Formazione Religiosa

Venerdì, 22 Giugno 2007 01:46

Lezione Decima. L’economia salvifica nel culto d'Israele

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Lezione Decima

L’economia salvifica nel culto d'Israele

 

 

Introduzione

La comunità d’Israele era talmente convinta dell’importanza del culto e della liturgia, in quanto espressione della vita di fede e del rapporto particolare di Dio con il suo popolo, da ritenere il servizio liturgico (abodah) come una delle tre cose su cui poggiare il mondo:

«Shimon il giusto, era uno degli ultimi membri della Grande Assemblea. Egli soleva affermare: su tre cose poggia il mondo: sulla Torah, sul servizio divino (abodah) e sulle opere di carità» (Mishnah, Pirqué abot, 2, ed A.A. Piattelli, Massime dei Padri, Roma, p. 10).

Dio prende l’iniziativa della salvezza. Ogni atto salvifico, che comporta un aspetto nuovo nella rivelazione, viene ad arricchire e consolidare il legame tra Dio e il suo popolo (alleanza), ed è registrato nella Parola.

 

La risposta di Israele consiste nel rendere pieno “servizio” a Dio mediante l’osser­vanza dei comandamenti (aspetto etico) e mediante la liturgia (aspetto cultuale), com’è stata fissata dal Signore nel Pentateuco.

I riti e il culto d’Israele sono intimamente legati alla storia della salvezza. All’inizio vi sono i gesti salvifici di Dio in quanto eventi storici. Attorno ad essi si sviluppa una dottrina e dei riti, che vengono celebrati e rivissuti nelle assemblee liturgiche. Il culto liturgico d’Israele è centrato sulla celebrazione dei grandi atti redentivi di Dio.

Talvolta i riti, ad esempio alcuni tipi di sacrifici, sono accolti dai popoli vicini dopo l’insediamento nella Terra Promessa, ma sono trasformati profondamente nel contesto del Jahwismo e purificati da ogni contaminazione di magia e politeismo.

È importante tener presente l’elemento della crescita e dell’approfondimento di un evento salvifico celebrato nel culto. La festa di Pasqua, ad es., da festa primaverile dei nomadi al momento di passare ai pascoli estivi, diventa – a seguito di altri eventi di diversi periodi della storia biblica – la festa della liberazione dall’Egitto, del passaggio miracoloso del Mar Rosso, della caduta delle mura di Gerico, della liberazione dall’esilio babilonese, della liberazione del popolo ebraico dalla persecuzione tirannica nell’epoca post-esilica sotto Assuero (Est. 9,2ss).

L’antico materiale delle tradizioni religiose viene definitivamente, in particolare dalla tradizione P, e strutturato in un complesso liturgico vasto e minuzioso, che forma una parte sostanziale e qualitativamente centrale del Pentateuco.

Ogni rito e ogni festa sono memoriale (zikkaron) dei gesti salvifici di Dio: essi sono come un compendio, vissuto culturalmente al presente, delle opere salvifiche di Jahwé. In essi le azioni storico-salvifiche di Dio sono rese presenti, e i partecipanti alla liturgia vengono resi contemporanei all’evento salvifico.

Nella liturgia del Seder pasquale il capo famiglia, mostrando le erbe amare, proclama:

«In tutti i secoli, ognuno di noi ha il dovere di considerarsi come se egli stesso fosse uscito dall’Egitto, come è detto: darai allora questa spiegazione al tuo figlio: in tal modo l’Eterno ha agito in mio favore, quando io sono uscito dall’Egitto. Non sono soltanto i nostri avi che il Santo, benedetto egli sia, ha liberato, ma anche noi ha liberato con loro».

Il culto, nella concezione biblica dell’A.T. è esso stesso esperienza attuale di salvezza, collegata con le azioni passate di Dio e proiettata verso il futuro, in cui Dio completerà la salvezza iniziata.

Nella liturgia biblica dell’A.T. si celebra l’evento di rivelazione e di salvezza. Essa si struttura sostanzialmente in riti sacrificali e nel racconto della storia sacra attualizzato nella parentesi e nella profezia oracolare. L’A.T. ha conosciuto nel compiersi degli eventi salvifici di Dio una vera e propria economia di grazia. Le varie istituzioni cultuali erano ordinate a "santificare" il popolo eletto (Lev. 19,2.5).

1. L’istituzione del sacerdozio

a/ Cura del santuario

La classe sacerdotale, oltre ad essere un gruppo sociale di primo ordine nella comunità d’Israele, fu intimamente legata al servizio di Dio. Il ministero sacerdotale era, già nei tempi antichi, privilegio ereditario dei leviti. L’antichissimo racconto Giud. 17,14 ci dice che fin dall’epoca remota poteva esercitare tale ministero.

Le funzioni sacerdotali erano molteplici. Ad esse spettava la cura del Santuario, erano responsabili della guida delle varie attività che vi si svolgevano.

Durante la peregrinazione nel deserto i leviti vivevano in stretta relazione con la tenda, sia negli accampamenti, sia durante la marcia (Num. 1,53; 3,23.29.35; 4,5ss; Dt. 10,8). Dopo l’ingresso nella terra promessa i sacerdoti si presero cura dell’area e compivano i loro servizi nei vari santuari disseminati per il paese.

b/ Funzioni oracolari

In un periodo più arcaico essi svolgevano prevalentemente funzioni oracolari. La gente andava dai sacerdoti “per ascoltare Dio” (Dt. 33,8-10), cioè per conoscere la volontà divina in circostanze particolari. Per accertare la volontà di Dio i sacerdoti usavano l’efod (tessuto di lino e di filo d’oro portato sopra la tunica e il mantello), e gli urin e tummim. L’efod serviva da ricettacolo ai due oggetti (bastoncini o dadi) di significato contrario.

Sebbene questo procedimento possa avere un’apparenza di superstizione o di affidamento al caso (sorte), in realtà era un umile atto di fiducia nell’interesse di Dio per le vicende umane. L’uomo voleva eliminare ogni fattore umano perché si rivelasse in piena libertà il volere divino attraverso i rappresentanti stabiliti (Cfr. At. 1,24-26; «Tu, Signore, che conosci il cuore di tutti, mostraci quali di questi hai disegnato… Gettarono quindi le sorti su di loro e la sorte cadde su Mattia».

c/ L’insegnamento

Un secondo incarico che il sacerdote adempiva era quello di maestro. Dt. 33,10: «Essi (i leviti) insegneranno i tuoi precetti a Giacobbe e la Legge a Israele».

In epoca pre-esilica l’insegnamento della Torah era la più importante delle funzioni sacerdotali: a lui spettava istruire il popolo nella verità della rivelazione, guidarlo nel comportamento morale e dirigerlo nei rapporti intimi con Dio.

I rituali incorporati nella fonte P lasciano riconoscere una grande varietà dei campi in cui deve esplicarsi la scienza sacerdotale:

– giudicare in nome di Dio una donna sospetta di adulterio (Num. 5,12s);
– “mettere il nome di Jahwé (benedire) sulla comunità raccolta per il culto (Num. 6,22ss);
– dichiarare i casi di lebbra (Lev. 15);
– determinare la conversione dei voti in denaro (Lev. 27) e soprattutto presiedere al culto sacrificale.

d/ Offerta dei sacrifici

Nell’offerta dei sacrifici, l’azione caratteristica del sacerdote consisteva nel versare o aspergere il sangue della vittima sull’altare o nel mettere sull’altare la sua carne. L’immolazione o l’uccisione era fatta di solito da qualcun altro (Ez. 24,3-8).

Col passare del tempo, l’offerta dei sacrifici fu messa in primo piano come diritto esclusivo e funzione essenziale del sacerdote.

e/ Santità

Nel culto sacrificale i sacerdoti partecipavano con tutta la tensione interiore e spirituale. Era essenziale che i sacrifici “piacessero” a Dio, e quindi essenziale la comunicazione che egli dava, che tutto era attuato secondo le prescrizioni.

Egli doveva dichiarare ad alta voce se un sacrificio era “ascritto in conto” o no. In particolare l’attenzione del sacerdote era richiesta per tutti gli atti di espiazione, perché anch’egli con gli offerenti, entrava nell’ambito dell’ira divina.

La consumazione della carne della vittima espiatoria era riservata al sacerdote: solo lui, mangiando questa carne in luogo santo attuava l’estinzione del male.

Tale “consumazione” avveniva perché il sacerdote «porti l’iniquità della comunità, per procurarle (con questo) l’espiazione davanti a Jahwé» (Lev. 10,17).

Il sacerdote era “sacro” nel senso più forte del termine, cioè “separato” dal profano e dedicato completamente al servizio del Signore. Poteva toccare i vasi sacri e prendere cibo dalle offerte sacrificali; ma era anche tenuto ad osservare una purezza maggiore di quella richiesta al laico. Poteva sposare solo una vergine; gli era proibito bere bevande forti, vino compreso, prima di entrare nei recinti sacri.

2. I luoghi di culto

a/ Periodo premonarchico

Insieme con le persone sacre, Israele riserva a Dio alcuni luoghi particolari o santuari. Nel periodo patriarcale o mosaico, vengono consacrati al vero Dio i santuari di Sichem, Betel, Manre e Bersabea. Durante l’Esodo gli israeliti avevano un santuario portatile: il tabernacolo o la tenda. Secondo le tradizioni più antiche era il luogo in cui Mosé consultava Jahwé (Es. 33,7.11; Num. 12,8).

La tradizione E rappresenta l’arrivo e la presenza di Dio sotto l’immagine della nube che si abbassa e si inalza (Es. 33,9; Num. 12,4-10). Ma nella tradizione P la nube si stabilisce sulla dimora quando questa viene completata e vi rimane anche quando la tenda è in cammino (Es. 40,34-35; 36-38; Num. 9,15-23).

L’oggetto più santo del tabernacolo era l’arca (arca della testimonianza): in essa erano custodite le “tavole della testimonianza”. Anche quando verrà costruito il tempio salomonico, l’area sarà al centro del culto israelitico fino al 587. Essa era considerata il luogo della presenza divina (il trono e lo sgabello di Dio) e come un archivio nel quale era custodita la Legge.

Dopo la conquista della Terra promessa gli Israeliti fondarono altri santuari, Galgala, Silo, Mipa, Ofra, Dan. Con la costituzione della monarchia e della capitale in Gerusalemme, l’arca vi fu trasferita e collocata nel tempio di Salomone.

b/ Il tempio di Gerusalemme

Il tempio gerosolimitano ebbe una grande importanza nella vita d’Israele, fondamentalmente perché era considerato l’abitazione stessa di Dio in mezzo al suo popolo. Pur dichiarando la trascendenza di Jahwé, che non poteva essere confinato tra gli stretti limiti del Santo dei Santi, il redattore deuteronomista afferma che Dio vive nei cieli, ma di là egli ascolta le preghiere che gli sono rivolte nel tempio (1 Re 8,27-40).

Oltre ad essere simbolo della presenza di Dio e luogo della sua “gloria” (2 Cron. 5,14), il tempio era simbolo dell’elezione gratuita di Israele come popolo di Dio.

c/ La sinagoga

Durante il periodo dell’esilio babilonese e a seguito della distruzione del tempio di Salomone, la comunità di Israele continuò a riunirsi per il culto, in luoghi particolari detti “sinagoghe” (dal greco synagogé = assemblea, raduno). Questo uso si diffuse nelle località della diaspora.

Gli ebrei si ritrovavano in luoghi della comunità per la preghiera comune, l’ascolto della Parola di Dio e per alcuni riti comunitari. Il culto sinagogale non comportava l’offerta dei sacrifici, ormai riservata al tempio, né particolari funzioni dei sacerdoti.

Il culto e le funzioni direttive erano svolti da membri eletti dalla comunità. Vi si offriva il «sacrificio di lode». Anche oggi nell’ufficio del mattino e della sera si dice:

«Compenseremo l’offerta dei sacrifici con le nostre preghiere, in luogo del sacrificio quotidiano del mattino (o della sera) noi recitiamo il seguente sacro testo: (segue la lettura di Num. 22-28)».

La struttura del culto sinagogale fin dall’antichità comprendeva la lettura di una pericope del Pentateuco (detta: Parashah), e la pericope corrispondente da un profeta (detta: Haphtarah). La lettura era preceduta da Shemà (Dt. 6,4-9) e dalle Shemoné Esre o Amidah (18 benedizioni). I salmi intercalavano le varie parti dell’uf­fi­cia­tura la quale si chiudeva con la benedizione.

In relazione con la scrittura, un membro della comunità o un ospite veniva invitato a farne il commento. Questa possibilità fu strutturata da Gesù e dagli apostoli per l’annuncio del vangelo (cfr. At. 13,5; Mt. 4,33; Lc. 4,44).

3. Gli altari

Il termine ebraico mizbeah (altare) è strettamente collegato con l’idea di sacrificio. In origine le vittime erano immolate direttamente sull’altare; in seguito vi si collocarono le offerte (carne, cereali, incenso).

I due materiali autorizzati per la costruzione dell’altare erano la terra (terra cotta o mattoni) e la pietra non lavorata (Es. 20,24-26; Dt. 27,5; Gios. 8,30-31). Con questo si voleva sottolineare che i materiali dovevano essere allo stato naturale, così come sono usciti dalle mani di Dio (Es. 20,25).

Nella tenda e poi nel tempio di Salomone ce n’erano due: l’atare dell’olocausto eretto all’entrata della tenda (Es. 27,1-8; 38,1-7) e l’altare dell’incenso (Es. 30,1-5; 37, 25-28).

Come il tempio era la casa di Dio, così l’altare era il focolare del tempio. Questa idea è implicita nella prescrizione che un fuoco fosse sempre conservato sull’altare (Lev. 6,5-6),

Nell’epoca patriarcale il luogo di una teofania era segnalato da un altare (Gen. 12,7; 26,24-25). Era simbolo della presenza divina e cosa santissima.

4. I sacrifici

Gli antichi rituali dei sacrifici sono raccolti in Lev. 1,7; 13,10-32; 17; 22,17-30; 27; Num. 18-19. Essi in origine contenevano materiali cultuali molto diversi, rielaborati e armonizzati dalla fonte P. I tipi principali che P distingue, sono:

1. l’olocausto (olam kabil: Lev. 1);
2. l’oblazione (minha: misto di farina, olio e incenso: Lev. 2);
3. Il sacrificio salutare e di comunione (zebah shelamin: Lev. 3);
4. Il sacrificio espiatorio (hattat: Lev. 4-5);
5. Il sacrificio di riparazione (asham: Lev. 5,14-19).

1/ L’olocausto

Il sacrificio più solenne era l’olocausto: la vittima veniva bruciata per intero, L’animale doveva essere maschio e senza difetti. L’offerente stendeva la mano sul capo della vittima per indicare che il sacrificio doveva essere offerto in suo nome e a suo beneficio.

2/ L’oblazione

Consisteva esclusivamente in un’offerta sacrificale vegetale (fior di farina impastata con olio e incenso). In epoca della fonte P l’oblazione seguiva l’olocausto: parte veniva bruciata sull’altare e parte andava ai sacerdoti (Lev. 2,1-2; 6,7-11; 7,10). La parte che veniva bruciata sull’altare si chiamava azkara (ricordanza) nel senso che l’offerta faceva ricordare a Dio colui che la faceva e anche “pegno” del desiderio del donatore di offrire tutto ciò che aveva.

3/ Il sacrificio salutare o di comunione

Era un’offerta di ringraziamento che operava n’unione con Dio. Si consumavano sull’altare solo le parti grasse dell’animale, mentre il resto, in parte era consumato dal sacerdote e in parte dall’offerente e dagli invitati «a mangiare e bere davanti a Jahwé» (Es. 34,15; 1 Sam. 9,12; 16,3 ss). Questo sacrificio sottolineava l’idea di comunione: Iahwé, il sacerdote e i convitati prendevano parte allo stesso rito.

4/ Il sacrificio espiatorio

Il sacrificio espiatorio per il peccato si distingueva per l’uso che si faceva del sangue e la distribuzione della carne della vittima. Il sangue era asperso sul volto del Santo dei Santi, strofinato sui corni dell’altare dell’incenso; il resto era versato ai piedi dell’altare dell’olocausto. Il grasso della vittima era bruciato, e solo il sacerdote riceveva parte della vittima «perché era molto sacra» (Lev. 6,22).

5/ Il sacrificio di riparazione

Veniva offerto per la colpa e si svolgeva secondo un rituale simile a quello precedente. La fede israelitica era indirizzata ai sacrifici da Dio stesso. La tradizione sacerdotale vigilava sull’esattezza e la precisione esteriore, sulla materialità del culto. Non è legittimo liquidare il culto sacrificale come qualcosa di pesante o secondario rispetto alla fede in Jahwé spirituale.

La fede di Israle era al tempo stesso materiale e spirituale, nella convinzione che il culto sacrificale fosse una «istituzione che apriva a Israele un continuo rapporto vitale con lui» ( G. von Rad, Teologia dell’A.T., I, p. 299).

Il sacrificio non era solo un dono a Dio per riconoscere il suo dominio, né unicamente un mezzo per realizzare l’unione con Lui, né solo un atto di espiazione. Era insieme tutte queste tre cose e anche di più. Era un momento di incontro con il Dio vero e salvifico.

In esso, Jahwé poteva essere raggiunto dalla gratitudine di Israele e Israele poteva far comunione con Lui e con la sua volontà di perdono.

«Per quanto in profondità possa penetrare anche l’interpretazione più acuta dei sacrifici veterotestamentari, giunge ad un limite assoluto, oltre il quale non può essere spiegato nulla. E l’esegeta deve dirsi che proprio ciò che più è essenziale per il sacrificio, avviene al di là di questo limite. Riguarda a ciò che Dio opera nel sacrificio (l’A.T.) offre una zona di silenzio e di mistero» (G. von Rad, cit., p. 299).

Feste e tempo liturgico. Per tutto l’argomento cfr. J.J. Castelot, Le istituzioni religiose di Israele, in Grande Commentario Biblico, Brescia, pp. 1174-1783: il sabato, la Pasqua e la festa degli Azimi, la festa delle settimane, la festa delle tende, il capodanno, il giorno dell’espiazione, la hannukah (dedicazione); i purim (le sorti).

 

Conclusione

1. Il culto del popolo eletto nelle prescrizioni rituali e nel significato dei gesti, è stata l’espressione più alta di religione che l’uomo abbia mai raggiunto prima e al di fuori di Cristo. Provenendo dalla volontà divina e, intimamente legato alla rivelazione, esso ha permesso agli uomini di fare una vera e propria esperienza di Dio.

Il superamento del ritualismo predicato dai profeti e da Cristo stesso, non mirava a svalutare i contenuti salvifici obiettivi del culto, bensì a mettere in consonanza i gesti esterni con il cuore.

2. Cristo, con la sua opera di salvezza stabilisce un culto in spirito e verità, ma anch’esso è misteriosamente adombrato e contenuto nei tipi dell’A.T., secondo l’affermazione di Agostino:

«In vetere testamento novum latet, in novo, vetum patet».

Nell’Antico Testamento il Nuovo è nascosto, nel Nuovo l’Antico diventa chiaro.


Bibliografia

C. Sturmüller, Old Testament Liturgy, in Studies in Salvation History, England Cliffe NJ, pp. 81-91.

J.J. Castelot, Le istituzioni religiose di Israele, in Grande Commentario Biblico, cit., pp.1743-1783.

G. von Rad, Teologia dell’Antico Testamento, cit., pp. 219-321.

A. Penna, La religione di Israele, Brescia, pp. 65-104.

A. Ravenna, L’ebraismo postesilico, Brescia, pp. 51-76.

A. Charbel, Origine degli S’lamin in Israele, in «Rivista biblica», n. 23 (1975), pp. 261-278.

Letto 3091 volte Ultima modifica il Venerdì, 18 Novembre 2011 16:13
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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