 
        
                Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input
 
   Venezia
Al di la delle Alpi si riteneva che la capitale della Serenissima potesse spontaneamente aderire alla Riforma protestante e diventare così la “Ginevra Italiana”. (2) e Giordano Bruno riferendosi ad Enrico IV di Francia. Nel 1542 Bernardino Ochino scrisse al Senato della Repubblica (3) e nel 1545 Pier Paolo Vergerio già vescovo di Capodistria, passato al protestantesimo, invitò ufficialmente, a nome dei principi tedeschi, il doge Francesco Donà a prendere posizione a favore della Riforma. (4) Dal 1553 al 1562 Giovanni Andrea Ugoni continuò a sperare che Venezia accettasse l'invito rivoltole più volte. (5) Mattia Flacio, nel 1570, scrisse al Doge, (6) ma fu un'illusione.I libri della Riforma ebbero un'ampia circolazione a Venezia che fu anche un centro di esportazione. Si calcola che circa quarantamila copie del Il Beneficio di Cristo, ritenuto il catechismo della Riforma, circolassero a Venezia. Si ritiene che seimila studenti, cosiddetti "luterani", frequentassero l'università a Padova. E seicentottanta danesi vi studiarono durante il XVI secolo. (7) Inoltre vi furono almeno due sinodi anabattisti.
Molti teologi italiani passarono alla Riforma e divennero titolari di prestigiose cattedre in Inghilterra, Germania e Svizzera.
Tuttavia per motivi di sangue blu e di famiglia, (8) vi furono anche molte esitazioni e ben presto i riformatori al di là delle Alpi dovettero rendersi conto che i principi italiani non avevano autorità sufficiente per introdurre la Riforma nei loro paesi. (9)
Bisogna tenere presente che le turbolenze dal punto di vista religioso si aggravarono e si complicarono con il 1547, anno della morte di Enrico VIII, di Francesco I e della sconfitta a Mühlberg della Lega di Smalcalda organizzata dai principi protestanti in funzione antiasburgica. (10)
Filippo Melantone (1497-1560)
Non è possibile richiamare il nostro tema senza che il nostro pensiero vada immediatamente a Melantone (grecizzato da Schwartzerdt), personaggio chiave del periodo accanto a Lutero.
Filippo Melantone nacque a Bretten il 16 febbraio 1497. A diciassette anni era già professore a Tubinga e in seguito insegnò ebraico e greco a Wittenberg collaborando con Lutero alla traduzione della Sacra Scrittura. Nel 1521 furono pubblicati i Loci communes rerum theologicarum (la prima opera dogmatica della Riforma) (11) che circolarono rapidamente in tutta Europa e costituirono la base di partenza dei circoli riformati italiani. Melantone si occupò anche di storia, di matematica, di astronomia e di scienze naturali.
Essendo Lutero bandito dall'Impero, toccò a Melantone presentare alla Dieta la Confessione di Augusta del 1530. Lutero l'aveva preventivamente approvata. In vista di salvare il salvabile la confessione si limitò a sottolineare gli "abusi" da rivedere. Melantone perciò fu considerato un uomo di compromesso.
Per quanto riguarda l'Italia sia i Loci che la Confessione Augustana trovarono l'epicentro della loro diffusione a Venezia, a Padova, a Modena, a Roma, a Napoli, a Siena e a Firenze. Abbiamo già ricordato che Melantone visitò Udine e Trieste e che nel 1539, da Norimberga, scrisse al senato della Repubblica Veneta.
I testi circolavano anche sotto il nome italianizzato di Ippofilo da Terra Nera. (12)
Melantone morì a Wittenberg il 19 aprile 1560 e fu sepolto accanto a Lutero nella chiesa del Castello.
Fu considerato, per la vastità del suo insegnamento e la riorganizzazione dell'educazione scolastica Praeceptor Germaniae, Praeceptor Scandinaviae, Praeceptor Europae e lo fu certamente anche dell’Italia nell'ambito della Riforma protestante. (13)
Mattia Flacio (1520-1575)
Mattia Flacio nacque il 3 marzo 1520 ad Albona qualche decina di chilometri a Nord-Est di Pola, città a maggioranza luterana ai tempi del vescovo Pier Paolo Vergerio. Studiò a Venezia; fu particolarmente attento al Rinascimento. Andò a Basilea. Incontrò Gasparo Contarini a Ratisbona nel 1541 e poi si recò a Wittenberg dove aderì decisamente alla Riforma convintosi sulla giustificazione per fede. Ebbe la stima di Lutero ed ottenne la cattedra di ebraico e più tardi quella di Nuovo Testamento a Jena. (14)
Il 24 aprile del 1547 la Lega antiasburgica dei principi protestanti fu sbaragliata a Mühlberg. Con l'Interim di Augusta 1548 e poi di Lipsia, con la perdita dell'Elettore Maurizio passato nelle File di Carlo V, le imposizioni dei vincitori passarono senza protesta. Non si menzionò la giustificazione per fede. (15) La messa fu ristabilita ovunque (anche a Wittenberg, dove Lutero era morto nel 1546). Carlo V concesse effettivamente il matrimonio dei preti e il calice ai laici. L'esperimento fu tentato a Strasburgo, ma fallì. (16)
Non si parlò più di giustificazione in senso luterano, ma di giustizia infusa: la fede divenne una virtù e l'autorità tornava sub Petro.
Allora insorse energicamente Flacio che divenne il capo dell'opposizione a Melantone e ai suoi sostenitori detti filippisti. La Riforma intanto si riafferma. (18)Contro Melantone presero posizione molti teologi riformati. Lo stesso Calvino ritenne vergognoso l'atteggiamento di Melantone. (19) Flacio era burbero di carattere e comunque intransigente sostenitore del dogmatismo luterano ortodosso. Lascia Wittenberg in rottura con Melantone. Nel 1562 gli muore la moglie; più tardi si risposerà. (20) Nel 1570 scrive al doge di Venezia invitandolo ad abbracciare la Riforma: un'illusione. Visita Anversa. Il 12 marzo 1575 muore a Francoforte sul Meno.
Tra gli scritti di Mattia Flacio rimarranno significativi attraverso i secoli: la Clavis Scripturae Sacrae, un'opera sistematica della riforma luterana del 1567 e le Centurie di Magdeburgo (1559-74), in tredici volumi (ne erano previsti sedici: uno per ogni secolo), frutto di molti viaggi e della consultazione di molti manoscritti. (21) Flacio cercò di stabilire attraverso i secoli una catena di testimoni dell'Evangelo come autentica successione apostolica. In questa linea lodò anche i valdesi. L’opera segna la rinascita della storiografia. (22)
Mattia Flacio rimane una delle figure più significative della seconda generazione della Riforma protestante. (23)
La Formula della Concordia: dispute e conclusioni
Non è compito nostro soffermarci sulla Formula di Concordia. Essa è diventata uno dei libri simbolici della chiesa luterana e continua ad interpellare le chiese. (24) Raccoglieremo qua e là qualche spunto sulla contrapposizione che era venutasi a creare. La Concordia ha voluto esprimere un giusto equilibrio tra le parti. Intanto non va dimenticato che nel 1542 viene introdotta l'inquisizione di tipo spagnolo che porrà fine ad ogni tentativo di adesione alla Riforma in Italia. Inoltre sempre nel 1542 v'è la confluenza di calvinisti e di zwingliani nella Chiesa Riformata. Seguono il Concilio di Trento (1545), la sconfitta antiasburgica dei principi protestanti (1547), gli Interim di Augusta e di Lipsia (1548-49), avallati senza protesta. (25) V'è notevole scompiglio dovuto alla restaurazione della messa cattolica e il passaggio dell'elettore Maurizio alle file di Carlo V.Melantone è visto come l'uomo del compromesso e della tolleranza, ma anche di velato sinergismo. È stanco della rabies theologorum. (26)Sull'eucaristia è accusato di criptocalvinismo per essersi avvicinato alle idee di Bucero e di Calvino. Sulla questione degli adiafora, degli elementi dogmaticamente insignificanti, dimostra una certa apertura, ma Flacio, diventato il capo degli oppositori a Melantone interviene avvertendo che non bisogna mai cedere agli avversari. Occorre sempre riaffermate la Riforma.
La Formula della Concordia trovò una via di mezzo tra i contendenti.
Sulla giustificazione Melantone e Flacio erano d'accordo, in quanto la fede è madre e fonte di buone opere, ma non lo erano sulla necessità di buone opere per la salvezza e sulla predestinazione. In materia di cooperazione la volontà non resiste, ma si adatta, ha quindi la capacità di una giusta decisione nonostante il peccato originale. Ma per Flacio Dio solo converte perché il peccato ha trasformato sostanzialmente l'uomo in una immagine di Satana. La Formula della Concordia respinge sia i flaciani sia i sinergisti: lo Spirito Santo può illuminare l'uomo verso l'obbedienza e la cooperazione; si tratta di un inizio nuovo della vita anche se permangono imperfezioni. Chi cade non va ribattezzato, ma riconvertito.
I teologi luterani si trovavano divisi in sostanzialisti o accidentalisti. Ma il peccato come sostanza non trovò credito e Mattia perse la cattedra a Wittenherg, da dove già erano stati cacciati i filippisti.
Il seguito nei nostri tempi
Per descrivere l'incapacità dell'uomo a salvarsi, la Formula delta Concordia afferma, secondo Flacio e giustamente secondo Barth, che l'uomo è truncus et lapis perché l'alleanza è irrimediabilmente rotta. Tuttavia per Barth l'alleanza non è abolita perché opera onnipotente di Dio. Dio continua a pronunciare il SI’ sull'uomo, ne assume la morte per vincerla. L’uomo pecca nel dominio di Dio che solo decide quel che l'uomo è. È sotto l'autorità della Parola anche come fallito. L'uomo muore davanti a Dio.
Non è possibile quindi considerare l’"ateismo ontologico" di Flacio che fa dell'uomo l'immagine sostanziale del diavolo. Lo status corruptionis è una degenerazione della relazione. La colpa è una questione di orgoglio: un debito, una negligenza una mancanza e una confusione del rapporto. L’uomo è responsabile del dono ricevuto, ma non ha la libertà alla quale è chiamato; scatena così il caos. La sola riparazione sta nel perdono perché l'uomo non è senza Dio. Di fronte a questo mistero dell'onnipotenza divina bisogna fermarsi senza tirare in ballo l'onnipresente tentazione della religione. (27)
La discussione sulla "cooperazione", sulla "sostanza" e sulla «relazione" continuerà a travagliare, con accenti diversi a seconda delle epoche, la teologia dei secoli successivi. Allo scadere del XX secolo si possono intravedere le luci antesignane di tempi nuovi. Si tratta della Concordia di Leuenberg, della Dichiarazione Congiunta sulla giustificazione per fede (28) e della Carta Ecumenica per l'Europa. Sono documenti collettivi che trovano un sempre più ampio consenso tra le chiese e le singole comunità che rivelano l'inutilità dei dialoghi captativi (proselitismo) o oblativi (perdita d'identità). La disponibilità al dialogo (al cambiamento) sembra aprire nuovi orizzonti lasciando sedimentare nelle biblioteche e negli archivi, a beneficio degli studiosi, la storia dell'incomunicabilità degli uomini e della divisione delle chiese.
Note
* Il presente testo è apparso in Studi Ecumenici, cf. R. Bertalot, Mattia Flaco: agli albori del luteranesimo, in Studi Ecumenici, 20 (2002), pp. 453-459.
1) S. Caponetto, Melantone e l’Italia, Claudiana Torino, 2000 p 19.
2) R. Bertalot, Dalla Teocrazia al laicismo. Propedeutica alla filosofa del diritto, Università di Sassari, Sassari, 1993.
3) S. Caponetto, La Riforma protestante nell'Italia del Cinquecento, Claudiana, Torino, 1992, pp. 60 ss.
4) Id.
5) G. Gullino (a cura), La Chiesa di Venezia tra Riforma Protestante e Riforma Cattolica, Ed. Studium, Venezia, 1990; cf. S. Tramontin, Tra Riforma cattolica e Riforma protestante, in S. Tramontin (a cura), Storia religiosa del Veneto. Patriarcato di Venezia, Giunta Regionale del Veneto – Gregoriana Libreria Editrice, Padova, 1991, p. 100.
6) E. Comba, I nostri protestanti Il, Claudiana, Firenze, 1895, p. 383.
7) F. Melantone, Lettere per l'Europa, Claudiana, Torino, 2000, p. 46; cf. S. Caponetto, Benedetto da Mantova. Marcantonio Flaminio: Il Beneficio di Cristo, Claudiana, Torino 1975.
F. Ambrosini, Storie di patrizi e di eresia nella Venezia del '500, Franco Angeli, Milano, 1999. D. Cantimori; Umanesimo e religione nel Rinascimento, Einaudi, Torino 1975, pp. 183-188.10) Caponetto, La Riforma protestante, p. 229.
11) Melantone, Lettere, p. 24.
12) Caponetto, Melantone; pp. 7, 27, 55-59.
13) Melantone, Lettere, IVs,, 27, 46-55.
14) Comba, I nostri protestanti Il, pp. 361ss.
15) J. L. Neve, A History of Christian Thought I, The Muhlenberg Press, Filadelfia 1946, p. 295.
16) Caponetto, La Riforma protestante, p. 179.
Comba, I nostri protestanti II, p. 370; K. Heussi, G. Miegge, Sommario di storia del cristianesimo, Claudiana, Torino, 1960, pp. 215 ss.18) Comba, I nostri protestanti II, p. 370.
19) Neve, A History, pp. 295s.
20) Comba, I nostri protestanti II, p. 381.
21) L. A. Loescher, Twentieth Century Enciclopedia of Religious Knowledge, Baker Book House, Grand Rapids 1955, voce Flacius,
22) Comba, I nostri protestanti Il, p. 376.
23) Loetscher, Twentieth, voce Flacius.
Tillich, Storia del pensiero cristiano, Ubaldini, Roma 1969, p. 265.25) Neve, A History, pp. 295-304.
26) Cornba, I nostri protestanti II, pp . 368ss. pp. 375-390.
27) K. Barth, Dogmatique, vol. XVIII, Ed. Labor et Fides, Ginevra 1966, pp. 134ss.
28) R. Bertalot, Fasi della cultura europea d'oltralpe, Istituto di Studi Ecumenici, Venezia 2002, pp. 52-58.
Fa’ di me un arcobaleno di pace
 di Dom Helder Camara

Signore, fà di me
 un arcobaleno di bene e di speranza
 e di Pace.
 Arcobaleno che per nessuna ragione
 annunci
 le ingannevoli bontà,
 le speranze vane,
 le falsi paci.
 Arcobaleno incarnato da te
 quale annuncio
 che mai fallirà
 il tuo amore di Padre,
 la morte del Tuo Figlio,
 la meravigliosa azione
 del Tuo Spirito, Signore.
Educare alla pace
Conferenza Episcopale Italiana
Commissione Ecclesiale Giustizia e Pace
  1. - La pace è una promessa e insieme un'invocazione, che nasce nel  profondo dell'essere di ogni uomo e ogni donna. In essa si proiettano  immagini di tranquillità e di sconvolgimento, di fratellanza e di  conflitto, di vita e di morte; essa vive della memoria del dolore,  della paura che il dolore si rinnovi, della speranza di esserne  risparmiati. La pace appare come la condizione e la sintesi di ogni  altro bene desiderato.
 Eppure c'è uno scarto tragico fra la  sincerità dell'invocazione e la realtà della vita. Si fa la guerra  affermando di avere in cuore la pace. In nome del proprio sogno si  contrasta il sogno dell'altro e non gli si fa posto. Il conflitto è  contrabbandato come il prezzo inevitabile da pagare per la quiete e  l'ordine, spesso identificati con la vittoria e la tranquillità del più  forte. E il sangue di Abele continua a gridare dai solchi della terra  (cf. Gen 4,10).
  2. - È allora spontaneo chiederci: perché questa contraddizione? Se la  pace, sempre inseguita, sembra sempre sfuggire al possesso dell'uomo,  non ci sarà nella stessa condizione umana qualcosa che impedisce il  realizzarsi del sogno? 
 Certo la pace chiama in causa le  istituzioni, nelle quali si esprimono e vengono regolate la vita e le  relazioni dei popoli. Ma è sempre il cuore dell'uomo che è chiamato a  scegliere tra la forza e il dialogo, la competizione e la solidarietà.  La guerra non è altro che la massificazione dei gesti di ostilità fra  uomo e uomo, quotidianamente vissuti e dispersi nelle inimicizie, nelle  sopraffazioni, negli egoismi individuali. Cambiare le istituzioni è  quindi necessario, ma resta impresa vana e impossibile se non cambia il  cuore dell'uomo.
 Infatti il volto definitivo dell'uomo non è quello  del carnefice né quello della vittima, perché entrambi si mostrano  disumani. Nel profondo dell'esistenza personale l'uomo avverte che la  propria "verità totale" è una sorta di traguardo: egli "diventa" uomo,  nella continua tensione verso la pienezza del proprio essere. Poiché  dunque il dinamismo che accompagna tale crescita è l'educazione, se si  vuole che il seme dell'invocazione alla pace diventi frutto, occorre  educare alla pace.
  3. - È questa la prospettiva nella quale intendiamo metterci,  concludendo un itinerario di riflessione e proposta, che è iniziato con  il tema dell'educazione alla legalità (1991) ed è passato attraverso il  tema dell'educazione alla socialità (1995).
 Le pagine che seguono  si propongono anzitutto di ascoltare, raccogliere e condividere con  ogni uomo e donna le contraddizioni e le attese contenute  nell'invocazione umana alla pace. Nelle ambiguità che accompagnano  l'invocazione si profilano infatti appelli rigorosi alla conversione,  che coinvolgono insieme credenti e non credenti. Nella tensione  costruttiva, che comunque l'invocazione rivela, spuntano valori umani  che vanno condivisi e stimati per se stessi, ma che - per chi crede in  Gesù di Nazaret - si manifestano pure come germi del regno di Dio che  cresce nella storia, fino alla pienezza di novità del giorno ultimo  (cf. Parte prima).
 I credenti in Cristo sanno di dover condividere  l'invocazione di pace di tutta l'umanità, ma anche la ricchezza del  messaggio evangelico sulla pace, donato loro per grazia, rivolto però a  tutta l'umanità. Una sintetica proposta di tale messaggio viene quindi  offerta fraternamente, come contributo al crescere della speranza e  della responsabilità collettive (cf. Parte seconda).
 Dall'ascolto e  dallo scambio nasce infine la proposta di alcune linee per un progetto  di educazione alla pace, con l'unico desiderio di contribuire  all'elaborazione di un itinerario educativo che si mostri condivisibile  e vivibile. Le sue ragioni vanno perciò fondate sull'invocazione umana  più vera e drammatica, e vanno alimentate ai valori di vita che la fede  cristiana aiuta a riconoscere e a vivere come dono dall'alto, ma che  ognuno può scoprire scrutando il proprio cuore. La pace infatti è di  tutti e può nascere solo con l'opera convergente di tutti (cf. Parte  terza).
PARTE PRIMA
IN ASCOLTO DEL GRIDO DI PACE CHE NASCE DAI CONFLITTI
  4. - Il secolo che si va chiudendo ha conosciuto esperienze terribili  di guerre di sterminio e di ecatombe nucleare. Ma quando sono caduti i  muri della contrapposizione tra blocchi politici e ideologici, la  guerra - per certi versi diventata "fredda" e per altri spesso  dislocata sui fronti dei popoli emergenti - ha mutato volto. Essa si è  come frantumata e disseminata in una miriade di conflitti particolari,  così orrendi da suscitare perfino il pudore di nominarli, nel timore  che la ripetizione diventi "informazione consumatoria" e impedisca di  sussultare e di gridare lo sgomento. 
 Si possono infatti usare con  sufficiente distacco termini come conflitti locali o etnici o tribali,  guerra civile, terrorismo, sfruttamento economico di massa... Ma con  quali parole si possono nominare i genocidi e le violenze delle  "pulizie etniche" di ogni tipo e colore? o le stragi sanguinose degli  scontri tribali e delle azioni terroristiche organizzate contro i  civili? Come parlare dei corpi dilaniati dalla bomba che esplode nel  mercato? o delle masse dei disperati costretti a fuggire da una terra  desertificata dallo sfruttamento operato da poteri economici estranei e  incontrollabili? 
 La stessa religione può essere utilizzata come  motivo per innescare o inferocire lo scontro, talora offrendo una  specie di "bandiera" che serva a identificare il "nemico", o più spesso  in nome di radicalismi e fondamentalismi che offendono il volto di Dio  predicando l'odio per l'"altro" in nome di Dio. Quando poi il  fondamentalismo nega la libertà religiosa, esso insidia la pace perché  perseguita l'uomo e gli impedisce la libera ricerca dell'Assoluto,  seminata da Dio stesso nel cuore umano.
 Episodi di violenza, di  razzismo, di esclusione, di rifiuto, di disprezzo della vita sono ormai  ogni giorno sotto i nostri occhi, dentro la quiete apparente delle  nostre città e delle nostre case; si consumano nelle relazioni  politicihe ed economiche, nei rapporti sociali che mettono a confronto  le diversità di ogni genere. Essi esplodono nella concorrenzialità  efficientistica e spietata che - in ogni campo - espelle i deboli e i  vinti, nei ricatti di una vita di coppia e di famiglia sempre più  attraversata da linee di frattura, nella violenza fisica e psichica  esercitata sulle donne e sui bambini, nell'aggressività cieca che  devasta perfino i momenti del gioco e della competizione sportiva.
  5. - Pure la situazione italiana Paese presenta forme di conflitto che  mettono insieme radici antiche ed espressioni nuove. Permane la  violenza indotta dalla criminalità organizzata, ma lo scontro  tradizionale fra gruppi di potere per il controllo del territorio  assume le strategie più raffinate delle vendette "trasversali", dei  "veleni" riversati sulle istituzioni, dell'investimento nel mercato di  morte della droga. 
 Più in generale, la vita politica risente  della mancanza del senso dello Stato come mediatore dei conflitti e non  come erogatore di vantaggi sulla base dei rapporti di forza. Il  "bipolarismo incompiuto" della politica è vissuto come polarizzazione  contrappositiva di forze e non come competizione democratica e  progettuale. Il conflitto fra le istituzioni (magistratura, parlamento,  partiti...) offre spazi e giustificazioni apparenti a rivalse personali  o di gruppo. Le rivendicazioni localistiche sono spesso frutto delle  inadempienze di un sistema statale centralistico e lontano dalla vita  della gente, ma mostrano anche il volto duro della difesa ad ogni costo  di un benessere costruito con il proprio sudore, diventato però a sua  volta estraneo alle radici solidaristiche tradizionali. Così, problemi  oggettivamente gravi e difficili, quali la regolamentazione saggia e  solidale dei fenomeni migratori e l'armonizzazione dello sviluppo fra  Nord e Sud del Paese, mancano del contesto sociale, e non solo  politico, necessario alla loro soluzione. 
 La stessa "diaspora  politica" dei cattolici non si configura come opportunità per  l'animazione di progetti legittimamente diversi, ma alimenta scontri e  diffidenze incrociate, che si riproducono talora anche all'interno  delle comunità cristiane, le rendono incerte e quindi silenziose e  assenti.
  6. - È dunque profondamente mutato il volto di ciò che fino ad ora è  stato chiamato "guerra" e, di conseguenza, non può non mutare il volto  di ciò che si continua a chiamare "pace".
 Un aspetto è certo: se il  conflitto sta perdendo sempre più i caratteri della generalità e  dell'ideologizzazione, tipici di un recente passato, ciò significa che  esso si sta sempre più avvicinando al vissuto dei gruppi sociali e  degli individui. È quindi sempre più un problema personale e di  relazioni interpersonali. È sempre più un problema di educazione. Per  questo la volontà di ascoltare e raccogliere il grido di pace, che  nonostante tutto si fa strada nei conflitti del tempo presente, si  orienta verso alcuni appelli rilevanti e coglie alcuni fatti  significativi.
Pace e giustizia
  7. - Ci sono situazioni in cui l'ordine regna; ma non sempre l'assenza  della guerra è sinonimo di pace. C'è infatti assenza di conflitto anche  nelle situazioni di oppressione, quando il debole soggiace alla  prepotenza del forte e non è in grado di reagire e di opporsi. In tal  caso la pace apparente è la maschera iniqua di un ordine perverso,  fondato sulla forza e sull'ingiustizia: essa sconta la propria menzogna  nella minaccia di rivolta che si genera dentro alla disperazione degli  oppressi. 
 Il giogo dell'ingiustizia infatti non è sopportabile a  lungo e l'uomo che la subisce è spinto a scuoterlo, anche a costo della  vita. La rivolta per la libertà e la giustizia, così frequente nella  storia, è sempre stata investita di significato ideale e di una forte  carica etica, anche se la bontà dei fini porta talora a giustificare  un'azione violenta che non si cura della bontà dei mezzi. L'umanità  comincia dunque a capire che senza giustizia non c'è pace, che per fare  pace occorre cominciare a fare giustizia. Anche la giustizia però è per  l'umanità un'invocazione e un sogno, che deve faticosamente farsi  strada fra la resistenza della malvagità presente nell'uomo e nella  storia e la debolezza delle istanze e degli strumenti che dovrebbero  fronteggiarla e impedirne, o almeno delimitarne, gli effetti  degeneranti.
 Il dinamismo della pace impone dunque una strategia di  movimento, che si armonizza con il dilatarsi degli orizzonti della  giustizia, sia nel tessuto ampio e complesso dei rapporti fra uomini e  fra istituzioni sia, soprattutto, nel cuore dell'uomo. Infatti la  coscienza etica progredisce quando passa dall'obbedienza imposta con la  sferza dei castighi alla giustizia abbracciata e praticata nella gioia.  Dentro a un mondo minacciato e divorato dai conflitti, la pratica della  giustizia come virtù è un fattore dinamico e operoso della costruzione  della pace: i giusti sono i veri operatori di pace.
  8. - La ferita più profonda inferta dall'ingiustizia è quella della  violazione dei diritti umani, e quindi dei diritti dei popoli. La pace  infatti non può realizzarsi quando tali diritti propri sono oppressi da  una relazione prevaricatrice, o quando sono trascurati o dimenticati  dal silenzio e dall'indifferenza. Anche questa intuizione, per quanto  possa apparire ovvia, riceve consensi finché rimane principio astratto  e viene spesso contraddetta nei fatti, specialmente quando il grido di  rivolta è debole o muto. Basta pensare al diritto alla vita, violentato  fin dallo sbocciare dell'essere umano nel grembo materno o manipolato  da pratiche di eutanasia, segno radicale dell'incapacità dell'uomo di  affrontare da solo il mistero del dolore. 
 La stessa logica si  verifica poi quando il godimento di diritti vitali - quali la salute,  la casa, l'istruzione, il lavoro... - viene abbandonato all'incontro  casuale con opportunità positive o negative e con la sollecitudine o  con l'indifferenza degli altri. Diversi modelli di "Stato sociale"  mostrano il limite dei progetti assistenziali certo a causa della  scaltra usurpazione da parte di alcuni dei benefici preparati per altre  povertà, ma anche e soprattutto perché l'apparato confida  nell'efficienza organizzativa e dimentica che l'uomo, prima che un  catalogo di bisogni, è un cuore che chiede ascolto. 
 Ritardare la  promozione umana è dunque ritardare la pace. La strategia minimale che  si appaga di avari e misurati consensi alle istanze di giustizia e  quasi ne teme le rivendicazioni, deve cedere il passo alla radicalità  del principio che la promozione dei diritti umani è il criterio  fondante della speranza di una pace durevole.
  9. - Lo sviluppo della condizione umana sulla terra sta anche mettendo  in luce nuove frontiere della giustizia, che scavalcano il tempo e lo  spazio e interpellano l'umanità sui diritti delle generazioni future.  Ogni generazione consegna all'altra un mondo che a sua volta ha  ricevuto: può essere un mondo migliore o peggiore, segnato dalla  giustizia e dalla pace o prenotato alla tribolazione e alla sventura.  Per questo quanto più crescono la conoscenza e il dominio dell'uomo nei  confronti del cosmo, tanto più essi si caricano di responsabilità e di  doveri. 
 La sensibilità per questi problemi, tenuta desta dagli  allarmi ecologici, ripropone l'immagine dell'uomo come custode e non  dèspota del creato, impegnato a non creare condizioni di vita per il  pianeta che risultino irreversibili e immodificabili di fronte alle  esigenze e ai rischi del futuro. La violenza alla natura prepara altre  violenze.
Pace e solidarietà
  10. - La pace è opera della giustizia, e la giustizia è legata  all'osservanza della regola. Può accadere però che la legge sia  osservata in modo solo astratto e formale, o sia subìta come un tributo  alla paura della frusta. L'uomo intende invece il linguaggio della pace  quando impara il linguaggio dell'amore, quando si affaccia sulla realtà  dell'altro, lo riconosce e lo accoglie nella sua somiglianza e  diversità, si fa solidale con lui. 
 La coscienza e l'esperienza  comuni avvertono infatti che l'atteggiamento di pace contiene il senso  della prossimità, della fratellanza. Nel loro nome la diversità non  ispira diffidenza, ma dilata il dialogo, apre alla scoperta della  natura umana nella sua pienezza, accoglie e condivide l'originalità di  ogni fisionomia e cultura, arricchisce l'orizzonte della  collaborazione. Lo scambio di un gesto d'amore diventa riconoscimento  reciproco che rassicura e ridona il senso del proprio valore. Il  rifiuto di tale gesto invece fa sentire esclusi e rifiutati, e quando  l'essere dell'uomo viene squalificato - da sé o da altri - nasce  l'odio. Esso è un veleno piantato nel cuore che mostra un'incredibile  capacità riproduttiva e genera la coazione alla vendetta: è il "nemico  ereditario" della storia dell'uomo, dei popoli, delle fazioni, dei  gruppi ostili. Quanto più l'odio distende le radici, tanto più vi è  ostacolo alla pace.
 Non solo l'odio tiene l'uomo lontano dai  sentieri della pace: c'è anche il nemico, più sottile ma non meno  devastante, che si chiama indifferenza. Essa nasce dalla perdita delle  radici e del senso di sé e delle cose, e diventa noia, livellamento  delle coscienze nel vuoto dei significati, disamore per la vita,  trasgressione vissuta senza nemmeno la consapevolezza dei propri  motivi, fuga nella realtà "virtuale", talora anche violenza rivolta  contro sé stessi mediante la droga, le malattie anoressiche, la sfida  assurda del rischio, il brivido dell'autodistruzione. È sotto gli occhi  di tutti il costume di vita disumanizzante delle metropoli fatte di  "folla solitaria", dove l'indifferenza è eretta a sistema e lo  svuotamento dei valori e dei rapporti avviene con la pura forza della  suggestione e dell'abitudine. 
 Una società disintegrata, che non  coltiva le ragioni dell'amore alla vita, non può essere una comunità di  pace. La tempra dell'uomo costruttore di pace non si manifesta sulla  soglia che distingue chi odia da chi è indifferente all'odio, ma su  quella che separa chi ama da chi resta indifferente all'amore.
  11. - La pace nasce dalla liberazione dall'odio e dal superamento  dell'indifferenza, perché ambedue rimandano all'altro un messaggio di  squalificazione e impediscono il riconoscimento reciproco. Nello stesso  tempo bisogna riconoscere che il conflitto esprime in modo naturale e  realistico la non eliminabile presenza di interessi concorrenti o  divergenti, anche dotati di una propria razionalità, per quanto  parziale.
 Ci sono infatti interessi simili, che si trovano a  spartire risorse insufficienti per tutti, e affermano simmetricamente  il proprio diritto e il proprio bisogno, in concorrenza con l'altro e  non necessariamente "contro". Ci sono poi interessi contrapposti che si  escludono a vicenda, per cui la soddisfazione degli uni comporta la  sconfitta degli altri. La pace quindi non può essere sognata  nell'annullamento dei conflitti, ma nella costruzione paziente delle  vie per la loro composizione, nella giustizia e nella solidarietà, per  evitare che all'interno di questi meccanismi si insinui la dinamica  dell'odio e che la percezione del bene e della verità si deformi  nell'esclusione dell'"altro", visto come una minaccia potenziale. La  realtà dei conflitti chiede un sistema di giustizia che abbia la forza  di tenere in equilibrio le rivendicazioni concorrenti o contrapposte,  temperandole e convogliandole nella ricerca di soluzioni concordate nel  rispetto dell'altro e del metodo democratico. Ma tale sistema rivela a  sua volta la necessità di educare coscienze che riconoscano  l'antagonista come un uomo dotato di pari diritti e dignità, e sappiano  chiedersi se le proprie "giuste pretese" non siano calcolate sulla  misura o dismisura del proprio avere attuale e se non siano la  contropartita della sottomisura o dell'esclusione di altri al banchetto  dei beni della terra.
 Né va dimenticato infine il conflitto che  nasce dallo scontro ideologico (anche di origine religiosa) e assume  forme diverse ma ugualmente insidiose e implacabili. In tal caso la  pace non domanda di barattare la verità con una quiete a ogni costo, né  di dissiparla nell'equiparazione di ogni opinione soggettiva. L'amore  per la verità sa invece distinguere l'errore dall'errante e ha la forza  di mantenere l'irriducibilità delle diverse prospettive, senza  compromettere la relazione umana, fatta di rispetto e di accoglienza  nei confronti di ciascuno.
  12. - La pace nasce dal riconoscimento reciproco e si sviluppa nel  sentirsi uniti in un vincolo comune, entro un cerchio di relazioni  definito e carico di interessamento affettuoso, che inizia dal rapporto  familiare e si allarga sempre più fino ad abbracciare l'umanità intera.  
 La storia insegna come spesso la guerra sia stata scongiurata  dallo stringersi di alleanze tra famiglie, gruppi, nazioni, e come la  pace sarebbe definitiva se l'umanità trovasse le vie per un'alleanza  globale e stabile. Per quanto però la realtà sia oggi diversa, non è  comunque vano auspicare che il processo di unificazione umana continui  attraverso l'ampliamento dei trattati e delle istanze di governo  internazionali, non per imposizione, ma per lo sviluppo libero e  condiviso della coscienza di fraternità universale.
Scelte e gesti di pace
  13. - L'ascolto attento di quanto risuona nell'invocazione umana alla  pace rivela anche alcune scelte e alcuni gesti già concretamente  realizzati e visibili, nei quali è possibile riconoscere con gioia i  germi di un futuro di speranza. Attorno a questi "semi di pace" sono  anche nati movimenti di opinione a favore della pace, che si impegnano  su diversi fronti per influenzare le scelte degli Stati e rivelano la  loro incisività e credibilità nel riferimento a valori umani  universali, non a letture ideologiche o "schierate" dei problemi. È  giusto allora richiamare e riconoscere tali percorsi.
 a) Il rifiuto  della logica delle armi: fa ormai parte della coscienza comune la  distinzione fra la violenza, che aggredisce e opprime, e la forza, che  difende e soccorre. Così anche l'intervento armato può assumere il  volto dell'intervento umanitario, quando più nessun'altra ragione umana  si rivela capace di fermare lo sterminio e le atrocità contro gli  indifesi. Non è però pensabile che la soluzione dei conflitti possa  essere demandata al confronto tra i potenziali bellici messi in campo.  In più la corsa agli armamenti continua a rappresentare oggi una delle  piaghe più gravi dell'umanità e una delle cause più acute delle povertà  nel mondo. Anche per quanto riguarda l'Italia si sa a sufficienza,  malgrado i troppi e fitti silenzi, che molte armi impiegate altrove per  seminare morte (comprese le micidiali mine-giocattolo che straziano i  bambini) recano il marchio di fabbriche italiane. È quindi legittimo e  doveroso che nel dibattito democratico siano presenti voci e strategie  mirate a far cessare la produzione e il commercio delle armi, perché i  loro ricavi grondano sangue.
 b) La non-violenza: l'opzione per la  pace si fa visibile nello stile di vita personale e di gruppo. Lo stile  della non-violenza rivela una singolare capacità di provocazione.  L'uomo non violento non distoglie il volto dalla brutalità  dell'oppressione, ma nemmeno si fa trascinare nella logica che lo vuole  "nemico" perché altri lo hanno definito come tale.
 c) L'obiezione  di coscienza al servizio militare: è una scelta che non sottrae alla  responsabilità verso il proprio paese e non smentisce il principio  della liceità di quel servizio. Essa si propone dunque non come  disobbedienza alla legge, ma come obbedienza a una norma superiore, che  vincola la coscienza; non nasce dalla semplice ripugnanza per la guerra  né dalla volontà di fuggire la complicità e i rimorsi, ma è profezia di  valori e di atteggiamenti non manipolabili dalle leggi dell'uomo. La  stessa cultura giuridica moderna riconosce ormai in modo generalizzato  l'esistenza del diritto soggettivo al rispetto della coscienza e, in  numerosi Stati, l'obiezione al servizio militare è regolata per legge  attraverso la sostituzione con il servizio civile. Si fa anzi strada  un'ulteriore tendenza secondo la quale le ragioni della coscienza non  possono essere sottomesse al vaglio di un'autorità amministrativa, per  cui la scelta fra servizio militare e civile diventerebbe una pura  opzione individuale. Al di là di ogni giudizio sulle scelte giuridiche  che potranno essere compiute, l'originario valore di profezia  dell'obiezione di coscienza non dev'essere comunque stemperato in una  scelta, priva di prezzo, fra pari opportunità giuridiche. Essa deve  invece suscitare la ricerca di forme più rigorose di generosità,  affinché l'adesione al valore affermato (la pace) si traduca in vita  reale (essere operatori di pace). Il significato autentico  dell'obiezione infatti si misura sulla condotta effettiva  dell'obiettore: un servizio civile offerto coscienziosamente in  risposta generosa e sincera a bisogni umani reali, si propone come  stile di vita che annuncia e costruisce la pace.
 d) La cooperazione  internazionale: si articola e si sviluppa nei rapporti fra le  istituzioni mondiali, ma conosce pure la fecondità delle realizzazioni  promosse dal volontariato organizzato o individuale e da esperienze del  genere "non profit", quali le "banche etiche", il "commercio equo e  solidale", ecc. Spesso anzi proprio le "organizzazioni non governative"  raggiungono gli avamposti dove i soccorsi ufficiali non arrivano  (magari perché prosciugati o dirottati strada facendo), dove "uomini  senza frontiere" accostano direttamente il dolore e il bisogno,  impegnando la vita per amore e non per calcolo. La cooperazione  internazionale è seme di pace, perché restituisce visibilità  all'appartenenza all'unica famiglia umana, scioglie la diffidenza e il  timore reciproci, sostituisce la rapina con il dono.
PARTE SECONDA
CON IL DONO DELLA PACE CHE VIENE DA DIO
  14. - I cristiani sanno di dover condividere con ogni uomo e ogni donna  di questa terra la speranza per la pace che cresce e la responsabilità  per gli ostacoli che essa incontra. Essi però sanno anche di aver  ricevuto un messaggio capace di illuminare e sostenere il cammino  dell'umanità e di essere quindi chiamati a testimoniarlo e a  condividerlo, perché contribuisca a far fruttificare la speranza e  l'impegno.
 Il messaggio evangelico sulla pace infatti va incontro  alla domanda dell'uomo, il quale - nell'apparente irraggiungibilità di  una mèta tanto sognata - è tentato di vedere e gridare una sorta di  imperfezione di sé e del cosmo, che sembra condannare all'assurdità le  attese più profonde. Tale messaggio infatti rivela la fonte ultima di  ogni possibilità di pace nell'amore di Dio Padre, che "ha tanto amato  il mondo da dare il suo Figlio unigenito" (Gv 3,16). Per chi crede in  Gesù di Nazaret, la sua croce e la sua resurrezione sono la promessa,  la via, il compimento della pace, già operanti nel cuore della storia,  anche se non ancora nella pienezza dei frutti.
La pace: continua offerta di Dio nella storia dell'uomo
  15. - Nel racconto biblico della Genesi, i giorni della creazione sono  scanditi dalle parole: "E Dio vide che era cosa buona" (Gen 1,4ss). Il  cosmo dunque è uscito buono dalle mani di Dio. La pace - come assenza  di morte e pienezza di vita, di bontà, di armonia (shalom) - è un  costitutivo essenziale del mondo così come è uscito dalle mani del suo  Creatore. Nello stesso tempo Dio ha deciso di affidare all'uomo, fatto  a sua immagine e somiglianza, la responsabilità di coltivare e  custodire il giardino del mondo; gli ha chiesto pure di accogliere  questo compito come una libertà ricevuta in dono, non come spazio di  chiusa autosufficienza (cf. Gen 2,15-17). 
 L'uomo aveva però - e  ha costitutivamente - il potere di accettare o rifiutare il disegno di  Dio e la sua risposta è stata negativa. Così il peccato delle origini  ha scatenato il conflitto nei rapporti umani, nei confronti di Dio e  del creato (cf. Gen 3). Caino uccide il fratello Abele (cf. Gen 4,1-16)  e nella prima città si innalza il canto sinistro di Lamech "Ho ucciso  un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette  volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette" (Gen 4,23-24). La  violenza e la divisione si estesero poi al punto che troviamo scritto:  "Il Signore si pentì di aver fatto l'uomo sulla terra" (Gen 6,6) e  decise di mandare il diluvio. Ma Dio è Dio della vita e non della  morte: quando il mondo, con il piccolo nucleo dei salvati, riemerse  dall'abisso delle acque, l'amore infinito di Dio tracciò nel cielo  l'arcobaleno, promessa di un nuovo e definitivo patto di pace (cf. Gen  9,12-17).
 Così tutta la storia della salvezza, testimoniata dalla  rivelazione biblica, è la storia dell'appassionata ri-offerta all'uomo  della possibilità e della responsabilità di aderire al "regno di Dio",  cioè al progetto di costruire la storia umana come storia di pace. La  chiamata di Abramo, promessa di benedizione per tutte le genti (cf. Gen  12,1-3), è l'avvio di questo cammino. La liberazione di un popolo di  schiavi - con l'offerta di un patto d'amore e con la proposta di una  legge che temperasse l'istinto della violenza - è il gesto decisivo e  rivelatore di una via ormai aperta (cf. Es 3,7-12; 21,23-25). 
  L'annuncio profetico del Messia attraversa tutta la storia di Israele  come una promessa di pace (cf. Is 11,1-9) e culmina nella figura del  Servo di Jahweh, che prende su di sé la violenza dei propri carnefici e  li redime (cf. Is 52,13-53,12). Alla coscienza scoraggiante dei  fallimenti umani, è offerta la promessa del dono di un "cuore nuovo",  che cambi dall'interno i passi e le vie dell'uomo (cf. Ez 11,19; Sal  51,12).
La pace: dono di Dio in Cristo crocifisso e risorto
  16. - Il dono divino della pace culmina nella persona,  nell'insegnamento e nella vicenda di Gesù Cristo, il Figlio di Dio  fatto uomo, l'uomo nuovo che può dare al mondo una pace diversa da  quella che il mondo stesso pensa di offrire e che risulta impossibile  senza la conversione del cuore (cf. Gv 14,27). Infatti la pace offerta  da Cristo è il frutto della sua decisione, libera e amorosa, di dare la  vita sino al termine estremo della morte di croce, accompagnata dal  perdono per i crocifissori: "Egli è la nostra pace, colui che ha fatto  dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era  frammezzo, cioè l'inimicizia... per mezzo della croce, distruggendo in  se stesso l'inimicizia" (Ef 2,14-16). Chi opera in questo modo non è lo  sconfitto, ma il vincente, perché Dio garantisce per lui. La  risurrezione di Cristo infatti è la conferma della fedeltà di Dio e il  primo saluto del Crocifisso-Risorto ai discepoli diventa il nucleo  stesso del messaggio evangelico: "Pace a voi!" (Gv 20,19).
 Ogni  giorno, di fronte alle sconfitte che la pace conosce anzitutto nella  vita personale di ciascuno, possiamo lanciare verso il cielo la  domanda, che anche Paolo di Tarso ha sperimentato: "Io non riesco a  capire neppure ciò che faccio; infatti non quello che voglio io faccio,  ma quello che detesto... Sono uno sventurato. Chi mi libererà da questo  corpo votato alla morte?" (Rm 7,15.24).. Di fronte all'annuncio di  Cristo risorto però possiamo anche sperare nella possibilità che la  nostra domanda non si perda in un cielo vuoto, ma incontri un dono e  divenga grido di riconoscenza: "Siano rese grazie a Dio per mezzo di  Gesù Cristo nostro Signore!" (Rm 7,25). Se il sangue di Abele continua  a gridare dalla terra le sconfitte generate dall'odio, il sangue di  Cristo, "dalla voce più eloquente di quello di Abele" (Eb 12,24), grida  più forte la speranza di pace.
La pace: dono di Dio affidato all'invocazione dell'uomo e alle sue mani
  17. - La pace del Signore Gesù Cristo ci è già donata, ma l'uomo ha il  potere tremendo di respingere il dono e il seme, per quanto rigoglioso,  deve conoscere i tempi lunghi e incerti della fioritura, prima che si  possa mietere la spiga (cf. Mc 4,26-29). L'attesa umana della pace  allora si colloca al crocevia fra l'invocazione alla grazia divina che  cambia il cuore e il proposito di non rinnegare il compito affidato da  Dio alla nostra libertà, alla nostra sapienza, alla nostra generosità.
  Perciò il discepolo di Cristo deve fare propria con decisione la logica  della croce, cioè la logica del dono di sé e non del dominio e del  possesso (cf. Mc 10,32-45); e in tale cammino scopre una giustizia  "nuova" e "superiore", che trasforma radicalmente le dinamiche di ogni  rapporto umano, fino a chiedere forme d'amore inattese e impensabili  (cf. Mt 5,20-48). Di conseguenza l'impegno a edificare la pace diventa  testimonianza resa all'amore di Dio (cf. Mt 5,9), perché si alimenta al  distacco dall'ansia dell'avere, proprio di chi si sa affidato all'amore  del Padre (cf. Lc 12,22-32) ed è quindi capace di condivisione fraterna  (cf. 1 Gv 3,16-18). La fatica quotidiana della riconciliazione  nell'unità, diventa segno offerto al mondo, perché possa credere che  Cristo è venuto (cf. Gv 17,20-21).
La pace: dono di Dio offerto nella speranza
  18. - La croce di Cristo ci pone in cuore la fiducia che il regno di  Dio già opera come lievito nella storia e che alla fine ci saranno "un  nuovo cielo e una nuova terra" (Ap 21,1), nei quali giustizia e pace  regneranno e ogni lacrima sarà asciugata. Ma tutto ci è donato nella  forma del "già e non ancora". È quindi nostro compito rendere ragione  di fronte alla storia della speranza che è in noi (cf. 1 Pt 3,13) e  assumere la fatica fiduciosa di orientare tale storia al suo traguardo,  contro ogni pronostico disperato e con la consapevolezza che fino  all'ultimo le tracce del male renderanno la pace incompiuta.
 Tale  impegno coinvolge i gesti e i pensieri della vita quotidiana, nei suoi  aspetti più semplici e in quelli più alti, per cui coloro che lo  assumono devono mettere in conto il rischio di trovarsi "come pecore in  mezzo ai lupi" (Mt 10,16), di suscitare divisioni, di offrire pace e di  ricevere rifiuto, ostilità, persecuzione e morte (cf. Mt 10,1-25). Ma,  come Cristo risorto, i discepoli continueranno portare al mondo il  saluto di pace (cf. Mt 10,12s), a dire con efficacia: "Pace a voi" (1  Pt 5,14), così che la pace augurata diventi dono maturo.
La pace: dono di Dio e frutto del perdono
  19. - L'ascolto dell'invocazione umana alla pace e della risposta che  ad essa offre l'amore di Dio conduce alla soglia di una parola grande e  tremenda: il perdono. Esso è desiderio di un abbraccio che rigenera e  domanda di riparazione e riconciliazione; non distrugge la memoria di  ciò che è accaduto, ma proprio perché non dimentica, può misurare per  intero l'irreparabilità del dolore e della violenza e compiere il  miracolo dell'andare oltre. L'uomo che tenta di chiedere o di dare il  perdono sa che nessuno ha forza e vita bastanti per compensare il male  inflitto o subìto, ma riconosce che anche un solo ultimo respiro può  bastare a strappare il peso dal cuore e a tentare un nuovo azzardo  d'amore. 
 La via del perdono rimane comunque una via che appare  talora assurda per l'uomo, e lo sarebbe se fosse affidata soltanto alle  sue forze. Il perdono invece corrisponde sì a una delle aspirazioni  umane più profonde, ma è anzitutto dono e grazia da accogliere, perché  è attributo dell'amore di Dio. Dio infatti perdona perché sua è  l'onnipotenza dell'amore che crea ogni cosa e, sola, può ri-fare il  cuore traviato dell'uomo. Gesù di Nazaret manifesta tale onnipotenza  perdonando il peccato nel gesto stesso di guarire il male fisico  dell'uomo (cf. Mc 2,1-12), perché ha riscattato personalmente ogni male  e ogni crudeltà, morendo per amore sulla croce.
 Non si può dunque  annunciare al modo la pace se non si annuncia il perdono. Il nostro  perdonare è partecipazione al perdono di Dio: a Lui lo chiediamo con la  preghiera del "Padre nostro"; da Lui lo riceviamo per le nostre colpe e  lo impariamo giorno per giorno vivendo gesti umili e concreti di  riconciliazione, di giustizia, di solidarietà e di misericordia; nel  suo nome lo doniamo, per rinnovare il miracolo di una nuova creazione  che cancella l'inimicizia nel mondo. Sul canto sinistro di Lamech, che  prometteva settanta volte sette vendetta, si impone il comando di  Cristo di offrire settanta volte sette il perdono (cf. Mt 18,21s).
  PARTE TERZA
  PER UN PROGETTO CONDIVISO DI EDUCAZIONE ALLA PACE
  20. - L'invocazione di pace che sale dalla terra chiede di essere  tradotta in coerenza di vita; il dono della pace che viene dall'alto  attende di essere accolto e custodito. La via da percorrere è quella  dell'educazione alla pace, perché su questa via la pace diventa  possibile.
 Ci si può chiedere, talvolta con scetticismo, se i tempi  siano maturi per tale progetto, ma per chi ha cuore e occhi trasparenti  i segni della speranza sono visibili nella nostra storia e il "vangelo  della pace", che abbiamo condiviso, apre vie nuove e insospettate a chi  si lascia raggiungere da Cristo, a ogni uomo e donna di buona volontà.  È dunque possibile, ed è necessario, che l'educazione alla pace diventi  una scelta decisa. 
 Ora si può "imparare la pace" anzitutto  esercitandosi a praticarla ogni giorno, all'interno di ogni relazione e  in ogni àmbito di vita. L'educazione alla pace però si propone pure  come processo esplicito, intenzionale e permanente, che prevede spazi  di ricerca, di elaborazione e di esperienza organicamente strutturati  all'interno dell'itinerario educativo globale. Ci sono poi contesti  umani (la famiglia, la scuola...) che sono per natura ordinati allo  sviluppo libero e responsabile della persona umana, e quindi a far  crescere uomini e donne di pace, con una proposta educativa continua e  consapevole. 
 L'educazione alla pace deve quindi anche tradursi in  un progetto formale, che determini gli obiettivi e le condizioni per il  loro raggiungimento, individui i soggetti da chiamare in causa e i  percorsi da compiere. Tale progetto deve però nascere come esito  condiviso di un confronto libero e sereno, nel quale le diverse opzioni  culturali vengono sinceramente vissute e offerte come contributi alla  crescita comune e non come motivi di contrapposizione. Per questo  sembra utile definire qui alcune linee essenziali, rimandando ad altri  àmbiti e ad altre competenze l'individuazione di itinerari più precisi  e specifici.
Il contesto sociale dell'educazione alla pace
  21. - Un progetto di educazione alla pace richiede un contesto sociale  che offra le condizioni necessarie per un'esperienza quotidiana di  relazioni costruttive e per una proposta educativa non resa vana dalle  circostanze nelle quali si compie. In continuità con il precedente  documento Educare alla legalità quindi, si vede necessario mettere a  fuoco l'esigenza di promuovere un'adeguata cultura della regola, al di  là di ogni prospettiva puramente formale. L'illegalità infatti è nemica  della pace e ogni giorno verifichiamo i frutti amari di questa realtà,  specialmente quando essa diventa organizzazione e logica di vita,  propone modelli esistenziali di sopraffazione e di facile  arricchimento, destabilizza con il terrore e il sospetto il tessuto  delle relazioni sociali, inquina i processi della politica e  dell'economia.
 La cultura della regola (o della legalità) diventa  invece via di educazione alla pace anzitutto e normalmente attraverso  la prevenzione, ma anche proponendo vie di riconciliazione là dove le  contese già insorte chiedono una soluzione pacificante e non soltanto  tecnica. In questa linea il mondo della legge ha introdotto la figura  del giudice di pace, che dovrà comunque esprimere sempre meglio il  volto del compositore dei conflitti, non l'immagine tradizionale di chi  alla fine sentenzia in forza della legge. Per quanto riguarda invece il  processo penale va incoraggiata la ricerca di "mediazioni" che -  accanto alla specifica dinamica processuale e punitiva, nella quale non  c'è spazio per la composizione - pongano attenzione al tema della  riparazione, non per risarcire perdite inguaribili, ma per stabilire  uno spazio di incontro e di possibile pacificazione fra il reo e la sua  vittima. Lo stesso fenomeno del "pentitismo" dovrà sempre meglio  configurarsi dentro questo orizzonte, al quale concorre in modo  determinante anche la proposta evangelica del perdono.
 In ogni caso  ciò che passa per le aule dei tribunali è pur sempre una parte minima  della conflittualità già esplosa e che attende riconciliazione. Per  questo vanno sostenuti gli organismi di mediazione (consultori  familiari, altre iniziative di volontariato per l'"ascolto", alle quali  può contribuire anche la comunità ecclesiale), che aiutino i cittadini  a sanare le fratture e a evitare il senso della sconfitta che diventa  voglia di rivalsa. Infatti quando un equilibrio infranto si ricompone  per una scelta non subìta ma condivisa, un reale esercizio di pace si è  compiuto.
  22. - Un secondo aspetto da considerare è lo sviluppo di una cultura  politica che sia supporto autentico all'educazione alla pace. La  competizione anche dura è parte integrante del gioco politico, ed è  anzi garanzia della democraticità del sistema. Quando però la  competizione non si colloca sul piano del confronto democratico fra  progettualità diverse e assume le forme dell'aggressione personale e  della contrapposizione preconcetta e senza scambi fra blocchi, o quando  diventa l'arena di singoli protagonismi o di interessi di parte, allora  la politica degenera e i cittadini non possono che smarrire il senso  dello Stato e delle sue finalità. Se quindi le recenti vicende della  politica italiana hanno inferto un duro colpo alle connivenze fondate  sullo scambio di favori, va ora incoraggiato ogni sforzo destinato a  far ritrovare alla politica il suo profilo alto, che significa capacità  autentica di governare democraticamente lo sviluppo del Paese, in  spirito di servizio nei confronti del bene comune e nel contesto di una  globalizzazione sempre più ampia dei problemi e dei rapporti.
 Ci  sono in particolare due àmbiti nei quali la cultura e la prassi della  politica devono oggi mostrare la propria capacità di essere strumenti  di educazione alla pace. Il primo riguarda lo sviluppo effettivo della  partecipazione, attraverso la definizione di un sistema compiuto di  autonomie, che faccia arretrare lo stato dall'invasione burocratica  della società civile e riapra la "vicinanza" e la corresponsabili fra  cittadini e istituzioni. La seconda riguarda la capacità di comporre le  autonomie in un quadro unitario di responsabilità e di solidarietà, che  garantisca in tutto lo Stato eque opportunità di sviluppo e non  abbandoni i rapporti reciproci alle spinte egoistiche locali o di  gruppo. Una comunità di pace infatti è una comunità di uomini liberi e  responsabili, capaci di costruire insieme rapporti di condivisione e di  scambio.
  23. - Una terza condizione per l'educazione alla pace è lo stabilirsi  di un contesto caratterizzato da un'economia per l'uomo e per la  comunità. Anche l'economia infatti è una realtà strutturalmente  conflittuale, perché si trova a soddisfare bisogni molteplici con  risorse sempre limitate e perché la distribuzione dei beni è talora  inestricabilmente legata a rapporti di forza. Già la precedente  riflessione su Stato sociale ed educazione alla socialità aveva messo  in luce che molti conflitti sociali nascono proprio dallo squilibrio  nell'accesso ai beni della terra e possono essere affrontati solo con  la rimozione delle ingiustizie, a livello mondiale e locale. Il  problema però si pone dentro a ogni uomo, quando l'avere è vissuto come  segno di successo e di autoaffermazione; quando il rifiuto della  condivisione viene giustificato con il "merito" di chi ha accumulato  beni con la propria intraprendenza, anche se la bilancia del merito è  spesso truccata da condizioni di partenza disperatamente diseguali;  quando la legittima soddisfazione dei bisogni personali viene  sopraffatta dalla bramosia dilagante che diventa rapina e sfruttamento  sistematici.
 Esiste quindi un nesso profondo fra la pace e la  "questione sociale" della giusta distribuzione dei beni, secondo  criteri dinamici di valutazione, che tengano conto dello sviluppo  tipicamente umano dei bisogni, ma anche delle condizioni di reciprocità  del loro soddisfacimento, in un contesto di effettiva condivisione  fraterna, che riceve forza dalla scoperta della paternità universale di  Dio. Inoltre una sapiente politica economica, orientata alla pace  sociale, non può accontentarsi di moltiplicare i beni materiali, ma  deve contribuire all'innalzamento generalizzato della qualità della  vita, al rispetto dell'ambiente e alla diffusione dei beni spirituali,  che salvano dalla tristezza del consumo diventato costrizione priva di  senso umano. 
 Una particolare attenzione va riservata al tema del  lavoro, che si rivela sorgente continua di conflitti e postula il  confluire delle rivendicazioni contrapposte in un "patto" condiviso.  Appare dunque provvida la rete di regole dettate direttamente dallo  Stato a tutela di diritti non negoziabili che toccano l'integrità e la  dignità della persona che lavora (rifiuto delle discriminazioni, difesa  della salute, libertà sindacale...). Al di là di tale rete però si pone  il campo della contrattazione collettiva, nel quale si definiscono  altre regole di condotta, non imposte dall'alto ma generate dal  consenso. Educare alla pace quindi significa maturare la coscienza che  lo strumento della contrattazione deve servire a fondere interessi  divergenti in un obiettivo comune; a stipulare accordi che non  dimentichino o cancellino le giuste rivendicazioni di altri settori,  magari troppo deboli per farsi sentire, come quello dei senza-lavoro.  Il controllo dell'asprezza del conflitto e del suo dilagare sociale,  chiede pure che vengano utilizzati metodi di lotta adeguati al fine,  senza che improvvise negazioni di servizi essenziali si ritorcano  contro la comunità invece che diventare mezzo di pressione sulla reale  controparte.
  24. - Ma c'è un'ultima condizione, che oggi si rivela assolutamente  necessaria per educare alla pace, ed è la comunicazione, intesa non  semplicemente come gestione di mezzi informativi, ma come via  privilegiata alla fraterna messa in comune dei pensieri, dei  sentimenti, delle ragioni di vita, in un incontro libero dall'inganno e  dalla violenza.
 Esistono infatti conflitti interpersonali,  generazionali e sociali che derivano o sono resi più acuti da una  comunicazione mancante o scorretta, per cui diventa necessario  approfondire e stabilire concretamente il rapporto fra educazione alla  pace e comunicazione. Tale rapporto va anzitutto definito sul piano  personale e interpersonale, quando la comunicazione innesca una ricerca  continuamente sollecitata dalla più profonda istanza veritativa, che  non prescinde dalla domanda sull'Assoluto; favorisce la formazione di  convinzioni e atteggiamenti responsabili, liberi e coscienti; permette  la condivisione e l'interscambio di valori comuni in base ai quali  costruire la convivenza, a partire dalle comunità originarie; assicura  il riconoscimento effettivo dei diritti della persona e l'educazione a  viverli in modo solidale e non contrappositivo.
 Sul piano invece  dell'organizzazione e della gestione dei mezzi, la comunicazione educa  alla pace quando offre conoscenze che garantiscano alla persona di  crescere in dignità e di non essere ingannata su se stessa e sul mondo;  rende possibile un'effettiva integrazione tra persone e comunità, in un  contesto ormai definito di globalizzazione integrale del mondo;  consente agli utenti di non essere fruitori passivi e  deresponsabilizzati, ma li stimola ad essere artefici e protagonisti di  cultura nella propria comunità.
 C'è una comunicazione che educa  alla partecipazione e quindi alla pace, perché la partecipazione induce  alla condivisione e alla corresponsabilità, genera democrazia. C'è  invece un circolo di informazioni nel quale troppi uomini non sanno e  troppo pochi sanno e determinano ciò che gli altri devono sapere; ma  esso serve soltanto a consolidare emarginazioni e sopraffazioni che  minano alla radice ogni reale possibilità di pace.
Obiettivi per un progetto di educazione alla pace
  25. - L'articolazione di un organico progetto di educazione alla pace  chiede la definizione formale di un insieme coerente di obiettivi, che  si presenti strategicamente organizzato e si traduca poi in percorsi  più propriamente culturali, pedagogici e didattici, da elaborare in  altre sedi. È qui sufficiente offrire alcune indicazioni essenziali, e  la prima riguarda l'obiettivo del dialogo, con tutto ciò che esso  comporta. 
 A tale proposito occorre anzitutto denunciare i limiti  di una tolleranza di matrice illuministico-borghese, che presuppone un  soggetto umano individuale così sicuro di sè da poter "portare" (o  sop-portare) l'altro e il diverso "anche se" diverso, con magnanimità e  distacco. Nella prospettiva invece di una soggettività in relazione  (alla quale concorre anche il volto di Dio-Trinità e il continuo  definirsi di Gesù di Nazaret in relazione al Padre), l'altro diventa un  elemento di costruzione dell'identità individuale, "perchè" diverso, in  quanto la sua diversità apre e arricchisce. Così perdono di significato  i razzismi e le esclusioni di ogni tipo e maturano possibilità di pace  in una convivenza effettivamente interetnica, interculturale,  interreligiosa.
26. - Un altro obiettivo dell'educazione alla pace è individuabile nel "circolo virtuoso" che deve stabilirsi fra sobrietà e solidarietà, allo scopo di ridurre i conflitti che si generano nell'accedere al banchetto dei beni della terra. Infatti la globalizzazione e l'interdipendenza dei problemi economici ed ecologici fanno sì che ogni scelta personale abbia ripercussioni molto ampie e si traduca spesso in un aggravio di peso sulle spalle di chi è meno fortunato. Di conseguenza educare alla sobrietà nell'uso dei beni (evitando sia l'accumulo che lo spreco) diventa condizione per una più giusta distribuzione degli stessi, per oggi e per domani, e colloca la solidarietà in una prospettiva di giustizia e non di elemosina.
27. - Un'ultima indicazione può essere data circa l'obbiettivo dell'educazione alla gestione dei conflitti. Essi infatti sono un'esperienza ineliminabile del rapporto interpersonale e sociale, e la loro presenza esige che le persone maturino atteggiamenti, convinzioni e strumenti per vivere dentro la tensione in modo non distruttivo. A questo proposito sembra opportuno segnalare due percorsi. Il primo riguarda la consapevolezza dei diritti e dei doveri, che genera rapporti paritari, non permette di sbilanciare le attese soltanto sui bisogni individuali, impone che ciascuno faccia la propria parte e apre a istanze più alte, come quella del perdono. Il secondo si riferisce all'assunzione competente e responsabile del metodo democratico, in base al quale i conflitti vengono risolti non semplicemente con la forza dei numeri, ma con l'accettazione sincera e consapevole di una regola che cerca di garantire il maggior bene possibile per il maggior numero possibile di persone.
Luoghi e soggetti dell'educazione alla pace
  28. - In un progetto di educazione alla pace emerge in primo luogo e  con forza la responsabilità della famiglia, modulo primo e naturale  della vita, cellula e paradigma della convivenza sociale. In essa  l'educazione alla pace inizia con l'esperienza del "prendersi cura"  della diversità di ciascuno rispetto all'altro. Ciò accade anzitutto  nella relazione coniugale, quando le inevitabili ferite reciproche -  tanto più crudeli perché inferte in un contesto di "prossimità"  intensamente voluto - vengono riconosciute sinceramente e lenite  nell'esercizio quotidiano della comprensione, della riconciliazione,  del perdono.
 Il percorso di accoglienza reciproca e di continua  riconciliazione della coppia, ha anche il potere di ripercuotersi  positivamente sui figli, per sé esposti ai traumi derivanti dalle  tensioni dei genitori e talora al rischio di essere usati come  "ostaggi" o oggetti di ricatto nella contesa. Nel contesto del  "prendersi cura" dell'altro va però inserito anche il tema  dell'accoglienza della vita, di fronte al fenomeno inquietante della  denatalità che si manifesta in Italia. Tale fenomeno infatti è  contrario alla cultura di pace perché spesso è segno di un conflitto  fra la responsabilità verso una nuova vita e la conservazione della  libertà e del benessere personali; e perché riduce le possibilità di  sperimentare l'"essere fratelli" nel suo contesto primario e naturale.
  L'educazione alla pace in famiglia si sviluppa poi nel modo di vivere  le relazioni e i conflitti generazionali, tra genitori e figli,  superando da una parte l'autoritarismo che impone senza motivare e  dall'altra la tentazione di liquidare facilmente la saggezza maturata  dall'esperienza di vita. Per questo occorre definire regole semplici e  condivise di vita familiare, dove ciascuno possa conoscere e  sperimentare diritti e doveri; e soprattutto occorre stabilire un  dialogo che affronti i temi forti della vita, superando l'impaccio  delle differenze in un clima fatto di accoglienza, ascolto, rispetto e  amore donati senza riserva. In tale clima si rivela particolarmente il  "genio" femminile dell'educare alla pace, perché la contiguità della  relazione educativa con quella connessa al dono della vita (fin da  quando essa è custodita nel grembo) può fondare un rapporto che porta  in sé l'offerta e la certezza dell'essere accolti e amati. 
  Infine, la famiglia educa alla pace quando rifiuta ogni chiusura  egoistica, in nome della propria quiete, e diventa luogo nel quale  trovano risonanza, ascolto e risposta le sofferenze e le attese del  mondo, con la collaborazione di tutti i membri. Ciò comporta scelte  quali la determinazione del livello di benessere familiare con  attenzione ai bisogni altrui e non solo al calcolo delle risorse  possedute; la disponibilità a mantenere nell'àmbito familiare i membri  che hanno bisogno di cure particolari e di aprire la casa a forme di  affido, di adozione o simili; la capacità di assumere responsabilità  negli spazi di partecipazione civile ed ecclesiale, particolarmente in  quelli che richiedono l'esperienza di coppia o di genitori (scuola,  consultori matrimoniali, ecc.). Ovviamente, perché la famiglia possa  far fronte alle proprie responsabilità verso la vita e verso  l'educazione, occorre anche una politica familiare che risponda  all'esigenza di conciliare il lavoro con la maternità e le cure  parentali; e che ponga le condizioni per un effettivo esercizio del  diritto alla casa, alla salute, al lavoro e alla libertà educativa,  anche in riferimento alla scelta scolastica.
  29. - Accanto alla famiglia, un progetto di educazione alla pace chiede  il coinvolgimento della scuola. Infatti, in un contesto di corretta  sussidiarietà, la scuola si affianca alla responsabilità primaria della  famiglia per proseguire l'educazione alla pace, attraverso un  intervento pedagogico che ha al suo centro l'esperienza culturale. Tale  compito (dal quale non va ritenuto assente il mondo universitario, pur  con la specificità che lo caratterizza) riguarda anzitutto i modi  concreti nei quali sono vissute le relazioni scolastiche e nei quali la  scuola si inserisce nel più ampio contesto sociale, coinvolgendo i  diversi soggetti in una prospettiva di "comunità educante". Si può  allora "imparare la pace" a scuola, vivendo processi effettivi di  partecipazione, democrazia e responsabilità nel lavoro, nel rispetto  dei diversi ruoli e competenze; prendendosi cura di chi è più debole ed  evitando che l'apprendimento diventi puro spazio di competizione per il  successo personale e quindi radice di conflitti, invece che strumento  di relazione e di aiuto reciproco.
 In secondo luogo la scuola  risponde al progetto di educazione alla pace con l'offerta di un  "sapere per la vita", identificato nell'apprendimento dei percorsi  cognitivi-valutativi e delle conoscenze che rendono possibile il  distacco critico e l'autonomia personale, senza dei quali non ci sono  libertà e responsabilità, e neppure cultura di pace. Ciò non significa  ovviamente che il tema della pace debba configurarsi come contenuto di  una particolare disciplina scolastica. È invece necessario che nella  didattica e nei contenuti dei diversi saperi siano fatti emergere  esperienze comunicative, quadri di riferimento e significati valoriali  che possono dar vita a un'organica cultura di pace. Nella  programmazione di particolari saperi poi si potranno prevedere  utilmente alcune unità didattiche finalizzate ad esplicitare  organicamente il tema della pace nel contesto della ricerca storica,  letteraria, religiosa, filosofica, economica, geografica, ecc.
  30. - L'educazione alla pace costituisce però un itinerario di  formazione permanente, che deve coinvolgere tutte le esperienze nelle  quali si realizza lo sviluppo integrale della persona umana,  valorizzando anche dimensioni interiori e "gratuite", quali la  contemplazione, la creazione e ri-creazione estetica, la riflessione  sapienziale, e non solo ciò che riguarda gli aspetti sociali del  conflitto. 
    Per questo un progetto di educazione alla pace interessa il vasto e  complesso mondo dell'associazionismo, nel quale le persone di ogni età  si raccolgono spontaneamente per rispondere al bisogno di continua  crescita personale, di comunicazione e di socializzazione, di cultura,  di esperienza religiosa, di sport e tempo libero, ecc.; o per mettere a  disposizione competenze ed energie in varie forme e organizzazioni di  volontariato sociale e di impegno civile, sindacale e politico. Anche  tali aggregazioni infatti possono offrire percorsi esperienziali,  animati dai valori che fanno crescere le possibilità di pace ad ogni  livello.
  
  Comunità cristiana e educazione alla pace
  
  31. - La comunità cristiana si riconosce come un popolo di fratelli e  di sorelle riconciliati per grazia dall'amore di Dio, nonostante le  continue resistenze e cadute, attraverso la morte e la resurrezione di  Cristo e con l'opera incessante dello Spirito di carità e verità. Essa  quindi risponde all'invocazione umana di pace anzitutto accogliendo e  celebrando nella storia il mistero della pace che viene dall'alto, e  sottoponendosi alla sua potenza rinnovatrice per rendergli  testimonianza davanti a tutti. 
    I segni di questo cammino sono dunque l'ascolto della Parola, che  convoca l'umanità attorno allo svelarsi del progetto di Dio; la  partecipazione, soprattutto domenicale, al banchetto del Corpo e del  Sangue di Colui che ha dato se stesso per riconciliare i dispersi; la  gioiosa esperienza del perdono del Padre, reso presente nel sacramento  della riconciliazione; l'appartenenza a una comunità che vive,  custodisce e manifesta - anche se con mezzi e gesti poveri e  compromessi - una comunione che è partecipazione alla vita stessa di  Dio e si apre a una fraternità senza confini; la possibilità di posare  sul mondo uno sguardo che riconosce in ogni "ultimo" la presenza di  Colui che si è fatto servo di tutti per amore, e quindi di offrire  gesti di carità che diventano annuncio e svelamento del volto di Dio,  perchè solo a Lui sia resa gloria.
    L'esperienza del dono divino della riconciliazione, accolto e  testimoniato, diventa per la Chiesa possibilità concreta di uno stile  di vita che educa alla pace.
    a) Il dono della pace va chiesto con insistenza nella preghiera e va  accolto in modo particolare nella liturgia, dove Dio attualizza il suo  fare grazia. È quindi importante valorizzare i segni liturgici che  esprimono e fanno sperimentare il dono e l'impegno della pace, in  particolare nella sequenza penitenziale di gesti di riconciliazione che  preparano alla celebrazione sacramentale del perdono di Dio e da essa  promanano. Il tema della pace poi, con le sue valenze di fede, trova il  suo spazio naturale nei momenti formativi della vita comunitaria, nelle  occasioni che convocano tutto il popolo di Dio (come la celebrazione  della Giornata mondiale della pace), nelle esperienze di catechesi per  ogni età e condizione, negli itinerari di formazione propri di gruppi,  associazioni e movimenti ecclesiali, nelle "scuole di pace" promosse  dalla comunità ecclesiale.
    b) Le comunità cristiane sono chiamate a una costante attenzione verso  i problemi della pace nel mondo, con un duplice obbiettivo: operare su  di essi un discernimento sapienziale di fede, dal quale derivino motivi  di conversione e di impegno; e esprimere nei loro confronti prese di  posizione e gesti di partecipazione visibili e coerenti, anche  incoraggiando scelte generose come quelle della non violenza,  dell'obiezione di coscienza, dell'autotassazione a vantaggio dei poveri  ecc. Questo impegno, che ha la sua sede naturale nei Consigli pastorali  parrocchiali e diocesani, chiede la valorizzazione delle competenze dei  laici cristiani e delle aggregazioni laicali ecclesiali e un dialogo  fiducioso e collaborativo con i movimenti e le organizzazioni a favore  della pace che operano nella società civile.
    c) Nella comunità cristiana si incontrano gruppi e persone che  interpretano in modi diversi il cammino di fede e il rapporto con il  mondo; non di rado tale diversità diventa motivo di dubbi incrociati e  di scarsa collaborazione, rischiando anche di rendere meno efficace la  testimonianza della comunione. Lo stile di pace esige allora che ogni  posizione accetti di subordinarsi                 
L'esperienza vissuta a contatto con persone immigrate in un Centro di ascolto della Caritas di Roma, nell'ostello, ma anche in servizi sociali pubblici, nel mondo del lavoro, in paesi dell'Africa, dell'Asia e dell'America Latina nella cooperazione o in missioni operative di ONG, ha sollecitato un gruppo di persone a riflettere su questi temi, sulle contraddizioni che caratterizzano la società e a voler fare qualcosa per promuovere i diritti umani, i valori della solidarietà della giustizia e della pace, per vivere la città con persone immigrate in modo creativo e solidale.
Si può capire perché una teologia della creazione possa derivare e non "fare da premessa" alla fede che presuppone l'esperienza dell'alleanza e della liberazione.
Solo raccogliendo la sfida teologica è possibile affrontare la sfida storica posta alla chiesa dalle tragiche condizioni di ingiustizia, di miseria, di dominio, emerse rapidamente degli ultimi decenni e tuttora in veloce e imprevedibile sviluppo sia tecnologico che politico.
Quei bambini, che non possono disegnare
la riga del cielo e della terra
di Ettore Masina

Non c'è niente di peggio per i poveri (i "dannati della Terra come li chiamava lo psichiatra francese Franz Fanon) che essere condannati al ruolo di astrazioni: cifre e non persone doloranti, talvolta sino allo spasimo, problemi da risolvere con scelte politiche ed economiche invece che padri, madri, figli, nonni, case distrutte, patrie abbandonate in seguito a minacce terrorizzanti, violenze, talvolta torture; e fame e freddo e disperazione, e necessità assoluta di attenzione e di tenerezza. Le statistiche possono essere esaminate con un minimo di pietà; e quanto più rivelano tragedie immani, tanto più finiscono per essere messe in conto dell'utopia: c'è bisogno di un governo mondiale, di imponenti esborsi da parte dei cosiddetti Paesi del benessere. Ma un governo mondiale non c'è, le potenze imperiali non pagano all'Onu se non quote infinitesimali, i governi dei Paesi sviluppati tagliano progressivamente gli aiuti allo sviluppo. A cominciare dall'Italia, che ormai è in testa alla classifica dell'egoismo internazionale.
I profughi nel mondo sono circa 22 milioni e già in quel "circa" c'è una condanna all'insignificanza. Se si mettessero a gridare o anche a piangere tutti insieme, nelle nostre strade, non potremmo lavorare, ridere, portare a scuola i bambini, scrivere poesie e tanto meno dormire. Ventidue milioni di bocche sarebbero un coro da apocalisse. Ma i campi dei profughi, quando ci sono, sono ben lontani dalle nostre città, nei terreni più aridi che nessuno coltiva, nelle periferie più misere, dove confinano con le discariche, nelle aree flagellate da insetti, su altipiani in cui gli aiuti arrivano a stento, quando arrivano; in zone in cui sono ancora attivi campi minati o in cui penetrano facilmente i persecutori.
Milioni di bambini nascono, crescono, diventano adulti, se ci riescono, dentro i recinti di baraccamenti che avrebbero dovuto essere provvisori e hanno ormai mezzo secolo e più. Fanno parte di quei 50 milioni di piccoli che, secondo l'ultimo rapporto dell'Unicef, risultano invisibili ai governi ma anche a noi. Piccini venduti, trattati come piccole bestie da soma o da piacere, insidiati, mutilati della propria infanzia... Pensavo a queste cose, giorni fa, visitando una mostra di disegni dei bambini dei campi profughi palestinesi nel Libano. Mia moglie mi ha fatto notare un elemento inquietante: la maggior parte di quei disegni non aveva la linea di base, del terreno. Ne ho parlato con quel grande pedagogo che è il vecchio ma ancora lucidissimo Mario Lodi, che mi ha risposto con accenti di profonda pietà. Tutti i bambini, di tutti i Paesi del mondo, appena cominciano a disegnare - dice Lodi - tracciano due linee che contengono la loro realtà: la linea del suolo su cui vivono e la linea del cielo. La mancanza di una di quelle due linee indica che il bambino vive una vita inquietante, non ha una sua terra. Ma terra, penso io, terra significa spazio di vita, patria, socialità, sicurezza, base per la costruzione del futuro. Quei bambini che sembrano fluttuare in un immenso vuoto indicano che la nostra è una civiltà potente e spietata.
(da Jesus, gennaio 2006, p. 25)
Dichiarazione universale dei diritti umani: 
versione popolare
di Frei Betto

Tutti nasciamo liberi e siamo uguali in dignità e in diritti.
 Introduzione
di Max H. Begouen 
 
Sin dal 1937, Pierre Teilhard de Chardin, scienziato dall’intelligenza lucida, l’uomo dal cuore abbastanza forte da poter abbracciare il mondo, discerneva la salita delle forze distruttive sul punto di minacciare il pianeta, ed invitava gli uomini ad unirsi per costruire tutti insieme la città universale.
I popoli, “unità umane naturali” (1), dovevano secondo lui realizzare l’armonia terreste nelle varietà delle loro caratteristiche razziali, arricchendosi reciprocamente . dava a ciascuno questa direttiva “pur mantenendo sulla vostra propria linea, salite sempre verso maggior coscienza e maggior amore. Alla cima vi troverete riuniti a coloro che, da varie parti, avranno intrapreso una ascensione analoga. Poiché TUTTO CIO’ CHE SALE CONVERGE”.
Come le cellule le diverse membra di un corpo che tendono a costituire per il loro stesso sviluppo un unico essere vivente nella cui costituzione trovano, alla fine, ciascuna la propria perfezione, così gli individui e le nazioni debbono, sviluppandosi, mirare all’unità umana che essi sono chiamati a realizzare per poter pienamente vivere.
Uno slancio nuovo scuote tutti i paesi verso un tal fine, ancora occultato a molti. Non soccombano alla tentazione mortale di costruire ciascun solo per sé! E’ infatti in vista del compimento della totalità che la linfa sale in essi: “L’età delle nazioni è passata. Se non vogliamo perire, si tratta ora per noi di costruire la terra”.
Dunque non vi siano più blocchi avversi che portino al parossismo le forze di distruzione! Ma si manifesti una cooperazione universale nella passione di edificare un mondo degno dell’Uomo. Il valore di una visione del futuro viene dimostrato dal dinamismo che esso suscita. Non ha bisogno di bombe atomiche per imporsi. Teilhard sapeva, che al di sopra delle ideologie agonizzanti, ve ne era una incomparabilmente più ampia e potente. Vi si è abbandonato con tutto il cuore. Vi ci trascina.
Se i gruppi sociali ed etnici, nelle circostanze tragiche che ci spingono, sapessero solo avanzare rivendicazioni, dimostrerebbero la loro propria decadenza. L’amore, energia suprema, non rivendica, ma si tende in avanti. Realizza la condizione umana quale deve essere. Ci sospinge irresistibilmente a purificare, ad elevare, a perfezionare la terra.
Nella stessa carne dei popoli il corpo del mondo nuovo è in gestazione, nonostante i dissidi interni che la straziano. Bisogna prendere coscienza di questa prodigiosa attesa. Concentriamo pacificamente le nostre forze spirituali. Prepariamo, in ogni paese, gli uomini che, dapprima a casa loro, poi alla testa delle organizzazioni internazionali, presiederanno al vero destino dell’umanità.
Dobbiamo essere avanguardia di questo Fronte di avanzata umana invocato, nelle pagine che seguono, da colui che, dalla vetta eroicamente conquistata, ha intravisto quale potrebbe essere la magnificenza della “Terra degli Uomini”.
1) P. Teilhard de Chardin, Le unità umane naturali, in La visione del passato, Milano, Il Saggiatore, 1973, pp. 321-361.
Ebrei e cristiani un solo destino
40° Anniversario della          Nostra Aetate
di Jean-Marie Lustiger*
  Quale cammino sorprendente abbiamo percorso, ebrei e cristiani, da  oltre mezzo secolo! Il quarantesimo anniversario della dichiarazione  Nostra aetate coincide con il sessantesimo dell'arrivo delle truppe  sovietiche al campo di Auschwitz. Mentre si stanno manifestando nuove  forme di antisemitismo, questa doppia commemorazione ci permette di  misurare l'enorme peso di dolore e di vergogna che grava sulle  coscienze per la memoria della Shoah, «questo crimine inaudito e fino a  quel momento anche inimmaginabile», così come lo ha qualificato  Benedetto XVI alla sinagoga di Colonia .
 Qui  bisognerebbe fermarsi e rendere grazie per tutti coloro che hanno  lavorato a stabilire tra ebrei e cattolici una nuova relazione di  fiducia, di stima e di rispetto che fonda le vere amicizie. Essi sono  numerosi da una parte e dall'altra. Permettetemi di citarne uno solo,  papa Giovanni Paolo II.
 Ho voluto, per questa  occasione, riflettere sull'appello che ci ha lanciato papa Benedetto  XVI al termine della sua allocuzione alla sinagoga di Colonia. Ci  invita a «spingersi anche in avanti, verso i compiti di oggi e di  domani» per «dare insieme una testimonianza ancora più concorde,  collaborando sul piano pratico». In effetti è frequente al giorno  d'oggi sentir parlare in Occidente di civiltà «giudaico-cristiana», il  più delle volte per criticarla e per liberare gli individui dagli  obblighi che essa farebbe pesare sui costumi e sulla società.
  Così, osservatori che si presentano lontani tanto dal cristianesimo  quanto dall'ebraismo li mettono entrambi sullo stesso piatto della  bilancia.
        Individuare nel cuore della nostra civiltà una  Weltanschauung  giudaico-cristiana non soddisferà certo tutti gli ebrei né tutti i  cristiani, ma attesta dall'esterno due fatti essenziali dal nostro  punto di vista: primo, ebrei e cristiani esercitano insieme una  responsabilità rispetto alla civiltà e a tutta l'umanità; secondo,  ebrei e cristiani portano insieme il peso della rivelazione biblica.
        In questo quarantesimo anniversario della Nostra        aetate  vi propongo di lasciarci interpellare da questo sguardo esterno e di  riflettere sulla nostra comune responsabilità. Che cosa può e deve  apportare al mondo l'incontro degli ebrei e dei cristiani, o piuttosto  la loro riconciliazione, o meglio ancora la loro reciproca riscoperta  in un'epoca in cui si sta delineando una civiltà planetaria fatta di  conflitti e opposizioni, convergenze e scambi, ma anche di  ripiegamenti? Non è senza significato che la 'riscoperta' tra ebrei e  Chiesa cattolica avvenga in questo periodo critico e magnifico di  grandi sconvolgimenti dalle imprevedibili conseguenze.
  1. Esiste indubbiamente una convergenza tra ebrei e cristiani - almeno  per quel tanto che sono coerenti con la propria fede - nel fare appello  alla necessità di una morale per il bene della vita della società.
  Durante l'ultimo secolo, essi si sono ritrovati concordi nel criticare  i poteri totalitari. Questi ultimi, in quanto «dettavano legge», si  sono eretti ad arbitri del bene e del male. Certo, ogni potere è  tentato di farlo. Ma ebrei e cristiani hanno in comune una visione  molto chiara: la legge che s'impone alla coscienza umana ha una fonte  più alta dell'uomo, il bene non è definito dall'arbitrio dei voleri o  delle opinioni ma s'impone in questo mondo relativo e si propone come  un assoluto alle scelte della libertà; e questa norma irrecusabile  nella gestione degli affari temporali rende la politica una realtà  degna della condizione umana.
 La saggezza della legge  umana e la sua forza rispetto alle coscienze non emerge solamente dalle  sanzioni che l'accompagnano, ma innanzi tutto dalla giustizia che essa  introduce nei rapporti umani. Questa legge, ogni legge giusta, giace  nel solco, per la maggior parte del tempo invisibile, della volontà  santa di Dio,rivelata sul Sinai. In un modo o nell'altro la legge trae  da Dio un certo carattere sacro che qualifica anche l'uomo a cui è  rivolta.
 Questa convinzione comune agli ebrei e ai  cristiani si dispiega in un discorso razionale che ha costituito il  corpus del diritto naturale e ha permesso l'affermazione della dignità  inalienabile della persona umana sulla quale si fondano in definitiva i  diritti dell'uomo. Permettetemi di citare qui un retroscena poco  conosciuto della redazione della costituzione Gaudium et spes del  Vaticano II. Per superare le formulazioni classiche del diritto  naturale l'arcivescovo Karol Wojtyla, sulla scia di Max Scheler,  propose la propria prospettiva personalista, in cui un vescovo  riconobbe il pensiero di Martin Buber...
 Questa  prospettiva etica sulla politica ne contesta dall'interno  l'arbitrarietà; essa mira a chiarire l'esercizio del potere, non a  distruggerlo ma a situarlo come uno dei più nobili servizi da rendere.  Essa è il testimone dell'autentica saggezza che la Bibbia ci dice  venire da Dio. Non c'è qui un altissimo ideale di umanità? Il ruolo di  sentinella e testimone del regno di Dio che hanno sia il popolo ebraico  sia i cristiani sfida e relativizza ogni impero umano. Insieme, ebrei e  cristiani, non abbiamo forse la responsabilità e l'obbligo rispetto  all'intera umanità di questa ragione politica?
 Non si  trova forse qui la saggezza necessaria alle istituzioni mondiali  fondate per regolare la pace tra le nazioni, ma che i conflitti di  forza e di interesse non lasciano funzionare secondo la giustizia e il  diritto (cf. Gen 18,19), e cioè con efficacia?
 2.  Questa convinzione ha la propria origine nella rivelazione del Sinai.  Consideriamo come ebrei e cristiani ricevono il dono della Legge o dei  comandamenti. Non spetta a me affrontare la questione centrale  dell'osservanza dei precetti commentata dalle tradizioni rabbiniche.
  Mi sembra tuttavia necessario far presente di continuo ai cristiani che  cosa significa l'osservanza di 613 comandamenti. Codificati dalla  tradizione, essi abbracciano la totalità della vita dell'ebreo  religioso, dalla preghiera e dallo studio personale e comunitario a  tutti gli altri ambiti dell'esistenza: morale, vita familiare,  professionale ecc. Essi sono tutti recepiti come provenienti  espressamente dalla volontà divina. Il migliore paragone della vita  ebraica così concepita sarebbe, nel cristianesimo, la vita monastica,  benché si tratti qui di una vita familiare con tutti gli obblighi  propri della vita laica...
 E per un cristiano?  Sorprenderò forse quelli fra voi che conoscono poco la dottrina  cattolica, siano essi cristiani o ebrei, ricordando che,  sostanzialmente, questi comandamenti sono recepiti dai cristiani come  rivelazione divina contenuta nella Bibbia stessa. Sfogliate il  Catechismo della Chiesa cattolica promulgato da papa Giovanni Paolo II.  La morale vi è esposta nel quadro delle dieci parole, all'interno delle  quali si situa la riflessione morale sull'agire umano personale e  sociale.
 Certo, come discepoli di Gesù differiamo  senz'altro sulla maniera d'intendere e applicare questi comandamenti.  Per un cristiano il commentario autorizzato dei comandamenti è la  maniera in cui Gesù li ha vissuti e in cui ci chiede di vivere. È  un'interpretazione determinata da «Shemà, Israele (...) amerai  il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le  forze» (Dt 6,4; cf. Mt 22,37). La prima regola dell'agire ricapitola la  Legge e i profeti nel comandamento dell'amore di Dio e dell'amore  fraterno (cf. Lv 19,18; Mt 22,39), immagine e retaggio dell'amore  insegnato da Gesù ai suoi discepoli: amatevi «gli uni gli altri come io  vi ho amati» (Gv 15,12).
 Uno sguardo miope potrebbe  vedere tra queste due visioni delle differenze inconciliabili. Uno  sguardo più profondo vedrà che la loro fonte è comune: è in Dio. Le  conseguenze sull'agire umano sono analoghe, anche quando la giustizia e  la pace si dispiegano secondo modalità diverse e sono vissute facendo  appello a distinte risorse spirituali. Certo, queste differenze non  sono trascurabili. Esse sono ugualmente essenziali alla nostra  esperienza. Tuttavia la convergenza di ebrei e cristiani permette loro  di affermare con più forza e rispetto la propria missione di vigilanza  e di testimonianza nei confronti dell'umanità.
  L'esperienza cristiana ha potuto a volte introdurre una certa  relativizzazione dei comandamenti in nome della carità. Certo, l'amore  di Dio e del prossimo è, per il cristiano come per l'ebreo, la pienezza  della Legge: l'espressione non potrebbe essere più esatta, forte e  bella. Rimane imprescindibile che le esigenze dell'amore siano  rigorosamente comprese e strutturate dal rispetto delle volontà divine.  Un incontro fecondo potrebbe ricordare ai cristiani che essi non  possono tralasciare quello che Dio comanda e, agli ebrei, che il  comandamento dell'amore posto all'inizio dello  Shemà anima tutti gli atteggiamenti che ne derivano, nei        rapporti umani come nei riguardi di Dio.
  L'universalismo cristiano ha fatto conoscere a tutte le nazioni del  mondo, a volte in una forma secolarizzata, quello che è stato dato a  Israele sul Sinai. Israele ne resta il garante, senza dubbio assieme ai  cristiani, per il bene comune di tutta l'umanità.
 3.  Dobbiamo dunque ora interrogarci sull'universalismo della rivelazione.  Che significato può avere per l'insieme dell'umanità il riavvicinamento  di ebrei e cristiani?
 Evidentemente non voglio  rispondere a questa domanda limitandomi a esporre l'opinione corrente.  Alcuni potrebbero temere un risultato disastroso per la messa a rischio  dell'indipendenza e della libertà delle identità particolari nazionali  o religiose. Altri, forse gli stessi, si domanderanno come delle  religioni che la storia ha fino a questo punto separato possano unire  le proprie forze per contribuire a una convergenza delle culture e  delle religioni. In effetti questa relazione con l'insieme dell'umanità  è inscritta nell'origine stessa dell'ebraismo. Ricordate la benedizione  data ad Abramo: «In te si diranno benedette tutte le famiglie della  terra» (Gen 12,3) e anche l'annuncio profetico secondo cui tutte le  nazioni verranno ad adorare nel suo tempio l'unico Signore del cielo e  della terra.
 Per i cristiani, gli ebrei apostoli di  Gesù hanno obbedito, non senza grande fatica, a questo oracolo  profetico scoprendo, quasi loro malgrado e con stupore, che il dono  dello Spirito era ugualmente accordato ai pagani. L'ordine di Gesù dato  ai suoi di andare a insegnare a tutte le nazioni (goim) per  formare tra esse dei discepoli che riceveranno il battesimo (cf. Mt  28,19) fa in realtà partecipi i cristiani della speranza ebraica per il  mondo. Nello stesso tempo gli atteggiamenti spirituali e le speranze  degli uni e degli altri restano opposti su questo punto. Infatti, il  popolo ebraico vive una situazione paradossale. Esso rimane un popolo,  continua a rivendicare questo nome. La domanda di sapere se sia un  popolo simile agli altri oppure diverso è stata posta fin dalle  origini. Siamo un popolo differente dalle nazioni, perché formato da  Dio per servirlo; e una nazione simile alle altre allorché reclama un  re e un potere come gli altri popoli. Rimane il fatto che nell'attuale  processo di globalizzazione gli ebrei e le comunità ebraiche disperse  nel mondo intero sono, a tutti gli effetti, parte integrante della  diversità delle culture e delle nazioni, senza che per questo cessi  l'appartenenza al 'popolo ebraico'.
 Allo stesso modo -  si può concludere - il fatto d'essere cristiani incorpora ciascuna  persona e ciascuna comunità nell'esistenza comune della Chiesa del  Messia, presente attraverso i tempi della storia in tutte le nazioni e  in tutte le culture.
 Il problema che tento qui di  circoscrivere è sollevato dalla globalizzazione. Può una solidarietà  unificare l'intera umanità? E a prezzo della negazione o dell'oblio  delle particolarità considerate fino a oggi come ricchezze, ma che  possono apparire ormai come delle sopravvivenze o degli ostacoli?  Certamente no. Eppure, la responsabilità affidata dalla parola di Dio  agli ebrei e ai cristiani, ciascuno secondo la propria chiamata e  tradizione, è di condurre l'umanità alla consapevolezza della sua unità  e della sua vocazione unica. Ciò riguarda la sua origine. L'umanità,  come dicono le prime pagine della Genesi, è stata creata da Dio a sua  immagine e somiglianza (cf. Gen 1,26). Esistono, in seno alla diversità  umana, delle sentinelle e dei testimoni della luce dell'origine, non  per imporla ma per aiutare l'umanità a decifrare il proprio destino.
  Gli ebrei sono consapevoli della propria particolarità storica poiché  questa rivelazione ha loro affidato per primi una fede assolutamente  irrevocabile. E nell'esperienza di un popolo forgiato da questa  elezione che la storia santa si è incarnata nella storia umana. La  tentazione per il popolo ebraico è, evidentemente, di chiudersi in  questa particolarità e quindi di vuotarla della sua portata salvifica  universale.
 I cristiani sono diventati a propria volta  beneficiari di questa primi genia benedizione poiché, fin dall'origine  della Chiesa, nata dagli ebrei, anche i pagani ottengono di aver parte  con loro a questa benedizione e alla sua promessa. Nel corso dei secoli  i cristiani saranno anch'essi tentati di ricreare dei particolarismi di  tipo nazionale o religioso; essi rischiano di perdere così il senso  delle proprie radici, dell'origine che garantisce la loro speranza.
  Ma ebrei e cristiani, rincontrandosi e misurando le differenze  reciproche, possono meglio comprendere quello che è stato loro dato  come evidenza fondatrice e scopo primordiale: rivelare a un'umanità  frazionata il richiamo all'unità più forte e più grande delle sue  immense diversità.
 4. Evocare tali prospettive non  significa minacciare né l'originalità ebraica né l'identità cristiana.  Mi spiego. «La salvezza viene dai giudei», insegna Gesù alla samaritana  nel Vangelo secondo san Giovanni (Gv 4,22). Senza gli ebrei  l'universalità cristiana potrebbe dissolversi in un umanesimo astratto.
  L'esperienza cristiana mostra che la diversità delle culture,  attraverso ostacoli e ambiguità a volte considerevoli, può essere  rispettata e ogni cultura esaltata attraverso il riconoscimento  dell'unità dell'umanità, figlia dell'Uno. Senza i cristiani l'ebraismo,  portatore della benedizione promessa a tutte le nazioni, può forse  realizzare il proprio compito senza riassorbirsi nella razionalità  universale dei Lumi e senza vuotare di sostanza la storia che l'ha  generato?
 Dalla riflessione su queste aporie possiamo  ricavare una lezione: l'incontro tra ebrei e cristiani è necessario a  entrambi per comprendere quel che forse Dio esige da ciascuno di essi.  La loro esperienza comune, al pari delle loro percezioni divergenti  della benedizione divina, rivela il volto dell'unità e della comunione  universale radicato nella promessa fatta ad Abramo, annunciato dai  profeti e attestato dalla Chiesa cattolica così come essa lo crede con  umile audacia.
 Forse il passaggio vi apparirà forzato,  ma esso rende conto della difficoltà con cui ciascuno di noi, in questo  tempo di globalizzazione, è portato a misurarsi. Per gli ebrei, qual è  la loro identità? È l'identità nazionale israeliana o è quella della  diaspora? Su che cosa si fonda?
 Quel che è possibile  dire alla luce della fede cattolica è stato espresso in maniera  sorprendente da papa Giovanni Paolo II nella sua preghiera sulla  Umschlagplatz di Varsavia. Ascoltiamola:                                                                                                                                                                                                                                                                
'Dio di Abramo, Dio dei profeti, Dio di Gesù Cristo, in te tutto è contenuto, verso di te tutto si dirige; tu sei il termine di tutto. Esaudisci la nostra preghiera per il popolo ebraico che, in grazia dei suoi padri, tu continui a prediligere. Suscita in esso il desiderio sempre più vivo di penetrare profondamente la tua verità e il tuo amore. Assistilo perché, nei suoi sforzi rivolti alla pace e alla giustizia, sia sostenuto nella sua grande missione di rivelare al mondo la tua benedizione. Che esso incontri rispetto e amore presso coloro che non comprendono ancora le sue sofferenze, come presso coloro che provano compassione per le ferite profonde che gli sono state inferte, con il sentimento del rispetto reciproco degli uni verso gli altri.
Ricordati delle nuove generazioni, dei giovani e dei bambini: che essi persistano nella fedeltà verso di te in quel che costituisce l'eccezionale mistero della loro vocazione. Ispirali affinché l'umanità comprenda, attraverso la loro testimonianza, che tutti i popoli hanno una sola origine e un solo fine: Dio, il cui disegno di salvezza si estende a tutti gli uomini. Amen'.
  Così, per la fede cattolica l'identità ebraica è fondata sul dono di  Dio, dono irrevocabile, secondo l'espressione di san Paolo, dono che  precede, nella storia, ogni altra determinazione sociologica, culturale  o politica. Questo dono di Dio costituisce, in qualche modo, la  vocazione del popolo ebraico di rivelare al mondo la benedizione divina.
  E per quel che riguarda i cristiani, il loro messaggio universale non è  forse solo una maschera dell'imperialismo prima romano e poi  occidentale? Come può espandersi nelle culture del mondo senza per  questo perdere la propria forza e il proprio contenuto? Il problema si  pone in maniera acuta quando i cristiani portano il messaggio biblico,  compresa la Torah, a nazioni come l'Asia e quando queste, alla maniera  di Gandhi, pur disposte ad accogliere i valori di Gesù Cristo come un  messaggio di liberazione, dichiarano di non aver nulla a che fare con  la Bibbia poiché hanno le proprie scritture e storie sacre. Pur  esponendosi al rischio di perdersi perdendo la propria universalità, il  cristianesimo non può accettare questo sradicamento fuori di Israele,  vale a dire fuori dall'alleanza, dalla scelta primigenia di Dio.  L'incontro - il legame - degli ebrei e dei cristiani, nella tensione  perenne verso un pieno rispetto reciproco, offre all'intera umanità il  suo volto originale e conforta la sua speranza di un'unità pacifica.
  5. Qual è dunque il fondamento del riavvicinamento tra ebrei e  cristiani? Cosa c'è di comune agli uni e agli altri che giustifica  un'alleanza reciproca?
 La risposta è inscritta nella  prima pagina del Nuovo Testamento. Esso comincia con una genealogia, di  cui vi cito le prime righe: «Abramo generò Isacco, Isacco generò  Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli» (Mt 1,2). Queste  parole introducono, come ha detto il primo evangelista, 'la genealogia  di Gesù Cristo (Messia), figlio di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1, 1).
  Il cristiano riceve dal popolo ebraico la totalità della Scrittura: la  Legge, i profeti e gli altri scritti. Noi la riceviamo per quel che è:  parola di Dio. E questo è vero per tutti i cristiani - protestanti,  cattolici, ortodossi -, quali che siano stati i crimini commessi e le  vicissitudini della storia. Questa Scrittura santa è inseparabile da  coloro a cui è stata rivolta e dalle lingue in cui è stata dapprima  formulata. La Chiesa riceve ognuna di queste parole come ispirate dallo  Spirito di Dio. Vuole rimanere fedele a esse. Anzi, non può  allontanarsene mentre certuni, come Marcione, avrebbero voluto una  rottura radicale che avrebbe eliminato dalla fede dei discepoli di Gesù  la Scrittura biblica, la storia, l'alleanza e l'elezione.
  Ma non si è avuta forse una simmetrica riduzione da parte ebraica per  delle ragioni che a noi a volte paiono fin troppo evidenti e che  sarebbe superfluo ricordare? E la legge del silenzio che ha prevalso.  Molto spesso gli ebrei hanno detto, in passato, di non aver affatto  bisogno dei cristiani dal punto di vista religioso.
 In  effetti in questi atteggiamenti opposti noi riconosciamo la rottura che  si instaurò molto presto davanti al messaggio di Gesù di Nazaret, segno  di contraddizione. Ebrei e cristiani o cattolici condividono  contemporaneamente una radice comune e un conflitto. Ma questo  conflitto, agli occhi stessi dei cristiani, s'inscrive nell'attesa che  la storia umana si compia secondo la volontà di Dio; questo è un  orizzonte familiare anche per il pensiero ebraico.
 Gli  ebrei, come i cristiani, sono tesi verso una speranza. Essi hanno in  comune la rivelazione ricevuta e trasmessa, che porta il loro sguardo  verso quel compimento i cui tratti sono per ciascuno segnati  dall'esperienza dei secoli, delle culture e dei popoli, per quel tanto  che ciascuno accetta o rifiuta dell'altro. Chi non avverte qui che le  tensioni possono essere tanto più forti e dolorose quanto più i punti  d'accordo e di comunione sono solidi? Dal momento che apparteniamo alla  stessa radice ogni tensione è vissuta come l'insorgere di una ferita,  di un rifiuto; ma può essere anche vissuta nella speranza di una luce  sempre più grande.
 Oggi, alla luce della storia, senza  che il riavvicinamento possa rendere meno acute le divergenze,  l'urgenza dell'appello ricevuto alle origini obbliga i fratelli  separati, il fratello maggiore e il minore, a rispondere, ciascuno per  la parte che gli spetta, alla missione assegnatagli. Nessuno dei due  può adempierla senza l'altro, senza contemporaneamente fare violenza  all'altro o penalizzarlo.
 L'aspetto attuale  dell'umanità anticipa, in modo ancora oscuro e a volte contraddittorio,  la speranza portata dai profeti e proclamata dal Nuovo Testamento.  Sarebbe illusorio e menzognero negare le nostre differenze e la nostra  fede personale al fine di realizzare questa speranza comune. Ciò  sarebbe un errore mortale e in effetti una rinuncia. Piuttosto,  ciascuno è chiamato a progredire nel dovere di giustizia e di pace  assegnatogli dalla Provvidenza.
 Il legame comune tra ebrei e  cristiani fonda la loro riscoperta reciproca in questo secolo,  garantendo l'opera che essi debbono compiere, pena una loro mancanza  verso l'umanità. Sono in gioco l'equilibrio e la pace nel mondo.
  L'avvenire comune tra ebrei e cattolici non si riduce a limitare il  possibile contenzioso. Non può accontentarsi di una pacifica  comprensione reciproca, e neppure di una solidarietà a servizio  dell'umanità. Questo avvenire richiede un lavoro su quel che è comune,  come su quel che separa, lavoro ormai possibile perché fondato sulla  certezza di un'amicizia voluta da Dio. Che le differenze e le tensioni  divengano uno stimolo per un approfondimento sempre più attento e  docile del mistero, di cui la storia ci costituisce gli eredi indivisi.
        Roma, 27 ottobre 2005.                                                                                        
* Cardinale, Arcivescovo emerito di Parigi.