Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input
L'importanza dell'insegnamento di base
della Scrittura nella società contemporanea
e per l'educazione delle giovani generazioni
Comunicato congiunto ebraico-cattolico
da parte della Commissione della Santa Sede per i rapporti religiosi con l'ebraismo
e del Gran Rabbinato d'Israele
I. Dopo due incontri, a Gerusalemme in giugno 2002 (Tammuz 5762) e a Grottaferrata – Roma in febbraio 2003 (Shvat 5763), le delegazioni d'alto livello delle due parti hanno convenuto a Gerusalemme di discutere sul tema di "l'importanza dell' insegnamento di base della Scrittura nella società contemporanea e per l' educazione delle giovani generazioni".
2. I dibattiti si sono svolti in un clima d'amicizia e di mutuo rispetto. Constatiamo con soddisfazione che le due delegazioni hanno già stabilito delle solide basi che permettono d'intravedere in avvenire il seguito di una efficace collaborazione.
3. I partecipanti hanno molto apprezzato le dichiarazioni della Santa Sede per condannare la violenza contro degli innocenti e per denunciare le manifestazioni d' antisemitismo che regolarmente rinascono, come si è notato nelle dichiarazioni dei cardinali della delegazione vaticana partecipanti alla Commissione congiunta: cardinali Walter Kasper, Jorge Mejia e Georges Cottier. In questo spirito, il cardinale J. Mejia a scritto ai Grandi Rabbini d'Israele: "attaccare le persone nei loro luoghi di preghiera è non soltanto crudele, ma anche vile e incompatibile con i criteri umani. Per di più, al momento in cui la Commissione congiunta si è riunita, il Papa Giovanni Paolo II ha lanciato un forte appello a "tutti gli uomini e le donne di buona volontà perché aggiungano la loro voce alla mia quando ripeto che il sacro nome di Dio non deve mai essere utilizzato per incitare alla violenza o al terrorismo, per promuovere l'odio o l'esclusione".
4. Le relazioni sono state incentrate sull'insegnamento di base delle Sacre Scritture che condividiamo, le quali dichiarano la fede nel Creatore e Guida dell'universo che ha creato gli esseri umani a sua immagine e ha dato loro il libero arbitrio. Così l'umanità è un' unica famiglia di cui ciascun membro è responsabile di fronte agli altri. La presa di coscienza di questa realtà comporta doveri d'ordine morale e religioso che dovrebbero servire da autentico codice della dignità e dei diritti umani nel mondo attuale e dovrebbero dare una visione autentica di una società giusta, della pace universale e del benessere.
5. Viviamo in un villaggio globale che conosce avanzamenti tecnologici scientifici mai conosciuti prima. La nostra sfida è di fare uso di questo progresso per il bene e per rendere grazie, non per il male e per maledire – Dio ce ne guardi. In questo senso il sistema planetario di comunicazione di massa è uno strumento di ulteriore miglioramento. Tocca a noi utilizzare al positivo questa occasione. Tocca a noi utilizzare al positivo questa occasione di costruzione planetaria rimanendo fedeli alle aspirazioni morali e religiose che condividiamo, di cui abbiamo parlato più sopra.
6. Abbiamo sottolineato che per rispondere alla sfida che rappresenta la diffusione della fede nella società contemporanea, dobbiamo essere esempi viventi di giustizia, di carità, di tolleranza e d'umiltà, rispettando le parole del profeta Michea: " Uomo, ti è stato fatto sapere ciò che è bene, ciò che il Signore reclama da te: niente altro che compiere la giustizia, che amare la bontà e camminare umilmente col tuo Dio " (Mi 6,8 ).
7. Nella complessità dell'epoca in cui viviamo, l'educazione religiosa può e deve apportare la speranza e guidarci per condurre una vita positiva e armoniosa in solidarietà con gli altri esseri umani. E' soprattutto la fede in Dio che ci dà sicurezza e gioia, in obbedienza al verso del salmo 16: " Guardo senza posa il Signore davanti a me…, esulta il mio cuore" (Ps 15 (16), 8-9).
8. In particolare i responsabili religiosi e gli educatori hanno il dovere di istruire le loro comunità affinché esse si impegnino sul cammino della pace per il benessere della società nel suo insieme. Lanciamo questo appello in particolare alla famiglia di Abramo e domandiamo a tutti i credenti di mettere da parte le armi di guerra e di distruzione - "Persegui la pace e ricercala" (Ps 33 (34), 15 ).
9. In quanto responsabili religiosi partecipiamo al dolore di tutti quelli che soffrono oggi in Terra Santa, sia che si tratti di individui, di famiglie o di comunità. Esprimiamo la nostra fervida speranza e preghiamo perché cessino le prove e le tribolazioni di una Terra che noi tutti consideriamo Santa.
10. Chiediamo infine alle nostre comunità, alle nostre scuole e alle nostre famiglie, di vivere nella comprensione e nel rispetto reciproco e di immergere se stessi nello studio e nell'insegnamento delle Sacre Scritture che condividiamo, al fine di nobilitare l'umanità e nell'interesse della giustizia e della pace universale. Allora si compiranno le parole del profeta: "spezzeranno le loro spade per farne vomeri e le loro lance per farne roncole. Non si alzerà più la spada nazione contro nazione, non si imparerà più a fare la guerra" (Is.2,4 ).
Gerusalemme, 3 dicembre 2003 (Kislev 8, 5764)
(Traduzione a cura del SIDIC-Roma)
Henri Le Saux,
monaco cristiano acosmico
di Arrigo Chieregatti
Premessa
È inevitabile che di fronte all'«opera» di Henri Le Saux ognuno reagisca sull'onda delle proprie emozioni, come si fa di fronte ad un'opera d'arte. In un'opera d'arte ognuno legge quello che vive dentro di sé, perché tutti cerchiamo quello che abbiamo, e se non l'avessimo, non potremmo riconoscerlo. La stessa pagina ha un sapore diverso secondo il palato che uno possiede. La conoscenza del Cristo è per Henri Le Saux il passaggio fondamentale e insostituibile per andare nel mistero: «Per me il Cristo è il Sadguru, il Grande Maestro, ma questo non significa che lo debba essere per tutti». Poi così prosegue:
«Siamo troppo abituati a considerare il Cristo come possesso di una parte dell'umanità, cioè i cristiani, e che l'incontro con il maestro di Nazareth possa avvenire solo per la strada che noi abbiamo percorso. Abbiamo dimenticato che Gesù era un ebreo e che erano ebrei i suoi primi compagni; abbiamo dimenticato che la strada verso il Signore dalla cultura giudaica è passata a quella greca e poi a quella latina e quindi può passare attraverso altre culture, altri uomini e altre esperienze» (1).
Henri Le Saux, come tanti altri hanno fatto e ancora stanno facendo, da monaco benedettino ha lasciato la strada che aveva percorso ed è entrato in un mondo nuovo, rinunciando alla propria cultura, ai propri schemi, ai propri legami per avventurarsi, come nuovo Abramo, solo con l'essenziale in un ambiente sconosciuto, convinto che ovunque il Cristo è presente, e che con la fede il Signore è presente ovunque, e che «chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto» (At 10,34-35).
È vero, l'esperienza di Henri Le Saux è l'esperienza di un eremita, ma è proprio per questo che crediamo opportuno offrirla a tutti noi, cristiani d'Occidente, impegnati con tutto noi stessi nell'azione sociale e politica di liberazione dalle varie schiavitù religiose e civili, di cui forse neppure siamo coscienti.
In un mondo profondamente segnato dal materialismo, ormai gli aiuti esterni di supporto per la nostra fede non esistono più, per cui dobbiamo tutti costruirci una spiritualità eremitica, dobbiamo trovare all'interno di noi stessi la forza per la solidità della nostra fede. È dal profondo di noi che deve uscire il coraggio per la nostra adesione al Cristo, è «dall'intimo della caverna del nostro cuore che deve sgorgare una sorgente di acqua viva per la vita» (cfr. Gv 4,14).
In occasione della morte di Le Saux, avvenuta il 7 dicembre 1973, uno dei suoi più cari amici, il pastore protestante Murray Rogers ha scritto:
«Il nostro caro amico e guida Swami ha fatto l'esperienza del suo risveglio finale, si è risvegliato all'Essere, ha realizzato il suo Samadhi, è giunto alla concentrazione totale, al raccoglimento perfetto. Così facendo ha visto adempiuto il suo desiderio di molti anni: finalmente è diventato veramente a-cosmico, realizzando così in pienezza la vocazione che lo Spirito aveva deposto dentro di lui attraverso il sannyasa indù» (2).
E infatti lo stesso Le Saux, riferendosi al grave attacco cardiaco di alcuni mesi prima della morte, scriveva:
«Veramente una porta si è aperta nel cielo, mentre giacevo sul pavimento. Ma un cielo che non era l'opposto della terra: qualcosa che non era nè vita nè morte, ma semplicemente essere, risveglio, al di là di ogni mito o simbolo. Se ci incontreremo di nuovo, vi racconterò tutta quella meravigliosa storia, ma già da ora: Magnificate Dominum mecum. Nella gioia di Dio, sempre» (3).
Per non essere presuntuosi nel voler determinare un pensiero così vasto come quello di Henri Le Saux, forse può essere opportuno leggere insieme quello che Swami ci ha lasciato e che siamo riusciti a «rubare» alla sua esperienza spirituale.
Certamente io posso dire la mia esperienza di fronte alle altezze di un tale maestro, mentre altri potranno dire diversamente e forse esattamente il contrario. L'opera d'arte, come la mistica, non è possesso esclusivo di nessuno, ma tutti possono esprimere ciò che quella esperienza e quel suono ha suscitato in ognuno. Possiamo raccontare quello che abbiamo letto e quel poco che siamo riusciti a captare dalla viva voce di Henri Le Saux.
Non è certamente tutto quello che un uomo di Dio ha esperimentato, perché lo scritto e il racconto può trasmettere solo una minima parte di quello che ha vissuto. Ho voluto prendere come guida i suoi scritti, le sue lettere, e la lettera che un amico, Raimon Panikkar, nostro carissimo maestro, ha voluto indirizzargli dopo la sua morte.
Lasciar parlare un uomo di Dio, un maestro spirituale significa porsi in ascolto, lasciarsi penetrare dal suo spirito, non fare obiezioni, ma permettere che un fiume, come il Gange a Rishikesh, possa avvolgerci e rigenerarci.
Potremo così raccontare non quello che lui ha detto, ma quello che abbiamo ascoltato, non quello che ha scritto, ma quello che abbiamo letto.
L'avventura
Di fronte al messaggio di Henri Le Saux (o Abhishiktananda, secondo il nome assunto in India) si è spesso attenti a «cosa dice», cioè alle sue affermazioni che appaiono a volte dure e rigide, piuttosto che a «chi le dice». Taluni tra noi la chiamano obiettività, ma forse può essere mancanza di attenzione alla persona. Si può ridurre infatti la persona a nozioni e ad espressioni prive di vita in nome della scientificità e dell'ortodossia.
Dovremo forse imparare da Henri Le Saux che, nell'impatto con l'India, si è trovato scardinato dal suo monachesimo ossequiente e devoto, proiettato in una avventura che, come il Figlio dell'uomo, l'ha gettato su una strada dove... «non ha dove posare il capo» (Mt 8,20). Si è discusso e si continua a discutere se era giusto o meno, ma seguendo la cultura asiatica potremmo rispondere: «Andate a vivere come lui ha vissuto, e poi ne parleremo».
La perfezione anche spirituale viene ormai confusa con la mancanza di difetti, mentre più propriamente la perfezione è la capacità di convivere con i propri limiti e con i propri difetti. Le Saux era ben cosciente delle sue debolezze: era preoccupato della ortodossia, era puntiglioso nelle formulazioni corrette delle affermazioni dottrinali, ma l'esperienza concreta lo ha portato a scoprire immediatamente che la realtà è piena di limiti e di imperfezioni. E ha sentito ed esperimentato che non è sempre possibile mettere insieme la ortodossia mentale e la spontaneità del cuore.
Il nostro perfezionismo intellettuale ci impegna spesso a voler incapsulare lo Spirito nello spazio dell'intelletto, e per comprendere Le Saux è necessario sapere che egli ha voluto sottomettere il logos (parola, pensiero, ragione) allo Spirito (aria, soffio, respiro). È stato sempre diffidente riguardo alle idee e alle parole, mentre era completamente aperto allo Spirito, dovunque spirasse.
Questa tensione tra logos e spirito si concretizzerà tra Henri Le Saux e l'abbé Monchanin, e non solo riguardo al futuro escatologico, ma anche nella realtà concreta della conduzione dell'Ashram di Shantivanam. Non erano solamente tensioni psicologiche tra due personalità forti, ma forse lo scontro tra due polarità teologiche, che portarono a due scelte diverse:
- vivere in modo radicale alla maniera hindu, in cui l'esperienza è a fondamento di ogni insegnamento, come voleva Le Saux;
- oppure decidere secondo le esigenze della ragione, del logos appunto, come voleva Monchanin.
Essere e fare
Gli scritti di Henri Le Saux difficilmente potranno essere capiti da coloro che non sono passati attraverso la sua esperienza, e lui ha accettato umilmente di non essere capito. Tanti hanno pensato che ci fossero nei suoi scritti errori teologici, confusione di fede e di ragionamento, o che non fosse possibile concentrare in un pensiero logico le sue intuizioni. Ma i suoi scritti, ormai numerosissimi, evidentemente smentiscono questa opinione, e «chi vuol capire, capisca». Rileggendoli, invece, si può certamente intuire il lavoro di cesello per farsi capire e non essere frainteso. Il Diario spirituale (4), che non è stato scritto per essere pubblicato, avrebbe bisogno di essere rivisto non già da noi ma da lui.
Si può capire la dimensione spirituale non nella dimensione del «fare e del produrre», ma in quella dell'«essere», e nella dimensione dell'essere non c’è bisogno di essere consapevoli, proprio come un neonato che esiste anche se non ne ha consapevolezza intellettuale, e l'esistere è certamente fondamentale rispetto alla coscienza. L'essere può esistere solamente «essendo», e per questo Abhishiktananda ha chiesto a se stesso di «andare oltre» il mentale: lui è andato oltre non con le parole ma con la stessa sua vita.
Henri Le Saux ha chiamato «preghiera» l'Essere dal punto di vista di Dio: «Tu, o Padre, preghi creando e mantenendo il creato in essere», mentre la sua vita è stata la convalida del suo pensiero; per lui infatti non esiste la distinzione tra documenti teologici e affermazioni spirituali isolate. Per tutti è così, ma per lui in modo particolare: la maggior parte delle sue espressioni sono grida, preghiere, urla che esprimono i suoi sentimenti.
In questo cammino sono da sottolineare i radicali cambiamenti di Henri Le Saux:
«L'insegnamento delle Upanishad non è questione di formulazioni intellettuali, che possono essere insegnate e ricevute. Esse hanno solo la funzione di portare all'esperienza» (1956).
E nel 1972, solamente un anno prima della sua morte:
«Il cristianesimo è soprattutto Upanishad, correlazione, insegnamento non diretto. L'insegnamento diretto è solo "fenomeno". La correlazione fa uscire la scintilla direttamente dall'esperienza, e questa mette la relazione in modo perfetto».
«Il mistero interiore chiama in modo lacerante: nessuno da fuori può aiutarmi a penetrare il mistero e scoprire al mio posto il segreto della mia origine e del mio destino» (1956).
«C'è sempre il rischio di scambiare i surrogati dell'esperienza con l'esperienza stessa: la strada della solitudine e dell'unità è terribile nella sua nudità. Non si può prendere l'idea della solitudine per solitudine stessa» (1956).
Il cammino spirituale di Henri Le Saux è stato l'incontro con il Nulla, ne ha toccato l'aspetto negativo, senza vederne la grandezza. È stato il vero incontro con il Nulla del proprio profondo. Troppo spesso l'incontro con il Nulla è solo superficiale. Molti, contenti della propria conoscenza, anche della propria conoscenza religiosa, colpiti dal luccichio dell'Oriente, bevono qualsiasi cosa esotica e pensano d'aver raggiunto l'esperienza suprema, quando invece hanno toccato solamente i limiti delle proprie facoltà spirituali. Raggiungere le frontiere dell'essere è fondamentale per un cammino spirituale, ma questo non è ancora l'incontro con il profondo. Fare questa esperienza significa entrare in una via senza ritorno, e non è come fare un po' di yoga, un po' di meditazione, o impegnarsi in una recita di mantra.
Sin dai primi anni della sua presenza in India H. Le Saux era preoccupato dell'impatto della cultura occidentale con l'Oriente, ne vedeva i rischi e le deformazioni. Negli anni dei «pellegrinaggi» in India dei giovani occidentali scrisse queste riflessioni che indicavano il suo amore per l'Oriente e per l'India, ma anche sottolineavano la superficialità con cui poteva essere avvicinata la spiritualità indiana da coloro che, scontenti dell'Occidente, non erano sufficientemente preparati a recepirne il valore e a confrontarsi con la fatica di una spiritualità totalmente diversa da quella a cui erano abituati:
«Lo yoga è molto in voga ai nostri giorni, soprattutto in Occidente, dove forse se ne discute di più che nella stessa India. Forse questa divulgazione può far perdere di vista il vero senso dello yoga. Lo yoga è soprattutto una tecnica per riportare e fissare lo spirito nel suo centro. Lo scopo dello yoga è fondamentalmente di ricondurre lo spirituale alla nuda coscienza della propria esistenza, al di là di tutte le manifestazioni di ordine fenomenico percettibile dai sensi e dal pensiero. Solamente in questo centro o in questa sommità l'uomo raggiunge se stesso e si realizza nella verità del proprio essere, o, più esattamente forse, del proprio atto di esistere» (5).
Si tratta di raggiungere ciò che l'India chiama lo stato del kevala, cioè dell'isolamento, in cui uno pone se stesso in rapporto a tutto ciò che non è suo in maniera essenziale e permanente, in rapporto a tutto ciò che in lui è solo relativo e passeggero, cioè le vritti, che sono le complicazioni del proprio pensiero e le trasformazioni del proprio egoismo.
Per questa via lo yoga può credersi assoluto e può ritenere d'aver realizzato la perfetta libertà e la totale indipendenza della propria persona. Da questo punto centrale del proprio essere tenterà di dominare e controllare, senza che niente gli possa sfuggire, tutte le manifestazioni psicologiche e anche fisiologiche della propria vita.
Il mezzo per eccellenza per arrivare a questo stato è il controllo progressivo e sempre più stretto dell'attività mentale e, al limite, il suo arresto totale. Proprio in questo arresto la coscienza che si ha di se stessi si può illuminare di una luce non confusa, che da sola può riempire il campo intero della percezione.Per rendere possibile questo dominio del flusso mentale sono stati progettati ed esperimentati, attraverso una lunga pratica, diversi esercizi. Il più importante è quello della meditazione, che concentra lo spirito su un punto preciso, immaginario o mentale non importa.
Non si tratta della meditazione nel senso occidentale del termine, di immaginare cioè una scena o di contemplarne successivamente le differenti parti, oppure di riflettere su una idea e di esaminarne i diversi aspetti. La meditazione yogica tenta di ridurre ad un punto indivisibile il campo della coscienza, di realizzare l'unità dell'attenzione, di vincere la dispersione e di costringere lo spirito al silenzio.
Le posizioni del corpo (asana), gli esercizi di respirazione (pranayama) hanno valore puramente preparatorio e sono tutti finalizzati a fissare lo psichico. Il loro scopo primo è quello di permettere allo yoga di controllare, di ritmare e, se possibile, di immobilizzare i suoi muscoli, soprattutto quelli che comandano i movimenti della respirazione e anche dei battiti cardiaci.
Tutto ciò dipende dalla connessione tra lo psichismo dell'uomo e il suo organismo fisiologico, e ancor più, dice la tradizione, tra il soffio vitale (prana) e il principio interiore della vita.
Essendo lo yoga una tecnica, succede ciò che capita a tutte le tecniche, sia di ordine fisico sia di ordine psicologico, sociale, o religioso, e non può succedere altrimenti. La tecnica attira sempre più l'attenzione e gli strumenti rischiano di essere valorizzati per se stessi, a scapito dello scopo primario da raggiungere. Per questo i pericoli dello yoga, soprattutto per gli occidentali, non devono essere minimizzati.
Uno dei rischi più gravi è di costituire al fondo della coscienza dello yoga una specie di super-io, ritenuto tanto potente da essere capace di controllare e dominare i movimenti muscolari, la coscienza fenomenica, e persino il pensiero.
Questo super-io sarebbe in definitiva un'esaltazione dell'io, anzi una proliferazione cancerosa dell'io, dell'ahamkara (coscienza empirica di sè), e può divenire un punto della coscienza smisuratamente ingrandito rispetto al resto.
Questa è la sorgente dell'orgoglio demoniaco di certi yogi, soprattutto in Occidente. Andando al fondo di se stessi s'impegnano nello sforzo di passare, dicono, dall'io al Sé. Ma quello a cui tendono e che chiamano il Sé, non è altro che la proiezione del proprio pensiero, il fine che hanno concettualizzato e che si sforzano di raggiungere.
Non giungono alla perdita di sé nel Sé supremo, come essi pensano, ma in conseguenza dell'atteggiamento moralistico che riempie tutta la loro ascetica, gonfiano in maniera mostruosa e promuovono al rango di assoluto il loro proprio io, con tutti i suoi particolarismi e i suoi limiti. Questo permette loro di ritenere possibile tutto ciò che pensano senza limiti o regole.
L'impegno verso l'India
L'impegno verso il Vuoto, che anche san Giovanni della Croce invita a raggiungere e chiama Nada, nada, ha avuto per Henri Le Saux una strada molto concreta.
Innanzitutto il suo non-ritorno in Occidente. Era stato più volte invitato a tornare ed egli stesso aveva pensato che sarebbe stato utile vedere l'Occidente dopo la sua esperienza indiana, e vedere anche l'India da lontano. Invece, rifiutò in modo categorico, perché a suo parere sarebbe stato un tradimento rispetto alla sua chiamata, avvertita come un cammino senza ritorno, quasi una immersione da cui non era possibile tornare, pena la perdita di una parte di se stesso. Non voleva sentire la sua missione come temporanea, rischiando di non essere né da una parte né dall'altra, condannando l'Oriente a causa delle fatiche sopportate ed esaltando l'Occidente più confacente alle sue abitudini, o viceversa. Rifiutava di essere considerato un santo (o un santone) che andava in giro per il mondo a salvare i perduti, o a sollevare i sofferenti.
Tanti amici non erano d'accordo con lui, a nome di tutti Raimon Panikkar, amico e compagno di ricerca, che, pur avendolo inizialmente contrastato, poi lo ringraziò e gli disse: «Grazie, swami, avevi ragione e pertanto ti benediciamo».
Non nascose la sua irritazione, e fu alta, quando alcuni amici rifiutarono l'esperienza indiana e decisero di tornare in Europa. Questo fu a suo parere un tradimento. La sua scelta era per lui l'unica possibile: solo la morte poteva toglierlo dall'India, e non sarebbe stato possibile nessun compromesso.
Ancor più si irritò quando alcuni monaci occidentali che vivevano in India decisero di incontrarsi e discutere la loro vita: «Non si arriverà ad una riforma con chiacchiere o con dibattiti. Antonio andò nel deserto, e così anche Benedetto, Francesco si mise sulle strade senza bisogno di convegni e di congressi di monaci».
Nel cuore di Henri Le Saux sono convissute due strade sin dall'inizio: la via cristiana e la via hindu (1949) e solamente nell'esperienza dell'attacco di cuore (10-18 luglio 1973) raggiunsero un'armonia, solamente alcuni mesi prima di morire. Sentiva forte il richiamo dell'abisso, era dentro il suo cuore la promessa della non-dualità che avrebbe un giorno dato la grande risposta, quella che elimina sia la domanda sia colui che la pone: se uno non rinuncia a tutto quello che possiede e anche a se stesso e alla propria vita, non può entrare nel Regno dei cieli.
E con questa fatica ha lasciato libero se stesso e contemporaneamente dava indicazioni ad altri. A chi temeva su questa strada di perdere la fede, rispondeva:
«Non aver mai paura di perdere la fede, perché vorrebbe dire che Dio perde te, e questo non avverrà mai. Per cui, se perdi la fede, significa che non era vera fede, e allora valeva la pena di perderla» (Lettera 1970).
Poi giunse al totale abbandono al Signore e al suo Amore:
«il cielo esiste per chi lo desidera, e l'inferno esiste per chi lo teme» (1954).
L'espressione del Salmo della Bibbia ebraica è un richiamo per tutti: «L'abisso chiama l'abisso» (Sai 42,8), e per Henri Le Saux è il richiamo ad una unione profonda tra tante esperienze. Questa unione non è il risultato di un approfondimento tecnico, sociologico, filosofico, e neppure teologico, ma di un abbraccio mistico nel fondo dell'abisso. Per lui non era in gioco la soluzione di un conflitto dialettico, ma la sua stessa esistenza:
«Ho paura di perdermi lungo il sentiero verso l'eternità» (1953).
«Ho paura, ho l'angoscia di rischiare solo per un miraggio... ma tu, o Arunachala [la montagna sacra al Sud dell'India, in Tamil Nadu], non sei un miraggio» (1956).
Henri Le Saux e la sua poesia
La poesia è l'arte di esprimere le proprie emozioni, i propri sentimenti e le proprie esperienze al di là del pensiero. Non contro il pensiero ma oltre la mente, cioè in un cambiamento di prospettiva e anche di strumenti adeguati per raggiungerla. Solamente a quel livello è possibile sentire il pensiero di Abhishiktananda (il «consacrato per la gioia»). Mentre esprime l'entusiasmo di essere colpito dal sacro monte Arunachala, professa il suo amore appassionato per il Cristo (1956).
Era entrato nella notte oscura, e solamente dopo anni di buio poté vivere nella propria carne l'esperienza della non-divisione. Scoprì in quel momento che doveva rompere con abitudini mentali e spirituali accumulate lungo i secoli, che gravavano sulla sua vita. E dovette farsi violenza.
Henri Le Saux ha vissuto l'esperienza del non-duale partendo dall'esterno del contesto indiano, con un altro tipo di materiale, con un'altra consapevolezza, con un'altra veste umana, quella dell'Occidente.
Non ha avuto paura di perdere quello che aveva acquisito, perché era essenziale, e l'essenziale non si perde mai, perché è nascosto nella caverna del cuore, nel profondo in cui nessuno può nulla rubare e che nessuno può violare.
Sembrava una sua debolezza, sembrava l'espressione di una sua superficialità, e invece era una ricchezza. Era il risultato del suo viaggio verso il profondo, verso il pozzo da cui può scaturire la fonte di acqua viva.
Per fare questo, ha dovuto abbandonare tutti i suoi «mariti», ha dovuto bruciare tutte le aderenze del suo essere occidentale, senza però rifiutare la sua appartenenza all'Occidente. Non si tratta di unificare, ma di avvicinare perché la vicinanza amorosa possa essere l'occasione di una mutua fecondazione e questo significa scoprirsi amanti e amati. Per essere capaci di un reciproco amore, per potersi reciprocamente fecondare, è necessario che ognuno rimanga se stesso:
«Non si tratta di fare sintesi, ma di andare aldila', di superarsi, ma permettendo ad ognuno di rimanere se stesso» (1956).
«Andare oltre» non significa negare il punto di partenza, ma anzi conservarlo e andare al profondo di esso. Meta-fisica non è la negazione della fisica, né un'altra fisica, ma andare al suo perché, al profondo nascosto della fisica. Così anche meta-noia non significa negare la mente o il pensiero né elaborare un altro pensiero, ma andare al perché del pensiero stesso, al profondo di esso. Questo è la spiegazione dell'andare oltre di Henri Le Saux e di molti mistici. È stato un cammino faticoso, ed esigente: ha seguito le pratiche cultuali cristiane in modo scrupoloso, e ad un certo momento le ha sorpassate, non per negarle, ma per andare in una dimensione che le comprende senza condannarle o rifiutarle.
«L'Eucaristia non è per me una forma di culto, ma mette a mia disposizione l'Incarnazione totale» (1952).
«Il Cristo è l'espressione cosmica e sociale di ciò che ciascun uomo porta dentro di sé» (1956).
«L'Incarnazione è certamente un mito (cioè il misterioso atto in cui ognuno può essere coinvolto e che può comprendere nella misura in cui accetta di essere immerso). È il Sacramento supremo, si può dire di magia, nel quale l'uomo raggiunge la profondità di se stesso» (1956).
Fu angosciante per lui andare oltre, avere la sensazione di perdere tutto ed è per questo che è giunto a formulare la sua dichiarazione di fede:
«Esistono due volti del Cristo: storico e meta-storico (mistico). I cristiani celebrano il volto storico, l'India e tutte le religioni cosmiche quello meta-storico. Sono necessarie ambedue, perché sia completa la conoscenza del Cristo. Non sono in opposizione, ma si completano e la nudità (Kevala) non divisa è la pienezza del culto cristiano» (1956).
«Certamente il cristianesimo sente di ribellarsi e dire che l'advaita (uno e molteplice insieme) non possono coesistere. L'advaita farà esplodere la chiesa istituzionale vaticana. È necessario che io rimanga in questa angoscia, quella che non mi permette la serenità di una sintesi... Non è possibile bere contemporaneamente da due coppe e questo è il prezzo della pace e della gioia» (1956).
«Finché è presente il desiderio di lasciare la Chiesa, non è ancor giunto il momento di farlo» (1956).
Un uomo libero: un monaco
Era ben presente in Henri Le Saux la concezione orientale di libertà e continuamente la descrive. Non è una libertà morale, né una libertà psicologica o di scelta: libertà è il raggiungimento, da parte di ogni essere, del profondo di se stesso, è l'adeguamento al motivo profondo del proprio esistere (Dharma). La purezza è la solitudine perfetta, cioè il silenzio che si raggiunge nell'incontro tra essenza ed esistenza. Solamente allora si può agire in modo naturale e spontaneo, cioè in perfetta libertà.
Si può accettare come commento a questo pensiero di libertà la frase di san Tommaso d'Aquino: «L'uomo libero è colui che opera non per un comando, ma perché vuole compiere il suo desiderio. Colui che opera per un comando, è uno schiavo, non è un uomo libero» (Commento alla prima lettera ai Corinzi).
È questa la libertà che discende dalla consapevolezza di avere qualcuno al di sopra di noi che condivide l'esperienza di vita, di avere Dio come Padre; e così non cadono sopra di noi tutte le responsabilità individuali, né tanto meno quelle dell'intera umanità: Dio, l'umanità, il creato non sono concorrenti, ma partners di vita di ognuno di noi:
«Finché posso chiamare qualcuno fratello qui sulla terra, ho anche il diritto di chiamare Padre il profondo estremo della guba [grotta] del mio esistere» (1972).
«L'esperienza cristiana è l'esperienza advaitica, vissuta nella comunità umana» (8 marzo 1972).
Per questo ritenne di non doversi impegnare più di tanto in ambito sociale e politico, non ne era interessato, come non accettò di soccombere ad alcuna tentazione teologica o filosofica.
La sua libertà si è espressa anche nelle lotte che evidentemente ha dovuto sostenere e affrontare sia dentro che fuori l'ambito della Chiesa. Anche le sue lotte, di qualsiasi tipo, non sono mai stata vissute sul piano mentale, non sono mai state interessate ad alcun conflitto intellettuale: «Voglio vivere il Vangelo senza teologizzare» (8 marzo 1972).
E quando qualcuno gli ribatteva: «Ma anche questo è filosofare», allargando le braccia diceva in francese: «Que je dois repondre?» («Cosa devo dire?»). «Non ho paura di andare di là dei colpi di mannaia del Denzinger [la raccolta delle definizioni e dei dogmi della dottrina cattolica; ndr.], perché non dobbiamo essere troppo legati alle apparenze».
La sua libertà è sempre stata di tipo monastico. La sua esperienza monastica, però, era dettata dalla conquista di una libertà vissuta a tutto campo. La libertà monastica come lui desiderava viverla l'ha ben descritta nel libretto che è quasi una cronaca del suo viaggio verso le fonti: Una Messa alle sorgenti del Gange (6).
Le Saux tende ad un monachesimo acosmico, che in un certo senso può trovarsi in conflitto con l'esperienza cristiana, che è fondata sulla Incarnazione. Il monaco acosmico rinuncia ad ogni supporto; la sua esperienza va oltre il «non avere un sasso dove appoggiare il capo». Il suo monachesimo aspira a trascendere la situazione umana, tende alla divinizzazione, come il cristianesimo, ma anche alla illuminazione proposta dal buddhismo e al nirvana proposto dall'induismo.
Certamente Le Saux non si è mai occupato molto della dimensione umana, non ha mai proposto un intervento in vista di cambiamenti qui sulla terra, ma metteva l'attenzione «oltre», superando ogni limite e ogni incertezza. Non è riuscito a realizzare il suo ideale; i limiti umani del suo carattere e delle sue forze fisiche per la concretizzazione dei suoi sogni sono evidenti. Spesso non ha saputo accettare i suoi limiti, non erano dentro la sua dimensione di vita, non erano nel cammino che si era proposto. I limiti, nella concezione monastica che si era costruito, non erano stati presi in considerazione, ed era infelice di doverli invece riscontrare.
«Andare di là di tutto» era la sua lotta tra l'uomo vecchio e l'uomo nuovo, tra l'ahamkara e l'aham:
«Avevo sentito sulla Arunachala la gioia della pace, che poi era scomparsa nel momento in cui mi ero scoperto cristiano, nella scoperta dei limiti della storia (Chiesa, Vaticano, organizzazione, rubriche...)» (26 agosto 1955).
La tensione più importante di Abhishiktananda era quella di poter raggiungere l'Assoluto con l'abbandono totale del relativo, l'annullamento di tutto ciò che uno è e può essere, forse l'abbandono della sua condizione di creatura:
«Colui che possiede diversi linguaggi religiosi, mentali o spirituali non importa, non potrà mai assolutizzare un qualsiasi concetto, ma potrà solo testimoniare un'esperienza, di cui però può parlare solo balbettando» (1973).
Per questi motivi si è rivolto all'India dove l'esperienza dell'Assoluto è stata sviluppata più fortemente che altrove. Il richiamo dell'India è giunto a Henri Le Saux perché era monaco e voleva essere monaco sino in fondo.
In Oriente l'unica strada spirituale comprensibile è quella monastica: non quella della carità, non quella dei riti, non quella della teologia, ma l'esperienza del profondo, incarnato nella vita concreta di un monaco.
Per essere testimone Swami non ha minimamente dubitato della necessità per lui di giungere alla completa spoliazione di ogni cosa, di ogni esperienza, anche quella religiosa, anche quella cristiana.
«Dovremo ringraziare l'ateismo moderno di tanti nostri fratelli, che ha smascherato tante false fedi che abbiamo contrabbandato come fede vera e unica» (Lettera 1970).
Abhishiktananda è stato un asceta, ma l'ascesi non è un nirvana più o meno pacifico, non è un paradiso in anteprima, bensì lotta, campo di battaglia. La sua lotta non è stata una lotta morale per la perfezione, né una lotta teologica per cercare la verità, ma una lotta dell'essere, una lotta dell'intera esistenza, una lotta per esistere.
È stata una lotta tremenda, che ha vissuto dentro di sé per tutta l'umanità, per noi occidentali, per noi cristiani, per noi monaci, per noi preti. Siamo tutti in debito verso di lui. La vita non può essere identificata con la coscienza che ne abbiamo e tanto meno con la riflessione intellettuale o spirituale che di essa facciamo. La domanda e la risposta riguardo alla vita si trova su un piano più profondo. Tutto questo ci permette di considerare l'esperienza di Henri Le Saux unica e certamente irripetibile. È sua la ricerca di combinare incarnazione e trascendenza, storia e acosmismo (tempo, spazio, materia, corporeità giungono ad essere evanescenti). Forse questo è stato il motivo per cui ciò che ha voluto concretizzare, si è di fatto annullato. Voleva fare un monastero, un ashram, avere discepoli... Ma niente si è realizzato.
Solo alla fine «un» discepolo, Marc, si è concretizzato, ma anch'egli ha impersonato l'ideale del monaco acosmico, sparendo totalmente dalla vita comune e distruggendo, a mio parere coerentemente, tanti documenti, come forse Swami gli aveva detto di fare. Già negli anni Sessanta, quando uno gli aveva chiesto di pubblicare note e riflessioni perché il suo messaggio potesse espandersi, Le Saux gli rispose:
«Attraverso lo Spirito è giunto a te il messaggio, e attraverso lo Spirito potrà giungere ad altri» (Lettera 1969).
Nell'anno stesso della sua morte (1973) Abhishiktananda rifiutò di partecipare alla Convention monastica asiatica a Bangalore e la stigmatizzò con commenti sarcastici, dichiarando che non era certo quello il luogo di un sannyasin (un monaco acosmico), perché i teologi cercano ciò che è da completare, mentre la perfezione è il vuoto, anzi il vuoto totale (7).
Ha praticamente sconfessato tutto: non si è rivolto al proprio sé, ma, al contrario, ha rivolto il proprio sé all'Assoluto, all'Unico, e praticamente tutto gli si è rivoltato contro, anche la sua stessa partenza per l'India:
«Ero venuto per farti conoscere ai miei fratelli hindu. E invece sei stato Tu che ti sei rivelato a me attraverso la loro mediazione, sotto l'aspetto inquietante di Aruna (aurora) Achala (immobile)» (8).
Henri Le Saux giunse in India come monaco, ma trovò in India l'ideale del monaco.
È bene notare che non lui, ma gli altri hanno scoperto l'esperienza acosmica del «sadhu cristiano», ed esattamente un compagno di ricerca di Henri Le Saux, Harilal (Sri Hari Wench Lal Poonja; vedi sopra pp. 22-26), durante un incontro che sembra toccare l'al-di-là, ha scoperto l'esperienza del monaco silenzioso. Lo stesso Abhishiktananda lo racconta:
«La prima volta che incontrai Harilal fu nella grotta di Arutpal Tirtham, un venerdì 13 marzo. Erano circa le quattro del pomeriggio. Ero seduto sul mio sedile di roccia fuori dalla grotta, quando vidi due uomini che venivano verso di me lungo lo stretto passaggio che stava tra la mia grotta e la casetta di Lakshmi Devi. Si presentarono e si sedettero accanto a me...» (9).
Chi è il monaco?
È opportuno forse non fare confronti e tanto meno graduatorie tra monachesimo cristiano (vedi Regola di san Benedetto) e monachesimo hindu.
La Regola di san Benedetto inizia con la caricatura del monaco girovago, e poi delinea la figura del monaco come uomo perfetto, realizzato, che ha raggiunto la pace, la dolcezza e la libertà. E' l'incarnazione dell'humanum, che si trova anche nella proposta cinese del saggio: il gentiluomo, l'uomo superiore, il nobile... e questo modello viene poi trasferito al prete e quindi all'ideale cristiano per ogni uomo e ogni donna che vuole essere discepolo di Gesù: è la proposta della via media tra angelismo e umanesimo.In India la proposta monastica è anch'essa una via verso la perfezione, ma non nel compimento della virtù, ma nel raggiungimento del vuoto, possibilmente totale. È proposto il superamento e la trascendenza della condizione umana. Il monaco è colui che non è più di questo mondo, ma vive già altrove. È l'indifferente, perché ha già superato la dualità: «Non desidera vivere, non desidera morire. Attende che avvenga il suo tempo» (Mundaka Upanishad I, 2-12; Brhadharanyaka Upanishad III, 5).
E c'è un altro modello: il monaco ribelle, cioè il folle, il non conformista, colui che infrange le regole e aspira alla totale libertà.
Il monaco è colui che i benpensanti chiamano pazzo, ed è una follia vera, non finta, ed egli sa di esserlo e lo vuole. È colui che scende in piazza e gesticola, insulta, maledice, denuncia la follia della ragione, l'ipocrisia dei grandi, dei potenti, dei ricchi, dei forti e porta scompiglio nei giochi degli uomini importanti (vedi san Francesco, Gesù di Nazareth. Geremia, Buddha, i sufi dell'Islam..., e in genere tutti i profeti di ogni religione e di ogni cultura). San Paolo stesso parla della pazzia della croce, perché in essa sono state spezzate tutte le convenzioni.
Il monaco è colui che ha liberato la propria anima, anzi è colui che non ha più anima. Il monaco della tradizione hindu è colui che ha abbandonato tutti i riti, e nel mondo hindu la caduta di tutti i riti significa che il mondo crolla, e il monaco lascia che il mondo crolli: «Se un giorno non si potrà celebrare l'offerta del fuoco, come ogni giorno si celebra sul Gange a Rishikesh, il giorno dopo non sorgerà più il sole» (10).
Il rito è essenziale per la vita dell'universo, ma il monaco se ne ride. Ed è questa una delle tragedie del monachesimo hindu: la necessità dell'acosmismo e la sua effettiva impossibilità.
Il sannyasin (monaco hindu) è colui che si lascia cadere, che rinuncia a se stesso, e lascia cadere anche il mondo, perché... ha scoperto qualcosa di più, la verità delle verità, chiamata Nulla, o Vuoto, Nada, come dicono tutti i mistici. Il Vangelo esprime tutto questo in una parabola: «Il regno dei cieli è simile ad un tesoro nascosto in un campo: un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo» (Mt 13, 44).
Il tesoro non è il risultato della vendita dei suoi averi, ma qualcosa che scopre quasi per caso, e la rinuncia non è un sacrificio, ma un motivo di gioia e di nuova vita, poiché scopre che quello a cui rinuncia è ben più piccolo di quello che acquista.
Il sannyasin è l'uomo dai lunghi capelli, il muni, cioè il silenzioso, che chiede senza parlare. Un giorno ne abbiamo incontrato uno a Tiruvannamalai, davanti al tempio, dove centinaia di poveri chiedevano l'elemosina, e lui (il monaco dai lunghicapelli) chiedeva solo con gli occhi, senza parlare, senza alzare la mano, ed era comprensibile solo da coloro che avevano capito il silenzio e affinato gli strumenti di relazione senza l'uso della parola.
Tutto questo è il simbolo del paradigma monacale, che ci descrive forse a verità della vita e della ricerca di Swami Abhishiktananada. In un inno dei Veda forse troviamo la descrizione del suo sogno:
«In lui c' è il fuoco, in lui l'acqua;
la terra e il cielo sono in lui.
Egli è il sole che il mondo intero contempla,
la luce stessa, l'asceta dai lunghi capelli.Cinti di vento, fango d'ocra è il loro vestito.
da quando gli dèi sono in loro penetrati
vanno seguendo le ali del vento
gli asceti del silenzio.Inebriati, essi dicono, dalle nostre austerità,
i venti abbiamo soggiogato come destrieri.
E voi, comuni mortali, quaggiù,
non potete vedere oltre i nostri corpi.Fra cielo e terra, librandosi nell'aria,
dall'alto egli mira la forma di ogni cosa
Si è fatto, l'asceta silenzioso,
amico e collaboratore di tutti gli dèi.Cavalca i venti, compagno del loro soffio
dagli dèi inspirato.
Sta nei due mari
a Oriente e a Occidente, il silenzioso asceta.L'orma segue di tutti gli spiriti,
delle ninfe e degli animali della foresta.
I pensieri loro conosce e, con l'estasi innalzato,
ne diviene dolce amico, l'asceta dai lunghi capelli.
Il vento ha preparato e mescolato per lui
una bevanda spremuta da Kunamnama (energia degli dèi)
Con Rundra (dea della morte) ha bevuto alla coppa del veleno,
l'asceta dal lunghi capelli».
In questo modello, ben chiaro e ben presente ancor oggi in India (come anche tra gli aborigeni dell'Australia, dell'America latina e in molte culture africane) è da collocare il posto di Henri Le Saux, ricercatore dell'Assoluto. A questo modello si collegano molte pratiche sciamaniche, come anche l'uso delle droghe di tanti asceti orientali. «Chi ne abusa, tradisce le piante sacre», diceva Aurobindo in un opuscolo, L’abuso delle droghe chimiche per una esperienza spirituale, tradotto anche in italiano dall'ashram di Pondicherry: «Chi usa le droghe chimiche per giungere alla esperienza spirituale, non farà esperienza spirituale e tradirà il motivo per cui il Creatore le ha messe nel mondo».
Di fronte a queste esperienze noi rischiamo di peccare per un eccesso di razionalità, e non possiamo così comprendere coloro che hanno spezzato il legame con il razionale.
Conclusione
Non si tratta di demonizzare né tanto meno di annullare una delle proposte o uno dei modelli di monachesimo, ma di accettare che Le Saux sia una sfida cosciente alla cultura storica del nostro tempo. Occorre ricuperare l'entusiasmo di una perfezione umana staccata dal cielo e dalla terra. Dovunque esistano tempeste, tragedie e angosce, il monaco hindu non le nega, ma non ne fa una teoria per tutti, e la sua vita lancia una sfida senza speculare, senza razionalizzare, senza voler tutto spiegare. Ciò che egli nega è la storia, l'evoluzione, la razionalità come motivazione ultima delle cose.
Raimon Panikkar, grande amico e studioso di Henri Le Saux, avrebbe dovuto ricordarlo al mio posto qui a Camaldoli, ma nella sua lettera ad Abhisiktananda ha lasciato il commento a questa vita e a questa esperienza tanto ricca quanto problematica. In questo modo Raimon Panikkar conclude la sua lettera, descrivendo il monaco acosmico, il monaco in ricerca dell'Assoluto, tutti i sadhu dell'India e quindi anche il monaco Henri Le Saux:
«Egli ama, beve, danza, mette in pericolo la propria vita, è l'amico di tutto e di tutti; non si cura dei discorsi, non si mette a scrivere libri, non si difende. È il silenzioso, colui che non ha nulla da dire. Non vuole essere imitato da nessuno, perché lui stesso non ha modello.
È spontaneità pura, pura libertà. La sua vita non è camminare su una via. Per Lui il mondo è l'esplosione della libertà, che i mortali ragionevoli vogliono sottomettere e dirigere verso un punto omega, verso un Dio, verso un eschaton o una fine entropica.
Però questo monaco non è nemmeno l'anarchico che provoca rivoluzioni e distrugge gli altri. Al contrario, si fa collaboratore del divino: è sauktrya, fautore di bene (cfr. ergon agathon della scrittura cristiana); egli ha scoperto di vivere nella antariksa, la regione intermedia tra cielo e terra, il mondo mediatore da dove procede l'energia universale e che è il legame di tutta la realtà. Questa antariksa, che come dice l'Atharva Veda (1, 32), ci ricorda che “l'universo è ogni giorno fresco, come le correnti del mare”» (12).
In ultima istanza, è lui che beve la coppa del veleno, il calice della croce, e che perde la sua vita, forse. Ma nessun utilitarista, anche se si proclama «realista spirituale», potrà mai comprenderlo. E qui appare la differenza tra la cultura occidentale, soprattutto quella moderna, e la cultura indiana tradizionale, che gli apre uno spazio ben più vasto di quello accordato un tempo in Occidente al matto del villaggio. Il monaco si trova allora in una sorta di simbiosi soprattutto con il popolo, ma anche con i potenti, che vedono in lui ciò che loro stessi non sono stati in grado di realizzare. Forse l'inno dei Veda ha saputo riconoscere che vi è anche un monaco in ogni uomo, cioè un essere unico (monachos) e dunque incomparabile, irriducibile a qualunque schema? Non sarà forse che la cultura tecnocratica temporanea, invece, dietro una facciata di una democrazia egualitaria e di un ordine suscettibile di essere dettato dai computer (gli «ordinatori», quelli che classificano), vuole ridurci ad un comune denominatore, considerandoci semplici numeri? Non sarà piuttosto che questo archetipo monastico di cui stiamo parlando è il seme dell'unico «eroismo» che è ancora presente in ciascuno di noi? Qualunque sia la risposta che si dà a queste domande, è certo che la forza di questi monaci, di questi kesinah, di questi muni, di questi sannyasin, è una sfida costante e un esempio che continua ad ispirare «i pochi saggi che il mondo ha annoverato» (fra Luis de Leon). «La rinuncia ha oltrepassato gli ardori» (Mahanarayana Upanishad, 568).
Si può tracciare una sintesi, da una parte, tra i due modelli di monaco e, dall'altra, tra il paradigma monacale e la vita cosiddetta moderna? La forza della Bhagavad-Gita contiene, mi sembra, lo sforzo per giungere alla prima sintesi: essere in comunione con l'universo, avere coscienza di dover mantenere l'ordine cosmico, non restare attaccati ad alcunché e compiere la propria opera senza volerla giustificare attraverso i risultati.
Per quanto riguarda la seconda sintesi, quella che dovrebbe cioè realizzarsi tra la spiritualità tradizionale, che potremmo chiamare la «santa semplicità», e l'ideale moderno della «complessità armoniosa», essa si rivela essere il compito e la sfida della nostra epoca.
NOTE
1. ABHISHIKTANANDA SWAMI (HENRI LE SAUX), Esperienza indù, esperienza cristiana, in Lettere e scritti, a cura di Arrigo Chieregatti, Pro manuscripto, Officine Grafiche Gioia, Cantù 1976.
2. MURRAY ROGERS, Testimonianza, riportata nell'opuscolo citato alla nota precedente.
3. ABHISHIKTANANDA SWAMI (HENRI LE SAUX), Lettera del settembre 1973 in Lettere e scritti, cit.
4. HENRI LE SAUX, Diario spirituale di un monaco cristiano-sannyasin-hindou 1948-1973, a cura di Raimon Panikkar, Mondadori, Milano 2002.
5. ABRISHIKTANANDA SWAMI (HENRI LE SAUX), Esperienza indù, esperienza cristiana, in Lettere e scritti, a cura di Arrigo Chieregatti, Pro manuscripto, Officine Grafiche Gioia, Cantù 1976.
6. HENRI LE SAUX, Alle sorgenti del Gange. Pellegrinaggio spirituale, CENS-Servitium, Sotto il Monte Giovanni XXIII (BG) 1994.
7. Cfr. Diario spirituale..., Op. cit., pp. 255-263 (28 novembre 1956).
8. ABHISHIKTANANDA SWAMI (HENRI LE SAUX), Esperienza indù, esperienza cristiana, in Lettere e scritti, cit.
9. Il racconto dell'incontro si può leggere in HENRI LE SAUX, Ricordi di Arunachala, Messaggero, Padova 2004, pp. 197-208.
10. Cfr. RAIMON PANIKKAR, I Veda. Mantramanjari (Testi fondamentali della tradizione vedica), Rizzoli, Milano 2001.
11. Ivi, pp. 588-589.
12. RAIMON PANIKKAR, Lettera ad Abhishiktananda in HENRI LE SAUX, Alle sorgenti del Gange, CENS-Servitium, Sotto il Monte Giovanni XXIII (BG) 1994, p. 165.
(da Vita monastica, n. 231, pp.32-55)
“Il codice Da Vinci”
di Filippo Morlacchi
Occorre cercare di capire, per poter giudicare. Come mai il romanzo Il codice Da Vinci ha trasformato in breve tempo Dan Brown – uno sconosciuto docente di letteratura inglese con il pallino per la storia dell’arte e per il simbolismo esoterico – in un acclamato e ricchissimo autore di best seller? La risposta non è facile. La trama del thriller risulta complessivamente avvincente, ma non tale da giustificare gli oltre diciassette milioni di copie vendute in tutto il mondo. Si potrebbe anzi rilevare un certo calo di tensione verso la fine del racconto, quando il succedersi dei colpi di scena diventa così ripetitivo da risultare prevedibile o perfino esasperante. C’è un elemento però che caratterizza il romanzo dall’inizio alla fine: il voluto, inestricabile intreccio di elementi evidentemente fantastici con altri più credibili, in modo tale che il piano della fiction e quello della realtà non siano ben distinguibili. Questo, probabilmente, è stato lo stratagemma vincente. La versione originale (1) del romanzo, dopo una pagina di ringraziamenti riporta il seguente testo: «Fatto: Il Priorato di Sion – una società segreta europea fondata nel 1099 – è un’organizzazione reale. Nel 1975 la Biblioteca Nazionale di Parigi scoprì alcune pergamene conosciute come I dossiers segreti, che identificano numerosi membri del Priorato di Sion, inclusi sir Isaac Newton, Botticelli, Victor Hugo e Leonardo da Vinci. La prelatura vaticana conosciuta come Opus Dei è una setta cattolica profondamente religiosa che è stata l’argomento di una recente controversia dovuta ad accuse di lavaggio del cervello, coercizione e una pericolosa pratica nota come mortificazione corporale. L’Opus Dei ha appena completato la costruzione di un Quartier Generale Nazionale da 47 milioni di dollari al 243 di Lexington Avenue a New York City. Tutte le descrizioni di manufatti, architetture, documenti e rituali segreti in questo romanzo sono accurate» (2). Come si vede, l’autore avanza esplicitamente la pretesa di dire cose “accuratamente vere”, almeno rispetto ad alcuni elementi del romanzo. L’editore italiano (Mondadori) ha riportato la traduzione di questa pagina fino alla sesta ristampa; poi si è invece cautelato, mettendo in guardia il lettore con il classico avviso: «Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi o persone, vive o defunte, è assolutamente casuale» (p. 4 della traduzione italiana) (3). Tuttavia è evidente che le numerose affermazioni formulate dai personaggi del romanzo in relazione a numerosi argomenti di storia, religione, simbologia, crittografia, ecc., vogliono rivendicare validità scientifica. Il lettore viene così costantemente e deliberatamente indotto in errore, dal momento che svarioni grossolani e imperdonabili, imprecisioni veniali e comprensibili, deformazioni storiografiche fantasiosamente capziose ed affermazioni scientificamente accettabili si susseguono senza distinzione, presentate tutte su uno stesso livello. Il valore scientifico della maggior parte delle presunte verità affermate dai protagonisti del romanzo però non ha maggior consistenza storica della loro fantasiosa vicenda. Quanto afferma uno dei personaggi, la crittologa Sophe Neveu, a proposito della sua Smart rossa fiammante («Cento chilometri con un litro (4) », p.164) ha lo stesso valore di quanto afferma – ad esempio – il ricco sir Leigh Teabing a proposito del Concilio di Nicea (p. 272ss). Con la differenza che per scoprire la falsità della prima affermazione basta chiedere ad un possessore di Smart quanto fa con un pieno, mentre l’accertamento di complesse verità storiche relative ad un concilio svoltosi nel 325 d.C. richiede una verifica decisamente più laboriosa, che ben pochi hanno voglia di attuare, finendo così con l’accettare per buone le presunte rivelazioni del romanzo. Rivelazioni che però – come giustamente osservava l’editore italiano – sono pura «opera di fantasia».
Si può dunque sostenere che il romanzo, pur essendo nella sua confezione esterna un thriller, è un vero e proprio “romanzo di idee”. La vicenda intende offrire al lettore suggestioni e spunti per riflettere, e non il puro divertimento di un racconto giallo. Dan Brown ha scritto il romanzo come strumento per diffondere alcune sue convinzioni, basate – a suo dire – su certi fatti. Peccato però che molti di questi presunti fatti non siano tali. Quali sono queste idee e questi fatti, e perché possiamo dire che si tratta di una bufala? Dobbiamo andare per gradi.
La tesi di fondo del romanzo si può riassumere così: la Chiesa cattolica, la cui gerarchia è composta da soli uomini, ha funzionalmente costruito una cultura misogina nascondendo una terribile e scomoda verità: Gesù Cristo amava Maria Maddalena, desiderava affidare a lei la guida della sua comunità e generò con lei una discendenza “di sangue reale”, che attraverso i Merovingi, è giunta fino a noi. A causa degli interessi della gerarchia ecclesiastica e con la complicità dell’imperatore Costantino, tutta la cultura ebraico-cristiana si è invece fondata sul pregiudizio maschilista e sul nascondimento di ogni testimonianza a favore del “sacro femminino”. Ma una setta denominata Priorato di Sion, da sempre custode di questo terribile segreto, sarebbe oggi pronta a rivelare questo segreto al mondo intero. Questa teoria sarebbe suffragata, secondo l’autore, da alcuni presunti fatti, relativi in particolare al Priorato di Sion e all’Opus Dei. Ora, l’intera costruzione dimostra la sua fragilità, se si considera che tutto ciò che viene affermato a proposito del Priorato di Sion è invece assolutamente falso.
Non voglio fornire un resoconto dettagliato della trama (è l’unica cosa che merita la lettura del libro, e non vorrei togliere ai possibili lettori il gusto di scoprire come va a finire l’intreccio), né di tanti elementi storiografici inseriti nel romanzo, relativi alle leggende del Santo Graal, al Priorato di Sion, all’ordine dei Templari, ecc. (5) Mi limiterò a esaminare, riportando alcune citazioni, le tesi “ideologiche” più avventate e, a mio giudizio, più pericolose del volume.
Ecco perciò una raccolta antologica delle affermazioni che il lettore ingenuo potrebbe accogliere come verità finalmente svelate, se dimenticasse che non solo luoghi e persone – come l’autore dichiara – ma anche le tesi proposte dai protagonisti del romanzo non vanno prese per oro colato, ma sono frutto di pura invenzione.
1) La lunga presentazione di Costantino imperatore come pagano impenitente che si sarebbe servito del cristianesimo per vantaggio politico («un ottimo uomo d’affari [che] vedendo che il cristianesimo era in ascesa si è limitato a puntare sul cavallo favorito», p. 272), redattore della Bibbia tramite la distruzione dei vangeli da lui ritenuti pericolosi («commissionò e finanziò una nuova Bibbia, che escludeva i vangeli in cui si parlava dei tratti umani di Gesù», p. 275), primo assertore della divinità di Cristo al Concilio di Nicea («fino a quel momento storico, Gesù era visto dai suoi seguaci come un profeta mortale: un uomo grande e potente, ma pur sempre un uomo», p. 273) è infarcita di errori. Nella discussione si leggono alcuni ridicoli anacronismi; ad esempio, l’affermazione che «stabilire la divinità di Cristo fu un passo cruciale per l’ulteriore unificazione tra l’Impero Romano e il nuovo potere con sede nel Vaticano» (p. 274): l’errore sarebbe imperdonabile anche per un alunno di scuola media, considerando che la sede del papato non fu il Vaticano, ma il colle Laterano, e questo fin dopo la cattività Avignonese, mille anni dopo Costantino. Oppure l’affermazione che «quando Costantino aveva innalzato la condizione di Gesù [da umana a divina], erano passati quasi quattro secoli dalla morte di Gesù stesso» (p. 275): tra la morte di Cristo (avvenuta circa nell’anno 30 dell’Era Volgare) e il concilio niceno (tenutosi nel 325) passano meno di trecento anni, e non quasi quattro secoli (e bisogna aggiungere che affermazioni della filiazione divina di Gesù di Nazareth erano formulate in maniera chiara già nella tradizione cristiana del primo secolo!). Vi sono poi numerose affermazioni non documentate (e non documentabili); ad esempio, che «più di ottanta vangeli sono stati presi in considerazione per il Nuovo Testamento» (p. 272: il numero è di pura fantasia, assolutamente non ricostruibile); che «naturalmente, il Vaticano, per non smentire la sua tradizione di disinformazione, ha cercato di impedire la diffusione di questi testi [cioè i papiri di Qumran e di Nag Hammadi]» (p. 275: tra gli studiosi più qualificati di questi testi ci sono numerosi cattolici); la tesi che la Chiesa costantiniana abbia voluto cancellare i tratti umani di Gesù facendone un essere divino («la Chiesa delle origini doveva convincere il mondo che il profeta mortale Gesù era un essere divino», p. 286: chiunque abbia sfogliato un manuale di storia dei dogmi, o anche solo il catechismo, sa bene che la dottrina cristiana insiste sulla duplice natura, umana e divina, nell’unica persona di Gesù: nessuna cancellazione, dunque, della natura umana); e tante altre presuntuose sciocchezze, reperibili alle pp. 271-77 (6). È sufficiente leggere un’aggiornata introduzione al testo biblico o un testo documentato di storia della chiesa antica per smentire una ad una simili pretestuose affermazioni.
2) La Chiesa è trattata da Brown in modo contraddittorio: da un lato è considerata attrice perversa di una consapevole mistificazione (vuol nascondere al mondo la verità su Cristo), dall’altro sembra invece ingenuamente succube dei propri errori («la Chiesa moderna … è convinta della tradizionale visione di Cristo. Nel Vaticano ci sono molti uomini di profonda fede religiosa, certi che questi documenti (cioè i vangeli gnostici) siano testimonianze false»: pag. 275).
L’aspetto più insidioso e subdolo dell’insieme è dato però dal fatto che, sparse qua e là, si trovano anche alcune affermazioni corrette, che confondono le acque al lettore inesperto, rendendogli difficile tracciare il confine tra verità e menzogna, fantasia e ricostruzione storica.
Ad esempio, è innegabile che «la Bibbia non ci è arrivata per fax dal cielo» (p. 271), come invece sostengono le teorie fondamentaliste, o che «le sopravvivenze della religione pagana nella simbologia cristiana sono innegabili» (p. 272). Allo stesso modo, stili di vita e di pensiero che a buon diritto possono essere attribuiti all’Opus Dei – una delle lobbies che giocano un ruolo determinante nel racconto – si intrecciano con mistificazioni ed esagerazioni infamanti.
Solo una lettura attenta del romanzo, da parte di persone competenti e avvedute, consente di separare la verità dall’errore, così intimamente intrecciati a bella posta nel racconto.
3) Le spiegazioni sulle opere di Leonardo, in particolare La vergine delle Rocce e L’ultima cena mescolano interpretazioni assolutamente stravaganti e insostenibili (a titolo di esempio segnalo la teoria che identifica il discepolo che sta alla destra di Gesù ne L’ultima cena con Maria Maddalena) ed elementi veritieri (come ad esempio il riferimento ai pessimi restauri del diciottesimo secolo, p. 286). Sull’argomento, rimando alla letteratura specifica di critica d’arte.
4) La leggenda sul rapporto tra Gesù e Maria Maddalena, ampiamente diffusa nelle tradizioni gnostiche fin dall’antichità e poi in ambienti catari, percorre il romanzo come un fil rouge.
«Come ho detto, il matrimonio di Gesù e Maria Maddalena è storicamente documentato… Non l’annoierò con gli infiniti riferimenti all’unione tra Gesù e Maria Maddalena. È stata esplorata fino alla nausea dagli storici moderni» (p. 287-8; 290). Ebbene, perché questa documentazione non viene mai prodotta, e neppure indicata? L’argomento che «se Gesù non fosse stato sposato, almeno uno dei vangeli della Bibbia avrebbe accennato alla cosa e avrebbe fornito una spiegazione di quella innaturale condizione di celibato» (p. 288) può essere facilmente rivoltato: non solo i vangeli canonici, ma neppure i vangeli apocrifi a noi conosciuti parlano mai di un matrimonio di Gesù con Maria Maddalena, come giustamente la bella Sophie obietta al Maestro. Non sarà che tale matrimonio è solo un parto della fantasia? Il testo del Vangelo di Filippo che viene citato nel romanzo (7) poi non è scritto in aramaico, come sembra potersi evincere dalle parole del dotto (o presuntuoso) Teabing (p. 288), ma in copto, e probabilmente l’originale perduto era in greco.
5) Ben più complesso si fa il discorso a proposito dell’“oblio del femminile” all’interno della Chiesa e della dottrina ecclesiale. Qui, senza cadere in unilateralità femministe, la Chiesa può e deve fare ammenda delle proprie colpe; in parte è già stato fatto in opportuna sede nel corso dell’ultimo anno giubilare. Ma una valutazione onesta deve tener conto anche della dottrina cristiana sulla Vergine Maria, della riflessione biblico-patristica sulla Sapienza (Sophia), di quella biblico-rabbinica sulla Shekinah (ricordata, ma totalmente fraintesa a p. 364) fino alla recente sofiologia dei teologi russi del secolo scorso (V. Soloviev, ecc.). Evidentemente l’autore, in «un romanzo così pesantemente basato sul sacro femminino» («a novel drawing so heavily on the sacred feminine»: Ringraziamenti della v. o.), è interessato più a descrivere le idee gnosticheggianti da lui scoperte con stupore di rivelazione, che a discutere onestamente la dottrina cattolica e la sua tradizione.
6) A pag. 316 il riferimento alle dottrine New Age e all’avvento dell’era astrologica dell’acquario si fa esplicito. Ciò che fa sorridere è il collegamento tra l’era dei Pesci, conclusa con il cambio di millennio, e caratterizzata dal fatto che «l’uomo debba ricevere ordini dai poteri superiori perché è incapace di pensare da solo» (p. 314), con la persona di Cristo, indicato con il simbolo del pesce. L’antichissima identificazione di Gesù con il pesce, come neppure uno studentello può permettersi di ignorare, si deve al fatto che la parola greca ichtýs (pesce) è acronimo di Iesous Christos Theou Yios Sotèr (Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore), e non a considerazioni astrologico-zodiacali. La libertà interiore insegnata da Gesù sembrerebbe poi adattarsi meglio alla spiritualità dell’Acquario, «il cui ideale afferma che l’uomo è capace di apprendere la verità e di pensare per sé» (p. 314); e, soprattutto, il simbolo del pesce rivela l’antichità della fede in Gesù Figlio di Dio, contro quanto affermato nelle pagine precedenti.
7) Il pentametro giambico e la sua simbolica. Ancora una volta, si mescolano un insieme di mezze verità e di seducenti affinità simboliche. È vero che il giambo è un piede formato da «due sillabe con enfasi opposte. Lunga e breve» (p. 356; in realtà il giambo è composto da una breve e una lunga; ma evitiamo la pedanteria…); però da qui a dire che si tratti di «Yin e yang. Una coppia equilibrata. In fila di cinque. Cinque come il pentacolo di Venere e del femminino sacro» (ivi) mi pare che ne corra. Si tratta del vezzo (che sembra risuscitato di sana pianta dal gusto medioevale) di cercare una selva di simboli nascosti in tutto. Non escludo che si possano trovare elementi simbolici in ogni cosa; mi pare però onesto chiedersi se ciò sia frutto della realtà stessa o non piuttosto della lente con cui la realtà viene letta.
8) La spiegazione dello hieros gamos (nozze sacre) fornita alle pagg. 362ss è un’accozzaglia confusa di elementi provenienti da religioni di epoche storiche e aree geografiche assolutamente eterogenee, frutto di letture storico-religiose affrettate e mal digerite. Impossibile negare il valore sacrale universalmente attribuito alla sfera della sessualità, presso ogni cultura; ma confondere culto della dea madre, prostituzione sacra, misteri dionisiaci, tantrismo e quant’altro in un unico calderone è segno di ignoranza, non di eclettismo. Che poi nel tempio di Gerusalemme si praticasse la prostituzione sacra è un’accusa infamante a cui i fratelli maggiori ebrei dovrebbero rispondere energicamente, se non ci fosse motivo di dubitare dell’utilità di ogni contenzioso, data l’ottusità della controparte. Infine sostenere che «il tetragramma ebraico YHWH – il nome sacro di Dio – derivava da Yahweh ovvero Geova, androgina unione fisica tra il maschile “Jah” e il nome preebraico di Eva, “Hawa” o “Havah”» (p. 364) è affermazione degna di nota solo perché non era facile dire tante sciocchezze in una frase sola. Per smentirle tutte dovrei scrivere troppo a lungo, e mi astengo dal farlo.
In conclusione, la tesi di fondo del libro, oltre al recupero del femminile divino (di cui ho già segnalato gli aspetti positivi, che pur ci sono), mi sembra la seguente: «tutte le religioni del mondo sono basate su falsificazioni. È la definizione di “fede”: accettare quello che riteniamo vero, ma che non siamo in grado di dimostrare. Ogni religione descrive Dio attraverso metafore, allegorie e deformazioni della verità, dagli antichi egizi fino agli attuali insegnamenti di catechismo. Le metafore sono un modo per aiutare la nostra mente a spiegare l’inspiegabile. I problemi sorgono quando cominciamo a credere alla lettera alle nostre metafore… Dovremmo proclamare che Gesù non è nato da un parto letteralmente verginale? Coloro che comprendono veramente la loro fede sanno che queste storie sono metafore» (p. 401-2; v. o. p. 369-370). Ebbene, questa è l’essenza del docetismo e dello gnosticismo, eresie contro cui già alla fine del primo secolo la Chiesa si è dovuta scontrare: «ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio» (1Gv 4,2).
Insomma, nulla di nuovo; a parte il fatto che l’ignoranza della fede è il miglior pascolo per alimentare la confusione. Come ha recentemente segnalato il già citato M. Introvigne (8), un libro che parla del divino ma sparla della Chiesa viene felicemente incontro ai desideri dell’uomo religioso di oggi. In un tempo in cui sembra diffondersi sempre più il fenomeno del believing without belonging («credere senza appartenere», ossia senza sentirsi parte di una chiesa, perché “appartenere” è più impegnativo), un romanzo del genere – che tratta di apertura religiosa all’invisibile, ma senza alcun vincolo dogmatico, complotti e società segrete, critica della Chiesa cattolica e rivelazioni di presunte verità nascoste – non poteva non incontrarsi con le “richieste del mercato”. Con buona pace dell’onestà intellettuale.
Note
(1) The Da Vinci Code. A novel, Doubleday, New York – London – Toronto – Sydney – Auckland 2003; d’ora in poi abbreviato con: v. o. Per facilità di consultazione, quando non indicato altrimenti, le pagine del testo citate nell’articolo si riferiscono invece alla traduzione italiana di R. Valla.
(2) «FACT: // The Priory of Sion––a European secret society founded in 1099––is a real organization. In 1975 Paris’s Bibliothèque Nationale discovered parchments known as Les Dossiers Secrets, identifying numerous members of the Priory of Sion, including Sir Isaac Newton, Botticelli, Victor Hugo, and Leonardo da Vinci. // The Vatican Prelature known as Opus Dei is a deeply devout Catholic sect that has been the topic of recent controversy due to reports of brainwashing, coercion, and a dangerous practice known as “corporal mortification.” Opus Dei has just completed construction of a $47 million National Headquarters at 243 Lexington Avenue in New York City. // All description of artwork, architecture, documents, and secret rituals in this novel are accurate» (pag. 1).
(3) Dopo che questo anomalo fatto è stato pubblicamente segnalato da M. Introvigne (insigne esperto italiano di nuovi movimenti religiosi, sette ed esoterismo) la pagina è “miracolosamente” ricomparsa nelle più recenti edizioni e ristampe. Chissà, forse dietro il libro c’è davvero qualche potere occulto e magico!…
(4) Si dice proprio “al litro” (“to the liter”: v. o. pag. 147) e non “per gallone”, come si poteva benevolmente supporre: non è dunque una svista del traduttore italiano, ma proprio uno sfondone dell’autore.
(5) Se ne può trovare un dettagliato resoconto critico nel documentato articolo di Massimo Introvigne “Il Codice Da Vinci”: ma la storia è un’altra cosa, disponibile on-line sul sito www.cesnur.it. Dello stesso autore è prevista la pubblicazione per settembre 2005 del volume Gli Illuminati e il Priorato di Sion. La verità dietro Angeli e Demoni e Il Codice da Vinci (ediz. Piemme): la competenza dell’autore è una garanzia di affidabilità rispetto alle decine di testi già usciti sul Codice. Per riassumere la questione, si può dire che un’associazione denominata “Priorato di Sion” esiste, ma non risale al 1099, e non vi hanno preso parte Botticelli, Leonardo, Newton o Hugo, come afferma Il codice Da Vinci. È stata infatti fondata il 7 maggio 1956 da Pierre Plantard (1920-2000), un ex collaboratore del governo filo-nazista di Vichy; i documenti detti dossiers segreti che narrerebbero la sua millenaria fondazione sono invece dei falsi, composti nel 1967, come ha ammesso alcuni anni dopo uno dei falsari che li ha prodotti su richiesta di Plantard, tal Philippe de Chérisey. Ma i manoscritti furono ritenuti autentici da Gérard de Sède, il quale li pubblicò nel suo volume L’Or de Rennes (1967); tre giornalisti anglosassoni – Henry Lincoln, Michael Baigent e Richard Leigh – credettero alla verità di questi falsi, e riscrissero la storia arricchendola di nuovi elementi e adattandola al pubblico inglese nel volume The Holy Blood and the Holy Graal (1982). Infine Dan Brown ha letto quest’ultimo volume, credendo alla verità di quanto vi era contenuto, e lo ha preso come spunto per il suo The Da Vinci Code (2003). Recentemente Baigent e Leigh hanno intentato causa a Brown, accusandolo di aver copiato il loro libro senza citarli esplicitamente; infatti l’unico riferimento al loro volume è il fatto che uno dei protagonisti del romanzo – e guarda caso proprio il “cattivo” – si chiama Leigh di nome e Teabing (anagramma di Baigent) di cognome. Cfr l’intervista di R. POLESE a R. Leigh: Dan Brown ci ha saccheggiati, Corriere della Sera, 9 maggio 2005, p. 23. Ma a noi interessa rilevare che la prima e fondamentale delle “fonti sicure” di Brown è un volume assolutamente inaffidabile, poiché basato su un falso storico.
(6) V. o., pp. 250-256 (cap. 55).
(7) «La consorte di Cristo è Maria Maddalena. Il Signore amava Maria più di tutti i discepoli e la baciava spesso sulla bocca. Gli altri discepoli allora gli dissero: – Perché ami lei più di tutti noi? – Il Salvatore rispose e disse loro: – Perché non amo voi tutti come lei?» (Vangelo di Filippo, 55, ad es. in: I Vangeli apocrifi, a cura di M. Craveri, Einaudi, Torino 1969, p. 521). Il testo va messo in parallelo con la dottrina gnostica della generazione spirituale per mezzo del bacio, perché dalla bocca scaturisce il Verbo, ossia la Parola: «il perfetto diventa fecondo per mezzo di un bacio, e genera» (ivi, 31, p. 516). La matrice gnosticheggiante del pensiero di Brown si manifesta con chiarezza nella scelta del nome di Sophie, “Sofia, Sapienza”, per la protagonista femminile del romanzo: la coppia “Gesù – Maddalena” nel pensiero gnostico è riflesso di quella “Salvatore – Sapienza”. E guarda caso, l’ultima discendente di Maria Maddalena si chiama proprio Sophie!... Come spiega il curatore della citata edizione dei vangeli apocrifi, facendo riferimento alla dottrina gnostica delle coppie di eoni o syzugìai, «l’unione perfetta dei due eoni Sotèr/Sophia è il motivo del maggior affetto dimostrato da Gesù a Maria Maddalena» (nota 3, p. 521). Difficile stabilire un confine tra l’ingenua ignoranza e la voluta malizia di Brown.
(8) “Il Codice da Vinci”: tutta la verità, in Vita pastorale, 5 (2005) 86-91.
Con lo sguardo fisso al mistero dell’incarnazione di Cristo Gesù entriamo liturgicamente nel tempo dell’Avvento, tempo di speranza e di attesa, nel quale siamo invitati a preparare la via del Signore che viene nella debolezza della nostra carne, con la mente ed il cuore rivolti al suo ultimo e definitivo avvento.
di Renzo Bertalot
Premessa
Paolo III aveva sollevato gli spiriti europei ai più alti livelli di attesa per una riforma della chiesa. Imperatori, principi e teologi si erano rimboccate le maniche per correggere quelli che allora erano detti alcuni abusi.
A Ratisbona nel 1541 vi fu in proposito una gran festa Se l'incontro non raggiunse i risultati sperati si trattò soltanto di un rinvio imperiale al prossimo concilio.
Nel 1542 tutto cambiò. Le motivazioni sono, come sempre, nelle mani di storici scrupolosi, in grado di investigare innumerevoli archivi e biblioteche. Da loro (1) si rimane in continua attesa, quando si è lontani dalle cattedre specialistiche, di una buona soggettività visto che l'oggettività non mai al nostro orizzonte. Tuttavia diventa difficile trattenere nella penna dell'osservatore, che non è storico di professione, qualche supposizione.
Intanto con l'inquisizione di tipo spagnolo instaurata molti fuggono dall'Italia. Teologi italiani, esuli famosi, sono accolti presso le cattedre più prestigiose d'Europa. Non è senza significato che ad Oxford la lingua ufficiale dell'università sia appunto l'italiano (2).
A Ginevra si costituisce una chiesa italiana che raccoglie i rifugiati sfuggiti all'inquisizione. La comunità raggiungerà dalle quattromila alle cinquemila unità. V'erano valdesi, veneti, lucchesi, napoletani e anche valdesi fuggiti dalla strage di Calabria. L’istituzione resse per due secoli e la sua borsa per il soccorso agli esuli durò fino al 1870 (3).
Erano tempi molto difficili. Ogni ombra di riforma venne eliminata dalla penisola. I divulgatissimi libri di origine protestante vennero un po' ovunque ammucchiati nella piazze e dati alle fiamme. Si considerava una grazia la decapitazione al posto del rogo!
Per la Riforma in Italia fu un'eclissi totale. Bisognerà arrivare fino alla seconda metà del secolo scorso per veder tornare il sole alle sue prime luci di un'era nuova. Si è iniziato un cammino in cui nessuno può fermarsi pretendendo che soltanto l'altro si muova. Per gli uni una perennis reformatio, per gli altri una ecclesia semper reformanda.
Dei tanti nomi ne ricorderemo uno solo: Galeazzo Caracciolo, quasi un simbolo dell'epoca.
La vita
Galeazzo Caracciolo nasce a Napoli da Colantonio Caracciolo (fatto marchese di Vico da Carlo V) e da madre della famiglia Carafa. Sposa Donna Vittoria figlia del duca di Nocera dalla quale ebbe quattro figli maschi e due femmine (4).
Galeazzo Caracciolo non è un dotto né un teologo; è un nobile addetto ai vari incarichi di corte sia all'interno che all'estero. Era giunto a conoscenza delle idee di Juan Valdes che da otto anni teneva una scuola in città (5) e predicava la giustificazione per fede contro la propria giustizia, i meriti delle opere e le superstizioni.
Un suo congiunto, Gian Francesco Alois, lo porta ad assistere ad una lezione di Pietro Martire Vermigli, allora canonico regolare. Fu il " colpo di fulmine" (6). Il predicatore nel commentare la Sacra Scrittura si soffermò a lungo sull'immagine del ballo. Quando si osserva da lontano la gente che balla, ma non si sente il suono della musica si è convinti che si tratta di pazzi, ma avvicinandosi al gruppo e lasciandosi coinvolgere dalle note si comincia volentieri a ballare. Così è dello Spirito di Dio. Era il 1541. Marcantonio Flaminio gli scrisse una lunga lettera, conservataci integralmente, esortandolo a perseverare (7).
Galeazzo Caracciolo cambiò radicalmente vita. Vi fu gran festa tra i valdesiani e anche per Vittoria Colonna che allora abitava a Viterbo e gli mandò i saluti di Reginald Pole (8). Fu determinante l'influenza di Pietro Martire Vermigli (9).
Per il padre Colantonio e la moglie Vittoria la conversione di Galeazzo non fu soltanto un pericolo da scongiurare, ma soprattutto un disonore e un'infamia per tutto il casato e per tutti.
L’8 giugno 1551 il Caracciolo arrivò a Ginevra sconosciuto e forse anche sospettato. Fu accolto come uno qualsiasi. Prestò giuramento ed elesse come suo maestro Calvino che lo accettò come amico e consulente. Il riformatore gli dedicò il commentario alla Prima Lettera ai Corinti e più tardi l'intera traduzione italiana Istituzione della religione cristiana (10). In suo onore fu coniata una grossa medaglia che rimane l'unica effigie di Galeazzo Caracciolo.
La famiglia
Galeazzo Caracciolo era pronipote di Gianpietro Carafa futuro Paolo IV. A Napoli venne stabilita la confisca dei beni e dei titoli nobiliari. Il padre supplicò l'imperatore di risparmiare l'infamia per la famiglia. Ottenne la grazia, ma non convinse Galeazzo. Chi aveva tentato la fuga, ma esitò a passare la frontiera, venne catturato, decapitato o condannato al rogo (11).
Galeazzo non era insensibile ai legami familiari ma non era disposto a cedere in materia di fede. Accettò di incontrare il padre prima a Verona, poi a Mantova e ancora nell'isola dì Lesina, dove avrebbe dovuto rivedere anche la moglie (sempre innamorata del marito) che invece mancò all'appuntamento. Galeazzo fu contento di rivedere i suoi, ma fu irremovibile. L'ultima volta decise di andare direttamente a Vice rischiando anche di essere imprigionato (12). Le suppliche di ritornare sui suoi passi non lo fecero retrocedere, neppure quelle della sua figlia dodicenne. Partì con il cuore spezzato, ma la moglie, sotto la minaccia di scomunica del confessore, rifiutò di seguirlo. Il padre giunse quasi a maledirlo.
Sulla via del ritorno visitò i riformati della Valtellina e dei Grigioni. Nel 1558 ritornò a Ginevra e diede inizio alle pratiche del divorzio.
Il divorzio
Sulla questione del divorzio ci fu una lunga consultazione. Calvino chiese il parere di molti, tra cui Pietro Martire Vermigli, Bullinger e Ochino. Tutti si mostrarono favorevoli. Calvino, a nome del sindaco e del concistoro, scrisse direttamente a Vittoria che non accettò di seguire il marito. Il Piccolo Consiglio diede allora il parere favorevole al divorzio e al permesso di risposarsi (13).
Sposerà Anna Framèry vedova e anch'essa rifugiata (14).
La comunità
Intanto nel 1552 a Ginevra si era costituita la chiesa italiana. Massimo Martinengo da Brescia, già collaboratore di Pietro Martire Vermigli, viene eletto pastore e approvato dalla Compagnia dei pastori. La reggenza della chiesa è sostenuta da quattro anziani e da quattro diaconi.
Galeazzo Caracciolo frequentava la predicazione e leggeva la Sacra Scrittura, aveva l'incarico di sorvegliare gli italiani per evitare scandali, spionaggio (15) con i dissidenti anabattisti e antitrinitari.
La comunità italiana fornì anche pastori all'Italia tra cui Giovanni Luigi Pascale che morì martire.
Giordano Bruno soggiornò due mesi a Ginevra esercitando l'arte del correttore in una stamperia. Non aderì alla Riforma e partì per Venezia dove l'inquisizione lo braccò e nel 1600 finì sul rogo a Roma.
L'epilogo
Un religioso cattolico fu ancora inviato a Ginevra per convincere Galeazzo a tornare sui suoi passi per non impedire il proseguimento della carriera ecclesiastica del figlio Carlo, ma la sua insistenza aveva un carattere provocatorio e fu allontanato (16). Il padre Colantonio era morto nel 1562 a settantasette anni. Il figlio di Galeazzo, anche lui di nome Colantonio, fu sospettato di eresia e morì a Venezia nel 1577. Vittoria muore il 18 settembre del 1584 e Anna Frambèrv l'anno successivo (17).
Galeazzo Caracciolo muore il 7 maggio del 1586 a settantanove anni. Così si arriva alla fine dei marchesi di Vico.
NOTE
1. Il testo segue in particolare: E. Comba (a cura), Nicolao Balbani, Historia della vita di Galeazzo Caracciolo, Claudiana, Firenze, 1875 e B. Croce, Un calvinista italiano. Il marchese di Vico, Laterza, Bari, 1973.
2. R. Bertalot, Dalla Teocrazia al laicismo. Propedeutica alla filosofia del diritto, Università di Sassari, Sassari, 1993, p. 78.
3. Croce, Un calvinista, p, 48.
4. Comba, Nicolao Balbani, Historia, pp. 11-13.
5. Croce, Un calvinista, p. 12.
6. Croce, Un calvinista, p. 13.
7. Comba, Nicolao Balbani, Historia, pp 17-24.
8. Comba, Nicolao Balbani, Historia, p. 14.
9. Ricordiamo il De fuga in persecutione. Cf Croce, Un calvinista, p. 17.
10. S. Caponetto, La Riforma protestante nell'Italia del Cinquecento, Claudiana, Torino, 1997, p. 265.
11. Pietro Carnesecchi è uno dei tanti. Cf. Croce, Un calvinista, p. 30.
12. Comba, Nicolao Balbani, Historia, p. 39.
13. Croce, Un calvinista, pp. 41-44.
14. Croce, Un calvinista, p. 50.
15. Comba, Nicolao Balbani, Historia, p. 68; Croce, Un calvinista, p. 51.
16. Croce, Un calvinista, p. 71.
17. Croce, Un calvinista, pp. 67-73.
(Tratto da: Renzo Bertalot, Fasi della cultura europea d’oltralpe, Venezia, 2003, I.S.E., Quaderni di Studi ecumenici 7, p. 23).Russia:
il problema delle diocesi cattoliche
di
Vladimir Zelinskij
Per capire la sostanza del conflitto attuale cattolico-ortodosso in Russia prima di tutto non bisogna diminuirlo. Non si tratta del litigio di famiglia fra i grandi capi delle due Chiese ex-sorelle, ma di cose più serie, più profonde. Basta fare una passeggiata per le parrocchie ortodosse di Mosca o di Pietroburgo; fra le centinaia sarà difficile trovarne almeno una decina dove non siano esposti gli opuscoli polemici, non direi solo contro la nuova “Ostpolitik” del Vaticano, ma contro la fede cattolica come tale. Il filioque, le eresie, il papismo, ma soprattutto il papa in persona. “Questo vecchio che non è neanche più capace di piegarsi per baciare un pezzo di terra, pretende di prendere tutta la terra russa, oggetto della bramosia dei papi di Roma” – leggiamo sulla rivista ‘nazional-religiosa’ La casa russa. Nello stesso tempo la mano secolare dello Stato, che non legge le riviste, ma che ha bisogno di una nuova ideologia dell’unità nazionale, toglie dai passaporti dei sacerdoti cattolici i visti d’ingresso permanente in Russia.
L’ecumenismo, già nato molto debole, è come svenuto in Russia e la notizia dell’istituzione in loco di alcune diocesi cattoliche fu, in pratica, la constatazione del suo coma. E tutto questo si poteva prevedere facilmente. Perché ciò che sembrava essere una cosa normalissima per la Chiesa Cattolica, che da secoli coabita senza problemi con le altre religioni e confessioni e che si organizza in modo suo su tutto il pianeta, è diventata una ferita aperta nella sensibilità, nella fede e nell’ecclesiologia della Chiesa Ortodossa, che vive secondo il principio antico ed apostolico: la Chiesa locale sul territorio di un popolo. San Paolo scrisse “alla Chiesa di Dio che è in Corinto” (1 Cor.1,2), che vuol dire che tutta la pienezza dei doni di Dio sia data al suo popolo che abita in Corinto e si trova in comunione con le altre Chiese locali. La comunione fra di loro nelle preghiere e nei sacramenti, nella Tradizione e nei riti, nel passato apostolico vissuto insieme e nei santi comuni, fa il principio della cattolicità ecclesiale dal punto di vista ortodosso. Un vescovo che presiede la Chiesa locale non può interferire nella vita di un’altra Chiesa e l’Ortodossia rigetta il principio della “giurisdizione immediata” del primo vescovo (sia di Roma, sia di Costantinopoli sia di qualsiasi altro vescovo) sui fedeli delle altre diocesi. La Chiesa Cattolica si è comportata come se la Chiesa Ortodossa locale (nel nostro caso: Russa) non ci fosse.
Nella storia, tutti i dogmi che dividono oggi l’Oriente cristiano dall’Occidente furono adottati come “il polmone orientale” che non respira più. Anche oggi nessun dialogo sull’argomento delle diocesi, nessuna consultazione con la Chiesa locale prima della decisione presa: per la Chiesa Cattolica è chiaro che si tratta del suo problema interno.
Invece per la Chiesa Ortodossa non è così. Per questo motivo, quando sente dire da parte della sua “Grande Sorella” dell’Occidente: “siamo amiche, siamo sorelle (o quasi), cerchiamo la comunione e la testimonianza comune davanti al mondo secolarizzato”, la Chiesa Ortodossa dice: “no”. Sembra strano, ma questo “no” in fondo può essere più ecumenico dell’appello permanente e sorridente al dialogo. Perché il “no” ortodosso, da la sua testimonianza anche se negativa della visione della Chiesa unita, della riconoscenza della Chiesa Cattolica come la “Chiesa locale dell’Occidente”. Nel nostro caso, una Chiesa locale fa l’interferenza nel “territorio canonico” di un’altra Chiesa locale e questo atto suscita la sua protesta.
Si pone la domanda: perché la Chiesa Ortodossa non protesta in modo così forte contro la presenza sul suo territorio delle altre “chiesette” che vengono dall’estero o dall’interno? Protesta, ma in modo diverso, perché non vede alcun elemento di ecclesialità in questi movimenti. Loro sono fuori “dall’ovile”, fuori dalla Tradizione apostolica (dal punto di vista ortodosso) e con loro non c’è un vero e proprio dialogo ecclesiale, dunque non c’è neanche il senso doloroso di offesa e di rammarico. Paradossalmente, in fondo a questo senso di offesa nei confronti dei cattolici, si può trovare una traccia di memoria della Chiesa indivisa. Certo, nella reazione così violenta da parte della Chiesa Russa e del suo gregge, vi sono tanti fattori che hanno poco in comune con la vita ecclesiale. Lo shock della libertà che è caduta addosso senza nessuna preparazione, l’ondata della secolarizzazione che tanti credono sia stata inviata dall’Occidente, (ma, in realtà, l’Occidente ha semplicemente portato la merce che la Russia stessa ha ordinato), la ricerca dell’anima nazionale come difesa contro questa ondata di porcheria (che a l’Est dell’Europa è più caotica e disordinata che all’Ovest), ma soprattutto la sensibilità tipicamente russa a qualsiasi invasione dall’estero, sia puramente culturale che “spirituale”.
L’argomento comune: che voi, ortodossi, avete aperto o state per aprire tante vostre chiese qui, da noi, in Occidente, non funziona nel nostro caso. Il discorso logico e giuridico cede il terreno alla sensazione della minaccia e del complotto.
La soluzione? Prima di tutto ascoltare e capire. Capire il ragionamento di un altro e sentire il suo cuore. Ciò che l’Ortodossia non può capire è che il vescovo di Roma per i cattolici è molto di più di un vescovo. Infallibile o meno, il Papa viene percepito come un canale della Rivelazione che continua nella Chiesa, come un’icona vivente e parlante. Anche i cattolici devono sforzarsi di capire che la terra per i popoli ortodossi può divenire un’icona, silenziosa e piena di mistero, come tutte le altre icone, che raccolgono in sé la luce del regno e la memoria sacra. Non guardare gli abusi, le debolezze e gli errori di un altro (ce ne sono abbastanza da ambedue le parti), ma contemplare le icone di ciascuno, entrare nella sostanza della sua fede e cercare la corrispondenza del suo agire con questa sostanza.
Sul piano pratico: perché non cerchiamo di riunire i vescovi locali, ortodossi e cattolici, per risolvere alcuni problemi insieme? È chiaro che l’inizio non sarà facile. Perché non cercare di avviare alcune iniziative comuni in campo umanitario o altro? Senza dubbio, subito non andrà tutto liscio. Perché senza imporre il dialogo, non chiedere, cosa abbiamo in comune nella sostanza, nel mistero di Cristo incarnato e risorto? Forse non si potrà evitare la polemica, o peggio, il silenzio dell’indifferenza o della poca fiducia. Però bisogna insistere, non perdere la speranza. “Bussate e vi sarà aperto” (Mt.7, 7).
Quadro sintetico delle relazioni
tra le comunionida aprile a ottobre 2004
(a cura di P. Franco Gioannetti)
Ortodossi
Il Cardinale Philippe Barbarin, arcivescovo di Lione, Primate delle Gallie e Mons. Gerard Dancourt, Vescovo di Nantene, si sono recati il 13/04/04, martedì di Pasqua, presso il Patriarca di Costantinopoli per pregare con lui nel giorno dell’ottocentesimo anniversario del sacco di Costantinopoli da parte dei crociati. L’incontro tra i due vescovi ed il Patriarca è stato caratterizzato da cordialità e dialogo.
La sessantesima sessione del “Dialogo Teologico Cattolico-Ortodosso dell’America del Nord” si è svolto dall’1 al 3 giugno 2004 presso l’Istituto teologico ortodosso della S. Croce a Boston, sotto la co-presidenza di Mons. Daniel Pilarczyk. La Commissione ha esaminato le reazioni, fondamentalmente positive, ad una sua recente pubblicazione di una dichiarazione sulle implicazioni teologiche ed ecclesiologiche del Filioque. Ha anche iniziato a discutere il suo nuovo tema di studio per gli anni a venire che è: “Conciliarità-Sinodalità ed il primato nella Chiesa”.
Vari interventi sul tema sono stati fatti in relazione all’enciclica “Ut unum sint”. Il secondo giorno di lavoro è stato consacrato ad un giro di orizzonti sulle relazioni cattolici-ortodossi e ad uno scambio di informazioni sulla situazione interna delle due chiese.
Iniziato nel 1965 il “Dialogo” dell’America del Nord è posto sotto gli auspici delle conferenze episcopali, cattoliche degli Stati Uniti e del Canada ed ortodosso d’America.
La prossima riunione avrà luogo a Washington nell’ottobre 2004.
Il gruppo di lavoro “Cattolico-Ortodosso internazionale S. Ireneo” si è riunito in Germania a Paderborn dal 23 al 27 giugno in sessione costituente.
Su invito di Mons. Gerard Feige, Vescovo ausiliare cattolico di Magdeburgo, e di Mons. Ignazio Mitic, Vescovo di Branicevo (Serbia), undici teologi cattolici, provenienti da Germania, Austria, Belgio, Usa, Francia, Olanda, Polonia, ed undici teologi ortodossi, provenienti da Bulgaria, Usa, Francia, Grecia, Romania, Russia, Serbia, hanno deciso di continuare l’attività, come gruppo stabile, con il nome sopra indicato.
Il gruppo ha adottato una dichiarazione sulla propria identità enunciante i seguenti principi:
- L’unità è fondata sul comandamento di Gesù.
- Il gruppo vuole mettere le sue risorse teologiche a servizio delle due Chiese per approfondire il dialogo.
- La separazione tra le chiese ha una dimensione ecclesiale e teologica ed elementi sociologici, storici e psicologici.
Il gruppo considera come proprio compito:
1. offrire uno spazio per uno scambio di vedute non ufficiale e per una discussione libera ed aperta sui problemi in corso.
2. Riflettere sulla situazione attuale delle relazioni cattolico-ortodosse cercando di proporre delle soluzioni.
3. ricordare alle due chiese che le difficoltà attuali non potranno essere superate se non attraverso il dialogo.
E ritiene anche suo dovere studiare, in un gruppo di lavoro internazionale, multilingue e multiculturale, le differenze più profonde di mentalità, di forme di pensiero, di modi di fare teologia, differenze che si trovano alla base dei problemi attuali.
Icona della S. Vergine di KazanUna antica copia di questa icona, conservata in Vaticano, è stata solennemente restituita alla Chiesa Ortodossa Russa da una delegazione inviata da Giovanni Paolo II. Questa delegazione era guidata dal Cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio Consiglio per l’Unità dei cristiani, dal Cardinale Teodoro McCarrick, arcivescovo di Washington, accompagnati da Mons. Antonio Mennini, nunzio apostolico presso la Federazione Russa, e da Mons. Tadensk Kondrusiewicz, presidente della conferenza dei Vescovi Cattolici della Russia.
Il Patriarca russo Alessio II ha ricevuto la delegazione nella residenza patriarcale ed ha espresso la sua riconoscenza al Papa riconoscendo e condividendo la ferma volontà del Vaticano di tornare a relazioni sincere e rispettose tra le due Chiese.
II – Ortodossi ed altri cristiani
Cattolici
La prima riunione del gruppo di lavoro bilaterale sui problemi esistenti tra la Chiesa Ortodossa Russa e la Chiesa Cattolica si è tenuto a Mosca nei giorni 5/6 maggio 2004.
Il 6 maggio i padri Vsevalodo Chaplin, ortodosso, ed Igor Kovalevsky, cattolico, hanno tenuto una conferenza stampa. Il P. Chaplin ha ricordato che il gruppo è nato dopo la visita a Mosca del cardinal Kasper, presidente del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani. Ha aggiunto che il gruppo ha preso in esame le varie situazioni conflittuali in atto in varie regioni della Russia, in Ucraina, in Kazakhistan, in Uzbekistan specificando che tali problemi non vanno affrontati in base alle leggi civili ma secondo i principi etici delle relazioni tra le chiese. Queste non debbono mai agire come imprese concorrenti in un clima di libero mercato, ma fondandosi nell’etica delle relazioni interecclesiali e sui principi delle relazioni tra vescovi e diverse strutture ecclesiali formulate nei primi secoli del cristianesimo.
Il P. Kovalevsky ha affermato che la Chiesa cattolica, nella sua attività in Russi, parte dal principio che questo paese non è terra di missione ma un paese cristiano dalle antiche e profonde radici ortodosse. Tuttavia vi esistono etnie e confessioni differenti, tra cui i cattolici che sono e resteranno sempre una minoranza.
Visita a Roma di Bartolomeo I.
Il Patriarca ecumenico ha fatto una visita ufficiale a Roma dal 29 giugno al 1 luglio 2004.
Tradizionalmente, dal 1980, le Chiese di Roma e Costantinopoli si scambiano visite fraterne in occasione delle rispettive feste patronali: 29 giugno, S. Pietro a Roma, 30 novembre, Andrea a Costantinopoli. Quest’anno, quarantesimo anniversario dello storico incontro, a Gerusalemme, tra Paolo VI ed Atenagora, il Papa aveva invitato il Patriarca a venire personalmente.
Il 29 giugno il Patriarca ecumenico è stato ricevuto da Giovanni Paolo II che nel suo discorso di benvenuto ha evocato quell’incontro storico e “benedetto” dove i loro predecessori, spinti dalla fiducia e dall’amore di Dio, avevano saputo superare i pregiudizi e le incomprensioni secolari dando così un esempio ammirabile di pastori e di guide del popolo di Dio.
Il Papa ha ugualmente ricordato il triste e vergognoso episodio del sacco di Costantinopoli, operato dai soldati della VI crociata.
Preghiamo il Signore, ha aggiunto, perché purifichi la nostra memoria di ogni pregiudizio e di ogni risentimento e ci conceda di avanzare nel cammino dell’unità.
Dopo un incontro strettamente personale, il Patriarca ha presentato al Papa un gruppo di professori e di studenti dell’Istituto di Studi superiori di Teologia Ortodossa, che dipende dal Centro del Patriarcato Ecumenico a Chambesy, in Svizzera.
In serata il Patriarca ha assistito alla Messa della festa dei Santi Pietro e Paolo ed ha tenuto l’omelia, nella quale ha evidenziato i progressi compiuti in questi quarant’anni malgrado le divergenze accumulatesi in nove secoli.
Il fatto di esser qui oggi, ha aggiunto, esprime chiaramente la nostra sincera volontà di superare quegli ostacoli che non sono di natura dogmatica, per concentrarsi poi sui problemi fondamentali di ordine dogmatico che dividono ancora le due chiese.
Il 30 giugno degli incontri bilaterali hanno avuto luogo tra il Patriarca con la sua delegazione ed il Cardinale Kasper con i suoi collaboratori. Il Patriarca ha ricevuto la cittadinanza onoraria di Roma dal sindaco Veltroni, ha quindi incontrato rappresentanti della Comunità di S. Egidio e del Movimento dei Focolari, ambedue attivi nel dialogo intercristiano ed interrelegioso.
Il 1° luglio ha ricevuto dal Cardinale Ruini la Chiesa di S. Teodoro, destinata alla comunità ortodossa di Roma.
Successivamente il Patriarca ha invitato il Papa a recarsi a Costantinopoli il 30 novembre, per la festa di S. Andrea.
Precedentemente i primati delle due chiese avevano firmato una dichiarazione comune nella quale riaffermavano il loro impegno a lavorare per la piena unità dei cristiani, così da annunciare il Vangelo in modo più credibile e convincente.
Come passo importante il Papa ed il Patriarca si propongono di rilanciare il lavoro della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra le due chiese, lavoro che era giunto ad un punto morto nel 2000.
In un suo intervento alla Radio Vaticana Kasper ha detto che le due Chiese hanno ripreso a parlare ed a guardare verso il futuro.
Ha anche parlato di tendere ad una unità nella stessa fede, negli stessi sacramenti, nello stesso episcopato, nella successione apostolica ma anche ad una unità nella pluralità delle forme liturgiche, teologiche, spirituali, canoniche.
Il Cardinale ha anche parlato del riprendere la riflessione sul primato del Vescovo di Roma.
III – Luterani ed altri cristiani
Cattolici
Il dialogo Cattolici-Luterani negli U.S.A. ha terminato il suo decimo ciclo durante la riunione, tenuta a Milwaukee dal 22 al 25 aprile 2004.
La Commissione mista ha approvato all’unanimità la dichiarazione: “La Chiesa come Koinonia di salvezza, le sue strutture i suoi ministeri”. Nei precedenti cicli la Commissione aveva riflettuto su: il simbolo di Nicea, il battesimo, l’Eucarestia, il ministero, il primato papale, l’autorità e l’infallibilità, la giustificazione, l’unico mediatore – i santi – Maria, le Scritture e la tradizione.
Questi lavori hanno avuto un grande influsso sui rapporti cattolici-luterani, anche a livello internazionale.
Il documento, ultimo prodotto, “La Chiesa come koinonia” ha preso come punto di partenza delle considerazioni generali sulla ecclesiologia della koinonia e nel concetto di Chiesa locale per giungere ad un esame delle strutture particolari della koinonia che esistono nelle due chiese.
Nel N.T. il concetto di koinonia riguarda i credenti giustificati, in rapporto a Dio, a Cristo, allo Spirito. Così il documento afferma che la Chiesa partecipa alla salvezza offerta da Dio in Cristo ed è così che, attraverso la Chiesa, la salvezza è proposta all’umanità.
Il documento percorre la storia della riflessione teologica del XX secolo sul concetto di Chiesa locale perché è in essa che si manifesta in pienezza la Chiesa di Cristo. Ma la tradizione cattolica chiama così la diocesi mentre la luterana fa riferimento alla comunità parrocchiale.
Ugualmente problema si pone per il sacramento dell’ordine perché per i cattolici sono i vescovi ad avere la pienezza del sacramento mentre per i luterani l’unica differenza tra vescovo e presbitero è data dalla giurisdizione.
La concezione di ministero ai differenti livelli riflette le differenti maniere in cui cattolici e luterani realizzano la koinonia. Già nel N.T. esistono i termini vescovi e presbiteri ma il loro contenuto varia da un luogo ad un altro.
Nell’epoca patristica si generalizza il triplice ministero di vescovi, presbiteri e diaconi, ma la natura esatta della distinzione resterà una questione aperta anche per la teologia medievale. Il problema si riaprirà e si radicalizzerà all’epoca della Riforma e del Concilio di Trento e poi fino al Vaticano II; resteranno però aperte delle vie per un approfondimento e per delle chiarificazioni della problematica. Ad esempio: la distinzione tra episcopato e presbiterato è di origine divina? E dell’espressione “pienezza del sacramento dell’ordine” non è stato specificato il significato.
Un ulteriore problema aperto, da specificare più chiaramente, è quello della successione apostolica.
Ugualmente una riflessione più approfondita viene proposta dalle due confessioni. Come può essere compreso, visto più subordinato al Vangelo il ministero petrino? Oppure quali forme può assumere per essere più conforme al Vangelo?
Il documento ha proposto alcune raccomandazioni:
1. I vescovi delle due chiese debbono sottolineare la mutua comunione con lettere pastorali comuni, incontri di riflessione comuni, prese di posizione comuni sulle questioni di interesse pubblico.
2. Preti e pastori debbono intensificare la mutua collaborazione, a livello di parrocchie, con studio, preghiera comune, iniziative comuni.
3. I laici delle due chiese esprimono il legame derivante dal comune battesimo con iniziative comuni di catechesi e di evangelizzazione ed a favore della giustizia e della pace.
4. Le organizzazioni caritative ed i ministeri specifici delle due chiese si impegnino in una vera collaborazione per diffondere il vangelo ed il bene comune.
La seconda parte del documento presenta studi biblici e storici per approfondire lo studio della koinonia che saranno di grande utilità per la continuazione della riflessione e delle ricerche.
IV – COE
Il Segretario generale della Chiesa d’Australia, il pastore luterano J. Henderson, ha espresso critiche in vista di nuovi modi che il C.O.E. deve trovare per comunicare con le nazioni del Sud del mondo. Ha specificato che esistono, a suo avviso, troppa burocrazia e modi di fare di stampo europeo.
Commissione speciale
Il Comitato permanente della Commissione speciale sulla partecipazione delle Chiese Ortodosse al COE si è riunita dal 16 al 19 giugno del 2004 a Minsk in Bielorussia. Copresidenti il vescovo Koppe (Chiesa evangelica di Germania) ed il Metropolita Gennadios (Patriarcato ecumenico). Era presente il pastore Samuel Kobia, nuovo segretario generale del COE. I membri del Comitato hanno preso in esame le nuove prospettive di partecipazione degli Ortodossi al COE. Hanno anche preso in esame i problemi del dialogo bilaterale tra Chiese ortodosse e Chiese ortodosse orientali o precalcedoniane e quelli del dialogo tra queste chiese e quella cattolica.
Accanto a questa riunione si è anche svolto un dialogo teologico internazionale sull’ecumenismo oggi.
Il Comitato ha anche discusso sui modi di funzionamento del COE in particolare sul processo della presa di decisioni ed hanno anche discusso del come superare le difficoltà relative alle decisioni; difficoltà dovute al fatto che i Protestanti sono il 75% delle Chiese membre del COE, mentre gli Ortodossi sono il 25%, superabili favorendo la presa di decisione consensuale.
Il Comitato ha anche approfondito un progetto per rendere più chiari i criteri di adesione e di appartenenza al COE.
Il vescovo Koppe ha inoltre parlato della necessità che le Chiese siano sempre più impegnate a pregare e ad agire insieme pur avendo chiare le divergenze e sapendo in che modo le varie Chiese si identificano in rapporto alla Chiesa indivisa. Il metropolita Gennadios si è detto felice del buon livello di impegno e fiducia reciproci pur avendo chiare le difficoltà che persistono; ma crede nella possibilità di superare gli antagonismi e di trovare sia un linguaggio comune sia nuovi approcci in vista dell’unità.
Fede e Costituzione
L’Assemblea plenaria della Commissione di Fede e Costituzione si è tenuta in Malesia a Kuala Lumpur dal 28 luglio al 6 agosto 2004 sul tema: “Accoglietevi gli uni gli altri, come Cristo ha accolto voi, per la gloria di Dio (Rom. 15/7)”.
L?Assemblea ha riunito un centinaio di membri della Commissione, teologi rappresentanti quasi tutte le confessioni cristiane e regioni del mondo ed anche una trentina di osservatori, invitati, giovani teologi e rappresentanti delle Chiese locali. La discussione ha fatto rilevare il rischio di una differenza di impostazione tra teologi occidentali che mirano soprattutto ad un buon livello accademico ed i teologi del terzo mondo che vedono questa tendenza come una forma di “esportazione” occidentale.
Il pastore Woong, presbiteriano dalla Corea, ha sottolineato l’importanza di superare l’opposizione tra Est ed Ovest, come pure quella del contributo asiatico alla teologia cristiana. Ha anche parlato di tre tipi di Oriente: geografico, politico, ecclesiale e delle distanze rilevanti, non solo geografiche ma anche culturali. È necessario uno spirito pioneristico per studiare più a fondo i disegni di Dio nell’insieme della creazione dove uomini e natura soffrono per la scarsa fede e per i disordini provocati dall’avidità umana.
Il pastore David Yemba, presidente di Fede e Costituzione ha parlato di possibilità e di sfide per Fede e Costituzione in questi secoli strategici nella storia dell’umanità e del movimento ecumenico. È necessario, ha detto, che le Chiese camminino insieme verso l’unità visibile superando la tendenza alle discussioni solo accademiche. Il tema dell’Assemblea “Accoglietevi...” spinge ad andare oltre una convergenza limitata ai documenti. La Chiesa di Cristo è in crescita nell’emisfero Sud del mondo e le chiese madri del Nord debbono limitare la loro eccessiva influenza confessionale perché il confessionalismo è uno dei maggiori ostacoli alla via dell’unità.
Il direttore uscente del Segretariato di Fede e Costituzione, il pastore Falconer, in una relazione letta dal pastore Peter Donald, ha scritto che le Chiese debbono essere in ascolto rispettoso e reciproco, in un clima di interrogativi, di scambio di esperienze e di incontri che le trasformano in organismi in continuo pellegrinaggio.
Samuel Kobia, nuovo segretario generale del COE ha detto che il concetto cristiano di ospitalità si fonda sull’atteggiamento accogliente di Cristo stesso verso i poveri, esclusi e peccatori. Occorre pentirsi, ha aggiunto, di essersi limitati a scoprire la grazia di Dio negli stretti confini del doma e della tradizione.
Gli studi in corso hanno attirato l’attenzione dell’Assemblea, in particolare:
1. il mutuo riconoscimento del battesimo.
2. L’antropologia teologica.
3. L’ecclesiologia.
4. L’identità etnica e nazionale.
5. L’ermeneutica ecumenica.
6. Il dialogo interreligioso.
Il tema di un solo battesimo si è focalizzato sulle implicazioni ecclesiologiche del muto riconoscimento del battesimo.
Su questo punto è stata fatta rilevare l’importanza della fede e dei contenuti di essa per la persona battezzata e per la Chiesa che la battezza.
Ed anche l’importanza del duplice “Sì”; alla fede espresso dal battesimo e quello espresso con l’adesione alle confessioni. Ci si è chiesto se noi che siamo stati accolti da Cristo possiamo non accoglierci gli uni gli altri.
In secondo luogo l’assemblea si è poi soffermata su una serie di studi riguardanti l’antropologia teologica, essi si sforzano di enunciare ciò che le chiese possono dire insieme su ciò che è la natura umana e sulle implicazioni che ne derivano per le scelte etiche fanno i cristiani e le Chiese.
Il rapporto “Prospettive ecumeniche sull’antropologia teologica”, discusso a Montevideo nel marzo 2004, è stato presentato a Kuala Lumpur dal pastore W. Tabberenee. La prima parte del documento ha presentato delle situazioni limite dove i modi di comprendere la natura umana sono messi in discussione:
1. Le rotture e le divisioni che affliggono il nostro mondo.
2. Le nuove tecnologie.
3. Le persone handicappate.
La seconda parte del documento è consacrata all’approccio dei grandi temi biblici legati alla natura umana:
1. L’essere umano come immagine di Dio
2. L’essere umano in seno alla Creazione
3. Il problema del peccato
4. La prospettiva della nuova creazione in Cristo.
Tutta questa sezione è corredata di citazioni, soprattutto Patristiche, è redatta in stile conciso e comprensibile anche dai non teologi e mette in evidenza i punti convergenti delle differenti famiglie cristiane. Globalmente le Chiese hanno, emerge dalla relazione, una concezione largamente comune dell’antropologia teologica cristiana.
Comprensioni differenti non dicono che le Chiese rifiutano di affrontare insieme le sfide esistenti anche le più difficili, come la ricerca su:
1. le cellule staminali
2. la clonazione
3. i problemi legati alla sessualità
4. la ripartizione dei ruoli tra uomini e donne
5. l’appartenenza etnica e nazionale
6. il razzismo
7. l’ecologia
Proprio su questi problemi, è emerso dalla discussione, il testo deve osare di più anche a costo di indicare delle divergenze ed è stato detto che:
“La teologia non deve evitare...” (Erikson).
“I punti di vista sui problemi antropologici si evolvono e certe cose condannate nel passato ora non lo sono più” (Onaiyekan).
La terza parte della discussione ha riguardato l’ecclesiologia e c’è un testo del 1998, “La natura ed il fine della Chiesa”, che, anche se non definitivo, è stato definito uno strumento ecumenico essenziale. Quindi la commissione continuerà a lavorare su di esso per presentarlo all’Assemblea COE del 2006.
Un certo irenismo è stato contestato da Mons. Hilarion, vescovo bizantino slavo di Vienna, il quale ha ritenuto importante non ignorare, ma piuttosto ammettere le divisioni esistenti tra le Chiese.
La quarta parte riguarda il problema del rapporto tra l’unità della Chiesa da una parte e l’identità etnica e nazionale dall’altra. Problema designato con la sigla “ETHNAT”.
A Kuala Lumpur sono state ricordate le ultime tappe dell’ETHNAT: l’inizio lo si è avuto nel 1997 a Fontgombault in Francia ed il programma mira a :
1. Aiutare le Chiese a comprendere meglio il ruolo giocato dalla propria identità in seno a se stessa e nel loro rapporto con la società.
2. Favorire il rinnovamento delle Chiese con il superamento della divisione.
3. Aiutare le Chiese a divenire dei segni profetici dell’unità umana e cristiana.
4. Aiutare le Chiese a realizzare un ruolo di conciliazione nelle situazioni di tensione e di conflitto.
Il Comitato incaricato dell’ETHNAT si è riunito nel Galles nel 1997 ed ha deciso di dare la priorità a due progetti:
1. Esame interdisciplinare dell’etnicità basato sulle risorse degli studi biblici, della teologia, della storia ecclesiastica, delle scienze sociali.
2. la testimonianza delle Chiese, dei consigli delle Chiese e dei centri ecumenici.
Sul tema ETHNAT hanno parlato il metropolita Makarios (Kenya) del Patriarcato ortodosso di Alessandria e da altri relatori di Romania, Sry Lanka, Zambia, Argentina.
La quinta è “L’ermeneutica ecumenica”, ed è stata presentata dal Prof. P.R. Andinach (Argentina). Questo studio è nato dai dibattiti della V Conferenza di Fede e Costituzione nel 1993; esso fa un esame dell’interpretazione delle Sacre Scritture ed una ricerca sull’interpretazione dei simboli, dei riti e delle pratiche. Una consultazione tenuta a Strasburgo nel 2002 si è rivolta ai luoghi dell’interpretazione: liturgia, vita della Chiesa, Canone delle Scritture, Concili ecumenici, contesto sociale, ai criteri di interpretazione, alla possibilità di un’ermeneutica propriamente ecumenica.
Un’altra consultazione tenuta a Vienna nel 2004 ha esaminato i simboli e la loro relazione per la costituzione di una identità (confessionale, etnica, ecc.).
Il sesto ed ultimo punto è stato quello del dialogo interreligioso. Un approfondimento è stato quello del dialogo interreligioso. Un approfondimento è stato fatto su continuità e discontinuità tra popolo ebraico e Chiesa cristiana.
Nel corso della riunione sono stati apprezzati degli studi teologici fatti su:
1. Pace e violenza.
2. Ripartizione dei ruoli maschili e femminili.
3. Sessualità.
È stato chiesto un legame più evidente tra formulazione teologiche e le loro implicazioni etiche e cioè una maggiore integrazione delle prime con la realtà della vita.
È stato anche raccomandato di mettere meno in rilievo la propria identità e di mettere più l’accento su ciò che si riceve gli uni dagli altri e su ciò che si riceve da Dio.
A conclusione dei suoi lavori l’Assemblea ha inviato un “messaggio alle Chiese”. In esso si dice che l’assemblea di Kuala Lumpur è stata un “momento di speranza”. Certamente molti problemi restano ancora da esplorare insieme ma si è presa coscienza che vi è un quadro di base che potrebbe permettere alle Chiese di avanzare in termini di un mutuo riconoscimento. “Accoglietevi gli uni gli altri come Cristo...”, tema dell’incontro, ci invita a riflettere sul dovere comune di una mutua ospitalità; andando al di là delle nostre divisioni per agire insieme per l’unità visibile della Chiesa.
Comitato Esecutivo
Il comitato esecutivo del COE si è riunito a Seul in Corea dal 24 al 27 agosto2004. ha raccomandato che i prossimi rapporti sui programmi sintetizzino meglio i problemi sui quali il Comitato esecutivo è chiamato a dare un consiglio o a prendere una decisione.
Successivamente il Comitato ha discusso su tre problemi riguardanti le strutture ben sapendo che, nei tre casi, il partenariato che ciò implica e di una importanza primordiale.
a) Il Comitato ha preso atto con soddisfazione del rapporto sull’Azione comune della Chiesa (ACT) ed ha sottolineato l’importanza di essa in materia di intervento in caso di catastrofe o di conflitto ed ha chiesto all’ACT di lavorare in stretta collaborazione con le chiese che si trovano nell’area sopra indicata.
b) Il Comitato esecutivo ha riaffermato l’impegno del Consiglio a sostenere l’obiettivo originale riguardo all’informazione nel movimento ecumenico.
c) Il Comitato ha preso atto del rapporto sullo spostamento del segretariato del COE per il Pacifico ed ha preso atto degli inconvenienti dovuti ad esso. Ha raccomandato di presentare al Comitato Centrale del COE la proposta fatta dai dirigenti di Chiesa del Pacifico di portare il Segretariato dal Pacifico a Ginevra.
Successivamente il Comitato esecutivo ha chiesto al Segretariato Generale di continuare a studiare, con le Chiese membri, le possibilità di realizzare la proposta le Chiese ai fini della loro rappresentanza e partecipazione. Ha raccomandato al Comitato Centrale l’ammissione come chiesa membro della Comunità del COE di
1. Chiesa protestante evangelica di Ginevra
2. Associazione delle Chiese Evangeliche Riformate del Burkina Faso
3. Chiesa protestante dei Paesi Bassi.
Il Comitato esecutivo ha poi lungamente discusso sull’accusa di grave deviazione teologica rivolta alla Chiesa Kimbanguista ed ha chiesto al COE di decidere se detta Chiesa gli appartiene o meno ed ha inoltre deciso che il problema dell’appartenenza o esclusione va risolto nella riunione del Comitato esecutivo del settembre 2005.
Il Comitato ha inoltre esaminato l’inserimento del problema delle “decisioni per consenso” nel regolamento; ha inoltre fatto delle dichiarazioni su:
1. sostegno al processo di unificazione della Corea
2. sostegno al progetto di risoluzione pacifica del conflitto del Darfur.
V – Tra Cristiani
CCEE
La sesta consultazione delle Conferenze episcopali europee sulla responsabilità della creazione si è svolto in Belgio a Namur dal 3 al 6 giugno 2004.
Tema: “Responsabilità delle Chiese e delle Religioni verso la creazione”.
Tra i presenti erano: rappresentanti della S. Sede, del Pontificio Consiglio “Giustizia e Pace”, della Commissione degli Episcopati presso l’Unione Europea, della “Rete” ecumenica per l’ambiente, di Giustizia e Pace-Europa, degli ordini religiosi.
Durante la prima seduta sono stati presentati tre contributi teologici: la prima di queste relazioni è stata di Mons. Emmanuel, metropolita di Francia del Patriarcato di Costantinopoli; egli ha sviluppato il tema della vocazione comune dell’umanità a divenire “sacerdote” avendo per compito di santificare la creazione la creazione in un atto culturale di azione di grazie. Una tale approccio infatti risponde meglio alla ricerca di una autentica intimità tra l’umanità e la creazione.
La seconda, a cura del pastore riformato svizzero Lukas Vischer, ha esposto l’apporto specifico delle chiese protestanti alla ricerca di uno sviluppo durevole nel mondo.
Cercando sempre di fondare la loro comprensione della creazione a partire dalla Scrittura, i protestanti hanno la tendenza a mettere l’accento sullo stato peccatore dell’umanità e sulla presenza costante della grazia di Dio.
La teologia protestante si sforza di mantenere l’equilibrio tra un ottimismo che pretende di risolvere i problemi ed un pessimismo che lascia ogni situazione alla responsabilità di Dio.
In sintesi: i credenti debbono fare tutto quello che possono per proteggere la natura, l’avvenire sarà in ogni caso un dono della grazia di Dio.
La terza è stata tenuta da Mons. P. Kelly, arcivescovo cattolico di Liverpool che ha esplorato il concetto tomista di “transustanziazione” come punto di partenza della sua relazione. Il termine, in S. Tommaso d’Aquino, non significa una trasformazione magica della materia, ma un movimento dove la materia acquista un senso radicalmente nuovo in una relazione radicalmente nuova tra l’uomo ed il suo Creatore per mezzo di elementi materiali.
Nella seduta pubblica vi sono stati interventi di appartenenti a diverse religioni.
Il P. Guy Gilbert ha presentato il punto di vista cristiano mettendo l’accento sulla franchezza e l’onestà che debbono caratterizzare il rapporto uomo-creazione.
Il rabbino belga, Albert Guigui, ha presentato l’interdizione biblica (Dt. 20) di tagliare gli alberi durante l’assedio di una città. Citando poi Amos 9 ha descritto l’armonia che esiste tra l’uomo e l’ambiente naturale.
Il venerabile Lama Karta di Tihanga ha presentato delle intuizioni profonde: utilizzando la natura l’uomo si trova ad un bivio tra vita interiore e mondo dei fenomeni . per lui tutte le grandi tradizioni religiose costituiscono un unico grande coro che canta l’indispensabile armonia tra vita interiore e mondo fenomenologico.
Il professore di religione musulmana M. Mahi Yacoub che per la conservazione della natura l’umanità deve cercare la pace tra le religioni nel rispetto del progetto di Dio, nella giustizia e nella fraternità umana.
Dal dibattito sono usciti molti elementi:
1. La responsabilità della creazione è una sfida fondamentale per l’avvenire della terra, la difesa della pace e la testimonianza cristiana nella società contemporanea.
2. Le Chiese cristiane debbono accordarsi nella valutazione del problema ecologico, ricordando la necessità del dialogo interreligioso, della pace, della giustizia, di una buona ripartizione delle risorse della creazione.
3. Attenzione alle risorse: acqua, petrolio, terra coltivabile.
I Segretari generali delle Conferenze Episcopali Europee si sono riuniti a Belgrado dal 10 al 13 giugno 2004 sul tema: “Il ruolo del cristianesimo e delle Chiese nell’Europa attuale”.
Dal comunicato stampa pubblicato al termine della riunione è emerso che molti segni indicano che una riscoperta ed una nuova proposta del Vangelo sono possibili nel continente europeo:
- Il dibattito nelle radici cristiane dell’Europa.
- L’inquietudine e la paura di fronte al terrorismo.
- Il senso di vuoto nei confronti di punti di riferimento.
- La nuova richiesta di senso e di spiritualità.
- Lo sviluppo di esperienze religiose ambigue, irrazionali, alternative.
I segretari hanno riflettuto su recenti esperienze che esprimono simbolicamente questa nuova possibilità offerta al cristianesimo ed hanno concluso che il popolo cristiano esiste ed è vivo in Europa. È urgente superare la dicotomia Europa dell’Est ed Europa dell’Ovest come pure è importante il confrontarsi con la cultura moderna e con i fenomeni del secolarismo e della secolarizzazione, l’occidente ha l’esperienza di una vita cristiana nella società secolarizzata e può offrirla all’Est e l’Est può aiutare l’Occidente a ritrovare i suoi valori perduti.
Un discorso positivo è stato poi fatto sui rapporti tra Chiesa ed Istituzioni europee, facendo riferimento in particolare al trattato costituzionale perché esiste un dialogo tra mondo ecclesiale e mondo politico.
Un vivo dibattito ha avuto luogo sulle relazioni tra cristianesimo, laicità e religioni; infatti occorre distinguere tra il laicismo che rifiuta la religione e la laicità autentica che è un modo di relazionarsi tra Chiesa e Stato.
In una società laica la Chiesa deve essere capace di ascoltare i problemi e le domande che si pongono e di trovare un linguaggio che permetta di rispondere, testimoniare ed annunziare il Vangelo che è la Buona Novella per tutti.
L’incontro di Belgrado ha ugualmente costituito una importante esperienza ecumenica. Particolarmente fraterna è stata l’accoglienza da parte del Patriarca serbo Pavle.
All’incontro organizzato ogni anno dal Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee, hanno partecipato i segretari generali di: Albania, Germani, Inghilterra, Austria, Belgio, Bielorussia, Bosnia ed Erzegovina, Bulgaria, Croazia, Scozia, Spagna, Francia, Ungheria, Lituania, Lussemburgo, Malta, Olanda, Paesi Scandinavi, Polonia, Portogallo, Romania, Russia, Serbia e Montenegro, Slovenia, Slovacchia, Svizzera, Ucraina.
KEK
La prima riunione plenaria della nuova commissione “Chiesa e Società” della conferenza delle Chiese europee si è tenuta in Belgio dal 28 aprile al 2 maggio.
La Conferenza delle Chiese europee ha salutato l’adozione da parte della Conferenza intergovernamentale della Costituzione dell’Unione europea. La Kek e le 125 chiese membri di tradizione anglicana, vecchio cattolica, ortodossa e protestante, hanno seguito attentamente l’elaborazione della Costituzione europea e si sono rallegrate che il Parlamento europeo abbia un più forte ruolo in materia di asilo e di migrazione come pure che d’ora in avanti chiare norme giuridiche proteggeranno i diritti delle persone e della dignità umana; ha tuttavia deplorato che l’Unione europea abbia messo l’accento più sul miglioramento delle capacità militari degli stati membri che sull’impegno in favore della prevenzione dei conflitti.
Dal 25 al 27 giugno 2004 la seconda consultazione dei teologi ortodossi e protestanti nell’ecclesiologia si è svolta in Germania. L’incontro ha riunito vescovi e teologi ortodossi, calcedoniani e precalcedoniani da una parte e teologi delle chiese luterane, riformate ed unite.
Comunione delle Chiese protestanti d’Europa (CEPE)
Il Comitato esecutivo della Comunione delle Chiese protestanti in Europa si è riunito in Germania dal 23 al 25 aprile 2004 per preparare la VI assemblea generale.
Dal 6 al 10 maggio 2004 il gruppo di studio della CEPE si è riunito ad Oradea in Romania per elaborare dei suggerimenti in vista di una riforma delle strutture dell’organizzazione della Comunione.
Il rapporto finale della seconda serie di dialoghi tra la CEPE e la Federazione Battista Europea (FBE) è stato pubblicato il 26 giugno 2004.
Il dialogo tra FBE e CEPE non pretende di aver regolato definitivamente le discussioni teologiche controverse, infatti un tema che mostra differenze profonde è quello dell’ecclesiologia. Una piena comunione è ancora lontana ma la ricerca e la riflessione continuano.
Doha: ebrei cristiani e musulmani
esortati a saper vivere insieme
"Vogliamo rinnovare il nostro impegno e la nostra la piena volontà di rafforzare i legami fra i fedeli nel Dio Onnipotente". Con questo proposito si sono conclusi i lavori del terzo Meeting delle Religioni, che dal 29 al 30 giugno ha visto riunirsi a Doha (Qatar) più di 100 delegati delle 3 religioni monoteiste; quest’anno per la prima volta erano presenti anche rappresentanti ebrei.
I partecipanti hanno pubblicato alla fine del Meeting un documento comune, che afferma l'importanza di questi incontri, i quali riflettono la sincera volontà di tutti a “convivere" ed hanno esortato i fedeli delle 3 religioni a rafforzare il loro impegno a favore della pace e della concordia fra tutti i popoli del modo.
Durante l’incontro è emersa la necessità per il mondo arabo di aprire sezioni di scienze religiose e le studio delle religioni comparate. I partecipanti hanno auspicato la fondazione di un istituto arabo impegnato a rilanciare gli studi delle religioni e hanno rifiutato le “teorie false” che parlano di ‘”polemica tra le religioni”.
I delegati hanno dato piena adesione a un progetto mirante alla fondazione di un Consiglio superiore che si impegna a favore del dialogo interreligioso, formato da rappresentanti delle 3 religioni. La dottoressa Aisha Al Manah, presidente dell'Istituto degli studi islamici e della scienza della sharia, ha espresso ad AsiaNews il suo desiderio di vedere un mondo arabo più riconciliato e tollerante, assicurando a tutti la disponibilità del governo degli Emirati Arabi di proseguire gli sforzi capaci di mantenere questo spirito di apertura.
Dura la condanna del terrorismo esercitato nel nome della fede; il meeting ha ribadito che le religioni non sono mezzi di guerra, ma strumenti di pace e ha chiesto alla comunità internazionale di rafforzare le misure in grado di prevenire l’ “anomalia del terrorismo” esercitato sotto diverse “etichette” religiose.
Grande attenzione è stata data all’informazione e ai media. I partecipanti hanno chiesto agli ecclesiastici e ai capi religiosi di impegnarsi in pubblicazioni su riviste e giornali e collaborare a trasmissioni radiofoniche e televisive capaci di illuminare il popolo sulle problematiche religiose. Gli studiosi hanno poi chiesto ai governi interessati di mantenere un controllo rigido sulle trasmissioni “non sane”, che “rovinano le coscienze e le menti e che danneggiano le religioni.
I lavori si sono chiusi con il discorso di Shaikh Hamad Ben Khalifa Al Thani, emiro del Qatar. Egli ha rinnovato l'impegno del suo governo a favore della pace e della convivenza fra tutti i fedeli delle religioni monoteisti ed ha auspicato la fondazione di un Centro internazionale per il dialogo inter-religioso.
Walid Ghayad, tra i partecipanti all’incontro, ha espresso ad AsiaNews il suo compiacimento “per il clima di dialogo” che ha caratterizzato i lavori di Doha ed ha sottolineato l'importanza dell'apertura verso l'altro, “che non è un'isola ma una creatura di Dio”.L'uomo, nel corpo, è immagine di Cristo risorto nel corpo. Quello che si tratta di affermare è quindi il rapporto tra corpo e risurrezione.
Il calendario della liturgia cattolica segna, il prossimo 27 novembre (2005), l'inizio del tempo di Avvento e del nuovo anno liturgico, anno B del ciclo triennale.