di Maria che risponde all’annunzio dell’angelo, la Parola, fin qui soltanto «udibile alle orecchie», è diventata «visibile agli occhi, palpabile alle mani, portabile alle spalle». Più ancora: essa è diventata «mangiabile». Niente delle verità antiche, niente degli antichi precetti è andato perduto, ma tutto è passato a uno stato migliore. Tutte le Scritture si riuniscono nelle mani di Gesù come il pane eucaristico, e, portandole, egli porta sé stesso nelle sue mani: «tutta la Bibbia in sostanza, affinché noi ne facciamo un solo boccone...». «A più riprese e sotto varie forme» Dio aveva distribuito agli uomini, foglio per foglio, un libro scritto, nel quale una Parola unica era nascosta sotto numerose parole: oggi egli apre loro questo libro, per mostrare loro tutte queste parole riunite nella Parola unica. Filius incarnatus, Verbum incarnatum, Liber maximus (Figlio incarnato, Verbo incarnato, Libro per eccellenza): la pergamena del Libro è ormai la sua carne; ciò che vi è scritto sopra è la sua divinità. [...]
Tutta l’essenza della rivelazione è contenuta nel precetto dell’amore; in questa sola parola, «tutta la Legge e i Profeti». Ma questo Vangelo annunziato da Gesù, questa parola pronunziata da Lui, se contiene tutto, è perché non è altro che Gesù stesso. La sua opera, la sua dottrina, la sua rivelazione: è Lui! La perfezione che egli insegna, è la perfezione che egli porta. Christus, plenitudo legis (Cristo, pienezza della legge). È impossibile separare il suo messaggio dalla sua persona, e coloro che ci provarono non tardarono molto ad essere indotti a tradire il messaggio stesso: persona e messaggio, finalmente, non fanno che una cosa sola. Verbum abbreviatum, Verbum coadunatum: Verbo condensato, unificato, perfetto! Verbo vivo e vivificante. Contrariamente alle leggi del linguaggio umano, che diventa chiaro, spiegandolo, esso, da oscuro, diventa manifesto, presentandosi sotto la sua forma abbreviata: Verbo pronunziato dapprima «in abscondito» (nascostamente), e adesso «manifestum in carne» (manifesto nella carne). Verbo abbreviato, Verbo sempre ineffabile in sé stesso, e che tuttavia spiega tutto! [...]
Le due forme del Verbo abbreviato e dilatato sono inseparabili. Il Libro dunque rimane, ma nello stesso tempo passa tutt’intero in Gesù e per il credente la sua meditazione consiste nel contemplare questo passaggio. Mani e Maometto hanno scritto dei libri. Gesù, invece, non ha scritto niente; Mosè e gli altri profeti «hanno scritto di lui». Il rapporto tra il Libro e la sua Persona è dunque l’opposto del rapporto che si osserva altrove. Così la Legge evangelica non è affatto una «lex scripta» (legge scritta). Il cristianesimo, propriamente parlando, non è affatto una «religione del Libro»: è la religione della Parola – ma non unicamente né principalmente della Parola sotto la sua forma scritta. Esso è la religione del Verbo, «non di un verbo scritto e muto, ma di un Verbo incarnato e vivo». La Parola di Dio adesso è qui tra di noi, «in maniera tale che la si vede e la si tocca»: Parola «viva ed efficace», unica e personale, che unifica e sublima tutte le parole che le rendono testimonianza. Il cristianesimo non è «la religione biblica»: è la religione di Gesù Cristo.(I brani sono tratti da Henri de Lubac, Esegesi medievale. I quattro sensi della Scrittura, vol. III, Jaca Book, Milano 1996)
di Enzo Bianchi
Le tre religioni professano il monoteismo e si rifanno tutte e tre al Dio di Abramo. Il cristianesimo, però, presenta dei tratti che non sono ascrivibili al monoteismo delle altre due confessioni di fede. È allora ovvio che il dialogo a livello teologico sia asimmetrico e difficile, ma va incentivato tra i credenti il confronto sui temi che interessano l’umanità.
Il monoteismo, cioè la confessione di un Dio uno e solo, è un dato innanzitutto ebraico, ma poi, con il sorgere del cristianesimo e dell’islam, è stato declinato al plurale ("i monoteismi") a indicare le tre grandi religioni ebraica, cristiana e islamica.
È vero che esse riconoscono un Dio unico che identificano con il Dio di Abramo e di conseguenza tutti i loro credenti si sentono figli di Abramo, ma va detto con chiarezza che il cristianesimo presenta dei tratti che non sono ascrivibili al monoteismo delle altre due confessioni di fede.
1 Innanzitutto perché i cristiani non confessano solamente un Dio unico, ma un Dio fatto uomo in Gesù Cristo: Dio non è piu il "distinto", il "Santo" e quindi non uomo, non mondano, ma è invece Dio fatto carne, umanizzato nella storia e sulla nostra terra in Gesù, suo Figlio. Di conseguenza, i cristiani confessano Dio quale unico e uno, ma anche comunione (koinonia) del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Si potrebbe quindi porre la domanda: può il cristianesimo dirsi ancora un monoteismo? Sì, ma con delle specificazioni che mettono in evidenza la sua singolarità rispetto a ebraismo e islam.
2 Una seconda osservazione deve chiarire che proprio l’eredità della fede condivisa è diventata, come spesso accade nelle famiglie, motivo di gelosia, di opposizione e perfino di violenza. Ciascuno dei tre è stato persecutore e perseguitato dall’altro monoteismo – certo in misure molto diverse, anzi sproporzionate, e da valutarsi storicamente in modo differenziato, perché gli ebrei hanno perseguitato i cristiani solo nei primi decenni del cristianesimo – o comunque si è sempre trattato di un rapporto conflittuale e di rivalità. Così, la storia dei tre monoteismi è purtroppo segnata da opposizioni e violenze reciproche e quindi il dialogo intrapreso da alcuni decenni abbisogna di una "purificazione della memoria" e di una volontà di riconciliazione che ancora oggi paiono assai difficili e dense di contraddizioni.
Cristiani verso gli ebrei...
Quale atteggiamento si esige allora da parte dei cristiani nei rapporti con gli altri due monoteismi? Con l’ebraismo, innanzitutto. Un primo problema sorge con la definizione del partner dei cristiani in questo confronto: chi è l’Israele con cui tessere il dialogo? Infatti, è risaputo che l’ebraismo si presenta come una realtà complessa ed eterogenea.
Certamente è l’Israele credente, quello che l’apostolo Paolo chiama «l’Israele di Dio» (Gal 6,16), quello che noi possiamo chiamare ancora "popolo di Dio" in alleanza con lui. Ma attenzione, a rigor di termini, gli ebrei dell’epoca successiva alla nascita di Gesù non sono "fratelli maggiori" perché sono figli dell’Antico Testamento come lo sono i cristiani.
La Chiesa non si è sostituita al popolo di Israele in alleanza con Dio, quindi non è figlio minore, né figlio adottato: potremmo dire che ebrei e cristiani dei popoli dell’era volgare sono due "figli gemelli" dell’antica alleanza, due interpretazioni diverse dell’unico patto. Tra di essi, come scriveva già l’apostolo Paolo nella lettera ai Romani (11,11-15), regna gelosia ed emulazione, ma occorre che questa sia vissuta non gli uni contro gli altri bensì come "zelo buono" per l’unico Dio vivente e per la promessa che egli deve ancora portare a pieno compimento.
Sì, da parte dei cristiani a volte c’è il rischio di "giudaizzare", conducendo con gli ebrei un tipo di dialogo che diminuisce e svuota la singolarità cristiana. Ora, l’Antico Testamento ci unisce, Gesù "ebreo per sempre" ci unisce e tuttavia, nel contempo, ci divide, perché per noi cristiani non è solo un profeta o un rabbi, ma l’uomo che ha "narrato" (exeghesato, Gv 1,18) il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, l’uomo che è la stessa parola di Dio fatta carne. Oggi, ed è questa la novità, alcuni grandi rabbini o studiosi rileggono da ebrei la vicenda di Gesù di Nazaret e dissipano l’antico e tradizionale disprezzo verso di lui. Sarà possibile intraprendere un dialogo veramente interreligioso, cioè un dialogo che riguardi la fede di Israele e della Chiesa per condurre insieme una ricerca attorno all’identità di Gesù di Nazaret?
Certo, sappiamo che questo dialogo non è teologicamente simmetrico: gli ebrei possono leggere l’Antico Testamento senza i cristiani – cosa che noi cristiani non possiamo fare – ma anche questa asimmetria può avere una dinamica nella pratica dell’ascolto cordiale reciproco. Il dialogo, infatti, resta necessario e non vi è spazio all’autoreferenzialità dell’«io non ho bisogno di te». L’essere fratelli "gemelli" ci chiede di accedere a una fase nuova del dialogo in cui ebraismo e cristianesimo, nati dallo stesso ceppo, imparino a percepirsi capaci di interrogarsi l’un l’altro.
...e verso l’islam
Per noi cristiani l’islam resta un "enigma": come può esserci per volontà di Dio una "nuova profezia" dopo Gesù, unico e definitivo mediatore e rivelatore di Dio? L’islam resta una realtà che non si può giustificare a partire dalla fede cristiana, una realtà esterna e, in un certo senso, non necessaria ed estranea. Non a caso, alcuni padri della Chiesa, da Giovanni Damasceno in poi, lo hanno letto come una "eresia cristiana".
Ma oggi noi cristiani riusciamo forse a leggere nell’islam una profezia anti-idolatrica, che ha portato la fede monoteistica alle genti attraverso la lotta contro l’idolatria presente in chi non conosce il Dio unico. Tuttavia le difficoltà del dialogo – dovute alla storia vissuta, alla non contemporaneità tra Paesi musulmani e Occidente, alla presenza aggressiva di componenti fondamentaliste nel mondo musulmano – permangono e stiamo solo muovendo i primi passi: giustamente monsignor Henri Teissier, arcivescovo di Algeri, ha osservato che nel dialogo con l’islam siamo all’età della pietra.
Anche in questo campo il dialogo, pur necessario, non è teologicamente simmetrico perché, mentre l’islam si considera continuazione autentica della rivelazione di "Gesù profeta dell’islam" e giudica il cristianesimo esistente come un’alterazione del messaggio evangelico, per noi cristiani tutto è stato detto e rivelato in Gesù Cristo, Signore e salvatore dell’umanità. Quale dialogo, allora, con l’islam? Certo, il dialogo teologico è molto difficile e va pensato come «ricerca sulla rivelazione di Dio» da entrambe le parti, ma per giungere a questo occorre un dialogo franco, rispettoso, che voglia essere un autentico servizio all’umanità, alla giustizia, al rispetto di ogni essere umano, alla pace.
Occorre cioè un dialogo che si nutra della "ragione", come ha richiamato Benedetto XVI, un dialogo che accetti il confronto sui temi che interessano l’umanità, condotto da credenti nel Dio unico che si propongono di camminare insieme sulle vie dell’umanizzazione. La libertà di professare la propria fede, la laicità delle istituzioni politiche, il confronto che rifugge la violenza e rigetta il terrorismo, la capacità di rileggere insieme la storia sono tutti temi sui quali oggi esistono differenze e anche conflitti, ma essi devono diventare nuove occasioni offerte ai credenti per mostrare, una volta spogliato dalle proiezioni perverse che alcuni ne fanno, il volto autentico del Dio unico e vivente.
Certo, con l’islam noi cristiani dovremmo comunque avere l’atteggiamento e i sentimenti di Gregorio VII che, nell’XI secolo, così scriveva ad Anzir, re della Mauritania: «Non c’è nulla che Dio approvi più del fatto che un uomo ami un altro uomo e che ciò che uno non vuole sia fatto a lui, non lo faccia a un altro. È questo amore, dunque, che noi cristiani e voi musulmani dobbiamo avere tra di noi in modo speciale, più che nei confronti di altre genti, perché crediamo e confessiamo, sebbene in modo diverso, un solo Dio che ogni giorno lodiamo e veneriamo come creatore dei secoli e reggitore di questo mondo» (PL 148, 450).
(da Vita Pastorale, 2 2007)
Bibliografia
Khoury A.T. (a cura di), Dizionario comparato delle religioni monoteistiche. Ebraismo - Cristianesimo - Islam, Piemme 1998, Casale Monferrato; Fumagalli P.F. (a cura di), Fratelli prediletti. Chiesa e popolo ebraico, Mondadori 2005, Milano; Caspar R., Pour un regard chretien sur l’Islam, Bayard 2006, Paris.
di Rinaldo Falsini
Recenti voci hanno rimesso sul tappeto la questione del Messale anteriore al Concilio. È stato però giustamente accantonato.
Dopo la discussione sull’altare, scegliamo come tema del dibattito attuale non il rito cosiddetto di Pio V (che non esiste, come ho scritto su Settimana 24, 2003, p. 2), ma il Messale di Pio V del 1570. E non tanto la sua abrogazione da parte di Paolo VI (cf Bugnini A., La riforma liturgica, Roma 1983, pp. 297-298) o la sua possibile legittimazione anche e nonostante l’indulto (Ecclesia Dei, 1988), ma il suo totale "superamento", quindi la sua inaccettabilità per la vita odierna della Chiesa.
Non ci appelliamo a interventi legislativi favorevoli o sfavorevoli, ma semplicemente alla sua realtà oggettiva, alla sua composizione «sul piano storico, teologico e liturgico». Non possiamo negare la sua rappresentatività dal 1570 al 1970 per l’intera Chiesa cattolica, ma oggi ci appare nell’impossibilità di rappresentarla per le sue gravi carenze.
Due sono i motivi principali che conducono a questa conclusione: il suo carattere di Messale "plenario" e il silenzio assoluto sulla partecipazione, se non sulla presenza, della comunità cristiana o assemblea del popolo di Dio
Il termine "Messale plenario" è usato dal secolo IX-XI per indicare il libro nel quale venivano raccolti tutti i testi e le letture (lezionario), delle preghiere (orazioni, prefazi, canone romano, ecc.) e canti (antifonario) ad uso "personale" del sacerdote. Si pensi a quei sacerdoti che dovevano spostarsi per varie ragioni, privi dei ministranti: appartenenti alla curia papale, i frati mendicanti, i monaci per la messa privata, ecc. Corrisponderebbe ai nostri messalini e tale rimane, anche se il formato è diverso, manifestando perciò una visione sfigurata della celebrazione, mortificando in particolare la liturgia della Parola.
Un lezionario, nella liturgia dei primi secoli, specie a Roma, era il libro associato per sua natura al sacramentario: proprio il sacramentario era il primo nome dell’attuale Messale. Si pensi che il lezionario richiedeva il lettore, il ministro più antico dopo il sacerdote, il luogo proprio, cioè l’ambone, e che l’evangeliario è il libro che viene baciato e deposto sull’altare. Quindi l’espressione "Messale completo" contiene un significato negativo e superato per la messa.
A questa esigenza ha risposto in abbondanza la riforma del Vaticano II con la pubblicazione nel 1969 dell’Ordo lectionum missae suddiviso in vari lezionari, di cui quello domenicale e festivo prevede tre letture (dall’Antico e dal Nuovo Testamento), per un triennio A-B-C. Si ottiene un bilancio imponente, un totale di circa 560-570 brani biblici rispetto a un totale di 150 pericopi del Messale di Pio V, che nelle domeniche è privo della lettura anticotestamentaria.
Anche il vuoto della presenza e della partecipazione dei fedeli è stato adeguatamente colmato, precisando sul piano teologico che soggetto celebrante di ogni azione liturgica, in primo luogo l’eucaristia, è l’assemblea che il sacerdote presiede e guida con la collaborazione diretta dei ministri (SC 26-29; 33). La versione in lingua volgare ha fatto percepire, tra l’altro, il "noi ecclesiale": «Noi tuoi ministri e tutta la tua famiglia»; «Noi tuoi ministri e il tuo popolo santo». Per notare la differenza, basti pensare all’inizio dell’Ordo missae. Il Messale di Pio V dice: «Il sacerdote preparato quando si avvicina all’altare, fatta la riverenza, si segna»; e il Messale di Paolo VI: «Quando il popolo si è radunato, il sacerdote con i ministri si reca all’altare, mentre si esegue il canto d’ingresso». La differenza è abissale, confermata poi dalle modalità di partecipazione dall’inizio al termine, dalla preghiera dei fedeli alla comunione al corpo e al sangue del Signore, ricevuta dopo quella del sacerdote dal medesimo sacrificio (cf SC 55).
Potremmo continuare con l’analisi del confronto estendendola soprattutto al rilevante nuovo repertorio eucologico, dalle orazioni classiche di ogni messa (con l’aggiunta di quelle dell’edizione italiana), ai prefazi e alla stessa anafora (da una a quattro), ma non possiamo dimenticare che il Messale di Pio V nella sua forma attuale – quella del 1962 che prevede l’intervento dell’assemblea nelle risposte al sacerdote – risale direttamente al concilio di Trento (1545-1563) in analogia con il Messale di Paolo VI che si richiama al concilio Vaticano II (1962-1965).
Ma, a differenza dell’attuale che si fonda sulla costituzione Sacrosanctum concilium (1963), il concilio di Trento non riuscì a portare a compimento il suo progetto di riforma, affidandone la revisione sotto la responsabilità del Papa a una commissione specifica che concluse il suo lavoro nel 1570, anno di promulgazione da parte di Pio V. Il Concilio nella sessione 22 del 1562 ebbe modo di esprimere il suo pensiero a proposito della lingua liturgica e, solo a causa della vivace polemica con i protestanti, scartò a malincuore la lingua volgare raccomandandosi caldamente a tutti i sacerdoti per una catechesi sui testi del Messale.
Con la bolla Quo primum (14.7.1570) Pio V riassumeva i criteri seguiti dalla commissione, quello in particolare di avere «restituito il libro all’antica norma dei santi Padri» e ordinava a tutta la Chiesa di seguire il testo autentico del nuovo Messale, eccetto quelle Chiese o ordini religiosi che possedevano un messale di almeno 200 anni. L’unità della liturgia sotto la guida della Chiesa di Roma, «madre e maestra di tutte le Chiese», diventava il principio che sarà perseguito e controllato, mediante la Congregazione dei riti del 1588, con fermezza fino ad oggi: una liturgia unitaria e centralizzata. Perciò in questo periodo storico non si registrano mutamenti di rilievo.
Invece il criterio della "norma dei santi Padri", per difficoltà avvenuta di ordine oggettivo, non arrivò oltre il secolo VIII. Ne sono la riprova il canone romano a voce bassa venuto nel secolo VII, l’altare spostato verso l’abside o a muro dal secolo VI, origine e sviluppo della messa privata dal secolo IX, ecc. Anzi ebbe come punto di riferimento l’unità liturgica instaurata da Gregorio VII (1073-1085) poiché da circa tre secoli la direzione era passata ai vescovi e alle autorità politiche francofone e germaniche.
La riforma di Pio V si basava principalmente sul Messale e relativo ordinario della messa che da tempo era in uso presso la Cappella papale. Questo tipo di messale, detto secundum consuetudinem romanae Curiae o romanae Ecclesiae, compare verso il secolo XIII e si diffonde grazie all’adozione da parte dei Frati minori. L’ordine francescano, fondato nel 1209 da san Francesco d’Assisi, nel capitolo generale tenuto a Bologna nel 1243 promulgò un Ordo per sacerdoti modellato su quello della Curia romana. I due messali si incontrano e l’editio princeps stampata a Milano nel 1474 porta il titolo della Curia e dei Frati minori: confrontata con quella ufficiale di Pio V mostra poche differenze.
Dopo Pio V le modifiche sono di piccola entità e riguardano soprattutto i santi canonizzati. Ci dispensiamo da ulteriori rilievi, salvo quello del calendario, legato strettamente alla Chiesa di Roma città, di cui sono testimonianza le "stazioni" alle singole chiese di Roma, soppresse ovviamente nel messale di Paolo VI, che ha allargato la visione ecclesiale universale, compreso il dialogo ecumenico.
Al termine di questa fugace rassegna storica e di confronto fra il Messale di Pio V e il Messale di Paolo VI, siamo in grado di rispondere a quanti hanno apertamente criticato l’accantonamento del primo con la promulgazione del secondo il 3.4.1969 mediante la costituzione apostolica Missale romanum.
L’accusa dice che il divieto dell’uso del Messale di Pio V «che si era sviluppato nel corso dei secoli fino dal tempo dei sacramentari sulla liturgia, ha comportato una rottura della storia della liturgia» (VP 6/1997, p. 10). L’accusa è manifestamente gratuita, poiché l’unità oggettiva rappresentata dal Messale di Pio V non è stata infranta anzi completata con l’aggancio alla "norma dei santi Padri", soprattutto completata e arricchita in risposta alle esigenze della vita attuale della Chiesa.
Il nuovo Messale rappresenta il culmine evolutivo; non è la sconfessione del passato, ma il suo superamento. Il salto di qualità è nettissimo: arricchimento su tutti gli aspetti qualitativi e quantitativi, teologici, liturgici, pastorali e spirituali. Il divieto dell’uso del Messale di Pio V è un richiamo a tutti i fedeli perché si nutrano e si abbeverino all’unica mensa imbandita dal concilio Vaticano II per diventare un solo corpo in Cristo
(da Vita Pastorale, 2 2007)
Il documento qui riprodotto è stato elaborato da: Paolo Branca, docente di Lingua e letteratura araba nell’Università Cattolica di Milano; Stefano Allievi docente di Sociologia nell’Università di Padova; Silvio Ferrari, docente nelle Università di Milano e Lovanio; Mario Scialoja, presidente della Lega musulmana mondiale-Italia.
La Giornata del dialogo cristiano-islamico si è tenuto il 20 ottobre e giunge quest’anno alla quinta edizione. E’ nata in particolare su iniziativa del periodico Il dialogo e del suo direttore, Giovanni Sarubbi. E’ caduta tradizionalmente alla chiusura del periodo di digiuno e purificazione previsto dalla religione islamica (ramadan). Per conoscere le iniziative connesse alla Giornata (oltre che accedere a numerosi articoli e documenti sui temi del dialogo cristiano-islamico) si può consultare il sito www.ildialogo.org.LE «TAVOLE DEL DIALOGO»
In occasione della Quinta giornata del dialogo cristiano-islamico (20 ottobre 2006), pubblichiamo un documento che ha ricevuto l’adesione di numerose persone singole, associazioni, enti, riviste (tra le quali Popoli).
L’idea è quella di un decalogo di cose possibili da fare, sulla via del dialogo con l’islam,
per costruire un‘etica comune.
E’ necessaria una gestione coraggiosa e consapevole di questo processo di incontro e convivenza.
Il diritto alla differenza non può mai diventare pretesa di una differenza nei diritti e nei doveri.
La presenza di musulmani in Italia ha ormai raggiunto una tale «massa critica» da non consentire che il fenomeno sia gestito soltanto attraverso forme d’intervento estemporanee e improvvisate, com’è spesso stato finora. L’impegno di molti che si sono prodigati, sia da parte italiana sia da parte islamica, con numerose iniziative conferma le potenzialità di un tessuto sociale vivo e attivo, ma proprio per non vanificare tali energie e al fine di evitare derive che hanno interessato di recente altri Paesi europei, ci sembra indispensabile che le istituzioni e i cittadini - italiani e non - coinvolti a vario titolo nella questione trovino modalità per riflettere e agire insieme all’interno di un progetto comune ispirato a principi chiari e condivisi.
Per questo (…) riteniamo doveroso richiamare alcuni punti che ci paiono di cruciale importanza nel compito comune che ci troviamo ad affrontare. Va da sé che i musulmani condividono con immigrati di altra origine molte problematiche simili. Sarebbe pertanto indebito ritenere le considerazioni che seguiranno come pensate esclusivamente per loro, anche se il presente documento ne tratta in modo specifico: una buona legge sulla libertà religiosa, ad esempio, andrebbe incontro alle esigenze di tutte le comunità e non solamente di quella islamica. La globalizzazione in atto, contrariamente a quanto ci si poteva ingenuamente aspettare, invece che a un indebolimento delle identità (reali o immaginarie) sta conducendo piuttosto a un loro irrigidimento che non sembra cogliere sufficientemente le potenzialità positive pur presenti nell’inedito incontro di uomini e culture che si sta producendo, bensì tende a enfatizzare diffidenze e timori che inducono alla chiusura e alla contrapposizione.
Siamo consapevoli dei rischi insiti in un vacuo relativismo che potrebbe portarci a poco auspicabili confusioni e allo svilimento delle tradizioni culturali e religiose di ciascuno: ma il valore che attribuiamo alla nostra e altrui identità ci spinge a ritenere necessaria una gestione coraggiosa e consapevole di questo processo di incontro e convivenza, l’unica in grado di portare a buoni risultati nell’interesse comune. Per questa ragione pensiamo che vada scoraggiato con ogni mezzo lo spirito di sospetto e di rivalsa che in taluni - da entrambe le parti - sembra purtroppo prevalere. I punti che ci pare necessario richiamare sono:
1. Incoraggiare la collaborazione con le istituzioni a ogni livello per promuovere una reale partecipazione. dimostrando che le regole della democrazia tutelano e premiano i comportamenti migliori. A tale scopo è utile in particolare partire dal censimento e dalla valorizzazione delle molteplici esperienze in atto anche al fine di contrastare una comunicazione basata su semplici opinioni, anziché su evidenze empiriche. Interventi formativi all’interno delle pubbliche amministrazioni (scuola, sanità, carcere, personale di polizia, ecc.) sulle tematiche relative al pluralismo culturale nelle aree di loro competenza, con un taglio che privilegi la concretezza delle situazioni su considerazioni di ordine astrattamente teologico, ideologico o politologico. Il confronto con esperienze internazionali che già affrontano da tempo temi e situazioni analoghe consentirebbe di valutarne gli esiti e di ispirarsi alle pratiche (legislative e operative) più efficaci.
2. Scoraggiare con fermezza ogni forma di illegalità per evitare il formarsi di società parallele o gruppi che si percepiscano e si presentino come corpi estranei: il diritto alla differenza non può e non deve mai diventare pretesa di una differenza nei diritti e nei doveri.
3. Valorizzare le iniziative che si pongono nella prospettiva della condivisione di valori, interesso e impegno comune al servizio della collettività.
4. 4 Dare priorità alle donne e ai giovani che, senza rinunciare alla propria specificità culturale e religiosa, dimostrano di voler sviluppare, con chi condivide i loro problemi e le loro aspirazioni, attività che favoriscono contatti, scambi e integrazione.
5. Offrire, a livello universitario, percorsi di maturazione e di formazione a quanti intendono svolgere funzioni di servizio alle comunità, specie nei ruoli di orientamento e di guida. Non si tratta ovviamente di formare i ministri del culto, ma di favorire l’emersione e il consolidamento di competenze e capacità specifiche tra coloro che già operano nei diversi gruppi, affinché la loro azione sia maggiormente adeguata alle finalità dell’integrazione e della partecipazione alla vita del Paese in cui risiedono.
6. Stimolare, specie nelle scuole, la valorizzazione degli apporti delle differenti culture del Mediterraneo alla costruzione di una comune civiltà. Laddove siano presenti numerosi alunni arabofoni, appositi corsi per la conservazione e lo sviluppo della lingua d’origine (del resto già in atto, in forma sperimentale) andrebbero diffusi e sostenuti. Tali interventi non sarebbero ad esclusivo vantaggio degli immigrati, ma contribuirebbero alla trasformazione dell’intero settore scolastico non sarebbe adeguato che alla realtà di un mondo sempre più interdipendente se restasse ancorato a forme di istruzione centrate soltanto sulla cultura locale.
7. Incoraggiare i mass media a dare spazio alle numerose esperienze di collaborazione e di condivisione tra persone di fede e di cultura diversa, evitando di diffondere e/o amplificare soltanto fatti e notizie che confermino mutui pregiudizi. Non si tratta evidentemente di occultare le problematicità, ma ancora una volta di partire dalla realtà che è più ricca delle sue rappresentazioni, mediante inchieste sul campo, lavoro di terreno empirico, informazione completa e imparziale.
8. Promuovere politiche che migliorino le condizioni di vita delle società di provenienza degli immigrati, con riferimento non soltanto alla situazione economica ma anche allo sviluppo della società civile, al rispetto dei diritti umani e alla valorizzazione del pluralismo ad ogni livello.
9. Valorizzare l’azione delle istituzioni locali, che sono a contatto diretto con le realtà di base, nel promuovere iniziative che - per la qualità degli interventi e le loro ricadute positive sul territorio - possono costituire dei modelli validi anche per analoghe situazioni, in stretto contatto con le agenzie culturali e religiose che già operano in tal senso.
10. Approfondire la conoscenza reciproca, nel mutuo rispetto pur senza rinunciare allo spirito critico e autocritico, non solamente con sporadiche iniziative informative, ma attraverso il lavoro permanente e sistematico di gruppi che affrontino insieme tematiche specifiche di comune interesse. Ciò favorirebbe inoltre lo sviluppo di prospettive professionali che facciano tesoro delle competenze e delle capacità di chi si distingue nel lavoro interculturale.
(da Popoli, ottobre 2006)
Chiesa Cattolica
Il Papa Giovanni Paolo II è morto il 24.2005, alle ore 21,37, all’età di 84 anni, nel 27mo anno del suo pontificato.
I suoi funerali hanno visto la partecipazione di una folla immensa e di molte autorità civili e religiose.
Il 19 aprile 2005 il Cardinale Joseph Ratzinger è stato eletto papa, 264° successore di Pietro, ha preso il nome di Benedetto XVI.
Relazioni interortodosse
1) Nella sua ultima sessione che si è tenuta nei giorni 24-28 gennaio 2005 il Sinodo dei Vescovi della Chiesa Ortodossa Russa fuori dei Confini (EORHF) ha approvato gli accordi recentemente raggiunti dalla Commissione mista di dialogo tra l’EORHF ed il Patriarcato di Mosca in vista del ristabilire un rapporto canonico tra le due Chiese.
Tuttavia situazioni conflittuali non risolte tengono ancora in sospeso il tempo e il modo per una riunificazione canonica delle due Chiese.
Tuttavia di fronte, ad un atteggiamento di dura reazione dell’EORHF per dei problemi di proprietà poste in discussione da Mosca il Patriarcato di questa ha assunto un atteggiamento duttile e conciliante per smorzare la polemica.
2) L’incontro tra le Commissioni del Patriarcato di Mosca e dell’EORHF in vista del ristabilimento della comunione eucaristica tra le due chiese si è svolta nei giorni 8-11 marzo 2005. nel corso dell’incontro sono stati esaminati i seguenti problemi:
a) Lo statuto di “parte autoamministrata” per l’EORHF.
b) Le condizioni canoniche per ristabilire la commissione eucaristica.
c) Lo statuto dei chierici dell’EORHF che sono stati ordinati nel Patriarcato di Mosca.
d) L’avvenire delle strutture dell’EORHF che si trovano nel territorio del Patriarcato di Mosca.
I risultati, considerati soddisfacenti, saranno sottoposti per la ratifica ai rispettivi Sinodi delle due Chiese.
3) I documenti elaborati nel corso delle riunioni congiunte delle due commissioni del Patriarcato Russo e dell’EORHF tenutesi a Mosca (22-24.6.2004 e 17-22.11.2004), a Monaco (14-16.9.2004) a Parigi (2-4.3.2005) sono stai pubblicati simultaneamente sui siti internet di Mosca e dell’EORHF.
Questi documenti sono stati approvati dalle gerarchi del Patriarcato di Mosca e dell’EORHF quest’ultima avrà uno statuto di larga autonomia in seno al patriarcato.
Questi documenti hanno preso in esame:
a) Le relazioni tra Chiesa e Stato
b) Le relazioni con le altre religioni e le organizzazioni interconfessionali
c) La natura dei rapporti tra EORHF e Mosca.
Restano ancora da esaminare:
a) Lo statuto dei chierici che sono passati da una giurisdizione ad un’altra
b) L’avvenire delle parrocchie dell’EORFHF situate nel territorio canonico del Patriarcato moscovita
c) Le relazioni dell’EORHF con le entità ecclesiastiche separate dalle loro chiese locali.
La prossima riunione delle commissioni avranno luogo in luglio.
Comunione Anglicana
La commissione permanente inter-anglicana sulle relazioni ecumeniche si è riunita dal 4 al 10 dicembre 2004 in Giamaica. Nel corso di questo incontro un’attenzione particolare è stata data alle relazionii con le chiese: Copta, Etiopica, Eritrea, Armena, Siriaca, Siro-Malankarese.
I primati della comunione anglicana hanno tenuto il loro incontro annuale nell’Irlanda del Nord dal 21 al 25.2.2005.
L’incontro, a porte chiuse, ha visto la partecipazione di 35 su 38 Primati e Moderatori.
La riunione dei primati è uno dei quattro strumenti di unità della Comunione, gli altri tre sono: l’Arcivescovo dei Cantorbery, la Conferenza dei Lambeth, il Consiglio Consultivo Anglicano.
Il punto più urgente riguardava l’ordinazione a Vescovo degli USA di Gene Robinson, vivente in relazione omosessuale, e la benedizione delle unioni omosessuali in Canada. Queste gravi tensioni richiedono che il Canada e gli USA applichino, nei loro casi, una moratoria sulle decisioni prese.
Il 15 marzo 2005 la Camera dei Vescovi dell’ECUSA in riunione a Cap Allen in Texas (USA) ha accettato con voto quasi unanime una “Dichiarazione d’Alleanza” in risposta al rapporto di Windsor.
Il testo è composto di 6 paragrafi:
1) Riaffermo l’impegno dei Vescovi a servire la Chiesa in comunione con le altre province ecclesiastiche anglicane
2) …di restare in piena comunione con l’arcivescovo di Canterbury
3) … di continuare la collaborazione con il Consiglio Consultivo Anglicano e con la Riunione dei Primati
4) Esprime rincrescimento per aver creato con le sue decisioni dolore negli altri membri della comunione anglicana
5) Chiede perdono e si dice pentita per aver rotto i legami fraterni non avendo sondato correttamente l’opinione delle altre province.
In più i vescovi dell’ECUSA si impegnano ad evitare ogni frattura canonica nel territorio di un’altra Chiesa anglicana.
La 13ma riunione del Consiglio Consultivo Anglicano ha avuto luogo dal 19 al 28 giugno 2005, in Inghilterra, a Nottingan. Vi hanno partecipato 70 delegati e 500 visitatori. I delegati dell’ECUSA e della Chiesa Anglicana Canadese vi hanno partecipato a solo titolo di osservatori.
Il problema creato da USA e dal Canada rimane aperto come pure la ferita prodotta. Una votazione che chiedeva alle due chiese di ritirare volontariamente i suoi membri dal C.C.A. fino alla prossima Conferenza di Lambeth ha rivelato una profonda spaccatura nella comunione.
Nel corso della riunione si è deciso di riunire gli studi, le dichiarazioni, le risoluzioni sulla sessualità umana adottati dalle diverse province della comunione.
Il C.C.A. si è impegnato nello studio sulla formazione teologica nella comunione e si sono notate qua e la gravi lacune, mancanze, insufficienze causanti la presenza di una formazione non adeguata nei preti.
L’equipe sulla formazione teologica (TEAC) ha proposto di portare rimedi formativi adeguati ai seguenti ambiti:
1) laicato
2) Diaconi permanenti
3) Catechisti e ministri non ordinati
4) Preti
5) Vescovi
Altri temi trattati:
1) Il progresso delle relazioni ecumeniche
2) La condizione femminile
3) Il dialogo interreligioso
Federazione Luterana Mondiale
Un incontro di 14 delle 25 donne vescovi e dirigenti delle Chiese Luterane è stato organizzato dalla Federazione Luterana Mondiale (FLM) a Ginevra dal 16 al 19 giugno 2005.
Nel gruppo vi erano delle rappresentanti dell’Africa del Sud, della Germania, del Canada, degli USA, dell’Etiopia, dell’India, dei Paesi Bassi, della Svezia ed una osservatrice dell’Europa centrale ed Orientale.
Il tema principale è stato costituito dalle sfide che queste donne incontrano nell’esercizio del loro ministero. Secondo tema è stato quello dell’ingiustizia sociale nel mondo.
E’ stato serenamente affermato che le donne possono portare nelle chiese un nuovo tipo di leadership.
Una difficoltà rilevante è stata notata in Africa dove per gli uomini è molto difficile accettare delle donne leader.
Dall’1 al 3 giugno 2005 si è tenuta in Svizzera a Chavanne de Bogis una consultazione su “L’avvenire della FLM” nel contesto di una riconfigurazione del movimento ecumenico.
Si è perciò discusso su come sforzarsi di rispondere al problema di un coordinamento efficace in seno alla comunità luterana ed alla comunità ecumenica.
E’ stata sottolienata la necessità di:
a) proporre soluzioni per facilitare il lavoro sia a livello bilaterale che multilaterale e per evitare rivalità inutili.
b) Una identità basata sulla fede in vista di una unità visibile.
La considerazione ha chiesto alla FLM di continuare il suo impegno sociale di taglio ecumenico per lo sviluppo.
Alleanza Riformata Mondiale
Il premio “E. H. Johnons 2005” è stato assegnato al Segretario Generale dell’Alleanza Riformata Mondiale (ARM), Setri Nyomi, per la sua attività al servizio della Missione.
Nella sua allocuzione il pastore Nyomi ha affermato he i cristiani debbono cooperare con i credenti di ogni religione per promuovere la giustizia sociale e che occorre evitare le attività missionarie che nel passato sono state conflittuali.
Ha detto che “la nostra missione nel mondo pluralista di oggi perderà la sua integrità se non ci impegniamo contro le nostre divisioni per trovare i mezzi per un impegno comune nella Missione.
Albania
I responsabili delle tre principali confessioni religiose albanesi, l’Arcivescovo ortodosso Anastasios di Tirana, primate della Chiesa Ortodossa d’Albania, l’Arcivescovo Cattolico di Durazzo Mons. Rrok Mirdita, l’imam Selim Muca della comunità musulmana, l’imam Reshat Bardhi della comunità bektashi si sono impegnati a promuovere la tolleranza religiosa, in un contesto di tensioni interconfessionali sempre soggiacenti in Albania, al fine di migliorare la situazione generale nel loro paese.
Germania
Il presidente del Deutsche Evangelische Kirchentag, Eckard Nagel e quello del Comitato per il Katolikentag, Hans Joachim Meyer hanno annunciato il 27 aprile 2005, il loro progetto di organizzare un secondo Kirchentag ecumenico a Monaco nel 2010.
Tema dell’incontro “Essere cristiani nella società, essere cristiani per la società”.
Inghilterra
E’ deceduto il 3.1.2005 il canonico anglicano Martin Reardan notoriamente impegnato in campo ecumenico.
Il Padre Serge Hackel, prete ortodosso di origine russa, è deceduto il 9.2.2005 a Londra, all’età di 73 anni.
Era stato uno stretto collaboratore del compianto Metropolita Antony Bloom.
L’ufficio del Premier del governo della Gran Bretagna ha annunciato il 17.1.2005 la nomina di John Sentamu ad Arcivescovo di York la seconda sede dopo quella di Cantorbery. Ugandese, avvocato, giudice si recò in Inghilterra nel 1974 come rifugiato politico fuggito al regime di Idi Amin Dada.
Giunto in Gran Bretagna ha studiato teologia a Cambridge per essere poi ordinato prete nel 1979 ed ha in seguito svolto il suo ministero in numerose parrocchie di Londra.
E’ divenuto nel 1996 Vescovo si Stepney e nel 2002 di Birmingham.
Belgio
Un centinaio di religiosi, ebrei e musulmani, si sono riuniti a Palazzo Egmont a Bruxelles dal 3 al 6 gennaio 2005 in favore della pace.
L’incontro era organizzato da “Uomini della parola” fondazione creata nel 2000 da Alain Michel per favorire il dialogo tra Islam e Giudaismo.
Si è trattato di un Congresso Mondiale di Imam e di Rabbini e vi hanno partecipato 150 religiosi e 100 esperti.
Un incontro informale tra rappresentanti della Gioventù Ortodossa di Finlandia, Francia, Belgio, Germania e ha avuto luogo dal 7 al 9 gennaio 2005 a Bruxelles e vi hanno partecipato membri del Centro di Formazione ortodossa “S. Giovanni il Teologo” di Bruxelles, dell’ONL, Movimento della Gioventù Ortodossa Finlandese, dell’OJB della Germania, dell’ACER-MJO, Azione Cristiana degli emigranti Russi, Movimento della Gioventù Ortodossa di Francia. Questi ultimi gruppo movimenti sono affiliati alla Federazione Mondiale della Gioventù Ortodossa.
Scopo dell’incontro era di discutere i problemi che si pongono nella vita quotidiana delle Chiese locali e di formulare delle piste per lo sviluppo dei servizi della Chiesa.
In tale occasione sono state preparate le seguenti prossime attività:
- Il Festival della Gioventù Greca
- L’incontro Ecumenico dei Martiri a Roma
- La conferenza sulle lingue liturgiche ed i problemi di traduzione in Germania.
Costantinopoli
La celebrazione della benedizione delle acque del Bosforo, presieduta dal Patriarca Ecumenico Bartolomeo I è stata disturbata, il 6 gennaio 2005, da dei manifestanti nazionalisti Turchi. Purtroppo il Patriarcato Ecumenico è regolarmente preso di mira da manifestazioni organizzate dai movimenti nazionalisti ostili al Patriarca Ecumenico per i suoi interventi in favore dell’estensione delle libertà religiose alle minoranze cristiane della Turchia… che preme … per entrare nell’Unione Europea.
USA
L’Arcivescovo Jakovos, primate emerito dell’Arcidiocesi del Patriarcato Ecumenico in America, è deceduto causa problemi polmonari il 10.4.2005 a Stamford nel Connecticut in USA all’età di 93 anni. Era il cinquantesimo anno del suo episcopato.
L’Arcivescovo ha avuto un ruolo considerevole in seno al Patriarcato.
L’Arcidiocesi ha 8 diocesi suffraganee e circa 2.000.000 di fedeli. L’Arcivescovo Jakovos è stato il primo Vescovo Ortodosso ad incontrare dopo 4 secoli il Papa (Giovanni XXIII) ed il primo rappresentante del Patriarcato Ecumenico a Ginevra (Svizzera) presso il COE.
Durante il suo episcopato in USA si è impegnato per fare uscire gli ortodossi dal loro isolamento etnico e per farli integrare nella vita americana.
Era una figura molto presente sulla scena pubblica americana, aveva lavorato a fianco di Martin Luther King, aveva preso posizione contro la guerra nel Vitnam.
Il lancio ufficiale di un incontro di Chiese e di organizzazioni religiose in vista della creazione di una tavola Ecumenica in USA ha trovato poco entusiasmo nelle Chiese storiche nere.
Gli organizzatori hanno dichiarato di dover prendere tempo per studiare i problemi e le rappresentanze delle cinque famiglie cristiane degli USA: Chiese evangeliche, pentecostali, protestanti tradizionali, storiche nere, ortodosse, cattolica.
Francia
Il gruppo di Dombes ha pubblicato nel gennaio 2005 il frutto del suo lavoro di 6 anni a proposito dell’autorità dottrinale nelle chiese protestanti e nella cattolica.
Il documento presenta delle proposte concrete per avanzare verso l’unità infatti fa notare che protestanti e cattolici riconoscono in modo uguale le basi dell’autorità
In primo luogo l’autorità dei testi:le Scritture, le Confessioni di fede, i Concili Ecumenici. In secondo luogo quella delle comunità e delle persone: il popolo cristiano, i Padri della chiesa, i dottori, i teologi, i “ministri”. Infine l’autorità delle istanze istituzionali dove appare una convergenza perché ciascuna chiesa ha questa triplice articolazione: comunitaria (Popolo di Dio), collegiale (ministero) personale (la coscienza).
Le sorgenti dell’autorità sono dunque le stesse. Ma in pratica ci sono profonde divergenze tenendo conto della concezione che ne ha ogni chiesa e la loro concreta interazione.
Tuttavia il lavoro di riflessione del gruppo continua con fiducia esortando le due parti ad una profonda conversione.
Dall’1 al 13.2.2005 dei teologi cattolici, protestanti, ortodossi ed anglicani si sono incontrati presso l’Institut cattholique di Parigi per affrontare ed approfondire la mariologia, la dottrina mariale nelle differenti prospettive cristiane.
Infatti la mariologia è un tema trasversale che permette di approfondire il ministero dell’Incarnazione e dinamizzarecosì il dialogo.
Il filosofo cristiano Paul Ricoeur è morto venerdì 20.5.2005 all’età di 92 anni. Pensatore impegnato, militante socialista dal 1933, profondamente cristiano, croce di guerra 1939-1945, Gran Premio di filosofia dell’Accademia di Francia, era vedovo e padre di cinque figli.
Grecia
Molti membri dell’episcopato della Chiesa ortodossa di Grecia sono al centro di un vasto scandalo giuridico finanziario che tocca ugualmente alti funzionari della magistratura e di cui la stampa greca si è fatta largamente eco dalla fine del gennaio 2005.
Incriminato P. Jacovos Yossakis per traffico di icone e per sospetta corruzione di funzionari.
E’ accusato di favoreggiamento per mancata vigilanza l’Arcivescovo di Attica Panteleimon.
Lo stesso Arcivescovo di Atene Christodoulos è guardato con sospetto perché Yossakis aveva dei rapporti molto stretti con l’entourage dell’Arcivescovo.
Sembra addirittura che Yossakis sia riuscito a manipolare l’elezione ad Arcivescovo di Atene a favore di Christodoulos.
Yakovos Yossakis è stato sospeso a divinis ed il Santo Sinodo ha creato una commissione per verificare l’implicazione di altri chierici in questo affare di corruzione giudiziaria.
L’Assemblea plenaria dell’episcopato della Chiesa di Grecia si è riunito nei giorni 18 e 19 febbraio 2005 presso il monastero di Petraki, ad Atene, sotto la presidenza dell’Arcivescovo Christodoulos.
La riunione, presenti 74 degli 81 vescovi greci, era consacrata alla grave crisi ecclesiale del momento.
L’Assemblea ha preso una serie di decisioni per riformare l’amministrazione, in particolare quella materiale. Tra le decisioni prese dall’assemblea si nota un rafforzamento delle procedure di controllo finanziario della vita ecclesiale a tutti i livelli (diocesi, parrocchie, monasteri) al fine di renderle più trasparenti. E’ stato anche deciso che i posti di responsabilità nella Chiesa non potranno essere affidati a chierici con meno di 35 anni, nelle parrocchie dovranno nascere dei consigli parrocchiali, composti di chierici e di rappresentanti laici, che saranno associati alla gestione materiale della loro chiesa e delle sue istituzioni catechistiche, educative, filantropiche, sociali.
La crisi che scuote la Chiesa Greca dall’inizio dell’anno non ha finito di avere delle ripercussioni sempre più profonde in seno all’episcopato.
L’Arcivescovo Christodoulos è impegnato perché si faccia luce su una serie di fatti in cui si sono trovati coinvolti dei membri dell’episcopato in vista di una purificazione progressiva.
Lo stesso governo ha depositato in Parlamento una legge che prevede l’inventario del patrimonio di ogni membro dell’episcopato.
Una commissione composta di tre metropoliti è stata istituita per ascoltare le possibili testimonianze ed informazioni su casi di malversazione e di modalità da parte di membri della gerarchia.
Tra il giorno 11 ed il 18 maggio otto metropoliti sono stati convocati dal Santo Sinodo per essere ascoltati sulle accuse rivolte loro dalla stampa, su casi di corruzione dei magistrati, sul possesso di proprietà immobiliari o di importanti conti bancari in Svizzera, di malversazioni finanziarie o ancora sulla loro moralità. Si tratta di metropoliti Panteleimon di Attica, di Teoklitos di Thessaliotis, Dionysios di Chios, Chrysostomos di Peristerion, Chrysostomos di Zante, Panteleimon di Corinto, Nikiphořos di Didymoteichion, di Kallinikos del Pireo.
Kallinikos si è dimesso dal suo incarico, Panteleimon è stato riconosciuto colpevole di malversazioni finanziarie, Dionysios è stato trovato innocente. In difficoltà si è trovato l’Arcivescovo Christodoulos a causa di alcuni rapporti con il patriarca Ireneo I di Gerusalemme.
In questo contesto 500 personalità, universitari, scienziati, artisti, giornalisti hanno pubblicato una lettera aperta chiedendo la separazione dello Stato e della Chiesa.
Italia
Due importanti avvenimenti ecumenici hanno segnato il 26.5.2005, giornata consacrata all’unità della Chiesa al 24° Congresso Eucaristico Nazionale Italiano a bari.
Il Cardinale W. Kasper presidente del CPUC ha proposto, a lunga scadenza, 2098, un sinodo sull’unità ai Protestanti ed agli Ortodossi. Un particolare appello è stato rivolto dal cardinale ai fratelli Orientali. Egli ha poi sollevato il problema del ministero petrino del Vescovo di Roma, una delle maggiori difficoltà sul cammino dell’unità.
Gerusalemme
Una grave controversia ha coinvolto il Patriarca di Gerusalemme, Ireneo I, Primate della Chiesa Ortodosso in Israele, in Giordania, nei territori palestinesi.
Egli è stato accusato di essere stato eletto grazie ad irregolarità canoniche, di malversazioni finanziarie, di cessione di terreni di proprietà patriarcale allo stato ebraico a detrimento degli ortodossi arabi, di vendite di terreni appartenenti al patriarcato effettuate, contro gli statuti del 1958, senza aver consultato i rappresentanti del clero e del laicato della comunità ortodossa araba.
Conseguentemente 13 metropoliti su 18 del Santo Sinodo della Chiesa di Gerusalemme hanno pubblicato il 18 maggio un appello perché il Patriarca Ireneo I sia destituito.
Qui il 30 maggio sempre il Santo Sinodo ha eletto il metropolita Kornelios di Petra “locum tenens” del trono patriarcale incaricandolo di organizzare l’elezione del nuovo patriarca. Questa destituzione è stata confermata dal Re di Giordania, dall’Autorità Palestinese e da una Sinassi dei Primati delle Chiese Ortodosse riunita a Costantinopoli nei giorni 23 e 24 maggio presso il Patriarcato ecumenico.
Il Santo Sinodo del Patriarcato di Gerusalemme procederà all’elezione di un nuovo Patriarca.
Moldavia
La Metropolia di Bessarabia che ha come territorio quello dell’attuale repubblica di Moldavia e fa parte della giurisdizione del Patriarcato di Romania ha aperto un decanato in Russia. Ciò è avvenuto con il distacco di alcune parrocchie dall’obbedienza al Vescovo bizantino slavo di Cèboksary. Ricusando l’obbedienza al Vescovo di questa diocesi, accusato di tendenze paganeggianti, le quattro parrocchie si sono costituite in decanato aggregandosi alla Metropolia di Bessarabica.
Monte Athos
Una celebrazione del monastero di Esphigmenou dell’Athos è stata ricevuta dal Patriarca Ecumenico Bartolomeo I il 14.4.2005 presso la sua sede Costantinopolitana. L’incontro segue una serie di fatti incresciosi. Il Patriarca aveva emesso un decreto di esplusione dei monaci. Questi avevano presentato ricorso presso il Consiglio di Stato che però lo aveva respinto in quanto il Patriarca Ecumenico ha fin dal X secolo una piena ed intera autorità canonica e spirituale sull’Athos.
Il motivo del conflitto era l’impegno del Patriarca in campo ecumenico.
Filippine
E’ morto il 21.6.2005 il Cardinale Jaine Sin. Considerato un grande operatore di giustizia e di pace per e nel suo paese.
Romania
Il Patriarca della Romania, Teoctist, ha festeggiato il 5.2.2005 il suo novantesimo compleanno.
La Chiesa ortodossa di Romania ha commemorato nei giorni 5 e 6 marzo a Bu8carest il 120° anniversario della sua autocefalia e l’ottantesimo anniversario dell’istituzione del Patriarcato a Bucarest.
Il 3 marzo vi era stato una riunione del Santo Sinodo ed il 4 marzo la sessione annuale dell’Assemblea Ecclesiastica Nazionale, composta da tutti Vescovi e da un prete e due laici per ogni diocesi.
Numerosi sono stati i problemi presi in esame: l’impegno sociale della Chiesa in favore della protezione della famiglia e dell’infanzia, lo sviluppo dell’assistenza religiosa nelle caserme, negli ospedali, nelle carceri, la costruzione in Bucarest della basilica della “Salvezza della Nazione”, il contenzioso con Mosca sulla giurisdizione ecclesiastica in Moldavia, l’apertura della nuova diocesi di Tulcea.
La chiesa rumena sta vivendo un tempo di grande sviluppo. Ha, in patria, 23 diocesi e 6 diocesi all’estero; 13.046 parrocchie, 391 monasteri, 177 eremitaggi, 38 seminari, 15 facoltà teologiche, 12.300 preti e diaconi, 2.700 monaci, 4.800 monache, 11.000 studenti di teologia, 11.500 catechisti.
Russia
Il Sinodo generale della Chiesa Evangelica Luterana di Russia ha eletto come suo nuovo Arcivescovo il pastore Edmund Ratz, egli si è detto fortemente impegnato a rispondere all’interesse crescente che si sta manifestando in Russia per la sua chiesa.
Il pastore Samuel Kobia, segretario generale del COE ha soggiornato in Russia dal 18 al 24 giugno 2005 per migliorare le relazioni tra il COE e la Chi9esa Russa.
Nel suo incontro con il Patriarca Alessio II e con i responsabili ortodossi russi si è discusso sulla giustizia economica, sulla lotta conro la povertà e l’estremismo religioso.
Serbia Montenegro
Il Santo Sinodo ed i suo Patriarca Pavle II hanno chiesto al governo di Belgrado di intervenire energicamente contro delle recenti manifestazioni antisemite avvenute nel paese.
Svizzera
Domenica 23.1.2005 nel corso di un ufficio ecumenico nella collegiata di Saint-Ursanne le chiese membri della comunità di lavoro delle Chiese Cristiane in Svizzera hanno firmato la Carta Ecumenica che espone in 12 raccomandazioni ciò che unisce le Chiese del vecchio continente.
Dopo il successi delle edizioni del 2003 e del 2004 “Federazione delle Chiese Protestanti Svizzere”, “Pane per il Prossimo” (PPP) e il “Forum Economico Mondiale” (WEF) hanno deciso di associarsi di nuovo per organizzare l’Open Forum Davos del 2005, per incoraggiare il dialogo critico e per mettere in evidenza gli aspetti negativi della mondializzazione.
Dal 19 al 21 giugno 2005 i delegati della Federazione delle Chiese Protestanti Svizzere si sono riuniti per l’assemblea estiva. Questa federazione raggruppa 26 chiese (24 chiese riformate cantonali, la Chiesa Evangelica Metodista Svizzera, la Chiesa Evangelica libera di Ginevra) e 2.400.000 protestanti svizzeri.
Siria
I primati delle Chiese Ortodossa e Greco Cattolica di Antiochia hanno presieduto, insieme, il 4.2.2005 alla consacrazione di una chiesa dedicata ai S.S. Pietro e Paolo a Dammar alla periferia di Damasco. Si tratta di una chiesa comune per le necessità pastorali degli ortodossi e dei greco-cattolici.
di Giovanni Giovini
Presentazione dell'opera di J. Binns dedicata a “Le Chiese Ortodosse”.
Si fa presto a dire “chiese ortodosse”; o a ricordare le sciagurate date del 1054 (rottura ufficiale tra le chiese di Roma e Costantinopoli) o del 1204 (conquista e saccheggio feroce di questa città da parte dei nostri crociati); o a ripetere che il primato del papa sia il vero o addirittura unico pomo della discordia tra cattolici e ortodossi; o a lagnarsi perché il cammino ecumenico ora ristagni e deluda un po’ tutti ecc. Dalle solite frasi fatte, dalle semplificazioni, dalle prospettive preconcette o dai semplici lamenti si potrebbe passare a una conoscenza più approfondita della realtà e quindi a un nuovo interesse e a una ripresa di un cammino paziente e fraterno verso un futuro un po’ diverso dall’attuale dolorosa divisione? Ma verso “quale” unione? Attenti a non predefinirla.
A rispondere a tutte queste domande spinose già tante voci tentarono una risposta, sia cattoliche sia protestanti che ortodosse (cf. le bibliografe a pag. 10s e 259-267 del volume in recensione). Ma il ponderoso lavoro dell’anglicano John Binns mi sembra straordinario. (1) Frutto di una prolungata e anche diretta competenza, esso “introduce” (ma in verità fa assai di più) innanzitutto nella storia di quel fiorito ginepraio che sono le chiese ortodosse, dagli inizi ad oggi, rilevandone i loro aspetti specifici e spesso diversi, più o meno legati a un proprio ascolto dell’Evangelo e delle tradizioni universali o locali, ma anche alle situazioni esistenziali di quelle chiese: basti pensare al loro legame con Bisanzio, alla sottomissione (pur variegata) all’Islam e agli ottomani, alle lacerazioni per l’iconoclastia, alle polemiche con l’occidente (non solo per il “Filioque”), agli urti con il mondo moderno occidentale (dall’illuminismo all’ordinazione delle donne e degli omosessuali), ai lunghi periodi di persecuzione, con, tra l’altro, esempi mirabili di santità eroica (cap. I).Negli altri capitoli, ancora interessantissimi, l’autore esamina: la comune e fondamentale importanza data da tali chiese alla liturgia specialmente eucaristica della chiesa locale, pur con le varianti anche notevoli dei suoi riti; i punti uguali oppure specifici della dottrina di ogni chiesa ortodossa, sempre con l’occhio alla loro storia; il posto prezioso attribuito da molte chiese (non da tutte) alle famose “icone”; il monachesimo e la sua posizione vitale; le forme della pietà popolare; le imprese apostolico-missionarie di varie comunità ortodosse e la loro perdurante presenza; la questione forse davvero cruciale del rapporto tra regno di Dio, chiesa, società, impero o stato nazionale o nazionalistico o addirittura ateo: problema che ebbe varie o almeno sfaccettate soluzioni nei diversi periodi storici.
Due ultimi capitoli (X-XI) rivedono in sintesi il lungo, tormentato ma ricchissimo cammino di tutte le chiese orientali, ortodosse e cattolico-romane (tra queste gli “uniati”): une e varie, sante e peccatrici, apostoliche per l’origine unica e per la missionarietà, “cattoliche” perché tutte “calcedonesi”, ossia professanti il medesimo e anche nostro trinitario e cristologico Credo (a parte il “Filioque”); ma è bello risentire che anche varie chiese non calcedonesi, al di là di formule differenti, si ritrovano in una medesima sostanziale cristologia (pag. 235)!
Inoltre, l’autore traccia brevemente le tappe di tutto il cammino ecumenico interecclesiale in atto, con le sue luci e le sue ombre, le delusioni e le speranze, quello ufficiale (in difficoltà) e quello a livello popolare (forse più promettente). Su questo punto merita attenzione anche la prefazione di Enzo Bianchi, il priore di Bose. Utili anche la pur sintetica tavola cronologica (pag. 257s) e l’indice dei nomi che, con quello generale, facilita la consultazione del ricchissimo volume.
Qualche domanda-proposta. Mi sembrerebbe davvero utile sottolineare nella nostra pastorale liturgica che tutti (cattolici-romani, protestanti, anglicani e ortodossi) professiamo il medesimo Credo (a parte il “Filioque”, che potrebbe essere omesso, come già avvenne anche a Roma recentemente); meglio ancora: usare di più il medesimo Credo cosiddetto “apostolico” non potrebbe favorire ancor meglio l’unità nella fede essenziale e fondamentale per tutti?
Ancora: sottolineare che tutti, pur con riti e interpretazioni diverse, celebriamo l’eucaristia «in memoria di Gesù». E qui riprendo la domanda già di S. Bulgakov (pag. 236): in che senso per partecipare all’eucaristia occorre una “piena comunione” col Signore e con la sua chiesa? Chi stabilisce quando quella è “piena”? Forse che i commensali di Gesù nell’ultima cena erano in piena comunione con lui e tra loro? Pare proprio di no.
Infine, una domanda da cattolico-romano e biblista: quale importanza effettiva attribuiscono le chiese ortodosse alla Parola biblica? E la paura verso le ricerche bibliche moderne a frenarle - come mi sembra - o l’accento molto forte sulle tradizioni post-bibliche? Una volta un prete ortodosso, dopo la mia riesposizione della Dei verbum, disse: «Anche noi ortodossi possiamo trovarci d’accordo con il concilio, con la sua articolata e unitaria visione del rapporto tra azione dello Spirito Santo, Bibbia, tradizione, vita di chiese, liturgia, magistero». Ma dalla teoria alla prassi corre sempre qualche fossato, anche nel cattolicesimo-romano, anzi addirittura in quello protestante attuale, dove la lettura della Bibbia è andata in crisi.
Nonostante tutto, ci direbbero specialmente le chiese ortodosse, lo Spirito Santo ci sta tutti guidando verso quella pienezza di chiesa che c’è “già e non ancora”.
Nella successione dei sette sacramenti, usuale a partite dall’alto Medioevo, il settimo è detto sacramento dell’ordine. Con questo nome la chiesa cattolica intende l’ufficio del ministero, articolato in tre gradi, ai cui detentori diamo il nome di vescovi, sacerdoti e diaconi.