Religioso Marista
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La contraddizione
tra guerra e Cristianesimo
di Primo Mazzolari
Il cristiano che non si scopre in contraddizione col Vangelo di pace, o non si è mai guardato in Colui che — essendo “segno di contraddizione” — svela i pensieri degli uomini, oppure ama ingannare se stesso. La misura della nostra elevazione spirituale viene fornita dalla maggiore o minore consapevolezza delle nostre contraddizioni, la quale ci distoglie dal sentirci soddisfatti e dal legare lo Spirito al nostro corto passo e ai nostri brevi traguardi.
Non è forse una contraddizione
che dopo venti secoli di Vangelo gli anni di guerra siano più frequenti degli anni di pace?
che sia tuttora valida la regola pagana: “ si vis pacem, para bellum”?
che l'omicida comune sia al bando come assassino, mentre chi, guerreggiando, stermina genti e città sia in onore come un eroe?
che nel figlio dell'uomo, riscattato a caro prezzo dal Figlio di Dio, si scorga unicamente e si colpisca senza pietà il concetto di nemico per motivi di nazione, di razza, di religione, di classe?
che l'orrore cristiano del sangue fraterno si fermi davanti a una legittima dichiarazione di guerra da parte di una legittima autorità?
che una guerra possa portare il nome di “ giusta ” o di “ santa ”, e che tale nome convenga alla stessa guerra combattuta dall'un campo o dall'altro per opposte ragioni?
che si invochi il nome di Dio per conseguire una vittoria pagata con la vita di milioni di figli di Dio?
che venga bollato come disertore e punito come traditore chi, ripugnandogli in coscienza il mestiere delle armi, che è mestiere dell'uccidere, si rifiuta al “ dovere ” ?
che sia fatto tacere colui, che per sé soltanto, senza la pretesa di coniare una regola per gli altri, dichiara di sentire come peccato anche l'uccidere in guerra?
che si dica di volere la pace, e poi non ci si accordi sul modo, appena sopraggiunge il dubbio che ne scapiti la potenza, l'orgoglio, l'onore, gli interessi della nazione?
che si predichi di porre la vita eterna al disopra di ogni cosa, e poi ci si dimentichi che il cristiano è l'uomo che non ha bisogno di riuscire quaggiù?
Crediamo che questi pochi accenni bastino per dar rilievo alla nostra sostanziale contraddizione, per metterci in vergogna davanti a noi stessi, e per sentirci meno sicuri in un argomento ove la nostra troppa sicurezza potrebbe degenerare in temerarietà o in un delittuoso conformismo alle opinioni dominanti.
(tratto da Primo Mazzolari, Tu non uccidere, Vicenza, 1955)
Spiritualità Marista
di Padre Franco Gioannetti
Trentatreesima parte
A noi interessa ora cogliere il nesso tra lo spirito e il carisma della Società di Maria nel pensiero del P. Colin, seguendo principalmente le Costituzioni da lui redatte e approvate dal Capitolo Generale del 1872.
Se il carisma è l’intuizione profonda, donata dallo Spirito Santo al Fondatore dell’Istituto, e il discernimento della fede per comprendere le esigenze del Vangelo e ciò che è richiesto per rispondergli, lo spirito dell’Istituto è lo “stile di vita” che permette di tradurre pienamente il carisma in un preciso contesto di motivazioni teologiche e spirituali che scaturiscono dal carisma.
Il P. Colin paragona lo spirito dell’Istituto al carattere dell’individuo; Entretiens Spirituels, Doc 102, n.3, “Esigete che un individuo non segua il suo spirito, il suo carattere, un certo modo di reagire, una certa ampiezza nel giudicare. Ebbene, esigete che un individuo non segua il suo spirito, il suo carattere, voi esigete da lui l’impossibile… Questo spirito, questo carattere, è Dio che glieli ha dati. Egli ne deve trarre il miglior partito possibile e non preoccuparsi del resto. Una società ha egualmente il suo Spirito, chi glielo ha dato? Se questo Spirito è contenuto nella Regola, è evidente che è stato Dio a darglielo”.
Lo spirito si esprime in una regola di vita, che costituisce il patrimonio proprio a cui fare continuo riferimento per realizzare la fisionomia dell’Istituto nella Chiesa: è il modo specifico di realizzare il Vangelo con le sottolineature derivanti dagli aspetti del mistero di Cristo impliciti nel carisma dalla regola di vita si distingue il regolamento, costituito dall’insieme delle norme e delle consuetudine che regolano dall’esterno il modo di vivere del religioso. (Cfr. L. Guccini, Carisma persona e comunità nella vita religiosa, Bologna, s.d., pp. 26-27.)
Il P. Colin, pur avvertendo l’importanza del regolamento per l’organizzazione dell’apparato istituzionale e delle opere della Società di Maria, nelle varie Costituzioni da lui redatte ha voluto raccogliere in un articolo speciale il suo pensiero sullo “spirito dell’Istituto”. Lo “spiritus” delineato in tale articolo esprime la genialità cristiana specifica della Società con cui si traduce la fede e il carisma religioso: contiene la “spiritualità” dell’Istituto, l’anima di tutte le norme. (Parole di un fondatore, Doc. 174, n. 1: “Una Società deve avere il suo spirito; lo spirito di una Società è come l’anima che anima i corpi; se lo spirito è buono, tutto va bene”.)
“Spirito” è anche riferimento costante all’azione dello Spirito Santo che rende traducibile praticamente il carisma attraverso la fedeltà alla vocazione dell’Istituto e dei suoi membri.
ZOHAR
(IL LIBRO DELLO SPLENDORE)
(Passi scelti)
IL MALE
(III - 70a)
Considera dunque. Il Santo, che benedetto egli sia, produsse dieci corone, diademi sacri, in alto, con le quali egli si incorona e si riveste. Egli è in esse ed esse sono in lui; come la fiamma è legata al tizzone, là non esiste separazione. In corrispondenza di queste, esistono però altre dieci corone, che non sono sacre, e si trovano in basso. Esse sono legate alla “sporcizia dell'unghia” di una santa corona, che è chiamata sapienza; perciò anch'esse sono chiamate sapienza. Si insegna inoltre che questi dieci tipi di sapienza discesero nel mondo e furono tutti assimilati dall'Egitto, all'infuori di uno che si diffuse in tutto il mondo. Queste sapienze sono specie di ed è perciò che gli egiziani furono esperti di stregonerie più del resto degli abitanti del mondo.
(I - 194a)
Rabbi Izchaq disse: Le “sette vacche grasse” (Gen. XLI, 26) sono i sette gradi, superiori agli altri; mentre le “sette vacche magre” (Gen. XLI, 27) sono altri gradi, in basso. I primi appartengono alla santità; i secondi all'impurità. Le “sette spighe” (Gen. XLI, 7). Rabbi Yehudà disse: le prime sette spighe sono buone perché si trovano a destra, a proposito della quale parte è scritto: “E Dio vide che era buono” (Gen. I, 4); le spighe magre si trovano invece al di sotto delle prime. Le sette spighe buone si trovano dalla parte della purezza, mentre le sette magre dalla parte della impurità. E tutti questi gradi si trovano gli uni sopra gli altri, e tutti furono visti dal Faraone in sogno.
Chiese Rabbi Yosè: E forse che Dio mostrò a quel malvagio tutte queste cose?
Gli rispose Rabbi Yehudà: Il Faraone vide delle immagini di quelli. Perché i gradi si trovano gli uni sugli altri ed egli vide quelli in basso. E sappiamo bene che l'uomo, in base alla propria indole, riesce a vedere nel sogno e la sua anima risale nella conoscenza. Ognuno può vedere secondo il grado cui gli è dato di giungere; perciò il Faraone poté vedere come gli era consentito e non di più.
(III - 80b)
Rabbi Izchaq prese a dire: “Ohi, paese dalle ali spiegate...” (Is. XVIII, 1). È possibile che il fatto che esso sia “un paese dalle ali spiegate” costituisca motivo di irritazione, sicché è scritto: “Ohi, paese...”? Ma così intese Rabbi Izchaq: Quando il Santo, che benedetto egli sia, creò il mondo, cercò di rendere manifesto il significato profondo da dentro il segreto e la luce da dentro le tenebre, perché tali elementi erano compresi gli uni negli altri. Perciò dall'interno delle tenebre scaturì la luce e dall'interno del segreto scaturì il significato profondo e manifesto. L'uno scaturì dall'altro; così dal bene scaturì il male e dalla pietà il giudizio severo. Ma precedentemente tutti questi elementi erano compresi gli uni negli altri: l'istinto buono e l'istinto cattivo, la parte destra e quella sinistra, il popolo di Israele e gli altri popoli, il bianco ed il nero. Ed ognuno di questi elementi dipendeva dall'altro.
(II - 103a)
Considera dunque. E scritto: “Dall'Eden esce un fiume per bagnare il giardino” (Gen. Il, 10). Questo fiume non cessa mai di fecondare, di produrre e di dare frutti. Ma c'è un'altra divinità, che non ha mai potere autonomo né desiderio. Essa non produce e non dà frutti perché se così facesse, cancellerebbe tutto il mondo. Perciò chi consente a tale elemento di produrre nel mondo, è chiamato malvagio e non potrà mai vedere l'aspetto della presenza divina (Shekhinà), come è scritto: “Tu non sei un Dio, che ama la malvagità, il male non dimora presso di Te” (Sal. V, 5).
(II - 112a)
Considera dunque. Chi trova un compagno simile a se stesso, che si comporta nel mondo come lui, gli si affeziona, lo ama e gli fa del bene. Non così agisce il male, quando trova qualcuno che ha abbandonato il campo della santità, su cui presiede il Santo, che benedetto egli sia, e si è messo ad agire come lui, affezionandosi così al male. Infatti cerca subito di distruggerlo e di cancellarlo dal mondo. Quando la donna, sospetta di adulterio, si è effettivamente comportata secondo i dettami del male, affezionandosi ad esso, guarda in che modo il male la contraccambia: “Il ventre le si gonfiò e la coscia le cadde” (Num. V, 27). Non così avviene con il Santo, che benedetto egli sia. Chi infatti abbandona il male e si affeziona al Santo, che benedetto egli sia, subito ne viene riamato e ne riceve ogni bene che è nel mondo.
(I - 190a-190b)
Disse Rabbi Izchaq: Quando la forza del male viene a sedurre l'uomo, questi si attacchi alla Torà e si allontani da esso. Considera dunque. Abbiamo appreso che quando lo spirito del male sta dinanzi al Santo, che benedetto egli sia, per sedurre il mondo con le azioni malvagie, il Santo, che benedetto egli sia, è mosso a pietà per il mondo e dà agli uomini un consiglio per sfuggire al male, sicché esso non possa dominare su di loro né influenzare le loro azioni. Ed in che consiste tale consiglio? Nell'occuparsi della Torà, sfuggendo così al male. Da dove lo sappiamo? Dal verso che dice: “Poiché un lume è il precetto ed una luce l'ammaestramento, e gli ammonimenti morali sono la via della vita” (Prov. VI, 23). E cosa dice il verso successivo?: “Essi ti preservano dalla donna malvagia, dalle lusinghe della straniera” (Prov. VI, 24). Questa è il dominio dell'impurità, il male, che si trova sempre dinanzi al Santo, che benedetto egli sia, per accusare gli uomini dei loro peccati. Il male sta sempre in basso per traviare gli uomini e sta sempre in alto per ricordare i peccati degli uomini, per accusarli delle loro azioni, sicché siano concessi in suo potere, come fece per Giobbe. Nei periodi in cui il Santo, che benedetto egli sia, esercita il giudizio sugli uomini, il male sorge ad accusarli ed a ricordare i loro peccati. Ma il Santo, che benedetto egli sia, si muove a pietà verso il popolo di Israele e dà agli uomini un consiglio per sfuggire al male. Ed in che esso consiste? Nel suono del corno di Capo d'Anno e nel capro espiatorio nel Giorno dell'Espiazione, sul quale si pongono i peccati, sicché esso si allontani dagli uomini e se ne vada per conto suo
Considera dunque. Cos'è scritto? “I suoi piedi scendono verso la morte, i suoi passi conducono al baratro” (Prov. V, 5). E del mistero della fede, cos'è scritto? “Le sue vie sono vie soavi e tutti i suoi sentieri conducono alla pace” (Prov. III, 17). Tali sono le vie ed i sentieri della Torà e tutti sono una sola cosa. Così la pace e così la morte e tutti i sentieri della Torà sono contrari a quelli (del male). Beata la sorte dei figli di Israele, che aderiscono al Santo, che benedetto egli sia, come si conviene; e questi, a sua volta, dà loro un consiglio per sfuggire a tutti gli spiriti malvagi che sono nel mondo. I figli di Israele sono infatti, quali popolo santo, il suo retaggio e la sua parte: siano beati in questo mondo e nel mondo futuro! Considera dunque. Quando lo spirito del male discende e vaga per il mondo, esso osserva la condotta degli uomini, che pervertono le loro strade. Allora risale in alto e li accusa; e se non ci fosse il Santo, che benedetto egli sia, che ha pietà per l'opera delle sue mani, di uomini non ne rimarrebbero nel mondo.
Cosa è scritto? “Quantunque essa parlasse ogni giorno della cosa con Giuseppe, questi non le dava ascolto di giacere con lei e perfino di starle vicino”(Gen. XXXIX, 10). “Quantunque essa parlasse ogni giorno”, il male ogni giorno risale in alto ed accusa, pronunciando dinanzi al Santo, che benedetto egli sia, tante calunnie e tante maldicenze per distruggere la gente del mondo. Cosa è scritto? “Questi non le dava ascolto di giacere con lei e perfino di starle vicino”. Il Santo, che benedetto egli sia, non gli dà ascolto, perché ha pietà del mondo. Che significa la espressione “di giacere con lei”? Significa che il male vuole ricevere il potere di dominare il mondo, perché non può dominare sinché non ne abbia ottenuto il permesso.
L'incarnazione ha manifestato questa verità: il valore della terra vivificata dallo Spirito. Perciò non si può parlare di Spiritualità cristiana quando, a motivo di qualche spiritualismo viene disprezzata la terra, il creato, il corpo, la materia.
Epilogo aperto
di Pedro Casaldáliga
L'ecumenismo e la Chiesa ortodossa
di Vladimir Zelinskij
La quarta difficoltà proviene da un fatto che tutti conoscono e sempre dimenticano: le Chiese ortodosse, con poche eccezioni, stanno praticamente vivendo i primi 15 anni della loro libertà in senso pieno, come la viviamo in Occidente e non hanno avuto ancora il tempo per abituarsi a tutte le sue sfide. Non sanno bene che cos’è la libertà della società civile con il suo inevitabile pluralismo religioso, come affrontarlo e viverlo pacificamente accanto alle altre forme della vita religiosa, a volte anche abbastanza intolleranti ed aggressive (se pensiamo alle sette, soprattutto straniere). Esse si sono abituate sia ad una situazione molto favorevole nei confronti dell’ortodossia come religione privilegiata, in regime di persecuzione crudele, ma non verso lo Stato indifferente e laico, che con la sua neutralità favorisce, in un certo senso, la vocazione ecumenica. Ma anche dall’altra parte, quella occidentale, democratica e dialogica, manca spesso l’immaginazione che possa esistere una mentalità diversa da quella occidentale, democratica, dialogica, ecc.
La più importante è anche la quinta difficoltà (lasciamo perdere le altre a cui non ho potuto accennare) che tutti conoscono, ma di cui non sempre si tiene conto. Si tratta del problema teologico nel senso essenziale e precisamente che la Chiesa ortodossa (in questo contesto possiamo parlare di Chiesa nel suo insieme) è la Chiesa tradizionale. Il suo carattere tradizionale significa che non solo la sua fede, ma anche la sua ragione, il suo pensiero, il suo atteggiamento nei confronti dei fenomeni della vita cristiana, delle fedi delle altre Chiese si appoggiano sulla Tradizione di duemila anni, soprattutto sull’eredità dogmatica dei sette Concili ecumenici, sul lavoro teologico dei Padri della Chiesa, sulla vita spirituale vissuta nell’esperienza dei santi.
Prima di cominciare il dialogo ecumenico con l’ortodossia, bisogna cercare di capire che cos’è la Tradizione e il suo ruolo nella Chiesa. Non siamo come la prima generazione dei cristiani che non avevano neanche la Scrittura, ma solo la testimonianza della parola orale, la speranza, l’attesa del Ritorno del Signore e il martirio (ma tutti questi momenti rappresentavano già una forma della Tradizione). Gli ortodossi non scoprono la fede come se fra di essi in ogni momento della storia e della rivelazione di Dio in Cristo non ci fosse niente. Perché secondo la loro fede, anche dopo l’Incarnazione, il Padre Celeste continua ad agire con le sue due mani, il Figlio e lo Spirito (secondo l’espressione di Sant’Ireneo di Lione), e gli ortodossi si sentono eredi di questo enorme lavoro nella storia umana, ne portano e ne custodiscono la memoria. La Tradizione è una memoria sacra e incarnata nella vita ecclesiale del passato, dei nostri giorni, ma anche del futuro e il dovere della fedeltà a questa memoria è più importante del nostro adattamento alle regole e alla morale del mondo in cui viviamo. Devo dire che questa fedeltà, che può essere autentica, ma a volte anche fanatica, ha provocato non poche lacerazioni e scismi all’interno dello stesso mondo ortodosso (soprattutto russo).
La Tradizione spesso prende su di sé il ruolo che svolge il Magistero nella Chiesa cattolica, ma non coincide con esso. Se il Magistero interpreta la Rivelazione rispetto ad ogni epoca della storia, spiegandola e a volte adattandola alla comunità dei credenti, la Tradizione ortodossa è, in un certo senso, la Rivelazione stessa come frutto dell’azione permanente dello Spirito Santo che agisce nella Chiesa. E può essere cambiata solo con un’altra azione dello Spirito, invocato o “voluto” unicamente dal Concilio ecumenico (secondo la formula: “Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi...” – Atti, 15, 28), ma anche confermato dalla ricezione del “noi” nel senso più ampio, cioè dal Popolo di Dio. Si vede che questo concetto della Tradizione, formulato in modo diverso dai vari teologi, consegna all’ortodossia una grande stabilità e la protegga dalle molte crisi che subiscono le Chiese Occidentali, ma nello stesso tempo renda difficilissimo qualsiasi cambiamento all’interno, senza il quale non è possibile un vero riavvicinamento fra le Chiese. Non si può spiegare questa difficoltà solo con l’immobilismo orientale; il concetto nodale in questo caso è quello della comunione della Chiesa con il proprio passato, con il suo vissuto che è, infatti, un eterno presente nella sua realtà quotidiana.
La Tradizione è il canale e il «recipiente» della santità rivelata in passato e che continua nei riti e nei sacramenti, nei gradi di ministero e nei dogmi, nelle preghiere, nelle istituzioni e nelle immagini, nella vita dei santi e nell’architettura ecclesiale, ma anche nelle abitudini e nei ritmi dell’esistenza quotidiana. Non è la sovrana ragione umana e nemmeno il “senso religioso” il punto di partenza della riflessione teologica, ma l’ubbidienza a ciò che è stato tramandato dai nostri padri nella fede. E l’accoglienza spirituale di questa eredità è la base del dialogo con il mondo contemporaneo. Non è accettata la logica del: “adesso facciamo noi ciò che, a nostro avviso, è buono e giusto”, perché nella Chiesa niente è inventato da qualche illuminazione mistica o ragionevole, ma tutto è frutto dell’esperienza e della presenza operosa dello Spirito Santo che vive nel Corpo di Cristo nel suo insieme attraverso la storia. Questa esperienza non va persa o dimezzata in nome dell’aggiornamento alla modernità, come essa possa essere utile. Nell’ortodossia non c’è affatto il culto dell’“oggi” della storia e dell'uomo moderno come punto di partenza per la riflessione teologica, ma piuttosto la comunione con tutto ciò che Dio ha fatto nella storia con le mani, con le preghiere, con i doni dei Suoi servitori.
Ammettiamo che quest’argomento possa suonare anche bene alle orecchie dei non-ortodossi nel quadro della teologia dei manuali e delle conferenze, ma può offendere qualcuno quando si tratta di conclusioni pratiche e di comportamenti umani. L’incomprensione reciproca emerge prima di tutto nel rapporto con le Chiese e le comunità protestanti nella loro attuale evoluzione. Il sacerdozio femminile, la lingua inclusiva (Dio chiamato non solo come Egli, ma anche come Ella), i diritti delle minoranze sessuali e gli altri problemi di questo tipo per l’ortodossia non sono neanche discutibili. Perché? Prima di tutto, questo non ha nessun rapporto con la Tradizione, con ciò che la fede proclama, con il vissuto dei padri nella fede venerati nella Chiesa, con l’esperienza del credere e del servire Dio da ortodosso. Sono problemi importati dall’esterno. Naturalmente, delle minoranze sessuali esistono anche fra gli ortodossi, ma non c’è nessuna istanza autorevole, nessun patriarca, nessun sinodo, che avrebbe il pieno diritto di trovare un nome più attraente e diplomatico per ciò che dal I secolo fino al 2006 venne chiamato e percepito come peccato mortale. Esistono santi ed antichi canoni che puniscono severamente tali comportamenti e che nessuno può o vuole cambiare perché sono sempre in vigore.
“Ma non si può prendere tutto alla lettera - sento l’obiezione energica, - soprattutto questi precetti paolini, condizionati dalla sua epoca, che la moglie sia sottomessa al marito, che la donna in chiesa debba avere il capo coperto...” Ma chi ha detto che non si può? Il nostro buon senso? Non è una cosa sempre apprezzata nella nostra Chiesa. Anche oggi una signora che entra in un tempio ortodosso senza fazzoletto sulla testa o in pantaloni rischia di non avere una buona accoglienza. E, tra l’altro, non da parte del clero, ma da altre signore, che si sentono custodi dell’ordine del luogo e del suo spirito. Non credo che una donna vestita in modo maschile sia ammessa alla confessione e alla comunione in nessun monastero ortodosso, almeno in Russia, ma suppongo che sia lo stesso anche in Grecia, in Bulgaria, in Georgia, ecc.
Questo non è fondamentalismo, come noi lo intendiamo, ma semplicemente gelosia per la casa del Signore, come la gente percepisce, nel grande e nel piccolo. Questi dettagli che, certo, non hanno molta importanza per il nostro discorso possono servire da introduzione se non alla spiritualità, ma in senso ortodosso, della Chiesa. La Chiesa non è il Regno di Dio, ma, diciamo, la sua anticamera. La Chiesa è la terra santa su cui ci si deve togliere i sandali o il banchetto di nozze dove non si deve entrare senza abito nuziale. La sacralità della casa della preghiera e della comunione chiede non solo un semplice rispetto, ma quasi una venerazione (che naturalmente può essere anche eccessiva, a volte ridicola). La stessa cosa, però, vale anche per l’ecumenismo. Il senso della sacralità del tesoro intoccabile della fede, con tutte le sue espressioni, spesso prevale sul desiderio del dialogo e di conoscere gli altri. C’è un errore tipico dell’Occidente: apprezzare la bellezza della Chiesa Orientale e aspettare nello stesso tempo che la portatrice di questa bellezza pensi e si comporti in modo moderno, aggiornato, aperto al mondo, ecc. Ma tutta la ricchezza orientale fu creata in epoche lontanissime dalla nostra e porta anche una forte impronta della sua visione del mondo, dello spirito di tempi passati che preferivano isolare gli eretici con anatemi piuttosto che dialogare con loro. Ammirare le icone, i canti, la teologia palamita, la “preghiera di Gesù”, il commovente “pellegrino russo” e nello stesso tempo sinceramente stupirsi perché questi “pellegrini”, che oggi si possono incontrare dappertutto in Occidente, spesso non siano così ecumenici..., significa non capire che la cultura dell’Oriente cristiano è omogenea, non è cambiata nei secoli. E per ora non ha manifestato una grande voglia di cambiare.
Certo, non tutto nelle nostre tradizioni, che provengono dalla mentalità orientale e dalle abitudini popolari, appartiene alla Tradizione come forma della Rivelazione e questo lavoro di separazione della “carne e del sangue” dall’azione dello Spirito Santo nella storia richiederà un enorme sforzo teologico e che potrà essere difficilissimo per gli ortodossi. Ma dobbiamo e possiamo farlo solo noi mentre gli altri cristiani hanno un certo diritto ad aspettare che lo facciamo. Abbiamo bisogno anche noi della purificazione della memoria. Una cosa deve essere, però, chiara: qualsiasi purificazione, se sarà chiamata “riforma”, rinnovamento”, “aggiornamento” o con un altro simile nome, può essere fatta nella Chiesa ortodossa solo nello spirito del ritorno alla Chiesa apostolica, alla sua santità iniziale. Non si tratta della copiatura dell’antichità, ma dell’ascolto dello Spirito pentecostale.
Parecchie volte mi è capitato di sentire la domanda: perché “La dottrina sociale della Chiesa Ortodossa Russa” adottata nel 2000 afferma che la Chiesa Ortodossa sia unica Chiesa di Cristo? Come si possono affermare delle cose simili alle soglie del XXI secolo? La risposta corretta sarebbe troppo lunga e dettagliata, ma per far fronte alla domanda, rispondo così: il pensiero della Chiesa cattolica su se stessa 50 anni fa, prima del Vaticano II, era davvero diverso? Per dire la verità, anche oggi non è molto diverso, ma semplicemente si usa un linguaggio un po’ più sottile. Anche oggi nei mezzi di comunicazione, nei colloqui quotidiani sotto la parola “Chiesa” s’intende sempre quella cattolica. Più volte ho sentito l’espressione “la Chiesa in Russia” proprio con questo senso univoco. Si può constatare l’esistenza di due linguaggi, uno teologico, riflettuto, bilanciato, l’altro radicato nella mentalità diffusa e non solo popolare, quasi nel subconscio con le sue reazioni spontanee. Ma la Chiesa ortodossa per ora ha solo un linguaggio, meno moderno, forse, ma più sincero, in cui la teologia non si è staccata dalla spontaneità, dal senso di essere nella verità. Perciò non proclama che la Chiesa di Cristo sussiste (subsistit in) nella Chiesa ortodossa, come dice la Chiesa romana, ma continua ad usare il vecchio verbo “essere”, “è” al presente, che non lascia molto spazio ai compromessi e alle sottigliezze.
Perché l’unica, autentica Chiesa di Cristo è proprio la Chiesa Ortodossa? Il nostro modo di pensare, che ragiona nei termini della “legittima pluralità di tutte tradizioni più o meno uguali”, non può prendere sul serio questo verbo “essere” che si fa segno di uguaglianza fra l’ortodossia e la Chiesa di Dio sulla terra. Ma ascoltiamo la sua risposta, abbastanza conosciuta, ma messa sempre tra parentesi. La Chiesa Ortodossa, che nella sua dottrina non ha cambiato niente nella fede degli Apostoli e non ha aggiunto niente che non sarebbe implicitamente contenuto in questa fede, deve essere considerata come una, santa, cattolica e apostolica Chiesa, fondata da Cristo stesso. La sua cattolicità si esprime non nei termini dell’universalismo geografico, ma nei concetti dell’unità e della coerenza organica della fede.
All’interno di questa visione, condivisa praticamente da tutti teologi ortodossi (almeno a livello ufficiale) esistono due scelte, quella della cosiddetta acribia e quella dell’economia. La prima scelta, assai diffusa ai nostri giorni, soprattutto nell’ambiente monastico ortodosso, corrisponde a ciò che si chiama l’integrismo nel linguaggio cattolico postconciliare, ma io preferisco usare il concetto ecclesiale. L’acribia afferma, secondo lo spirito intransigente di san Cipriano di Cartagine (III sec.), che le tutte comunità che a causa dei loro errori si sono staccate dall'unica Chiesa di Cristo - che oggi è la Chiesa Ortodossa - hanno perso tutto e che fuori di essa non c'è proprio nulla: né sacramenti, né grazia, né salvezza. Dunque, unica forma del dialogo è il ritorno alla Chiesa o nella versione più mite, alla eredità intatta del primo millennio cristiano. In questa ottica l’ecumenismo stesso che presuppone che oltre la Chiesa di Cristo ci siano altre Chiese, è già tradimento, un'eresia ingannevole e pericolosa che raccoglie in sé tutte le eresie antiche (come, per esempio, l'arianesimo, l'incredulità nella vera e visibile Chiesa, una, santa…, ecc.). Che dialogo può esistere con la gente che ha scelto di andare alla propria rovina? Ma chi vuole essere salvato deve prima chiedere il battesimo nella Chiesa ortodossa e poi vivere secondo i suoi statuti.
Ma c’è un altra strada, quella dell’economia che parte anche dalla stessa premessa: che la pienezza della Chiesa di Cristo si possa trovare solo nella Chiesa Ortodossa (“la teoria dei rami” non è accettatta in nessun modo), ma che fuori dall’ortodossia esista anche una grande comunità di battezzati. La Chiesa agisce con la sua grazia anche fuori dei suoi confini visibili. L’unità della Chiesa che già esiste non può essere messa in discussione perché l’unità è il dono dato fin dall’inizio dal Signore. La Chiesa non si è mai divisa, nonostante le divisioni e le crisi che hanno attraversato tutta la sua storia, ma le parti della Chiesa che si sono staccate dal suo corpo visibile non hanno perso tutti i doni del Signore. Questo concetto intuito o elaborato dai più importanti pensatori ortodossi (devo dire che la piattaforma integrista non ha dato per ora nessun teologo di un certo rilievo), nonostante la premessa dogmatica che per ora è fuori discussione (cioè che l’unica Chiesa di Cristo è la Chiesa ortodossa, anche se ha tantissime debolezze storiche), apre una vasta strada a un vero e profondo discorso ecumenico. Possiamo e dobbiamo discutere sui doni di noi stessi e degli altri. Da qui rimane un passo dall’idea dello “scambio dei doni”, così cara a Giovanni Paolo II.
Ma di quali doni parliamo? Tutti i doni che abbiamo ricevuto appartengono a Cristo, erano nascosti e rivelati in Cristo, ma rivelati in modo diverso. Questa diversità nella rivelazione, anche se come concetto è abbastanza nuovo per l’ortodossia, in nessun modo contraddice i suoi orientamenti fondamentali. Anzi, esiste già una base teologica per tale discussione, più precisamente per una libertà più grande anche nel campo dogmatico. Ancora alla fine del XIX secolo un grande storico della Chiesa antica e teologo Vassily Bolotov ha proposto questa classifica per ogni affermazione ecclesiale. La prima è il dogma, cioè la verità della fede adottata dai Concili Ecumenici (come, per esempio, che Cristo è vero Dio e vero Uomo, che Maria è la Madre del Signore e Sempre Vergine, ecc.) che non può essere cambiata e su cui la Chiesa ortodossa non accetta discussioni. La seconda è la cosiddetta teologumenon, cioè la fede teologica valida per una Chiesa, ma non obbligatoria per un’altra (per esempio, il famoso filioque, pomo della discordia, Bolotov lo considerava come teologumenon - con cui noi ortodossi non siamo d’accordo -, ma che non dovrebbe essere la causa della divisione fra l’Oriente e l’Occidente). La terza è l’opinione teologica, che non ha validità dogmatica e che è ammissibile nel campo della libera ricerca individuale e delle tradizioni nazionali di ogni Chiesa.
E’ evidente che questa classifica offre un largo spazio per il dialogo fra le Chiese storiche. Tenendo conto delle difficoltà, di cui abbiamo parlato all’inizio, non si può chiedere tutto e subito. Non si può neanche aspettare che la Chiesa Ortodossa da domani inserisca nel suo linguaggio teologico questo famoso verbo: “subsistit in”. Per ora l’unica strada per l’ecumenismo, a mio avviso, è il dialogo sui doni, sulla scoperta dei doni di un’altra Chiesa nella nostra Chiesa. Ma il dono principale è proprio quello dell’unità. La Chiesa Ortodossa insiste - e questo è il punto cruciale - che l’unità non è il premio da conquistare con i nostri sforzi, che l’unità c’è e sempre c’era dal giorno della nascita della Chiesa, anche se non è sempre visibile. Sembra che questa affermazione sottintendente un’unità già realizzata sia un impasse per l’ecumenismo. Invece no, è solo un’esigenza più alta della fede che crede all’unità già realizzata e questa esigenza può servire come premessa per un dialogo più profondo e più onesto.
Faccio un esempio scomodo: l’enciclica "Dominus Iesus", firmata qualche anno fa dal Cardinal Ratzinger, che ha provocato tanto disagio nel campo ecumenico cattolico, un’amarezza fra i protestanti e quasi un’ironia fredda fra gli ortodossi, al di là di queste reazioni immediate, a lungo andare, potrebbe avere un ruolo positivo, proprio per la sua chiarezza ed onestà. Perché la mancanza della chiarezza, il linguaggio troppo accarezzante e troppo evasivo fanno solo danno al vero dialogo teologico. Con le buone maniere possiamo arrivare all’amicizia e alla simpatia reciproca che, certo, è una conquista importante, ma l’amicizia non deve essere una sosta permanente nel nostro cammino verso l’unità. Questo è il pericolo nascosto dell’ecumenismo dei nostri giorni: sostituire il mistero della riconciliazione e dell’unione in Cristo con il sorriso diplomatico, ma anche con una preghierina recitata per qualche attimo (per essere sinceri: gli ortodossi non hanno nessun gusto per le preghiere improvvisate, a volte sentimentali ed esaltate; spesso chi vi partecipa le sopporta).
Affermare esplicitamente che solo Gesù Cristo è unico e universale mediatore della salvezza fa bene per il nostro dialogo perché la Chiesa ortodossa non ha mai detto diversamente. Proclamare che la Chiesa cattolica è la vera Chiesa di Cristo può anche servire a modo suo alla ricerca della comunione perché la Chiesa ortodossa di se stessa non ha mai detto diversamente. Non mettiamo in ombra queste cose. Il dialogo sulla verità, se siamo supportati dall’animo fraterno, può solo favorire la vera riconciliazione. Ciò che sembra un maggior ostacolo all'unità può diventare un giorno il suo inizio o, diciamo, il lievito della comunione. Perché dobbiamo essere schiavi della vecchia logica "orizzontale": la verità può essere racchiusa solo in questa o quella formula, mentre la terza soluzione è esclusa? Al suo posto, invece, si può mettere la logica della profondità, dell'incontro nella verità di ciascuno, quando noi andiamo proprio al cuore della fede del nostro fratello cristiano, quando all'origine della sua fede troviamo il mistero più profondo anche della nostra fede. Se siamo sicuri che la verità sia nella nostra Chiesa, perché non cercare l'immagine, il riflesso, la vita della stessa verità in un'altra Chiesa? Perché non ci si può riconoscere l'un l'altro presso la stessa sorgente della fede cristiana, nel volto di Cristo, nella nostra vita in Cristo che è "lo stesso ieri, oggi e sempre" (Ebr. 13,8)? E ieri, oggi, sempre proprio Lui rimane l’unico principio fondamentale nella ricerca ortodossa dell’unità visibile.
Sì, ci troviamo davanti ad un paradosso che non può essere ridotto a una semplice pluralità di tradizioni diverse: siamo chiamati alla ricerca dell’unità che già esiste dall’inizio e che ogni giorno è proclamata nel nostro Credo. Non si può alleggerire questo paradosso, bisogna viverlo nella speranza, nella devozione, ma anche con dolore. Unità significa la piena comunione, l’Eucarestia comune, che secondo il concetto ortodosso, non può essere il mezzo della ricerca, ma il suo scopo. Mi rendo conto che questa posizione possa sembrare offensiva e poco ecumenica: un ospite, un fratello arriva alla soglia della nostra casa e trova la porta chiusa. Capisco l’amarezza di colui che rimane sempre fuori. Ma anche colui che resta dentro prova talvolta lo stesso disagio. L’ospitalità eucaristica senza il nostro impegno di vivere l’Eucarestia nello stesso modo porterebbe, infatti, all’inflazione di ciò che per gli ortodossi è più sacro e che si trova nel centro più profondo, più intimo della loro fede. Il prezzo della stessa unità in tal caso dovrebbe calare drasticamente. Se il Corpo e il Sangue di Cristo sono già condivisi da tutti, non importa se crediamo alla loro presenza reale o no, non importa con quale spirito li consumiamo, cosa facciamo con il pane e il vino consacrati dopo la comunione, ecc., che senso avrebbe il nostro cammino all’unità se l’unità è già raggiunta, scontata, e tutti noi ci sentissimo contenti nelle nostre case separate, ma senza porte?
Nella pedagogia dell'unità, che si costruisce nascostamente, deve arrivare, forse, anche il momento della sofferenza. La gioia deve andare insieme col dolore, che io chiamerei il farmaco ecumenico, con l'amarezza dell'ospitalità impossibile, perché prima che i figli possano unirsi, anche i padri devono essere riconciliati. Prima di arrivare alla tavola comune dobbiamo anche scoprire il Cristo comune, riconosciuto pienamente nella fede di un altro, ma anche vissuto con la stessa pienezza spirituale nell'Eucarestia di un altro. Per fare questo cammino più cristiano, più umano proviamo ad offrire il nostro dolore della separazione a Dio e il nostro cuore al prossimo “separato”.
In un certo senso il nostro dialogo deve ricominciare da capo. Ogni Chiesa proclama implicitamente o apertamente: siamo noi la Chiesa una, santa, cattolica, apostolica, fondata e voluta da Cristo. Per mille anni non c’era bisogna di provare questa fede: la fede provava se stessa con il fatto della sua semplice confessione. Ma quando cominciamo a confessare la propria fede con tutto il suo bagaglio dogmatico, istituzionale, sacramentale, spirituale non solo all’interno della nostra realtà ecclesiale, ma anche davanti agli altri, che credono e pensano in modo diverso, questi ultimi ci chiederanno delle prove. Non avremmo paura della polemica onesta e leale; nello spirito dell’amore fraterno anche la polemica che stima il credo degli altri non può ferire alcuno. Le prove che saremmo costretti a manifestare, ad affrontare con le nostre controparti, e che non possono essere sempre vecchie, ma vanno rinnovate, riapprofondite, ripensate, riformulate, anche se tratte dalla stessa Tradizione apostolica, porteranno alla riscoperta della nostra propria fede. E nella sorgente nella nostra fede in Cristo, nella Chiesa nostra, con la grazia dello Spirito Santo scopriremmo anche la fede d’un altro fratello e il suo essere la Chiesa con la quale siamo uniti.
Gesù Cristo immagine di Dio in 2Cor
di Giovanni Giavini
Che Gesù si «immagine di Dio» è esplicitamente scritto in 2Cor 4,4. Ma che cosa intendeva precisamente Paolo con quell’affermazione? E, una volta compresa, quale attualità possiede ancora per noi, che quasi nemmeno la usiamo per parlare di Gesù? Lo vedremo alla fine: prima, da buoni esegeti benché non specialisti «doc», dobbiamo cercare di ascoltare il testo paolino nel suo contesto originario, precisamente quello della 2Cor.
Questa lettera è, per certi aspetti, molto interessante, assai ricca di tematiche preziose per la fede cristiana di sempre; basti pensare al «caritas Christi urget nos» (la carità di Cristo ci spinge) di 5,14. La lettera è anche uno spettacolo: in quanto molto autobiografica, essa presenta al lettore una vasta gamma di sentimenti e allude a diversi episodi di quel vulcano che era Paolo; ma non solo di lui: anche dei primi cristiani, in particolare dei suoi cari e deludenti corinzi. Tra l’apostolo e loro correvano sentimenti contrastanti, specialmente lui ne è quasi travolto a ondate successive e diverse: a volte è tenero come una madre, altre invece diventa polemico e sferzante, pronto ad addolcire espressioni, sfoghi, colpi severi. Soprattutto egli è preoccupato di difendere a spada tratta il suo «evangelo», ossia la sua tipica e appassionata proclamazione di Gesù crocifisso, risorto, Signore; e di difendere anche il suo ministero apostolico, compreso il suo stesso modo d’agire con la Chiesa di Corinto.
Tutto ciò imprime alla 2Cor un tono molto simile a Galati, altra lettera stupenda ma assai difficile: per la forte carica emotiva e polemica. Si sa: quando scrivi sotto la pressione dei sentimenti e volendo anche polemizzare con gli interlocutori diretti, si battono e ribattono errori, esagerazioni, approssimazioni, accuse; si sfrutta il loro linguaggio per arrivare dritti allo scopo, senza troppe attenzioni alla precisione e alla logica concatenazione del discorso: le idee escono a fiotti, per contrasti, lasciando da parte o da ricostruire una sintesi organica. Tanto più quando si scrive o parla è un semita, come lo era Paolo, e non un greco abituato alla chiarezza e alla logica dell’analisi e della sintesi.
È appunto in un contesto vivace e polemico, appassionato e forte, che è inserita anche l’affermazione di Cristo «immagine di Dio». Altrove Paolo aveva scritto, e proprio ai corinzi, che l’uomo è «immagine e gloria di Dio», anzi il maschio (1Cor 10,7: altro testo polemico, contro un esagerato femminismo, dove le idee si rincorrono e si correggono l’un l’altra); in 1Cor 13,49 aveva già messo accanto all’idea del vecchio Adamo come «immagine di Dio», che noi condivideremo quaggiù, quella di Cristo risorto come «immagine» che condivideremo in giorno (cf. anche Rm 8,29); in 2Cor 4,4 invece l’apostolo sembra ignorare del tutto che anche Adamo era immagine del Creatore. Perché? Per una specifica polemica, che ora dobbiamo considerare da vicino.
Vecchia e nuova alleanzaLa polemica immediata riguarda un tema paolino classico (Fil 3, Gal, Rm, Ef): quello del rapporto tra Toràh e Gesù Cristo, tra Antico Testamento, tra opere della legge e fede, tra lettera e Spirito. Questo tema è assai spinoso, anche per le difficoltà già a tradurre e poi a comprendere il senso esatto dei termini e delle questioni. Anche qui esistono problemi di traduzione e di comprensione, come annotano i commentatori citati in bibliografia; vi sorvoliamo, limitandoci ai punti più importanti.
Il nostro brano abbraccia tutto il c. 3 e va almeno fino a 4,6. Esso contrappone polemicamente le figure di Mosè e di Gesù Cristo, il ministero o diaconia del primo e quello del secondo: uno è diaconia della «lettera che uccide», ossia della legge incisa su tavole di pietra, l’altro è ministero dello «Spirito che dà vita». Ovviamente l’esaltazione dell’opera di Cristo comprende e produce anche quella del ministero apostolico di Paolo, in quanto dipende e prolunga quello di Gesù.
Il contrasto tra le due diaconie, quella di Mosè e quella di Gesù e del suo apostolo, si sviluppa in un modo molto originale e sorprendente, ma molto illuminante per il nostro tema. Paolo sfrutta (vv. 7-11) la famosa pagina di Es 34, che parla dello splendore irraggiante dal volto di Mosè dopo i suoi incontri con Dio e con la luce della sua parola. Pur polemizzando, l’apostolo non nega, anzi afferma che quello splendore era vero e significativo; ma, scovando un senso possibile e implicito in Es 34,33-35, egli dice che esso era anche «effimero», passeggero; anzi Mosè apposta si metteva un velo sul volto per nascondere il carattere passeggero di tale splendore!
Qui Paolo ricorre al metodo rabbinico di cavare dalle Scritture sensi impliciti, possibili e pur discutibili. Probabilmente quel metodo risultava molto adatto (come gli argomenti ad hominem ed altri simili) per dare a intendere ai suoi cristiani di Corinto, giudei o giudaizzanti, ciò che veramente gli premeva: Cristo comunica al suo apostolo una forte audacia e franchezza, per la quale questi non si pone alcun velo sul viso, perché in lui risplende una luce non effimera, non passeggera, non limitata!
Ma proprio qui il testo s’ingarbuglia e risulta un po’ difficile seguirlo (vv. 12-15). Paolo infatti sembra innanzitutto pensare che, come lui, anche i cristiani autentici non si pongono un velo sugli occhi quando leggono la parola delle Scritture: ne sono illuminati un modo diverso da Mosè e soprattutto dai giudei legati ancora a lui e alla sua legge. Su questo limite, su questa lettura dell'antica alleanza velata come da un velo sugli occhi, Paolo ora insiste. I giudei, ma gli stessi cristiani di Corinto a loro troppo legati, non riescono a leggere bene le antiche Scritture, a scoprirne, con lo splendore, anche i limiti. Per leggerle bene occorrono occhi e cuore liberi dal velo, occorrono occhi e cuore di Cristo. Perché?
In modo rabbinico i vv. 16-17 offrono una risposta, un po’ oscura per noi (c’è qualche velo anche su noi, o Paolo non si è espresso in modo felice?). Interpretando un po’ liberamente Es 34,34 e giocando sul doppio senso del termine greco «Kurios - Signore» e su quello di «rivolgersi - conventirsi», egli fa capire che: come Mosè quando rivolgeva/convertiva al Signore Dio si toglieva il velo dal viso per esserne illuminato (sia pur in modo effimero), così anche il giudeo sarà illuminato veramente e raggiungerà la forza vitale delle Spirito e la vera libertà a patto che non si limiti alla lettera scritta su tavole di pietra o nelle Scritture antiche, ma si rivolga/converta al Signore Dio e al Signore Gesù: ora infatti conosciamo il Signore Dio e il suo Cristo assai di più del pur irraggiato Mosè.
Il v. 18 torna «noi tutti» credenti nel Dio di Mosè e in Gesù: la fede ci permette un nuovo e decisivo contatto (sia pure come mediante uno specchio) con la luce della vera gloria di Dio; ma questo contatto non è solo una conoscenza intellettuale: ci trasforma sempre più «in quella medesima immagine […] per l’azione del Signore [Dio e Gesù], cioè del suo Spirito». Qual è quell’ «immagine»? Il contesto non lascia dubbi: è proprio Gesù, in quanto rispecchia e riecheggia la luce e la gloria di Dio assai di più di Adamo (e quindi di ogni uomo) e soprattutto di Mosè e della sua legge pur splendida! Conviene ricordare che un certo giudaismo aveva divinizzato la legge, assimilandola alla Sapienza, alla Parola, alla vita e alla luce di Dio stesso (cf. Sir 24; Baruc 3,9-4,4 e tradizioni giudaiche connesse).
Gesù, immagine di DioIn 4,1-2 Paolo riafferma l’autenticità del contenuto e del metodo del suo apostolato. Nei vv. 3-4 dà un’amara e polemica (quindi parziale) spiegazione del fatto che molti (tra i giudei e i pagani?) non credono ancora al vangelo: «Si perdono, perché il Dio di questo mondo ha accecato la loro mente incredula, perché non vedano lo splendore del glorioso vangelo di Cristo, che è immagine di Dio».
È qui che troviamo esplicitamente il nostro tema, ormai ben illuminato dal contesto precedente e completato dal v. 6: «Sul volto di Cristo rifulge la gloria di Dio», la sua presenza illuminante e salvifica, più che nella divina legge, nel tempio e soprattutto più che nel vecchio Adamo e in altre realtà pur belle e buone.
Paolo, per grazia, rispecchia quello splendore e lo irradia, così che anche i suoi cristiani di Corinto ne sono illuminati e divengono a loro volta illuminanti nel loro mondo (cf. 2Cor 3,1-3: la Chiesa di Corinto – pur con tutti i suoi difetti! – è «lettera di Cristo» inviata al mondo).
Come le Chiese degli autentici credenti effettivamente riflettono e irradiano lo splendore che rifulge sul volto di Cristo? In 2Cor Paolo risponde: specialmente con la testimonianza della speranza anche di fronte alla morte (4,7-5,10) e con la carità tra genti diverse, di cui la colletta per i poveri di Gerusalemme era segno preclaro (cc. 8-9). Facile viene il richiamo a 1Cor: anche là (c. 15) il tema di Cristo-immagine era connesso con la speranza e alla speranza non poteva mancare la «via della carità» (c. 13).
Oltre al richiamo a testi paolini precedenti si potrebbe anche procedere verso altri testi successivi, nei quali ritorna il tema di Cristo-immagine di Dio: Col 1,15 è chiaro; più vaghi Col 3,10 ed Eb 10,1, ma anche qui incontriamo gli stessi aspetti di 2Cor 4. Interessantissimo il confronto con il prologo di Giovanni: Gesù non vi compare come immagine di Dio, ma come sua «Parola»; il messaggio però è identico: «La Parola s’è fatta carne […] e noi vedemmo la sua gloria di unigenito dal Padre, pieno di grazia e verità […]. La legge fu data [fu quindi anch’essa un dono] per mezzo di Mosè, ma la grazia e la verità [ossia la grazia quella vera, quella piena e definitiva] avvenne per mezzo di Gesù Cristo» (Gv 1,14-17; cf. anche 1Gv 1,1-4). Le analogie tra Giovanni e il paolo di 2Cor 4 sono davvero molto forti, al di là del linguaggio leggermente diverso.
Dalla 2 Corinzi a noiDopo aver ascoltato il testo paolino nel suo contesto originale e quindi colto il suo messaggio alla Chiesa di Corinto, ora avviamo qualche rilettura attualizzante per il nostro tempo.
Come sempre, anche qui Paolo ci trasfonde la forza e il calore della sua fede in Gesù Cristo e nel suo Dio. Non era facile allora credere che sul volto di quel crocifisso risplendesse la gloria di Dio, quando tutto induceva a pensare che su di lui pesassero una «maledizione», quella della Toràh sugli appesi a un patibolo (Dt 21,23; Gal 3,13) e l’ombra di una «scandalosa follia» (1Cor 1,18-23). Non era facile allora, certo, ma nemmeno adesso, quando tanti fatti mettono in crisi la nostra fede nel Signore Gesù e nel suo Dio. Ben altri infatti sembrano i veri «signori» e i veri «dèi». Di qui la crisi forse più profonda che stiamo attraversando. Paolo ha forza da venderci al riguardo.
La fede in Cristo non era pura «gnosi», semplice conoscenza intellettuale di qualche messaggio astratto, generico, semplicemente rivestito di una storia apparente (come quella della New Age e di altri movimenti religiosi antichi e recenti). Certo, la fede era anche gnosi, comprendeva cioè anche una conoscenza e precisamente di una storia vera, recente, bella ma anche drammatica (la croce!), ma diventava poi dinamica: produceva speranza e carità, quelle che derivano dalla convinzione che Cristo crocifisso e glorioso (risorto), lui e lui solo, era la vera «immagine» di Dio e quindi anche il vero Adamo, l’autentico uomo: un uomo capace di vincere anche la morte e di costruire nuovi ponti tra popoli, razze, religioni diverse, superando anche i limiti e le barriere della vecchia legge mosaica.
Qui tocchiamo un altro problema attualissimo: il rapporto tra Antico e Nuovo Testamento, tra Israele e Chiesa, tra legge mosaica e morale cristiana. Lo sappiamo: è un problema assai delicato e arduo, anche perché siamo stimolati e pressati da tendenze diverse: da quella che tende a svalutare del tutto o quasi l’Antico Testamento, l’antica alleanza e la sua legge, oppure a leggerlo allogoricamente, solo come premessa, anticipo, profezia di Cristo, della Chiesa, dei sacramenti, ecc. (tendenza molto diffusa in passato e non defunta nemmeno tra la nostra gente); e da quella che invece cerca di mantenere all’Antico (o «primo») Testamento un autentico, originale, perenne valore salvifico almeno per gli ebrei, se non addirittura per la Chiesa stessa. Il testo di 2Cor 3-4 suggerisce un corretto equilibrio: l’Antico Testamento, con le sue realtà, era e rimane «splendido», ma di uno splendore non pieno, incompleto, relativo rispetto a quello del volto di Cristo.
È questa la linea che ci permette, da una parte, di valorizzare i tesori della tradizione ebraica (pensiamo, per esempio, alla straordinaria ricchezza e attualità dei profeti, di Giobbe, dei Salmi, della Genesi, che una volta si studiavano quasi solo per cercare le scarse profezie sul Messia); dall’altra, di coglierne anche i limiti, la temporalità, i legami con culture precristiane e con le varie fasi della «pedagogia» di Dio nel condurre il suo popolo verso la pienezza della grazia e della verità (pensiamo, per esempio, alle pagine sulle guerre e su altri aspetti della vita morale o a quelle in cui appare ammessa l’esistenza di altri dei). Tutto ciò, ovviamente, a prescindere da qualsiasi giudizio sul cammino personale o di coscienza dei singoli «fratelli maggiori». La posizione di Paolo e di Giovanni, vista sopra, si può leggere nella Dei Verbum del Vaticano II (nn. 14-16) e in modo più ampio e mirabile nel recente documento: Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana.
Da ultimo 2Cor 3-4 è pure un esempio (pienamente riuscito?) di inculturazione della fede cristiana: è evidente, infatti, lo sforzo, purtroppo anche polemico, di paolo di trasmettere ai suoi lettori immediati quella fede tradizionale con vari linguaggi adatti a loro, specialmente con quello giudaico-rabbinico e i rispettivi metodi usati allora (e non solo allora). Anche per questo aspetto, pur meno importante dei precedenti, il brano paolino si dimostra attuale. Ci è costata un po’ di fatica la sua esegesi, ma , a conti fatti, n’è valsa la pena…o no?
(da Parole di vita, 5, 2002)
L’amore immotivato
di Giovanni Vannucci
Gesù, invitato a pranzo da uno dei capi religiosi del suo popolo, osservò come molti ospiti discutevano per decidere chi doveva sedere a capo tavola e chi più vicino o lontano dai notabili. Con fine senso realistico e ironico, osserva che l’invito a pranzo è un gesto di amicizia per consumare dei cibi con semplice gioia; la ricerca dei primi posti a tavola è l’espressione di una vanità che niente ha a che fare con la gioia di consumare insieme un pasto con amici, anzi ne costituisce un avvelenamento.
«Quando sei invitato a pranzo, scegli con semplicità l’ultimo posto, lascia al capotavola la libertà di chiamarti più vicino a lui [...]. Se poi tu fai un pranzo, invita alla tua tavola i poveri, i reietti, quelli che non possono darti niente in contraccambio. Compi un gesto di amore disinteressato, la ricompensa ti sarà data sul piano dell’infinita coscienza di Dio, a essa la tua gioiosa liberalità ti introdurrà» (cfr. Lc 14, 8-14).
La grande catena dell’amore universale viene tracciata e indicata da queste semplici parole: «Dona a chi non può contraccambiarti il tuo dono, offri i tuoi pranzi a chi non può invitarti a sua volta. Se inviti chi può restituirti il pranzo, tu non esci dai confini di un misero egoismo; invita chi non potrà renderti il contraccambio, in tal modo la tua gioiosa generosità ti aprirà un credito presso il Padre che è nei cieli» (cfr. Lc 14, 12-14).
Ogni azione umana crea continuamente dei vuoti e dei pieni, apre delle parentesi che dovranno venir chiuse. Se l’uomo fa il male come reazione al male, chiude una parentesi aperta dal male inferto; se fa il male per il male, apre una parentesi creando un vuoto che gli attirerà del male. Cosi avviene per il bene. Se l’uomo usa generosità per attirare generosità, apre e chiude questa parentesi; ma se è generoso con chi non potrà ricambiarlo, apre un vuoto di bene in cui entrerà dell’altro bene per colmarlo.
Quando uno fa del male come reazione a un male, chiude la parentesi del male; in questo caso vige la legge del taglione, chi è stato offeso può domandare giustizia: giustizia che è sempre una larvata forma di vendetta e, una volta soddisfatta l’esigenza di giustizia, la parentesi è chiusa, l’offensore ha pagato, non deve più nulla; l’offeso non ha più alcun diritto. Ma se chi ha ricevuto l’offesa non reagisce, l’offensore apre in sé un vuoto che sarà fatalmente ricolmato da un’altra offesa, anche se interviene il perdono dell’offeso.
Una legge severa presiede a questi meccanismi; così colui che fa il bene, e di questo riceve la ricompensa e la gratitudine del beneficato, chiude la parentesi, e il benefattore ha ricevuto la sua ricompensa; se invece la generosità è gratuita, se l’amore non è limitato da nessuna finalità, se qualcuno rivolge la sua forza di amore e di dono a chi non potrà rispondergli con altra generosità e amore, si stabilisce una corrente di vuoto che sarà colmata da altra generosità e da altro amore.
Le nostre azioni, le nostre opere di cristiani dovranno essere contrassegnate dall’apertura di una assoluta gratuità: questa stabilirà un continuo flusso di bene e di grazia tra il cielo e noi. E ci libererà da tutte quelle solidificazioni create dall’ambizione vanitosa di porre una finalità alle nostre azioni, anche a quelle che riteniamo più conformi alle qualità cristiane. Amiamo «per», preghiamo «per», facciamo delle opere sociali «per»; motivare l’amore non è amare, avere una ragione per donare non è dono puro, avere una motivazione per pregare non è preghiera.
Cristo ci dice: «Se dai un bicchier d’acqua a chi ha sete, nel mio Nome, non lo dai all’assetato, ma a Me!» (cfr. Mt 25, 35 s). «Nel Nome del Signore» vuoi dire nella più assoluta gratuità, nell’amore più libero e oggettivo, nella vastità della Coscienza divina che a noi si è rivelata come Pane e come Vino.
La finalizzazione dell’amore porta all’affermazione di lottare perché questo nostro amore si affermi, alla necessità di essere più forti, più abili, più tortuosi per imporlo, alla necessità di apparire portatori dell’amore, alla necessità delle mille strutture per renderlo obbligatorio. Quando saremo soltanto amore, dono e preghiera, come è Dio e il suo Cristo?
«Ai tuoi pranzi non invitare gli amici, i potenti, i consanguinei [...]. Al contrario invita i poveri, i reietti, gli storpi, che non avranno mai di che ricompensarti» (Lc 14, 12-14). Il tuo amore sarà immotivato come l’amore del Padre che è nei cicli, il tuo dono sarà l’offerta pura e incontaminata che è accetta a Colui che crea, ama, dona per la pura gioia della creazione, del dono, dell’amore! Altrimenti creerai delle strutture, dei modelli, delle forme che ti faranno sentire potente, generoso, buono, e perderai te stesso e le tue opere nelle strettoie del secolo presente! Ti sei mai domandato se lo sbocciare di un fiore, il canto dell’usignolo, il brillare di una stella sono motivati? Impara dai gigli dei campi, dagli uccelli dell’aria la grande lezione del dono puro e immacolato da finalità!
Solo colui che ha raggiunto il senso della sua eternità può non dare importanza al tempo e alle egoistiche esigenze del tempo. Solo colui che è forte ama senza porsi dei perché; solo colui che è forte dona generosamente e instancabilmente come il Creatore della vita. Cristo ci addita la via per diventare forti, ricchi, per attuare l’essenzialità del regno di Dio, essenzialità che è potenza di spirito, e che qualcuno raggiungerà quasi a sua insaputa, come il contadino che lavorando il campo trova un tesoro, altri invece conquisterà per appassionata ricerca, come il mercante di perle.
Giovanni Vannucci, in La Vita senza fine, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985. «L’amore immotivato», 22a domenica del tempo ordinario. Anno C., Pag. 178-181.
Il Tibet della Cristianità
di Piero Pisarra
«Ci sono luoghi al mondo in cui la natura sembra offrirsi un santuario, con tutta la ricchezza del simbolismo primordiale: centro, asse, bellezza paradisiaca delle acque. E l'Athos è uno di questi», ha scritto il teologo Olivier Clément.
Monte Athos, Aghion Oros, Santa Montagna. Da più di un millennio il promontorio orientale della penisola Calcidica - secondo la mitologia, fu scagliato in mare dal gigante Athos in collera con Poseidone - richiama monaci e viandanti dell'assoluto. Dell'Athos parlano, nelle veglie attorno al fuoco del grande inverno siberiano, i personaggi di Leskov. All'Athos sogna di andare il Pellegrino russo, autore dei celebri Racconti. E all'Athos, quando le convulsioni della storia si fanno insopportabili, quando le guerre e l'odio lacerano l'umanità, si rivolgono le speranze del mondo ortodosso. Perché l'Aghion Oros non è soltanto un luogo di aspra bellezza, rifugio ideale di asceti in fuga dalle lusinghe del secolo: è anche, come vuole la leggenda, il "giardino della Vergine", precluso a ogni altro volto di donna. Un luogo di battaglie spirituali e di pace, di hesychia, la pace interiore che nasce dalla ripetizione incessante della "preghiera di Gesù" («Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me»), secondo il ritmo della respirazione.
Alla frontiera del mondo greco e del mondo slavo unito dal Mediterraneo ai patriarcati orientali e alla cattolicità latina, l'Athos - aggiunge Clément - sembrava predestinato «a diventare il cuore di una Chiesa che si definisce soprattutto come un mistero di deificazione». Ed è così che è stato visto da intere generazioni di credenti.
Cuore dell'ortodossia, Tibet della cristianità: queste definizioni possono farci sorridere, ma esse hanno affascinato i viaggiatori dei secoli scorsi, gli antenati di Bruce Chatwin e di William Darlymple, che a dorso d'asino - coi loro pesanti bagagli - venivano qui a respirare una dose di esotismo, senza le fatiche di un viaggio nella lontana India. Nel 1834, sir Roben Curzon concluse il suo viaggio tra i monasteri d'Oriente, alla ricerca di antichi manoscritti, qui all'Athos (si veda il suo pittoresco resoconto: Visits to Monasteries in the Levant, Century, Londra, 1983). E quasi un secolo dopo, nel 1926, il giovane Robert Byron, omonimo del celebre lord, vi fece due lunghi soggiorni. Curzon comprò per poche sterline, ingannando i monaci, manoscritti antichissimi. Byron, più disinteressato o squattrinato, si accontentò di raccontare il paesaggio umano e spirituale dell'Athos in un libro che avrebbe influenzato in maniera durevole i travel writer delle generazioni successive (The Station, tradotto sciattamente da Bompiani nel 1952, col titolo Monte Athos). Ma la descrizione più accurata della vita sulla Santa Montagna, prima che i germi della modernità - come lamenta l'autore - introducessero anche qui «gli agi e le usanze mondane», si deve alla penna e al pennello di Fortunato Perilla.
Sfoglio con emozione il Monte Athos del pittore italiano (Parigi e Salonicco, 1926), ricco di xilografie, corredato di acquerelli: monaci dalla lunga barba, con il tradizionale copricapo (lo skufos) oppure con l'abito angelico, il megaloskima dei monaci professi; volti levigati dagli anni, ma da cui emana una luce interiore come nei santi delle icone; novizi coi capelli raccolti a crocchia, secondo l'uso orientale. Perilla non trascura alcun dettaglio: gli affreschi antichi, le reliquie, i sigilli, le simandre, cioè le tavole di legno sulle quali ancora oggi i monaci battono ritmicamente per invitare alla preghiera o al riposo, le fiali, cioè i chioschi con al centro una fontana in cui è così gradevole prendere il fresco nelle sere d'estate.
Sono passati circa ottant'anni, eppure quel libro sembra parlare di oggi. Perché se anche qui trillano i cellulari, se le jeep e le Range Rover hanno sostituito gli asini e i muli, se i monaci non disdegnano Internet e le autostrade telematiche, l'Athos è pur sempre un angolo di Bisanzio sopravvissuto per miracolo agli assalti della modernità. Nulla sembra distinguerlo dall'ambiente circostante, dal resto della penisola Calcidica: qui ritrovi la stessa vegetazione, querce, castagni, cipressi, eucalipti, ulivi, aranci, gli stessi odori di origano e di basilico, la luminosità accecante, i riflessi dorati sull'azzurro dell'Egeo. Ma non appena si arriva nel porticciolo di Dafnì sembra di essere in un altro mondo, in un'altra dimensione. E non solo perché si torna indietro di tredici giorni, calendario giuliano oblige. «Qui il tempo sembra essere fatto di una sostanza differente. E il mondo dei vivi riproduce con tanta precisione quello dei morti e degli antenati che i monaci danno talvolta l'impressione di essere icone animate, ombre di ieri smarritesi nel nostro presente», ha scritto Jacques Lacarrière che all'Athos ha dedicato uno dei suoi libri più belli (L'ètè grec, 1975).
Le icone animate, i primi anacoreti, scelsero questi luoghi, le grotte a strapiombo sul mare, già nel VII e nell'VIII secolo, quando l'impero bizantino era lacerato dalla controversia iconoclasta. Ma il primo eremita venerato dai monaci della Santa Montagna è Pietro, un ex soldato che nelle caverne dell'Athos trascorse cinquantatre anni in solitudine, nel IX secolo. A Pietro l'Atonita apparve in sogno - così racconta la Vita scritta dal monaco Nicola nel X secolo - la Theotokos, la Madre di Dio. «La tua dimora sarà sul Monte Athos che su mia richiesta ho ricevuto in eredità da mio figlio», gli disse la Vergine. «Là quelli che abbandoneranno i turbamenti mondani e abbracceranno le cose spirituali, secondo le loro forze, e invocheranno il mio nome in verità, fede e disposizione d'animo, trascorreranno la vita presente e guadagneranno la vita futura per mezzo di opere gradite a Dio». Secondo la profezia, il Monte Athos si sarebbe riempito di monaci da un capo all'altro. E così avvenne. Non lontano dalle caverne degli eremiti, sorse il primo monastero, fondato da Atanasio, un greco di Trebisonda, amico del futuro imperatore Niceforo Foca.
La prima pietra della Grande Lavra fu posta nel 963. In pochi decenni, sulle tracce di Atanasio l'Atonita, arrivarono, da ogni regione dell'Oriente cristiano e poi anche dall'Occidente, centinaia di uomini: greci, georgiani, slavi del Sud, italiani. Lungo la costa, sorsero i monasteri di Vatopediou, Zografoti, Filotheou, Dochiariou, Xenophontos e Iviron. Serbi e russi arrivarono più tardi, tra l'XI e il XII secolo. Con la benedizione di patriarchi e imperatori, era nata una curiosa Repubblica monastica, uno Stato federale, senza esercito, ma sotto la protezione della Vergine. Accanto ai venti monasteri maggiori o lavre, furono fondate numerose dipendenze, che ospitavano comunità più piccole. Tutte le forme di vita monastica trovarono rifugio nel giardino dell'Athos: da quella eremitica a quella cenobitica e alla idiorritmica, secondo la quale ogni monaco organizza in maniera indipendente la propria vita, con pochi obblighi comunitari. Senza dimenticare i "folli in Cristo" della tradizione russa, dal comportamento che alle cosiddette persone normali può sembrare stravagante, ma che è il segno di una saggezza più alta (quella delle beatitudini). E i sarabaiti, i monaci girovaghi, a volte indicati a cattivo esempio, nella letteratura spirituale, per la loro irrequietezza.
Arrivarono anche i maestri dell'arte bizantina: nel XIV secolo, Manuele Pansélinos e i suoi discepoli affrescarono le chiese di Vatopediou, Chilandari e Karyes, nello stile della cosiddetta "scuola macedone", conciliando ieraticità e umanità nella raffigurazione dei personaggi e degli episodi del Vangelo. Poi, tra il XV e il XVI secolo, si impose lo stile cretese, più austero e di una religiosità tutta interiore. Ai grandi cicli della "scuola macedone", gli artisti di questa nuova corrente - il cui iniziatore fu il grande Teofane di Creta - preferivano composizioni più vicine, nella tecnica e nello spirito, alle icone o alle miniature destinate a favorire la contemplazione e la preghiera. Sull'Athos sorsero vari atelier, laboratori iconografici che nulla avevano da invidiare alle botteghe dei maestri italiani. E anche per la vita spirituale cominciò una fase nuova.
Gli uomini che avevano scelto il nascondimento, che in alcuni casi avevano abbandonato il potere o rinunciato al mestiere delle armi, che avevano lasciato affetti e amicizie, cantavano nel giardino della Vergine, in liturgie interminabili e affascinanti, le lodi al Signore del cosmo e della storia, il Pantocrator di cui vedevano, alla luce tremula delle candele, la figura maestosa negli affreschi o nei mosaici delle loro chiese. Vita angelica: così la tradizione definisce il monachesimo. Ma quella dell'Athos era una vita dura, povera, essenziale, nel rispetto della sobrietà e della vigilanza, la nepsi, che i Padri consideravano come valore fondamentale, per non lasciarsi sorprendere dal nemico in agguato e non essere vinti dalle passioni.
Vita di lotta spirituale e di penitenza, perché - come scrisse Gregorio Palamas in un encomio di san Pietro l'Atonita - «quando la mente si leva al di sopra di tutte le cose sensibili ed emerge dal diluvio turbinoso che le circonda e osserva l'uomo interiore, e vede la ributtante maschera derivata dalla caduta, cerca di lavarla con l'afflizione». Testimoni dell'unità e l'universalità dell'Ortodossia, i monaci atoniti hanno salvato in almeno due occasioni, secondo Olivier Clèment, la Chiesa ortodossa: nel XIV e nel XVIII secolo al momento della polemica sull'esicasmo che scosse l'Oriente cristiano e all'epoca dell'Illuminismo, quando la fede sembrava minacciata dalla dea Ragione.
Nato in ambiente monastico, l'esicasmo (da hesychia) trovò sull'Athos il terreno più fertile. Non soltanto una corrente teologica o un movimento che mette l’accento sulle “energie divine” all’opera nel mondo e che trasfigurano il creato, bensì una via alla contemplazione. Un "metodo" basato sul respiro e caratterizzato da una particolare postura del corpo, la testa raggomitolata tra le gambe. E che anche per questo si attirò il sarcasmo di un teologo come il monaco calabrese Varlaam di Seminara. «Omfalolatri, adoratori dell'ombelico», fu il giudizio sprezzante e superficiale. Gregorio Palamas (1296-1357), che era stato monaco dell'Athos prima di essere eletto arcivescovo di Tessalonica, definiva la vera hesychia come «il ritorno e la conversione della mente a sé», cammino di unità e di pacificazione interiore, illuminato dalla grazia. Il contrario, insomma, del ripiegamento narcisistico su sé stessi o sul proprio ombelico.
L'esicasmo segnò in profondità la vita del monachesimo atonita. E i suoi frutti, dopo periodi di crisi o di stagnazione, si manifestarono nel XVIII secolo, in tutto l'Oriente cristiano, in quella che fu chiamata l'epoca del "rinnovamento filocalico".
Sull'Athos, Macario di Corinto e Nicodemo l'Agiorita compilarono l'antologia che avrebbe rivelato all'Europa, nel clima dell'Illuminismo, la ricchezza della tradizione ascetica e mistica dell'Oriente cristiano, dai Padri del deserto ai grandi "teorici" dell'esicasmo, Gregorio il Sinaita e Gregorio Palamas.
Stampata a Venezia nel 1782, la Filocalia ebbe un impatto fortissimo nel mondo slavo, grazie alla traduzione di un grande maestro spirituale, lo starec Paisij Velickovskij. La "vita angelica" era, dunque, nient'altro che filocalia, amore della bellezza. Al di là del colore, delle lunghe liturgie e dei riti che tanto colpivano i viaggiatori occidentali, l'Athos aveva conservato per secoli, non come un tesoro inaccessibile ma come pratica di vita ascetica, la tradizione dei santi padri, l'insegnamento di Evagrio, di Massimo il Confessore, di Simeone il Nuovo Teologo. Così come aveva custodito gelosamente la tradizione dell'arte bizantina e ne aveva tramandato i canoni in un manuale preziosissimo per gli iconografi e gli studiosi di iconografia: l'Ermeneutica della pittura di Dionisio da Furnà (XVIII secolo).
Ma forse a queste due epoche, all'esicasmo e al rinnovamento filocalico, bisogna aggiungere il periodo della grande glaciazione comunista, quando anche sull'Aghion Oros si preparava la rinascita dell'Oriente cristiano, con i santi anonimi che qui custodivano i tesori spirituali della Santa Russia. O l'epoca immediatamente precedente la rivoluzione sovietica, quando al monastero di San Panteleimonos viveva, facendo il mugnaio, un uomo semplice, senza grande cultura, ma che fu uno dei grandi mistici del XX secolo: Silvano dell'Athos. Un uomo che bruciava di compassione per i suoi simili e per tutte le creature. E che anche nel buio della tentazione o della prova diceva: «Fratello mio, chiunque tu sia, per quanto grande sia il tuo peccato, per quanto oscura sia la tua tenebra, tieni il tuo spirito agli inferi, e non disperare!».
Nato in uno sperduto villaggio della provincia di Tambov, in Russia, nel 1866, Silvano visse per quarantasei anni sul Monte Athos, fino alla morte nel 1938. «Fin dalla mia infanzia amavo il mondo e le sue bellezze», scrisse nei suoi quaderni spirituali. «Amavo i boschi, i verdi giardini e i campi, amavo guardare le nuvole splendenti e vederle correre nell'azzurro cielo, e tutto il mondo di Dio creato in modo così meraviglioso. Ma da quando ho conosciuto il mio Signore, è cambiata ogni cosa dentro di me, non desidero più contemplare questo mondo, ma l'anima mia è attratta incessantemente verso quel mondo dove si trova il Signore». Per tutta la sua vita, l'ex contadino russo, divenuto uno starec amato e ascoltato, volle essere testimone dello Spirito, «perché lo Spirito Santo è la vita eterna».
Quanti monaci come Silvano, quante altre icone viventi hanno percorso i sentieri dell'Athos? Quante altre storie di santità celano le grotte e i monasteri dell'Aghion Oros? Quanti altri uomini spirituali, veri pneumatikoi, praticano la preghiera di Gesù, alla ricerca dell’hesychia, il silenzio del cuore e dei pensieri, la serenità piena che nasce dalla lotta contro le passioni e che non è indifferenza al mondo, ma una forma più alta di compassione?
Ora, dopo il crollo dell'impero sovietico, l'Athos conosce un'altra fase di rinnovamento. Progressivamente, i monasteri hanno abbandonato il sistema idiorritmico, all'origine di molte contraddizioni e di abusi, per la vita cenobitica. Sotto l'impulso dei monaci di Stavronikita, Iviron, Simonos Petra, hanno riscoperto le radici autentiche della vita monastica, lo studio dei Padri, il valore della nepsi e dell'hesychia. Mai interrotti, i legami con i Paesi di quello che fu il blocco comunista sono ora più frequenti. E anche dai luoghi più lontani della diaspora ortodossa - America, Australia - arrivano nuovi candidati alla vita monastica, nuovi postulanti. L'Athos vive una nuova primavera. Eppure, di tanto in tanto riaffiora la tentazione della chiusura, dell'integralismo, della conservazione gelosa dell'identità ortodossa. Come nel 2003, quando alcuni monaci di Esfigmenou, ribellandosi al Patriarca di Costantinopoli, giudicato troppo aperto, troppo debole verso l'Occidente, issarono la lugubre bandiera: «Ortodossia o morte!».
Battaglie di retroguardia? Scaramucce di una piccola minoranza? Manifestazioni di"zeloti", nemici del dialogo ecumenico, difensori di un ritualismo senz'anima? Certamente. Nella stragrande maggioranza, i monaci disapprovano questo fanatismo, anche se la diffidenza per l'altro, in particolare per i latini (fratelli sì, ma eretici) è ancora forte. Ma è inutile applicare, a una realtà così complessa, troppo riduttive categorie di giudizio, schemi politico-teologici che non reggono alla prova dei fatti.
«L'Athos sconcerta gli occidentali», scrive Olivier Clément nei Dialoghi con Atenagora. «E talvolta di esso si nota soltanto l'aspetto pittoresco o le ombre: la sporcizia, le celebrazioni dall'orario indefinito, la tentazione dell'omosessualità. Ma questo operaio che lavora al mulino è forse uno starec Silvano. La santità non si vede. Tuttavia essa riempie certi luoghi, e l'anima attenta scopre subito che il silenzio delll'Athos è saturo di santità». Saturo di santità e di bellezza.
(da Jesus, agosto, 2004)
Alla luce del nuovo orizzonte tracciato diventa comprensibile che la prospettiva dell'interculturalità abilita il cristianesimo alla pluralità delle culture e delle religioni, che lo abilita all'esercizio plurale della propria memoria e alla rinascita, a partire dalla rinuncia a ogni centro di controllo, con la forza di tutti i luoghi della pluralità.