Mondo Oggi

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Domenica, 14 Gennaio 2007 20:00

I dieci punti di Seelisberg

I dieci punti di Seelisberg

Nell’estate del 1947 si tenne a Seelisberg, in Svizzera, una conferenza internazionale alla quale parteciparono un centinaio di delegati cristiani (di diverse confessioni) ed ebrei, provenienti da una ventina di Paesi. Jules Isaac aveva preparato uno schema in diciotto punti, che vennero discussi, e infine venne approvata una dichiarazione conosciuta come I dieci punti di Seelisberg.


1.

Ricordare che è lo stesso Dio vivente che parla a tutti noi nell’Antico come nel Nuovo Testamento.

2.

Ricordare che Gesù è nato da una madre ebrea, della stirpe di Davide e del popolo d’Israele, e che il suo amore ed il suo perdono abbracciano il suo popolo ed il mondo intero.

3.

Ricordare che i primi discepoli, gli apostoli, ed i primi martiri, erano ebrei.

4.

Ricordare che il precetto fondamentale del cristianesimo, quello dell’amore di Dio e del prossimo, promulgato già nell’Antico Testamento e confermato da Gesù, obbliga cristiani ed ebrei in ogni relazione umana senza eccezione alcuna.

5.

Evitare di sminuire l’ebraismo biblico nell’intento di esaltare il cristianesimo.

6.

Evitare di usare il termine “giudei” nel senso esclusivo di “nemici di Gesù” o la locuzione “nemici di Gesù” per designare il popolo ebraico nel suo insieme.

7.

Evitare di presentare la passione in modo che l’odiosità per la morte inflitta a Gesù ricada su tutti gli ebrei o solo sugli ebrei. In effetti non sono tutti gli ebrei che chiesero la morte di Gesù. Né sono solo gli ebrei che ne sono responsabili, perché la croce, che ci salva tutti, rivela che Cristo è morto a causa dei peccati di tutti noi.

Ricordare a tutti i genitori e educatori cristiani la grave responsibilità in cui essi incorrono nel presentare il vangelo e sopratutto il racconto della passione in un modo semplicista. In effetti, essi rischiano in questo modo di ispirare, lo vogliano o no, avversione nella coscienza o nel subcosciente dei loro bambini o uditori. Psicologicamente parlando, negli animi semplici, mossi da un ardente amore e da una viva compassione per il Salvatore crocifisso, l’orrore che si prova in modo così naturale verso i persecutori di Gesù, si cambierà facilmente in odio generalizzato per gli ebrei di tutti i tempi, compresi quelli di oggi.

8.

Evitare di riferire le maledizioni della Scrittura ed il grido della folla eccitata: “che il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli”, senza ricordare che quel grido non potrebbe prevalere sulla preghiera infinitamente più potente di Gesù: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno.”

9.

Evitare di dare credito all’empia opinione che il popolo ebraico è riprovato, maledetto, riservato a un destino di sofferenza.

10.

 Evitare di parlare degli ebrei come se essi non fossero stati i primi ad appartenere alla chiesa.

Domenica, 14 Gennaio 2007 19:49

Sukkoth

Nella lingua ebraica, Sukkoth significa "capanne" e sono appunto le capanne a caratterizzare questa festa che ricorda la permanenza degli ebrei nel deserto dopo la liberazione dalla schiavitù dall’Egitto.

Domenica, 14 Gennaio 2007 19:42

Pace e guerra XXI Secolo (Carlo Maria Martini)

Pace e guerra XXI Secolo

di Carlo Maria Martini

INTRODUZIONE

Sono lieto di partecipare a questo momento di studio e di riflessione promosso dal Forum di Relazioni internazionali, allo scopo di individuare i contenuti che i concetti di pace e di guerra vanno assumendo oggi, all'alba del XXI secolo.

Saluto e ringrazio tutte le autorità politiche, militari ed ecclesiali qui presenti, come pure i rappresentanti delle Organizzazioni internazionali, del mondo accademico e delle organizzazioni umanitarie, i relatori e tutti i partecipanti a questo incontro.

La riflessione da voi promossa nasce dalla consapevolezza che le gravi instabilità e ingiustizie del nostro tempo provocano interventi militari, interventi tesi in teoria a garantire, ristabilire o imporre il rispetto dei diritti fondamentali di persone e collettività e che tuttavia suscitano gravi interrogativi di ordine morale, politico e anche militare in chi ha la responsabilità della decisione e dell'esecuzione di tali interventi.
Tale riflessione, inoltre, si impone all'alba del nuovo millennio, dopo un secolo - il XX - che, per un verso, è stato uno dei periodi più tragici dell'intera storia umana e, per un altro verso è stato il secolo in cui si sono levati i più alti appelli alla pace.

L'ultimo secolo, infatti, "è stato un secolo segnato da odio e da profondo disprezzo nei confronti dell'umanità, odio e disprezzo che non rinunciavano a nessun mezzo e metodo per annientare e sterminare l'altro" . È stato un secolo di guerre, intervallate da periodi più o meno lunghi, non di pace, ma di tregua: oltre alle due guerre mondiali, molti altri, circa centoottanta, sono stati i conflitti armati interni a singoli Stati o a livello internazionale, i quali - secondo attendibili stime internazionali - tra il 1950 e il 1990 hanno provocato circa quindici milioni di morti nel mondo. Né si possono dimenticare le incalcolabili sofferenze che queste innumerevoli guerre hanno inflitto all'umanità: hanno causato milioni e milioni di morti e di feriti, distrutto famiglie, gettato nella miseria popoli interi, creato maree di profughi, condannato al sottosviluppo interi continenti. Lungo lo stesso secolo, si è pure instaurata una corsa agli armamenti più distruttivi e più sofisticati che non ha nemmeno lontanissimi paragoni nei secoli precedenti: se tutto questo non ha portato all'olocausto nucleare, pur avendolo sfiorato varie volte, non è stato - come alcuni hanno giustamente osservato - per rinsavimento o per saggezza, ma per timore, perché ci si è resi conto che in una guerra atomico-nucleare, combattuta su tutto il pianeta con l'uso di armi nucleari strategiche, non ci sarebbero stati né vinti né vincitori, ma la fine della storia umana .

Il secolo XX, nel contempo, è stato il secolo nel quale l'idea e l'azione per la pace hanno indubbiamente conosciuto una significativa accelerazione. È stato, infatti, il secolo della proclamazione dei Diritti dell'uomo, dell'affermazione della democrazia e della sconfitta dei totalitarismi, della fine del colonialismo, delle creazione di grandi organismi internazionali e, in particolare, dei primi tentativi - con la Società delle Nazioni e con l'ONU - di realizzazione di una sorta di governo mondiale, con lo scopo di mantenere la pace e di "preservare le nazioni future dal flagello della guerra" . È stato anche il secolo nel quale ha preso avvio una cultura della pace, che si è espressa con personalità come Leone Tolstoj, Gandhi e, in Italia, nel "Movimento non-violento per la pace" di Capitini. In campo cattolico, infine, oltre all'affermazione, specialmente nella seconda metà del secolo, di un forte movimento pacifista, va indubbiamente ricordato il ricchissimo magistero soprattutto pontificio da Benedetto XV a oggi e la presa di posizione del Concilio Vaticano II.

Siamo posti di fronte così a uno dei temi - quello della guerra-pace - tra i più ardui e complessi della convivenza umana e della morale sociale, che ha accompagnato la riflessione della coscienza umana e cristiana lungo tutta la storia e che oggi, con lo straordinario mutamento dovuto all'avvento delle armi atomiche e nucleari, si pone con caratteristiche significativamente diverse dal passato. E' per tutti questi motivi che anch'io mi sento profondamente interpellato da questo tema, pur non avendo di esso competenza specifica. Vi rifletto a voce alta di fronte a voi con la mia coscienza di cristiano e di vescovo, alla ricerca di parametri etici e alla luce del messaggio evangelico, pur consapevole della complessità dei problemi che altri potranno approfondire in maniera più precisa e concreta. Le mie fonti di ispirazione sono naturalmente anzitutto le Sacre Scritture e la dottrina sociale della Chiesa. Risento dunque anzitutto in me la parola di Gesù "Beati gli operatori di pace,perché saranno chiamati figli di Dio" (Mt 5,9), il suo invito provocatorio "Ma io vi dico, amate i vostri nemici" ( Mt 5,44) e guardo al futuro con la speranza del profeta Isaia "Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci" (Is 2,4), tenendo conto nello stesso tempo del lungo cammino storico dei popoli e delle coscienze per interiorizzare e attuare un tale messaggio, in costante conflitto con le infedeltà e gli egoismi umani.

In questo contesto intendo proporre alcuni spunti di riflessione generale su quattro punti:

1. La coscienza cristiana di fronte alla guerra;
2. L'edificazione della pace nella giustizia e nella solidarietà;
3. In questa luce, qualche riflessione sulla cosiddetta ingerenza umanitaria;
4. Principi per una riconsiderazione dell'attuale assetto internazionale.

1. LA COSCIENZA CRISTIANA DI FRONTE ALLA GUERRA

Quella della Chiesa e dei cristiani verso la guerra è una storia e una riflessione che ha accompagnato i due millenni di cristianesimo fin qui trascorsi. Essa - come è stato giustamente notato - "sembra avere subito numerosi mutamenti lungo i 20 secoli che stanno concludendosi. Infatti è passata da un atteggiamento più o meno pacifista nei primi quattro secoli alla formulazione della teoria della guerra giusta, poi al sostegno di politiche destinate a costruire la pace" .

In ogni caso, a partire dal dato storico e dalla dottrina recepita, sembra affiori progressivamente entro la tradizione cristiana una linea convergente nel tentativo di ridurre sempre di più dimensioni e conseguenze di ogni intervento bellico.

In questo senso va letta anche la dottrina della "guerra giusta", sostenuta per molti secoli dalla teologia, senza essere mai sancita in modo "ufficiale" dal Magistero della Chiesa. Tale dottrina, infatti, - nell'accezione condivisa dalla morale cattolica e diversamente da quella deviazione interpretativa che se ne è data a partire dal Rinascimento, allorché venne utilizzata per arrecare una parvenza di legittimazione morale alle diverse ambizioni nazionali - "non è animata dall'intenzione di "giustificare" nel senso di promuovere o incoraggiare il ricorso alla guerra. Al contrario, essa mira a ridurre il più possibile tale ricorso. "Il più possibile", in quanto non esclude a priori che - in particolari situazioni - l'astensione da interventi militari avrebbe effetti controproducenti proprio rispetto al fine che sempre deve essere perseguito: quello di assicurare le condizioni per una convivenza umana "pacifica", libera, cioè, dal dominio della violenza incontrollata e del "potere" arbitrario" . Il presupposto di tale teoria consisteva nella convinzione che la guerra, che in ogni caso costituisce una disgrazia e comporta mali grandi e orrendi, in alcune circostanze potrebbe apparire come in qualche modo "inevitabile" o "necessaria". In ogni caso l'intento di tale teoria, intento di stampo prettamente pedagogico, era quello di fare appello alla coscienza perché rinunciasse alla violenza - aiutandola a liberarsi dai condizionamenti della passione, del desiderio di vendetta, e di ogni sorta di sopraffazione - e decidesse se, in quel momento preciso e concreto, il ricorso alla violenza fosse in qualche maniera ammissibile e giustificabile. Per raggiungere tali scopi, questa teoria individuava condizioni e regole molto precise e severe - anche se spesso concretamente inattuabili, considerata la logica stessa della guerra, che mira a infliggere al nemico danni gravissimi, assai superiori a quelli probabilmente indispensabili per conseguire il pur giusto fine per cui si fa la guerra - perché una guerra potesse dirsi "giusta" .

La guerra - come appare anche dalla teoria appena ricordata della "guerra giusta" - è sempre un male e, come tale, va evitata o almeno - quando essa apparisse come inevitabile - va limitata il più possibile nelle sue dimensioni e nelle sue conseguenze. Ciò è ancora più evidente e urgente a mano a mano che si passa alla guerra moderna, a una guerra, cioè, che per sua natura comporta armi e distruzione di massa, che sfuggono al controllo dell'uomo e che, seppure in misura diversa, si qualifica pressoché sempre come "guerra totale", anche quando non si usassero armi chimiche o termonucleari, ma armi cosiddette convenzionali . Come sottolinea, infatti, anche Giovanni Paolo II, oggi "non è difficile affermare che la potenza terrificante dei mezzi di distruzione, accessibili perfino alle medie e piccole potenze, e la sempre più stretta connessione, esistente tra i popoli di tutta la terra, rendono assai arduo o praticamente impossibile limitare le conseguenze di un conflitto" .

Alla luce di questi radicali cambiamenti intervenuti nel modo di fare la guerra e nel concetto stesso di guerra, si comprende come, nel secolo XX, con gli interventi del magistero, da Benedetto XV a Giovanni Paolo II, si sia passati dalla considerazione delle condizioni classiche per l'affermazione di una "guerra giusta" all'affermazione della impossibilità di dichiarare "giusta" una guerra totale, o condotta con armamenti strategici ultimamente incontrollabili, fino all'affermazione della necessità di evitare, fin dove possibile, ogni guerra, in un contesto come l'attuale, nel quale un conflitto appare non facilmente delimitabile una volta avviato, nel quale, civili vengono di solito ad essere molto più coinvolti dei militari stessi e dove le conseguenze creano facilmente effetti negativi destinati a perdurare ben oltre la durata delle operazioni belliche. Come, infatti, già si esprimeva Giovanni XXIII nella Pacem in terris, superando così il concetto di "guerra giusta", "Nell'era atomica è irrazionale [alienum est a ratione] pensare che la guerra possa essere utilizzata come strumento di riparazione dei diritti violati" . E il Concilio, che per lo più non ha voluto pronunciare anatémi, su questo punto ha avuto una parola ferma e dura: "Ogni atto di guerra che indiscriminatamente mira alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e con fermezza e senza esitazione deve essere condannato" .
Secondo questi interventi, si deve, quindi, concludere che la guerra moderna è di fatto quasi sempre immorale . Essa, inoltre, è anche inutile, dannosa e irrazionale, perché non solo non risolve, se non apparentemente e momentaneamente, i problemi che l'hanno scatenata, ma li aggrava e ne crea di nuovi ancora più gravi. Come ha scritto Giovanni Paolo II, "il secolo XX ci lascia in eredità soprattutto un monito: le guerre sono spesso causa di altre guerre, perché alimentano odi profondi, creano situazioni di ingiustizia e calpestano la dignità e i diritti delle persone. Esse, in genere, non risolvono i problemi per i quali vengono combattute e pertanto, oltre ad essere spaventosamente dannose, risultano anche inutili. Con la guerra, è l'umanità a perdere" . Ne segue l'accorato appello risuonato già sulle labbra di Paolo VI prima, nel suo intervento all'ONU , e poi ripreso solennemente anche da Giovanni Paolo II nella Centesimus annus: "Mai più la guerra!". No, mai più la guerra, che distrugge la vita degli innocenti, che insegna a uccidere e sconvolge egualmente la vita degli uccisori, che lascia dietro di sé uno strascico di rancori e di odi, rendendo più difficile la giusta soluzione degli stessi problemi che l'hanno provocata!".

In questo quadro, che concorre ad affermare che oggi non esistono "guerre giuste" e non esiste un "diritto di 'fare' la guerra", l'unico spiraglio che rimane praticamente aperto in ordine alla "legittimità" - e non tanto e ancora alla "doverosità" - di un intervento bellico è quello che riguarda la cosiddetta guerra difensiva, in presenza di un'aggressione ingiusta in atto . È, per altro, uno spiraglio molto piccolo, se si considera soprattutto il tema della "proporzionalità" tra il bene che ci si aspetta di conseguire e i danni da infliggere e i costi da sostenere. Come dice, infatti, il Concilio, "fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un'autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità d'un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto d'una legittima difesa" . È un diritto, questo ribadito anche recentemente nel Catechismo della Chiesa Cattolica, che precisa anche gli attuali rigorosi criteri di legittimità morale, la cui "valutazione morale spetta al giudizio prudente di coloro che hanno la responsabilità del bene comune" . In forza di tali criteri, "occorre contemporaneamente: - che il danno causato dall'aggressione alla nazione o alla comunità delle nazioni sia durevole, grave e certo; - che tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci; - che ci siano fondate condizioni di successo; - che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare. Nella valutazione di questa condizione ha un grandissimo peso la potenza dei moderni mezzi di distruzione" .
Ne segue che, anche in questo caso, - come ho ricordato fin dall'inizio - la logica e l'intento di fondo è di ridurre sempre più dimensioni e conseguenze dell'intervento bellico e, positivamente, di sollecitare un'azione articolata e convergente che porti a superare le cause di un possibile conflitto. Si tratta, tra l'altro, di proseguire non soltanto nella linea di una delimitazione degli effetti negativi degli armamenti, ma in quella della accurata reinterpretazione del concetto stesso di "difesa". Per un verso, superata la prospettiva tradizionale della "difesa del territorio nazionale e della popolazione ad esso inerente", si potrebbe accedere a sempre nuove identificazioni dei "mali sociali" o "strutture di peccato" cui una o più nazioni, anche solidalmente, sono chiamate a rispondere, con la conseguente predisposizione di tattiche e mezzi idonei allo scopo. Per un altro verso, si tratterebbe di dare spazio a diversificate e convergenti azioni di difesa, non esclusa anche la difesa non-violenta. Occorre, infatti, - come ricordavo in occasione della Giornata Mondiale della Pace del 1984 - "avere il coraggio di esigere che i responsabili programmino forme di difesa militari e civili non offensive, che non sono la rassegnazione totale, ma non sono neppure la deterrenza e la dissuasione offensiva che è al centro del dibattito morale oggi. Bisogna osare la via realistica della dissuasione puramente difensiva, che è poi la versione moderna della "legittima difesa", la quale ultima è troppo spesso confusa con la legittima offesa. Gli scienziati e i tecnici vanno mobilitati non per scoprire armi più vulneranti (anche se si dice che rimarranno solo a scopo di minaccia e di monito), ma modi di neutralizzare l'offesa così da scoraggiarla perché priva di risultati adeguati. È così che gli Stati moderni intendono la legittima difesa all'interno delle loro strutture civiche. Perché non deve essere lo stesso anche tra gli Stati, in attesa di un'autorità definitiva che regoli i conflitti con i soli mezzi del dialogo?"

Con la condanna del ricorso alla guerra, infine, la coscienza cristiana è andata progressivamente condannando la corsa agli armamenti e superando la logica della deterrenza, intesa come accumulo di armi - a livello quantitativo e, oggi soprattutto, a livello qualitativo e di tecnologie avanzate - allo scopo di dissuadere qualsiasi avversario dal compiere atti di guerra. "Riguardo a tale mezzo di dissuasione - come si legge nel Catechismo della Chiesa Cattolica - vanno fatte severe riserve morali" . Esso infatti - come afferma il Concilio e gli fa eco lo stesso Catechismo - "non è la via sicura per conservare saldamente la pace né il cosiddetto equilibrio che ne risulta può essere considerato pace vera e stabile. Le cause di guerre, anziché venire eliminate da tale corsa, minacciano piuttosto di aggravarsi gradatamente. E mentre si spendono enormi ricchezze per procurarsi sempre nuove armi, diventa poi impossibile arrecare sufficiente rimedio alle miserie così grandi del mondo presente" . In altri termini - come ha detto il Papa il 23 agosto 1982 - "la logica della deterrenza nucleare non può essere considerata come uno scopo finale o un mezzo appropriato e sicuro per salvaguardare la pace internazionale". Ancora più precisamente - come ha affermato lo stesso Giovanni Paolo II nel suo Messaggio all'ONU dell'11 giugno 1982 - "Nelle condizioni attuali, una "deterrenza" fondata sull'equilibrio, non certo come un fine in se stesso ma come una tappa sulla via di un disarmo progressivo, può ancora essere giudicata moralmente accettabile. Tuttavia, per assicurare la pace, è indispensabile non essere soddisfatti di questo minimun che è sempre esposto al reale pericolo dello scoppio di una guerra".

A dire, cioè, che la politica della deterrenza può essere moralmente accettabile solo se, nello stesso tempo, si fa sinceramente e concretamente ogni sforzo per imboccare la via del negoziato, allo scopo di giungere al disarmo e se si lavora per mutare il clima di sfiducia e di paura nei rapporti internazionali. Ne segue che essa non è, invece, moralmente accettabile quando non fosse controbilanciata da una politica di riduzione o limitazione degli armamenti e di disarmo progressivo e multilaterale . Ne segue pure che, tale politica va tanto più superata quanto più crescono il negoziato, il disarmo, la fiducia tra gli Stati. Come sottolineavo nella già citata mia omelia per la Giornata Mondiale della Pace del 1984, "la sicurezza non deve essere intesa solo come sicurezza militare, ma deve consolidarsi attraverso un potenziamento del dialogo, dei sistemi democratici, degli organismi di controllo internazionali. La stessa dissuasione deve farsi forte non solo di quell'atteggiamento così disumano che è la forza violenta, ma anche e soprattutto di quelle risorse più degne dell'uomo che sono la solidarietà internazionale, le sanzioni giuridiche, l'isolamento di chi usa prepotenza, ecc." . E aggiungevo: "Occorre anche sviluppare tecniche e addestramenti di difesa civile non violenta, e investire per questo in programmi adeguati. L'insieme di questi mezzi costituirebbe una reale alternativa alla deterrenza offensiva. Sarebbe una efficace dissuasione difensiva che ci permetterebbe di affrontare tutti con cuore più disponibile il tema del disarmo, in parte anche di un disarmo unilaterale. […] Non ci vengano dunque a dire che non c'è alternativa realistica alla deterrenza offensiva. C'è, e bisogna trovarla con tutte le forze, se non si vuole che la dissuasione aggressiva che è poi la garanzia del mutuo annientamento, tollerata ora come male minore e come ripiego provvisorio e solo alla condizione di trovare vie di uscita più umane e pacifiche, diventi un'abitudine, una pratica accettazione della spirale degli armamenti, e infine una trappola di morte per l'umanità".

2. L'EDIFICAZIONE DELLA PACE NELLA GIUSTIZIA E NELLA SOLIDARIETÀ

Da quanto detto fin qui risulta che non bastano la ribellione morale alla guerra e alla corsa agli armamenti e il rifiuto della politica della deterrenza. Occorre, insieme e positivamente, impegnarsi per costruire la pace, la quale - come insegna la Pacem in terris - è fondata sulla verità, sulla giustizia, sull'amore, sulla libertà . Ne seguono - quale sfida urgente e improcrastinabile anche per il XXI secolo - la necessità e il dovere di impegnarsi per eliminare dal nostro mondo le disuguaglianze sociali e gli squilibri economici tra i popoli, le condizioni di oppressione e lesione dei diritti umani più essenziali, le minacce per l'umanità connesse con ogni tipo di totalitarismo politico o ideologico.

"Il mobilissimo e impegnativo compito della pace, insito nella vocazione dell'umanità ad essere e a riconoscersi come famiglia" - ha scritto Giovanni Paolo II nell'ultimo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace introducendo la questione della solidarietà come condizione ineliminabile per la pace - "ha un suo punto di forza nel principio della destinazione universale dei beni della terra". E aggiungeva: "Nessuno si illuda che la semplice assenza di guerra, pur così auspicabile, sia sinonimo di pace duratura. Non c'è pace vera se ad essa non si accompagnano equità, verità, giustizia e solidarietà. Resta destinato al fallimento qualsiasi progetto che ritenga separati due diritti indivisibili e interdipendenti: quello alla pace e quello ad uno sviluppo integrale e solidale".

A questo proposito, l'edificazione della pace, soprattutto in un contesto di globalizzazione come l'attuale, richiede che si abbia a far maturare un'autentica cultura della solidarietà. Nel fare ciò va superata ogni concezione "assistenzialistico-sentimentale" della solidarietà stessa, vedendola piuttosto come responsabilità per il bene comune. Si deve pure riconoscere il nesso che intercorre tra efficienza e solidarietà, convinti che quest'ultima, proprio in quanto risponde a un principio etico superiore di fraternità verso chi si trova in condizioni di bisogno, può essere considerata anche una "convenienza" per lo stesso funzionamento complessivo della società. Essa, inoltre, può essere realizzata mediante una pluralità di "reti di sostegno", capaci di attuarsi in ordine a una molteplicità di situazioni, che di per sé non riguardano soltanto i "poveri". Infine, va attuata riconoscendo anche il "vincolo" e il "debito" che ci lega a tutto il patrimonio ambientale, economico, culturale, sociale lasciatoci in dono dalle generazioni che ci hanno preceduto: ciò esige - proprio in nome della solidarietà - che ci si assuma la responsabilità di consegnarlo "migliorato" alle generazioni future. In altre parole, la sfida che ci attende è quella di assicurare "una globalizzazione nella solidarietà, una globalizzazione senza marginalizzazione".

Va pure sottolineato, in particolare, - come ha sottolineato Giovanni Paolo II nell'enciclica Sollicitudo rei socialis - che "il traguardo della pace, tanto desiderata da tutti, sarà certamente raggiunto con l'attuazione della giustizia sociale e internazionale, ma anche con la pratica delle virtù che favoriscono la convivenza e ci insegnano a vivere uniti, per costruire uniti, dando e ricevendo, una società nuova e un mondo migliore" . Il riferimento a queste "virtù" mi suggerisce una parola di richiamo al ruolo fondamentale e irrinunciabile dell'educazione per l'edificazione della pace. Si tratta, infatti, di far crescere le persone nella libertà, purificandola da ogni falsificazione o riduzione e rispettandola e promovendola con saggezza e prudenza. Si tratta di condurre un'opera paziente e coraggiosa di responsabilizzazione che aiuti ogni persona a crescere in quella solidarietà che - per riprendere ancora alcune espressioni del Papa - è "la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti" . Si tratta, in ogni ambito educativo e nella concretezza dell'esperienza quotidiana, di comunicare alcuni valori fondamentali - quali il rispetto dell'altro, il senso della giustizia, la sincerità, l'onestà, l'accoglienza cordiale, il dialogo, la disponibilità disinteressata, il servizio generoso - che soli possono concorrere a far crescere uomini veri, giusti, generosi, forti e buoni, quegli uomini cioè che possono contribuire positivamente all'edificazione di una convivenza umana più pacifica. Tutto questo nasce dalla convinzione che - come si legge in un documento della Commissione "Giustizia e pace" della Conferenza episcopale italiana - la pace chiama certamente in causa le istituzioni, "ma è sempre il cuore dell'uomo che è chiamato a scegliere tra la forza e il dialogo, la competizione e la solidarietà" . Ne segue che il pur necessario cambiamento delle istituzioni resta impresa vana e impossibile se non cambia il cuore dell'uomo e se, quindi, attraverso l'opera educativa, l'uomo non viene aiutato ad essere pienamente se stesso, nel riconoscimento dell'altro e in un rapporto di prossimità e di fratellanza con tutti.

È, infine, un'azione, quella dell'edificazione della pace, che invita l'intera umanità a impegnarsi su vie nuove e a sviluppare la collaborazione fattiva di tutte le forze ideali che, riconoscendo il valore superiore dell'ideale della pace, partecipano alla sua costruzione. Ne segue la necessità di un dialogo, non ingenuo e cieco, ma lucido, tra le parti sociali delle diverse civiltà: un dialogo che orienti e induca a guardare alla pace non soltanto come a un'assenza di guerra, imposta con la forza, ma come a un'opera di giustizia inscritta nella realtà. In altri termini, oggi si chiede a tutti di costruire la pace, guardando agli interessi globali dell'intera umanità e adoperandosi per uno sviluppo solidale nel rispetto dei diritti di tutti e di ciascuno. E proprio in riferimento a queste esigenze di solidarietà e di difesa dei diritti possono essere ripresi e reinterpretati i criteri individuati nel passato per la problematica della "guerra giusta" . Ciò significa che autorità competente, giusta causa, retta intenzione, preoccupazione per le popolazioni civili, considerazione e rispetto delle proporzioni possono essere aspetti di una "griglia di lettura" che permette ai popoli di giudicare se l'agire quotidiano dei loro governi rafforzi o metta in pericolo la pace. E tale "griglia di lettura" può costituire il nucleo di una "teologia della pace", che teologi, politici e militari devono elaborare insieme.

3. QUALCHE RIFLESSIONE SULLA COSIDDETTA INGERENZA UMANITARIA

Un'altra questione - da distinguere opportunamente da quelli fin qui affrontati della guerra e dell'intervento armato a scopo difensivo - è quella che riguarda un intervento armato, o comunque supportato dall'uso di armi, orientato a finalità di carattere umanitario, attuato sia nel tentativo di comporre i rapporti tra differenti Paesi o di prevenire un conflitto, sia per ristabilire livelli accettabili di convivenza all'interno di un singolo Stato, i cui poteri pubblici non sono o non sarebbero più in grado di provvedervi in modo autonomo .
Il presupposto che fonda e spiega la possibilità di questa cosiddetta "ingerenza umanitaria" è dato dalla convinzione, che i diritti umani, da un lato, in quanto strettamente connessi con la dignità della persona umana, sono anteriori e preminenti a qualsiasi differenziazione o specificazione e, dall'altro lato, proprio per questo non hanno frontiere, perché sono universali e indivisibili. Ne segue - come ha scritto il Papa nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace di quest'anno - sia che "chi offende i diritti umani offende la coscienza umana in quanto tale, offende l'umanità stessa", sia che "il dovere di tutelare tali diritti trascende i confini geografici e politici entro cui essi sono conculcati", per cui "i crimini contro l'umanità non si possono considerare affari interni di una nazione" . Ne segue che, soprattutto in un tempo di interdipendenza come il nostro, il principio di non-ingerenza tra gli Stati, se inteso in modo assoluto, si rivela anacronistico e antistorico, oltre che non rispettoso della posta in gioco allorquando vengono conculcati i diritti degli uomini e dei popoli.

A partire da tutto ciò, contro ogni presunta "ragione" della guerra, va anzitutto affermato "il valore preminente del diritto umanitario e pertanto il dovere di garantire il diritto all'assistenza umanitaria delle popolazioni sofferenti e dei rifugiati" e, nello stesso tempo, "il dovere di individuare tutti quei modi, istituzionali e non, che possono concretizzare al meglio le finalità umanitarie" . Si apre qui un capitolo molto vasto e interessante, che non è possibile ora sviluppare, circa il senso, le condizioni e i limiti degli interventi delle diverse organizzazioni umanitarie e, in particolare, di quelle di ispirazione cristiana.

Dalle medesime considerazioni e quando i soli interventi umanitari non fossero sufficienti, deriva anche la legittimità-doverosità della più diretta "ingerenza umanitaria" che preveda anche l'eventuale uso delle armi. Così si esprime il proposito il Papa nel più volte citato Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace di quest'anno: "Evidentemente, quando le popolazioni civili rischiano di soccombere sotto i colpi di un ingiusto aggressore e a nulla sono valsi gli sforzi della politica e gli strumenti di difesa non violenta, è legittimo e persino doveroso impegnarsi con iniziative concrete per disarmare l'aggressore" . Una legittimità-doverosità che deve rispondere a precise e rigorose condizioni, così espresse: "Queste tuttavia devono essere circoscritte nel tempo e precise nei loro obiettivi, condotte nel pieno rispetto del diritto internazionale, garantite da un'autorità riconosciuta a livello soprannazionale e, comunque, mai lasciate alla mera logica delle armi".

Si tratta di un principio di carattere etico-giuridico prima che politico e militare, che sancisce il diritto-dovere della comunità internazionale di intervenire anche con la forza, se necessario, negli affari interni di uno Stato, quando sono in gioco i diritti fondamentali dei cittadini. Come tale esso sembrerebbe da considerare - più che nella linea della difesa da un male - nella logica degli interventi di ristabilimento dell'ordine pubblico. Si tratta, quindi, di interventi che possono anche arrivare a prevedere l'uso delle armi, ma come "extrema ratio" e dopo avere utilizzato tutta una serie di altri mezzi, oltre a quelli dovuti alla prevenzione e alla diplomazia. Siamo di fronte, in altre parole, a un intervento armato di tipo sussidiario, sia come "affiancamento" o "protezione" di operazioni umanitarie in corso, sia come modalità di "ristabilimento" dell'ordine pubblico.

È evidente che tale principio richiede una vera riconsiderazione dell'attuale assetto internazionale, in cui la sovranità dei singoli Stati è piena ed indiscussa, così da mettere in atto e portare a ulteriore sviluppo processi virtuosi di autolimitazione di essa da parte di ogni singolo Paese e da creare effettivamente spazi e condizioni per un'azione efficace, accolta e riconosciuta di organismi internazionali, come l'ONU, a loro volta riformati almeno quanto a poteri e a capacità rappresentativa. Si apre qui, tra l'altro, anche il grosso capitolo della giustizia internazionale e del suo ristabilimento: un ambito vastissimo e comprendente tutto quanto attiene al problema dello sviluppo e che va ben oltre il campo degli interventi estremi di carattere armato. Questi ultimi, comunque, andranno presi in considerazione là dove non ci fosse altra possibilità realistica, sempre però secondo quella logica sussidiaria a cui ho già accennato e che, come tale, è complementare ad altri interventi, anche di carattere punitivo o restrittivo della "libertà statuale", se così si può dire, in linea con la logica della "giustizia penale" che si applica all'interno degli Stati.

4. PRINCIPI PER UNA RICONSIDERAZIONE DELL'ATTUALE ASSETTO INTERNAZIONALE

Da tutto quanto siamo venuti dicendo fin qui, appare con sufficiente chiarezza la sempre più urgente necessità di dare vita ed efficienza ad istituzioni sovrastatali per il trattamento dei diversi conflitti. Lo richiedono sia la crescente interdipendenza a livello mondiale, sia il potere incredibilmente devastante degli armamenti, sia il già richiamato principio dell'ingerenza umanitaria. Tutto ciò rende, infatti, "impensabile che si possa provvedere a un giusto "ordine internazionale" - e, forse, alla stessa sopravvivenza dell'umanità - senza mettere in discussione il consueto modo d'intendere la "sovranità statale"" . La pace, in questo senso, richiede strutture politiche sovranazionali davvero efficaci nell'arginare le possibili sopraffazioni. Era già questo l'auspicio di Paolo VI nel suo discorso alle Nazioni Unite: egli, infatti, - partendo dalla convinzione che il bene comune universale pone oggi problemi a dimensioni mondiali che non possono essere adeguatamente affrontati e risolti che ad opera di Poteri pubblici aventi ampiezza, strutture e mezzi delle stesse proporzioni, di Poteri pubblici cioè, che siano in grado di operare in modo efficiente sul piano mondiale - così si esprimeva: "Chi non vede il bisogno di giungere così, progressivamente, a instaurare un'autorità mondiale, capace di agire con efficacia sul piano giuridico e politico?"

"Si apre qui" - come ha sottolineato Giovanni Paolo II anche nell'ultimo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace - "un campo di riflessione e di deliberazione nuovo sia per la politica che per il diritto, un campo che tutti auspichiamo venga coltivato con passione e con saggezza". E aggiungeva: "È necessario e non più procrastinabile un rinnovamento del diritto internazionale e delle istituzioni internazionali che abbia nella preminenza del bene dell'umanità e della persona umana su ogni altra cosa il punto di partenza e il criterio fondamentale di organizzazione".

Nel cercare di assolvere a questo compito importante e sempre più urgente, è necessario ripensare l'idea stessa di nazione. È necessario, infatti, superare ogni forma di nazionalismo e aprirsi ad una convivenza più accogliente e solidale. Si tratta di distinguere adeguatamente tra nazionalismo e patriottismo; di discernere tra sentimenti nazionali positivi e negativi; di riconoscere e difendere i diritti delle minoranze contro la tendenza all'uniformità; di rispettare e promuovere il diritto di ogni nazione di preservare la propria sovranità nazionale; di ricercare formule che, superando l'immediata identificazione tra "Stato" e "nazione", consentano a popoli diversi di vivere in un'unica entità statale vedendo ampiamente salvaguardati i propri diritti e la propria identità. L'ottica per realizzare questo necessario e urgente ripensamento dovrebbe essere quella della "cultura della nazione", vista come luogo nel quale si manifesta la sovranità fondamentale della società, quella sovranità per la quale l'uomo è supremamente sovrano: è proprio mediante tale cultura che la nazione esiste ed è in forza del diritto a tale cultura che la nazione ha diritto ad esistere . E, tuttavia, tutto ciò non si può né si deve identificare con nessuna sorta di nazionalismo. Le differenze nazionali non devono scomparire, ma piuttosto devono essere mantenute e coltivate come fondamento di solidarietà. Nello stesso tempo, però, non si può dimenticare che la stessa identità nazionale non si realizza se non nell'apertura verso gli altri popoli e attraverso la solidarietà con essi. Ne segue che la stessa nozione e realtà della nazione va mantenuta e interpretata entro la tensione vitale tra universalità e particolarità che caratterizza la condizione umana. In questa ottica, l'autonomia nazionale è sì un valore importante, ma non assoluto: prima degli interessi nazionali, infatti, ci sono gli uomini con la loro inalienabile dignità e, al di sopra delle tradizioni particolari dei singoli gruppi umani, si pone la comunità universale, da costruire nella giustizia, nella solidarietà e nella pace. In ogni caso, la nazione non si identifica a priori e necessariamente con lo Stato. Si danno e si devono dare, quindi, diverse possibili forme di configurazione giuridica della singole nazioni e di aggregazione tra di esse e ciò dovrebbe sempre avvenire, oltre che nel rispetto dei diritti delle minoranze, in un clima di vera libertà, garantito dall'esercizio dell'autodeterminazione dei popoli.

C'è pure bisogno - oggi più che mai in un contesto segnato da interdipendenza, globalizzazione, mondializzazione dei fenomeni economici, sociali e politici - di dare vita a un nuovo diritto internazionale. Le diverse iniziative politiche interne dei diversi Paesi non bastano più; occorrono la concertazione fra i Paesi e il consolidamento di un ordine democratico internazionale, tendenzialmente planetario, con istituzioni nelle quali siano equamente rappresentati gli interessi legittimi di tutti i popoli. Si tratta, quindi di mirare a un "governo mondiale", di cui quelli "regionali", compreso quello europeo, sono da vedere come tappa e, in qualche modo, prefigurazione.

Perché ciò possa avvenire occorre puntare al superamento della sovranità assoluta degli Stati. Questa è la Strada maestra per dare al mondo un ordine più giusto e una sicurezza stabile, arrivando ad una forma democratica e partecipata di governo mondiale, ossia a quella "autorità pubblica universale [...] dotata di efficace potere per garantire a tutti i popoli la sicurezza, l'osservanza della giustizia e il rispetto dei diritti", come si esprime il Concilio Vaticano II . Si deve, quindi, pervenire a una sempre più reale e corretta limitazione del principio di sovranità degli Stati. Questa idea mette in discussione le forme tradizionali della collaborazione internazionale, che si fonda ancora su relazioni pattizie tra gli Stati ed è diretta a contemperare i loro interessi particolari. È una strada da percorrere con saggezza e con decisione, nella certezza che, se la sovranità degli Stati - così come storicamente si è andata realizzando - ha rappresentato uno strumento di gestione particolaristica ed egoistica degli interessi nazionali, la sua limitazione non può che significare l'avvio concreto di un processo istituzionale capace di sfociare in un assetto di governo che serva un'autentica cultura di solidarietà internazionale. Si tratta, in altri termini, di porre in atto quei mutamenti anche istituzionali capaci di "elevare i rapporti tra le nazioni dal livello "organizzativo" a quello, per così dire, "organico", dalla semplice "esistenza con" alla "esistenza per" gli altri, in un fecondo scambio di doni, vantaggioso innanzitutto per le nazioni più deboli, ma in definitiva foriero di benessere per tutti. Solo a questa condizione si avrà il superamento non soltanto delle "guerre guerreggiate", ma anche delle "guerre fredde"; non solo l'eguaglianza di diritto tra tutti i popoli, ma anche la loro attiva partecipazione alla costruzione di un futuro migliore; non solo il rispetto delle singole identità culturali, ma la loro piena valorizzazione, come ricchezza comune del patrimonio culturale dell'umanità" .
Da un punto di vista più propriamente etico-culturale, occorre lasciarsi ispirare e guidare da quel concetto di "famiglia delle nazioni", lanciato nello stesso discorso tenuto dal Papa all'ONU. Giovanni Paolo II sottolineava allora che "il concetto di "famiglia" evoca immediatamente qualcosa che va al di là dei semplici rapporti funzionali o della sola convergenza di interessi. La famiglia è, per sua natura, una comunità fondata sulla fiducia reciproca, sul sostegno vicendevole, sul rispetto sincero. In un'autentica famiglia non c'è il dominio dei forti; al contrario, i membri più deboli sono, proprio per la loro debolezza, doppiamente accolti e serviti. Sono questi, trasposti al livello della "famiglia delle nazioni", i sentimenti che devono intessere, prima ancora del semplice diritto, le relazioni fra i popoli".

CONCLUSIONE

Concludendo questo mio intervento, vorrei partire da una considerazione di ordine pratico, che ci dice come, ancora oggi, purtroppo, in qualche caso, la guerra appare come inevitabile: quando non vi è un diverso modo di difendere un popolo che appare destinato all'annientamento, non c'è altra scelta.
A tale "inevitabilità", però, non ci si può arrendere. Dobbiamo continuamente porci la domanda circa quale possa essere l'alternativa all'uso delle armi. Tale alternativa va pensata, cercata, anche quando sembra impossibile. In questo senso, dobbiamo augurarci che la coscienza critica dei cristiani e di ogni uomo faccia ancora dei passi ulteriori.

Nel frattempo, occorre che la mobilitazione contro il male sia accompagnata da un'opera progettuale, che dia nuova consistenza alla pace, alla sicurezza, alla stessa dissuasione. Non ci si può rassegnare alla logica della guerra o della dissuasione armata: vorrebbe dire finire in una trappola mortale per l'umanità.
Come ho avuto modo di sottolineare in altre occasioni, si tratta di "disarmare gli animi, armando la ragione". È un invito e un appello che tutti ci coinvolge e che mi auspico possa essere accolto, così da dare un volto più bello e più umano - perché più pacifico - al secolo XXI.

(Relazione tenuta a Roma il 12.07.2000 durante il convegno a Palazzo Rospigliosi promosso dal Forum di Relazioni internazionali)

Il diverso può configurarsi come il nemico quando si accosta – o lo si accosta – e non c’è da meravigliarsi se l’interagire di forme di vita tra loro distanti desti reciproci sospetti.

Una "identità" in esodo...di Dalmazio Mongillo, o. p.

L'importanza di una corretta impostazione del problema

La riflessione sulla vita consacrata nella Chiesa e nel mondo d'oggi introdotta con un'analisi sulla "natura e l'identità" di essa (Lineamenta, Prima parte), risulterebbe più vigorosa e convincente se si chiarisse meglio la problematica che si vuole affrontare e la prospettiva nella quale la si considera. La vita consacrata prima che in se stessa e nei valori essenziali che la costituiscono, va vista nel disegno dell'autorivelazione di Dio manifestata in Gesù Cristo e condotta alla sua piena intelligenza e realizzazione nello Spirito. Questa rivelazione è per l'umanità e per la Chiesa, e il consenso, la recezione di essa, è per tutti fonte di unità e di pace, condizione di salvezza. Anche quando l'attenzione si concentra su un aspetto di essa è nell'insieme e dall'insieme che trae forza e vigore, e nel contesto del tutto arricchisce e vincola le decisioni e le responsabilità sia del tutto sia delle singole parti che lo costituiscono e che sono corresponsabili della pace del tutto, della sua armonia storica e finale. Diventa perciò un modo di procedere che depista l'attenzione dal vero problema attuale e non facilita la diagnosi dei mali che oggi devitalizzano il dinamismo interno e missionario della comunità cristiana nella molteplicità delle sue componenti, limitarsi a fare l'elencazione degli "elementi fondamentali" della vita consacrata considerata come una monade e attuare questa lettura con sottolineature così diverse che non si riesce a coglierne il criterio ispiratore e a percepire la meta a cui si vuole pervenire e i mali che si intende riparare.

Inizialmente vengono enumerati i tratti "comuni ed essenziali" a tutte le forme di vita consacrata in un'ottica astratta, universale, atemporale e la riflessione culmina nel richiamo dell'impegno spirituale (nn. 5-13) che la chiamata alla vita consacrata comporta. I nn. 27-28 rileggono la stessa realtà considerando le "res novae", le nuove espressioni e manifestazioni della vita consacrata (n. 27) e, sul piano negativo, i fenomeni di deterioramento favoriti dalle ambiguità e sfide contemporanee che variano secondo i contesti culturali; il tutto si abbina alla rilevazione degli aspetti maggiormente in crisi e di quelli da promuovere con consenso diffuso.

Queste ultime rilevazioni rendono ancora più inquietante il bisogno di diagnosticare le vere situazioni che ritardano la recezione di quanto ha proposto il Vaticano II sul mistero della Chiesa e delle entità che la compongono e, inoltre, di chiarire come e perché, nonostante il riconosciuto "profondo rinnovamento" spirituale e apostolico promosso dal Vaticano II (cf n. 25) e gli "essenziali progressi" (ivi) compiuti negli ultimi decenni nelle diverse famiglie religiose, e nonostante la fioritura di nuove forme di vita evangelica (n. 24), non possiamo ancora constatare che le cose vecchie sono passate e le nuove sono nate (cf 2 Cor 5, 17) e si attende quella primavera di fioritura, armonia, pace, sia per le famiglie della vita consacrata., sia per la Chiesa e la sua missione di evangelizzazione. L'identità che oggi si cerca di delineare è multidimensionale e ha parecchi livelli.

È quella costitutiva della vita consacrata nell'interno del più ampio mistero della Chiesa e del disegno di salvezza.

E quella relazionale interna alla Chiesa tutt'intera è se stessa nel disegno che il Padre ha rivelato e nel quale si riconosce come una comunione di comunioni costituite da un dono sacramentale o da una vocazione carismatica. La comunione con e tra tutte queste sue componenti è dignità e responsabilità personale e solidale. Nessun membro della Chiesa è vivo e vitale se non nella relazione reciproca nella medesima sorgente e nella orientazione comunionale verso lo stesso fine. Sottrarsi alla verità comune è nuocere a sé e alla comunione di cui si è parte. Questo riconoscimento non si identifica e non si valuta definendone gli elementi essenziali ma qualificando le relazioni. Le mutuae relationes di cui si trattò nel 1978 tra vescovi e religiosi, oggi vanno impostate in un contesto globale. Anche se hanno una loro attuazione a livello di vertice, diventano effettive quando coinvolgono e trasformano la vita delle singole comunità e delle persone, quando integrano i programmi di vita e orientano le attività quotidiane. Le mutuae relationes di oggi debbono partire da quelle interne alle singole famiglie, superando certi orientamenti verticistici e rivedendo la questione dei rapporti tra le loro componenti maschile-femminile-laicale ed estendersi a tutta la vasta gamma di comunioni che si sviluppano nella comunità cristiana e nell'umanità. Si pensi per esempio a quelle tra vita consacrata-presbiteri-laici e, nell'ambito di questi ultimi, alle relazioni tra uomini e donne, tra le famiglie, i popoli, le religioni, per far sì che tutti insieme cooperiamo alla giustizia e alla pace reciproca e con Dio. La vita consacrata è per la santità della Chiesa e del mondo e l'entità non ha confini, ha una sua specifica valenza ma non è settoriale.

L'identità della vita consacrata oltre che sul piano relazionale va ridescritta alla luce della situazione contemporanea. La vita consacrata si conosce e si apprezza nelle relazioni che vive e nella presenza che attua nella Chiesa e nel mondo. Oggi queste relazioni sono disturbate da tutta una gamma di situazioni che vanno da quelle estreme delle omissioni e dei silenzi, alla disattenzione e ai sofferti tentativi di realizzare una presenza significativa, alle incomprensioni che ostacolano l'intesa e la collaborazione, non è un mistero per nessuno il fatto che la vita consacrata nel suo sviluppo e nel suo dinamismo interno, non risplende per gioiosa e armonica comunione; nella vita ecclesiale ha una presenza che spesso è "esente"; nell'influsso sulle nuove generazioni del mondo occidentale è incerta e molto diversificata.

Un approccio ristretto al problema quale sembra quello seguito dai Lineamenta si presta a dar credito all'idea di coloro che pensano che l'attuale fiorire di interesse per la vita consacrata sia ispirato da un progetto di allineamento, di serrare le file, di eliminare i sintomi negativi (cf n. 28), fornendo parametri in base ai quali controllare la situazione e porre le premesse per riaffermare con forza il diritto dei pastori della Chiesa universale e locale a comandare, e il dovere della vita consacrata, particolarmente femminile, di obbedire e di partecipare alla realizzazione dei progetti pastorali.

Per un approccio all'individuazione del nodo del problema

La prima domanda del questionario - la percezione e la valorizzazione della vita consacrata, con particolare riferimento alla professione pubblica dei consigli evangelici - mette su una pista che meglio fissa l'attenzione sulla fisionomia occidentale contemporanea della vita consacrata. Essa non è né un'essenza, né una categoria logica, nè un'istituzione solo giuridica: è una famiglia di famiglie radunate per la grazia dello Spirito e vive nella comunione di comunioni che strutturino la comunità cristiana pellegrina e missionaria nel mondo. Come comunione sussiste nelle sue relazioni multiple, sempre nuove, da costruire, verificare, nelle quali si riconosce e che concorre a qualificare e perfezionare. Lo Spirito che di questa comunione è la sorgente e l'ispirazione, la guida in tutta la verità (Gv 16, 13) e, nelle diverse fasi della storia, le affida compiti che, nella linea della medesima fedeltà, sono sempre diversi e si qualificano per il crescente orientamento verso la perfezione finale, verso il non ancora del compimento. Ciò conferisce una fisionomia specifica all'identità comunionale che non si fissa solo in base a criteri e realizzazioni già consolidate e riconosciute, bensì in riferimento alla specificazione che assumono nelle ere della storia. Ciò non significa, è evidente, relativizzare i carismi, ma disporre di un criterio per l'identificazione delle loro esigenze. L'identità carismatica non si oppone a quella istituzionale, resta primaria nei confronti di essa, in essa si attua, in obbedienza allo Spirito che guida alla conformazione con Cristo che, nel tempo della Chiesa e in essa, porta a compimento la missione del Padre.

Nel delineare in qualche modo la complessa e multiforme realtà con temporanea prendo come punto di riferimento il cammino promosso e iniziato dal Vaticano II. Esso in gran parte ha segnato lo spartiacque di un processo che negli anni successivi è cresciuto in intensità ed estensione e che ha avuto riflessi determinanti sull'autocomprensione e sulla valutazione ecclesiale ed umana della vita consacrata. Il Concilio è stato il kairos che ha risvegliato e beneficamente inquietato una situazione a dir poco di stallo.

Ridurrei a tre i dati veicolatori di stimoli di rinnovamento.

* Il legame intimo tra Chiesa e vita consacrata. Questa sussiste, è se stessa, nella, con e per la Chiesa vivificata dallo Spirito che guida l'umanità e il cosmo alla pienezza della verità comunionale in Cristo per la gloria del Padre.

* Il fatto che la vita consacrata, radunata dal e nel carisma di fondazione, è una realtà carismatica.

* Infine l'autopresentazione della Chiesa come mistero-comunione-missione che inizia e affretta la parusia, la piena manifestazione del Regno ed è costituita missionaria di unità e di pace nel mondo.

Queste tre verità hanno messo in moto un profondo processo di rinnovamento per la vita consacrata. Esso si è verificato soprattutto a livello della ricerca della sua identità carismatica, della revisione delle costituzioni e dell'apertura missionaria delle comunità più vive e dinamiche. La missione è stata sempre più chiaramente vista non nella linea della riproduzione interna delle comunità ma della presenza solidale e di servizio nel mondo, soprattutto presso i settori più poveri dell'umanità. Questo cammino ha coinciso con il verificarsi di molte e radicali trasformazioni in tutti i settori della vita personale e associata. La pretesa di elencazioni esaustive è inutile e improba. Si pensi, per citare qualche esempio, alle rivoluzioni nell'assetto politico ed economico dei popoli dell'Est-Europa e dei Paesi nei quali la vita consacrata occidentale ha avuto una presenza più lunga e incisiva; all'affermarsi di nuove relazioni ecumeniche e tra le religioni; alla radicalità della lotta per i diritti umani e la giustizia sociale; all'affermarsi e dilatarsi di nuove epidemie e piaghe sociali, ecc. Il tutto ha alimentato grandi speranze e profondi conflitti, ha fatto percepire il peso delle strutture tradizionali inadeguate alla dinamicità, complessità, precarietà, evoluzione delle situazioni odierne. Le speranze sono diventate contesto di belle e nobili iniziative, le resistenze hanno prodotto divisioni, discussioni che hanno minato seriamente l'intesa comune sulla stessa identità carismatica delle famiglie, sulla rilevanza pubblica di essa, sull'unitarietà e la comunitarietà degli stili di vita, sulla qualità e la portata delle relazioni con la gerarchia e con i movimenti ecclesiali e politici e con le altre comunioni specifiche che operano nella Chiesa.

Si è parlato di Chiese parallele, di settarismi e si sono determinate fratture e separazioni tristi e dispersive, ecc. Il tentativo di ovviare a queste situazioni ha assorbito enormi energie e in molti è maturato il dubbio se sia ancora il caso di prenderle in considerazione o di impegnarsi seriamente nella missione nella speranza che siano le cose nuove a disincantare le caduche. Le difficoltà di armonizzare pacificamente, vitalmente, reciprocamente, comunitariamente queste diverse esigenze sono però vive e ritardano la partecipazione alla missione della Chiesa, per liberare e potenziare "in" e "con" l'umanità, le relazioni di appartenenza, condivisione, convergenza che rendono giusto, pacifico, amico di Dio, il cammino storico. Il fatto che oggi non sussistono le condizioni perché in tutta la Chiesa - e perciò nella vita consacrata - si realizzi questa condivisione mi pare un elemento qualificante e imprescindibile della diagnosi e soprattutto della terapia che il Sinodo propone. Per vocazione la Chiesa deve operare perché questa vasta rete di rapporti si sviluppi nella verità e carità e sia immagine e riflesso della Comunione Trinitaria (CS 24).

Identità in tempo di esodo

1. La descrizione dell'identità della vita consacrata non può prescindere dalla esplicitazione delle relazioni in cui sussiste e in cui si configura nel contesto contemporaneo. È perciò fondamentale promuovere ed evidenziare le condizioni e le prerogative del riconoscimento affettivo ed effettivo da parte di tutta la comunità ecclesiale, dell'insostituibile e imprescindibile presenza della vita consacrata nella sua identità di comunione di mistero e di santità. La vita consacrata è dono dello Spirito al Cristo e alla sua Chiesa per la gloria del Padre occorre affermare con assoluta chiarezza che nessun fedele può vivere in amicizia e docilità con lo Spirito se non riconosce e non si adegua a questo suo dono alla Chiesa e a ciascuno dei suoi membri. La vita consacrata non è una realtà opzionale, senza di essa la Chiesa non è quella che Gesù e lo Spirito vivificano e conformano. Non è, però, neppure opzionale per la vita consacrata la sollecitudine e la missione per la santità della Chiesa. Essa non è mandata per fare qualsiasi cosa, per svolgere attività di supplenza, ha una sua inequivoca e specifica missione la cui qualificazione concreta e specifica deve essere autenticata dai pastori. Il servizio del Sinodo dei vescovi, in questo senso, è dono prezioso e servizio di portata eccezionale. Tutta la Chiesa, e la vita consacrata in essa, ha la responsabilità di chiedere e volere che la vita consacrata sia riconosciuta per quello che la Chiesa stessa ha affermato: dono di santificazione per se stessa nella Chiesa e nell'umanità. Se omette questa sollecitudine non può in alcun modo vivere in pace con Dio. La fedeltà alla comunione e alla missione integra e struttura la fedeltà a Dio. Poiché questa fedeltà oggi si vive in contesto di rapidi e profondi cambiamenti ed è caratterizzata da conflittualità profonde e acute tra carisma e istituzioni (costituzioni, regole, tradizioni, ecc.), dalle lacerazioni prodotte dall'invecchiamento e dalla carenza di persone, dalla necessità di lasciare opere cui vincolano legami affettivi intensi, da incertezze sul domani, da appelli urgenti per nuove presenze, e anche in rapporto a tutto ciò che occorre discernere e qualificare con indicazioni concrete e orientamenti fecondi l'identità personale e comunitaria.

2. Per usare un'espressione di matrice biblica, si può qualificare il nostro come tempo di esodo. Siamo sempre pellegrini, in cammino verso la patria. La vita consacrata è per vocazione testimone di questa condizione che impone di tenersi all'erta, vigili docili nel discernere e seguire le indicazioni dello Spirito che orienta verso la meta. Questa itineranza si vive con maggiore intensità quando occorre inventare e realizzare nuovi assetti personali, comunitari, ecclesiali, interumani, relazionali. L'esodo è un tempo di grazia e di liberazione, è denso di gioie e di teofanie, porta nel deserto e in esso mette in contatto con il mistero luminoso e conformante della presenza di Dio. Esso però è anche il tempo delle prove, dello spogliamento, delle tentazioni, delle recriminazioni. La perseveranza fedele in questa realtà complessa esige contemplazione, digiuno, implorazione, lotta, discussioni. ecc. Il tutto comporta investimento e logorio di energie, concentrazione di potenzialità, capacità di rigenerare gli entusiasmi, povertà e vigilanza per non sottrarre persone e creatività alle urgenze indilazionabili dell'evangelizzazione, della testimonianza, della solidarietà: persone e comunità tanto occupate di sé, dei problemi interni e relazionali, non riescono a riservare disponibilità all'ascolto di ciò che lo Spirito dice alla Chiesa. Tutto ciò ha riflessi molto importanti sul piano delle prerogative nelle quali le persone e le comunità oggi debbono coltivarsi. L'oggi, può essere vissuto in fedeltà solo da persone profondamente innamorate del Signore e intensamente contemplative. La vera questione non è se oggi si può essere contemplativi, ma se si può essere fedeli e onesti senza coltivarsi costantemente nella contemplazione del mistero, senza tener viva nella comunità credente la nostalgia della comunione storica e finale con Dio. L'urgenza del vigilare e operare perché il popolo si tenga in esodo, Mosè l'attesta in modo inequivoco, esige persone che vivano in costante unione, amicizia, contemplazione di Dio. Solo nella relazione con lui maturano e si purificano le prerogative di mediazione, di riconciliazione, di perseveranza, che integrano la personalità di coloro che rendono testimonianza della speranza (cf 1 Pt 3,16). Solo persone dialogali, sagge, forti e perseveranti nel gestire la solitudine e l'isolamento che si accompagnano ai cammini fedeli possono impedire che la comunicazione diventi tattica, temporeggiamento accomodamento. Qualcuno ha osservato che lo spirito evangelico non è tanto forte da vincere la logica dell'interesse delle istituzioni (Quinzio). Ciò è vero a corto termine e quando le comunità e le persone in esodo omettono di vigilare e non hanno più l'autorevolezza e la forza di distruggere gli idoli che il popolo si costruisce e di riportarlo a riconoscere e assecondare l'alleanza. La vita consacrata deve imparare a trarre dalla sua origine carismatica, la luce e la forza che la sostiene nel non tradire la vocazione e la missione, nonostante le sofferte resistenze personali e sociali, interne ed esterne. Nei tempi di transizione la fedeltà al carisma si esprime nella vigilanza e nel discernimento per far sì che non si attenui la nostalgia della terra promessa e le comunità abbiano la forza di liberarsi delle armature che impediscono l'agilità di movimento necessaria per lottare contro Golia (1 Sam 17, 32 ss).

Il carisma è dono dello Spirito; abilita coloro che ne vivono, ad implorare, accogliere (disporre della forza di perseverare nella riconciliazione intelligente e amorosa del mondo con Cristo nel Padre). Nessuna persona può vivere in santità se omette di essere fedele al carisma e questa fedeltà oggi passa attraverso la perseveranza nella conversione alla cooperazione nella riconciliazione. Descrivere qual è la vera grazia di Dio, per quali vie si esprime la fedeltà ad essa, quali "strutture" ne potenziano e assecondano le espressioni, esortare e sostenere nel restare saldi in essa, sapendo che i fratelli e le sorelle sparsi nel mondo subiscono le stesse sofferenze (cf 1 Pt 5,9 ss.) è indicare la via per la quale la vita consacrata si rigenera e vive. Le grandi trasformazioni che si verificano nella storia sono opera delle persone che seguono la via di Gesù Cristo, il giusto per gli ingiusti. Le piaghe che in lui hanno prodotto le ferite inflitte dalla perversità umana di cui egli si è fatto carico, indicano da quale sorgente scaturisce la guarigione dei mali umani e per quali vie il pastore riconduce le pecore erranti (cf 1 Pt 2, 21.25; 3,18).

La vita e la forza di irradiazione della comunità è la comunione. La resistenza. a volersi in comunione reciproca; la lentezza nel darsi autentiche strutture di comunione e nel discernere e attuare comunitariamente e reciprocamente quelle adeguate; la difficoltà. a consentire sulle esigenze del carisma e assumerle nella trasformazione e programmazione del vissuto, sono aspetti che evidenziano le situazioni di crisi, potenziano gli individualismi, le appartenenze con riserva, le iniziative di gruppo, tutte le tendenze che favoriscono divisione e dispersione, che insidiano la vitalità delle comunità e stancano la fedeltà e la perseveranza delle persone. La rigenerazione di tutta la comunione ecclesiale che scaturisce, vive e culmina in quella trinitaria è oggi compito primario e indilazionabile. La difficoltà di attuarlo è il segno più inequivoco delle resistenze che incontra l'inculturazione del vangelo e la chiamata a lasciarsi accogliere nella comunione trinitaria a confidare in quella dei santi e delle sante ispirandosi al cammino delle prime comunità cristiane (At 2,42 ss.): l'esperienza attesta che non sono insormontabili. La vitalità, o la carenza della comunione effettiva e affettiva, costituisce la questione centrale della vita consacrata e della Chiesa in cui sussiste.

3. Illustrare le prerogative, le esigenze e le dimensioni di questa comunione di comunioni; orientarne le condizioni di crescita e di sviluppo; discernere le espressioni che la rendono vitale e il contesto in cui si purificano e crescono, smascherare le pseudo manifestazioni di fedeltà, sono altrettante vie che affrettano il superamento di quella condizione di stallo che contestualizza la sofferenza e la mancanza di vitalità di molte comunità cristiane contemporanee. Non alimentano comunione le attese, le pretese, le incomprensioni, le strutture di manipolazione o di comodo che quale che ne sia la sorgente prossima, mettono in crisi i rapporti e potenziano gli individualismi, favoriscono le iniziative non condivise, nutrono i pregiudizi, le diffidenze, le incomprensioni, ecc. Queste situazioni fanno sì che ciascuna componente della realtà ecclesiale si ritenga falsamente percepita e riduttivamente valorizzata, e perciò legittimata a impostare e vivere male le relazioni interne ed esterne e a rinchiudersi nell'indifferenza nei processi di autorealizzazione o nell'autocommiserazione o nell'accusa, terreno fecondo del malessere che impedisce di perseverare insieme nella via della pace (Lc 1,79; 19, 42; Rm 3,17).

Conclusione

Questa lettura diventerebbe deviante qualora da essa si traesse la conclusione che la questione è morale, intendendo questo termine in accezione riduttiva e che, conseguentemente, la soluzione di essa vada cercata sul piano normativo, in provvedimenti e controlli dettati da una rivalorizzazione dell'obbedienza non sottoposta a una radicale conversione nei parametri di riferimento che ne normano le espressioni; essa è e resta essenziale nella linea del riferimento permanente all'autorivelazione del Padre e all'obbedienza di Gesù. Senza un'esperienza autentica di Cristo non c'è vita cristiana e consacrata, e questa non si realizza al di fuori dell'obbedienza al Cristo che nella sua Chiesa gerarchicamente ordinata, opera quello che piace al Padre, si fa carico del peccato del mondo per liberarlo nella sua carne. La conversione della Chiesa a quanto afferma di se stessa nella LG esige il riconoscimento fedele, esistenziale, dinamico, strutturale delle vocazioni specifiche in cui sussiste la promozione della loro comunicazione. Come in altre svolte importanti della storia della Chiesa, il rinnovamento della vita consacrata è frutto e espressione di un più vasto movimento di evangelismo che la rinnova tutta e assume configurazione specifica nella vita consacrata, la quale spinge in questa via in proporzione alla docilità a lasciarsi muovere dalla forza del carisma dello Spirito che la vivifica nella e con la Chiesa e tutto opera per la santificazione del Corpo di Cristo nella sua obbedienza al Padre (cf 1 Pt 1, 2). La comunione ecclesiale è riflesso e via a quella trinitaria e solo nella conversione permanente a questa sua sorgente è autentica. Gli aspetti socio-culturali della questione da soli non sono sufficienti a operare quel cambiamento da tutti auspicato e di primaria importanza per la pace delle famiglie religiose e la vitalità della loro missione.

La conversione alla comunione ha riflessi morali ma è fondamentalmente frutto di azione e implorazione di persone che si lasciano conformare nella misericordia del Padre e che ne traggono ispirazione e vitalità dal dinamismo delle missioni trinitarie creduto, celebrato, assecondato, implorato nella fedeltà alle Costituzioni e alle esigenze attuali della missione. La teologia oggi deve promuovere la conseguenza verso una più comune e condivisa visione del progetto di Dio nel quale la Chiesa, nella pluralità delle comunioni in cui sussiste, si riconosca radunata per essere riconciliata alla disponibilità totale a cooperare alla volontà salvifica universale del Padre nella luce di Ef 1 e di 2 Cor 5,16 ss.

Venerdì, 12 Gennaio 2007 02:04

Lezione Settima. Il dono della terra

Lezione Settima
Il dono della terra


Introduzione

Se Israele, all’uscita dalla terra d’Egitto, non avesse avuto una meta verso la quale dirigersi, sarebbe stato condannato a girovagare da nomade per il deserto, ai margini dei paesi occupati da altri popoli. Il suo esodo sarebbe stato un evento puramente spirituale: un’uscita verso la libertà del servizio di Dio, ma senza un segno fisico del dono divino. In realtà la vita umana non si realizza senza un rapporto con le risorse della terra: anche il nomade dipende dal regime economico realizzabile in zone non coltivate e, giuridicamente, non lottizzate. La scarsa vegetazione desertica consente la pastorizia e l’attendamento presso le oasi e le fonti d’acqua.

Venerdì, 12 Gennaio 2007 01:38

Oltre il deserto (Guido Davanzo)

La sofferenza è una dura prova della nostra maturità umana e cristiana, fa cadere le pretese sicurezze, mette in crisi le motivazioni ideali non adeguatamente approfondite e assimilate, stimola una revisione della nostra visuale di vita e sul nostro modo di capire e accettare Dio.

Le Chiese libere, una realtà in espansione
di Marino Parodi

Un capitolo di notevole importanza nel contesto del protestantesimo moderno è costituito dalle Chiese libere. Si tratta di un mondo assai variegato, complesso, estremamente fluido e a tratti sfuggente, di conseguenza non sempre facile da cogliere e da interpretare.

Cominciamo col premettere che per Chiesa libera si intende qualsiasi denominazione, associazione o comunità cristiana che corrisponda a due caratteristiche di fondo: libertà da qualunque vincolo governativo o politico nei confronti di qualunque istituzione, statale o religiosa; autonomia sul piano dottrinale e teologico. Le Chiese libere sono una realtà in continua espansione, soprattutto nell’America del Nord e nei Paesi di lingua tedesca: l’accennato carattere “fluido” del fenomeno rende praticamente impossibile qualsiasi valutazione numerica, benché approssimativa.

Per certo sappiamo che esistono nel mondo svariate migliaia di Chiese libere, nelle quali si riconoscono altrettanto svariati milioni di fedeli. Il fenomeno delle Chiese libere è tuttora in ascesa, da circa un trentennio, nelle aree geografiche appena citate, ma è ancora troppo recente per interessare il nostro Paese, nel quale normalmente le novità riconducibili alla Riforma approdano in un secondo tempo, per lo più a seguito di un certo consolidamento già raggiunto in Paesi a tradizione protestante. Ad aderire a una Chiesa libera sono sia cristiani provenienti da altre comunità, nelle quali non hanno trovato la spiritualità che cercavano, sia neofiti attratti dall’essenzialità e dall’apertura che normalmente lì si trova.

Due grandi famiglie

Schematizzando non poco, possiamo raggruppare le Chiese libere in due grandi famiglie. Il primo gruppo si può ricondurre alle Libere Chiese evangeliche, il secondo alle libere Chiese che si richiamano ai principi e alla filosofia del New Thought. Le prime, parecchie delle quali negli Stati Uniti, hanno dato vita alla federazione Libere Chiese evangeliche d’America. Sono, sul piano teologico e dottrinale, più vicine al protestantesimo tradizionale, di impostazione luterana. Ciò è abbastanza evidente da un semplice sguardo ai principi alla base della Dichiarazione di fede, sottoscritta da tutte le Chiese aderenti alla federazione. Ossia, totale fede nelle Scritture (Antico e Nuovo Testamento), in quanto parola di Dio; fede nella Trinità e in Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, nostro redentore in virtù della sua morte sulla croce e risurrezione, asceso in cielo alla destra del Padre; fede, nello Spirito Santo.

La sua presenza salvifica nella vita del fedele e della Chiesa viene particolarmente sottolineata, in particolare sul piano della rigenerazione dell’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, caduto nel peccato, comunque assolutamente capace, proprio grazie all’azione dello Spirito, di rinascere a vita nuova. E ancora, la salvezza è attribuita all’opera redentrice compiuta una volta per tutte da Gesù Cristo; i sacramenti del battesimo e dell’eucaristia vengono conservati, ma non considerati strumenti di salvezza. Inoltre, «la vera Chiesa è costituita da tutti coloro i quali, in virtù della loro fede salvifica in Gesù Cristo, sono stati rigenerati dallo Spirito Santo e sono riuniti nel corpo di Cristo, del quale egli è il capo».

Essendo Gesù Cristo il solo Signore capo della Chiesa, a ogni Chiesa locale è riconosciuto il diritto di regolare la propria vita. Altrettanto profonda ed essenziale è l’attesa nella «imminente venuta di Nostro Signore Gesù Cristo, a livello della vita personale» del fedele come sul piano storico. Infine, segue la fede nella risurrezione della carne, nella vita eterna e nel giudizio universale.

Per quanto riguarda l’altro grande gruppo, ci troviamo di fronte a una rilettura delle Sacre Scritture che possiamo sintetizzare in base ad alcuni principi compresi come essenza di quel cristianesimo dei primi secoli che tali Chiese vogliono riscoprire. Alla base di tale rilettura vi è come si accennava, il New Thought, nuovo pensiero, scuola teologica e di pensiero e, a un tempo, libero filone protestante risalente alla prima e alla seconda metà dell’Ottocento americano, pur nella diversità dell’impostazione corrispondente alle altrettanto diverse personalità dei suoi maestri (R. W. Emerson, Mary Baker Eddy, le sorelle Brooks e altri ancora), caratterizzato dall’idea di fondo della presenza di Dio nella vita umana e delle conseguenti, enormi, possibilità create da questa.

La consapevolezza della profonda unione tra Dio e la natura umana avviene sulla base dell’intuizione spirituale e viene vista come la fonte di una radicale trasformazioni dell’esistenza a livello di salute, rapporti, lavoro. Il principio del “libero esame” delle Scritture è inoltre tenuto in gran conto. Il regno di Dio è in noi, che siamo tutt’uno con il Padre, e un’enorme importanza è attribuita all’amore del prossimo e al perdono, mentre si sottolinea la necessità di ricambiare il male col bene. La guarigione attraverso la preghiera e la mente, ossia la guarigione spirituale, costituisce un cardine irrinunciabile, così come il costante perfezionamento, cioè l’evoluzione interiore che dimostra la natura in fondo divina dell’essere umano, è visto come lo scopo dell’esistenza.

Dio viene percepito come saggezza universale, amore incondizionato, vita eterna, verità e armonia assoluta, forza suprema, pace e gioia totale, pienezza. In lui noi viviamo, ci muoviamo e abbiamo il nostro essere. Proprio in considerazione dell’unità tra natura umana e natura divina, tutte queste caratteristiche sono potenzialmente messe a disposizione dell’uomo. Di conseguenza, una certa enfasi viene posta sul fatto che il regno di Dio comincia già qua e ora. La realtà è vista come causata dai nostri pensieri e viene attribuita importanza pure alla legge di causa ed effetto. La consapevolezza della vita eterna, e quindi della nostra natura di esseri spirituali che si trovano a vivere un’esperienza in questa dimensione terrena, costituisce un altro punto-chiave.

Un universo spirituale

Di qui la sdrammatizzazione della morte, vista come approdo a uno stato di coscienza più elevato. L’intero universo è visto come una creatura spirituale, governato da leggi parimenti spirituali, al di là di ogni apparenza. Vale la pena di ricordare che alcuni di questi principi, in particolare per quanto riguarda le potenzialità della mente umana e la natura dell’universo, i quali una volta potevano sembrare stravaganti assiomi, sono stati confermati da importanti ricerche scientifiche del secolo scorso. Basterà dire che la natura fondamentalmente spirituale dell’universo, nonché il conseguente carattere “inconsistente” della materia, sono stati constatati dalla fisica quantistica, mentre la psicologia da sempre ha superato ogni dubbio circa le straordinarie potenzialità della mente: molti studiosi sono convinti che, per lo più, gli esseri umani non utilizzano che il cinque o sei per cento di tali potenzialità.

Se le Chiese libere del primo tipo sono imparentate col luteranesimo, pur attualizzato e reinterpretato con la massima libertà, quelle del secondo piuttosto con la Christian Science (cf VP 7/2006, “Salute e guarigione” pp. 84-86). La divisione non è peraltro, a livello concreto, così rigida, non solo perché, proprio in quanto “libere”, al di là dei principi di fondo del cristianesimo stesso, non vi è molto spazio per irrigidimenti dottrinali, ma anche perché le une come le altre nascono dalla stessa esigenza di fondo. Ossia quella di vivere la fede cristiana come un’esperienza spirituale capace di trasformare profondamente l’esistenza. Non a caso la guarigione, che è tematica centrale per le seconde Chiese, è tenuta in gran conto anche presso quelle più vicine al protestantesimo tradizionale.

i quali le donne fanno la parte del leone -scrivono libri di successo, per lo più dedicati a tematiche spirituali, compaiono spesso in televisione, scrivono su giornali autorevoli, tengono conferenze gremite dal pubblico, riescono insomma in vario modo a riportare il cristianesimo al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica.

Non meno interessante è poi notare il ruolo di grandi confidenti che essi assumono nei confronti dei fedeli, in un certo senso paragonabile a quello di cui godevano i nostri parroci nella cultura contadina e patriarcale, riuscendo a incarnare al tempo stesso la guida spirituale e il terapeuta, l’amico autorevole e il consulente professionale di fiducia. Non a caso, il libero protestantesimo cerca di conciliare, in linea di principio, l’attenzione alla dimensione sociale e professionale tipica della Riforma con la solidarietà caratteristica del cattolicesimo. Le Chiese libere più orientate verso il protestantesimo tradizionale dedicano largo spazio alle attività di volontariato, mentre quelle del secondo, pur non trascurando tale dimensione, dedicano maggiore attenzione alla formazione spirituale sul piano personale, sulla scia dell’insegnamento del New Thought che riconduce la guarigione, intesa nel senso più lato possibile, come superamento della sofferenza e scoperta della dimensione della gioia, alla valorizzazione delle facoltà da Dio donate all’uomo, prima fra tutte la preghiera.

La guarigione, d’altra parte, è vista non solo come soluzione del problema (di salute o di altro genere), bensì come scoperta della propria natura di origine divina - quindi orientata verso l’amore a Dio, a sé e al prossimo -, di cui la soluzione del problema è poi la logica conseguenza. Pur prive della risonanza istituzionale, le Chiese libere sono orientate in senso ecumenico e la stessa proposta di cristianesimo essenziale di cui esse si fanno portatrici viene recepita con interesse da molte comunità di più antica tradizione.

(da Vita Pastorale, 11, 2006)

Associazione mariologica interdisciplinare italiana
La vergine con i cristiani nel mondo attuale
di Alberto Valentini *

Con l’atto costitutivo dell’associazione nel 1990, si è realizzato il sogno degli studiosi e degli innamorati della Madre del Signore. L’obiettivo è di illuminare la figura della Vergine Maria nel contesto delle scienze teologiche e umane; nello stesso tempo si desidera incentivare sempre più il dialogo ecumenico, talvolta difficile.

L’idea di costituire anche in Italia un’associazione di studi mariologici, sull’esempio di quelle esistenti in altre nazioni, era stata presa in considerazione negli anni cinquanta del secolo scorso, ma per diversi motivi non si era realizzata.

Più di trent’anni dopo, il problema riemerse nell’ambito del Collegamento mariano nazionale: il 12.10.1988, nel corso di una verifica circa le attività svolte dal Collegamento, il direttore Alberto Valentini evidenziava la necessità di un’istituzione italiana di ricerca in campo mariologico.

Cenni storici

Il progetto di una nuova associazione scientifica appariva ambizioso e stimolante, ma comportava non poche difficoltà. Per prima cosa si trattava di sondare il terreno e preparare l’ambiente: con questo intento i monfortani Stefano De Fiores e Alberto Valentini iniziarono degli approcci presso alcuni centri universitari romani.

Incoraggiati dai risultati d itali incontri preliminari, si decise di convocare - con lettera firmata da Salvatore Meo (allora preside del Marianum), De Fiores e Valentini - circa trenta studiosi di teologia, uomini e donne, provenienti da vari centri universitari e istituzioni culturali d’Italia, per studiare insieme il progetto, le finalità e i compiti della nuova associazione.

Nel giro di alcuni mesi si ebbero tre incontri, rispettivamente il 21.12.1989, il 15.2 e il 5.4.1990, sempre a Roma, presso il Santuario di Maria Regina dei Cuori. Nella riunione del 5 aprile si pervenne alla costituzione dell’Ami, Associazione mariologica interdisciplinare italiana, sottoscritta da venticinque soci fondatori. L’atto legale, costitutivo dell’associazione, venne firmato davanti al notaio il 9.5.1990.

Membri e finalità

Attualmente l’associazione (sede: via Cori, 18/A — 00177 Roma, telefono 06.83.39.63.02 [segretario Enrico Vidau], www.mariology.it, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.) conta un centinaio di soci tra ordinari, onorari e sostenitori sparsi in tutta Italia. Tra di essi ci sono anche non italiani, per lo più residenti a Roma. Soci ordinari sono coloro che, in possesso di laurea o licenza in mariologia o in scienze teologiche, oppure di laurea in scienze umane, sono attivamente interessati alla ricerca mariologica. Soci onorari sono studiosi di riconosciuta competenza in campo mariologico o che abbiano acquisito particolari benemerenze nel promuovere le finalità dell’associazione. Soci sostenitori sono quanti in diversi modi cooperano alle attività e iniziative dell’Ami.

Dallo statuto dell’associazione emergono alcune note imprescindibili - come la scientificità e l’interdisciplinarità, l’apertura ecclesiale, il dialogo col mondo contemporaneo - che qualificano l’Ami, ne giustificano la ragion d’essere e ne precisano gli obiettivi. L’Associazione mariologica italiana intende inserirsi con umile, ma consapevole determinazione, nel contesto delle scienze teologiche e umane, per illuminare la figura della Vergine Maria all’interno dell’esperienza cristiana e nel cammino del popolo di Dio in mezzo al mondo.

L’associazione, che non ha fine di lucro, si prefigge i seguenti scopi:

1 promuovere la ricerca scientifica concernente la Vergine Maria Madre di Gesù, nel contesto della fede ecclesiale, con apertura alla dimensione ecumenica, in dialogo con le scienze teologiche e umane, e in collaborazione con analoghe associazioni a livello internazionale, specialmente europeo;

2 elaborare adeguati criteri teologici per illuminare la pietà mariana, prestando attenzione agli orientamenti pastorali della Chiesa italiana;

3 favorire lo studio della mariologia nei suoi vari aspetti, specie tra i giovani ricercatori e gli operatori di pastorale, con particolare riferimento alla tradizione italiana.

Per realizzare questi scopi, l’Ami ricorre alle seguenti iniziative:

• organizzare incontri, convegni, giornate di studio;
• pubblicare e diffondere libri e riviste a carattere mariologico;
• elaborare una banca dati riguardanti Maria, a servizio di tutti e in particolare degli studiosi;
• svolgere qualunque altra attività diretta a incentivare la ricerca mariologica e integrare gli ambiti suddetti.

Pubblicazioni

Organo ufficiale dell’associazione è la rivista scientifica semestrale Theotokos. Ricerche interdisciplinari di mariologia, sorta a Roma nel 1993. Dal 1993 al 2000 la rivista, in una serie di ampie monografie interdisciplinari, ha trattato “Maria secondo le Scritture”. Dal 2001 a oggi ha continuato con studi sistematici a studiare “Maria nei Padri e scrittori ecclesiastici dei primi secoli”.

Alla rivista Theotokos è stata affiancata la collana “Biblioteca di Theotokos”, che raccoglie contributi di valore circa gli aspetti più significativi e attuali della figura di Maria, seguendo i vari approcci delle scienze teologiche e umane. Essa raccoglie in particolare gli Atti di incontri svolti in Italia e dei colloqui internazionali di mariologia. Un’ulteriore serie di studi, “Nuovi percorsi di mariologia”, in linea con, gli obiettivi dell’Ami, intende promuovere il rinnovamento della ricerca mariologica, pubblicando gli Atti dei convegni nazionali dell’Ami. Infine l’Associazione mariologica italiana sta realizzando un arduo e affascinante progetto, con l’impegnativa edizione di Monumenta italica mariana. Studi e Testi. Con essa si intende sottrarre all’oblio opere e documenti della millenaria, ricchissima e variegata tradizione mariana presente in Italia.

Come si vede, sono tante le attività e i campi d’interesse dell’Ami: dalla Bibbia alla patristica, alla teologia, alla liturgia, alla catechesi, fino all’arte e alla bellezza estetica, ambiti nei quali la figura della Vergine è presente in maniera puntuale ed esemplare. Proprio alla dimensione della bellezza, alla via pulchritudinis in mariologia, l’Ami ha dedicato gli ultimi quattro convegni annuali, cercando di illuminare e valorizzare questo sentiero poco battuto, ma indubbiamente promettente e imprescindibile. Si tratta di un’indagine, in qualche misura pionieristica, al servizio della mariologia e della riflessione teologica, in sintonia con la ricca e molteplice sensibilità contemporanea.

* presidente Ami, professore di Nuovo Testamento all’Università gregoriana, Roma, e mariologia biblica al Marianum

(da Vita Pastorale, novembre 2006)

Bibliografia

L’Ami opera fondamentalmente su un duplice versante: la ricerca scientifica, mediante un approccio serio e critico alla mariologia, e il servizio alla fede e alla pietà del popolo di Dio. Di questo duplice orientamento sono espressione i volumi indicati, utili a diversi lettori e operatori di pastorale. Marraccii HiIippolyti, Biblioteca mariana. Trascrizione del testo originale edito in Roma nel 1648, Edizioni Ami 2005, Roma, pp. 1024; Langella A. (ed.), Via pulchritudinis e mariologia, Edizioni Ami 2003, Roma, pp. 304; Dall’Aglio W. - Vidau E. (edd.), La Madre di Dio per una cultura di pace, Edizioni monfortane 2001, Roma, pp. 222; Colasanti G. - Borzomati P. - Vidau E. (edd.), Maria e l’impegno sociale dei cristiani, Edizioni Ami 2003, Roma, pp. 240; Scalisi B. - Vidau E. (edd.), Maria e la cultura del nostro tempo a trent’anni dalla Marialis cultus, Edizioni Ami 2005, Roma 2005, pp.183.

La Bibbia giustifica la pena capitale?
di Gianfranco Ravasi

Ricordo che tempo fa uno dei lettori dei miei scritti sui giornali a cui collaboro mi aveva tempestato di lettere, convinto di avere una giustificazione per la condanna alla pena di morte a causa del fatto che essa appare a più riprese all’interno dell’Antico Testamento.

Preparai, dunque, una risposta che pubblicai su Famiglia Cristiana: naturalmente, essendo necessario un discorso articolato di taglio interpretativo, non mi fu possibile esaurire la questione sottesa a quelle pagine. A questo punto quel lettore cambiò registro e si orientò su un passo evangelico specifico, abbandonando quindi il terreno anticotestamentario e rivolgendosi un Nuovo Testa,mento che dovrebbe essere all’insegna della legge dell’amore.

Proprio per questo si riesce a comprendere che una corretta ermeneutica non vale solo per le Sacre Scritture ebraiche, ma anche per l’orizzonte cristiano che noi consideriamo sgombro da equivoci interpretativi: in realtà i rischi del letteralismo nella lettura della Bibbia possono essere in agguato in ogni pagina.

Il lettore, infatti, faceva riferimento a un detto (tecnicamente un lòghion) di Cristo che riflette lo stile orientale e che ha forti segni di autenticità storica. Egli sospettava che dietro la frase di Gesù: «Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono sarebbe meglio per lui che gli passassero al collo una mola d’asino e lo buttassero in mare», presente nei vangeli di Marco (9,42), Matteo (18,6) e Luca (17,2), si celasse un invito ad applicare «la pena di morte anche per i non assassini».

In realtà, come da tempo si insegna, ogni linguaggio adotta alcuni canoni di comunicazione (i cosiddetti “generi letterari”) che richiedono di essere interpretati per cogliere ciò che essi realmente vogliono dire, così da evitare equivoci o fraintendimenti.

Ora è ben noto che Gesù - come tutta la Bibbia - usa un linguaggio simbolico legato alla cultura semitica del suo tempo: esso ha formule espressive, immagini, simboli differenti dai nostri e quindi da comprendere e interpretare.

Nel passo in questione egli sta parlando non tanto dei bambini (in greco paidìon) - a cui pure si fa riferimento nel contesto, assunti però come emblemi della fiducia pura e serena - ma dei “piccoli” (io greco mikròs), una categoria non anagrafica ma esistenziale. Infatti si dice esplicitamente: «I piccoli che credono». Di scena sono quasi certamente coloro che sono deboli nella fede, piccoli nel credere e che devono ancora crescere (non si tratta, dunque, della pur esecrabile e infame vergogna della pedofilia).

È facile che, con superficialità o cattiveria, un fratello che si sente più sicuro nella sua fede possa far cadere questi “piccoli”: si usa infatti la parola “scandalo”, che in greco letteralmente indica la pietra o la trappola che fa inciampare la selvaggina nella caccia. Anche san Paolo, scrivendo la prima lettera ai Corinzi (8,7-13) e la lettera ai Romani (14,1-15,4), affronta questo problema suggerendo carità e pazienza: «Accogliete fra di voi chi è debole nella fede, senza discuterne le esitazioni» (Rm 14,1). Cristo, contro coloro che invece mettono consapevolmente in crisi il fratello, “piccolo” nella fede, pronunzia una sorta di maledizione, esprimendola con un’immagine colorita e veemente desunta dal mondo in cui egli viveva e dalle sue consuetudini.

Si tratta del cosiddetto katapontismòs, ossia dell’esecuzione dei colpevoli per annegamento. Essa era praticata dai romani: l’imperatore Augusto aveva fatto annegare il precettore e i servi di suo figlio Gaio, stando almeno allo storico romano Svetonio; mentre un altro storico, l’ebreo Giuseppe Flavio (I secolo d.C.), menzionava il caso dei galilei ribelli che avevano annegato nel lago di Tiberiade alcuni sostenitori di Erode.

Gesù, che ha insegnato l’amore e il perdono dei nemici, non può certo suggerire una simile macabra esecuzione capitale o il suicidio. Egli, però, non si astiene dal denunciare il male e ricorre a quell’immagine per indicare la gravità della colpa di chi scandalizza il fratello dalla fede fragile. E’ un modo simbolico vigoroso, tipico del linguaggio orientale che ama le tinte forti e le passioni accese, per ricordare il severo giudizio divino su un atto considerato come grave.

L’idea di legare al collo la pesante macina con un foro destinata a contenere la barra che l’asino avrebbe fatto ruotare - un oggetto noto anche dai reperti archeologici - diventa così un segno della condanna grave che incombe sullo “scandalizzatore”. Anzi, come scrive un esegeta, Simon Légasse, «la terribile sorte dell’annegato con la mola al collo è poca cosa in confronto a ciò che attende nel giudizio ultimo dì Dio colui che h provocato lo scandalo».

(da Vita Pastorale, novembre 2006)

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