I dieci comandamenti di Gesù
di Daniel Marguerat *
Si contrappone generalmente Gesù alla Legge. L’apostolo Paolo, che afferma «Cristo è la fine della Legge», non per nulla rientra in questa immagine. Gesù non è venuto a porre fine al regno di Mosè, e, con lui, al regno della Legge, di cui i Dieci comandamenti sono come la sintesi? Per comprendere la rilettura delle Dieci Parole da parte di Gesù, bisogna cominciare con il demolire questa immagine. Gesù non ha mai rinnegato la Torâ né sconfessato il Decalogo. Come ogni ebreo, egli lo considerava come il depositario della santa volontà di Dio. Il Vangelo di Matteo ne dà testimonianza: Gesù rimproverò anche ai suoi contemporanei di misconoscere la forza di queste parole (Mt 5, 21-48).
Di dove viene allora l'ambiguità? Cominciamo dal punto da cui è iniziata la polemica con i Farisei: la questione del sabato. La conoscenza più fine e sfumata che abbiamo del giudaismo nel I secolo ci permette oggi di dire che Gesù ha raramente violato la prescrizione del sabato. Quando guarisce un uomo dalla mano inaridita (Mc 3,1-6) o una donna inferma (Lc 13,10-17) o un idropico (14, 1-6), scegliere per questo un giorno di sabato è da parte di Gesù un gesto di deliberata provocazione. Ma salvare una vita faceva parte delle eccezioni alla regola del riposo sabbatico. E quando Gesù esprime questa idea profondamente ebraica che il sabato è fatto per il bene dell'uomo (Mc 2,27; Mekhilta Esodo 31,13), non può che incontrare l’approvazione dei suoi interlocutori. Tra le evidenti trasgressioni del riposo sabbatico, in compenso, figura il gesto dei discepoli che raccolgono qua e là delle spighe nel campo di grano (Mc 2,23-28).
Le scappatoie
I Farisei sapevano bene che la regola del riposo necessitava di eccezioni, che la vita aveva le sue emergenze, e il loro spirito pragmatico li induceva ad adottare delle astuzie. Un esempio: la regola sabbatica non autorizzava, secondo Ger 17,19-27, l'introduzione di pesi attraverso le porte. Ai Farisei non piaceva, perché impediva agli amici di mangiare insieme in giorno di sabato; essi stabilirono il principio dell'eruvin (fusione): un portale chiudeva la porta comune di più case vicine, cosicché ciascuna fosse considerata come parte di uno spazio unico; i pasti comuni diventavano allora leciti! La Torà ci tramanda che i Sadducei disapprovavano formalmente questo metodo, che, secondo loro, legalizzava la trasgressione premeditata e ripetuta del sabato (Eruvin 6, 2).
L'esempio dell'eruvin mostra che, al tempo di Gesù, era aperto un dibattito sul quarto comandamento. Non tutti i gruppi sostenevano lo stesso rigore. Gesù, a sua volta, propone la sua chiave d'interpretazione. Allora, perché ha suscitato scandalo? Si capisce così che la sua pratica più liberale non ha colpito che i più rigidi, o quelli più pii di lui. Ma, soprattutto, a differenza dei Farisei, l'uomo di Nazaret non regolamenta nulla. Egli afferma un dato di fatto: il sabato deve servire alla vita, prima di tutto. Ecco perché sceglie espressamente il sabato per guarire, non per eliminare la regola del riposo, ma per mostrare qual è la finalità di questo tempo che l'uomo deve «considerare come sacro».
La rivendicazione dell'uomo
Gesù ha reinterpretato il sesto comandamento [il quinto nella tradizione cattolica], quello dell'omicidio. «Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira contro il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna» (Mt 5,21-22).
L'approfondimento è impressionante: l'interdizione dettata all'individuo di farsi giustizia da solo (tale è il senso del sesto comandamento) non riguarda più soltanto la vita dell'altro, ma il suo onore. Nessuno ignora ormai che gli insulti, anche banali, portano in sé la morte. La mancanza di rispetto diventa omicidio. Dipende da ciascuno di noi, e dal suo linguaggio, che l'altro sia, o cessi di essere, un uomo.
Anche in questo caso, l'interpretazione proposta da Gesù non è inedita nel suo tempo. Si possono leggere, dalla parte dei rabbini, espressioni che testimoniano quella stessa interiorizzazione del comandamento: «Colui che odia il suo prossimo, ecco, appartiene agli omicidi» (Derek Eretz 10).
Gesù sviluppa dunque una potenzialità che non era estranea al giudaismo. Però bisogna vedere che egli procede con un radicalismo ed una profondità inediti. Gesù in realtà non codifica i casi nei quali si applica o non si applica la proibizione di attentare alla vita degli altri. Dio affida alla responsabilità di ciascuno l'umanità e la vita degli altri, senza limiti né condizioni. Qualunque idea di regolamentazione è del resto portata al ridicolo dalla proposta ironica delle sanzioni (meritare l'inferno per aver dato del pazzo a qualcuno!).
Il teologo ebreo Joseph Klausner, nella sua Vita di Gesù del 1933, rimprovererà all'uomo di Nazaret la sua intransigenza: egli l'oppone alla saggezza realistica del grande Hillel, un rabbi contemporaneo di Gesù. Klausner aveva colto bene ciò che costituisce l'originalità del suo Decalogo: Gesù vede l'uomo interamente esposto alla chiamata di Dio, interamente rivendicato dalla Legge. Tutto in lui è chiamato a rispondere. È questo il motivo per cui Gesù si scosta dal realismo di Hillel e dal realismo dei Farisei, che, attraverso una rete di precetti, procuravano al credente spazi di eccezione. L'amore per l'altro è completo, secondo Gesù, oppure non c'è per niente.
Gesù non si comporta diversamente nella questione del corban. L'evangelista Marco ci riporta questa diatriba del Maestro a proposito di questa pratica pia... e perversa (Mc 7,9-13). Essa consisteva nel fare donazione al Tempio, in altri termini a dichiarare corban, dei beni che avrebbero permesso ai figli di sovvenzionare i bisogni dei loro anziani genitori.
L'argomentazione di Gesù è interessante: «Siete veramente abili nell'eludere il comandamento di Dio, per osservare la vostra tradizione. Mosè infatti disse: Onora tuo padre e tua madre». È quindi la quinta parola del Decalogo, nella sua pura forza, che il Nazareno invoca come istanza critica e che oppone alla pia tradizione del corban. Noi ritroviamo due assiomi già intravisti nell'interpretazione di Gesù. In primo luogo, la parola del precetto è accolta senza condizioni, senza limiti, senza riparo possibile, nemmeno nascosto sotto forma di pietà. In secondo luogo, il principio che conferisce al comando la sua radicalità e demolisce ogni compromesso è l'amore del prossimo. Il bisogno dell'altro è, agli occhi di Gesù, un'urgenza assoluta. La Legge mira a condurre all'amore dell'altro, oppure non è la Legge.
Una Legge ricostituita
I Dieci comandamenti sono dunque accolti da Gesù come la raccolta della volontà santa di Dio. Egli non li contraddirà mai, ma pone le condizioni di una corretta comprensione. La sua rilettura attesta una particolare attenzione a quella che viene chiamata la seconda tavola del Decalogo (i precetti sociali) come la regola del sabato. Ma giustamente: Dio non può essere onorato nel sabato se il prossimo è lasciato nelle sue ristrettezze. Onorare Dio consiste nel prendere cura dell'altro, e questa cura può (ed anche deve) giungere al punto di rompere il riposo sabbatico. Si vede emergere il legame indissociabile che, nella lettura del decalogo, Gesù tesse tra rispetto di Dio e rispetto del prossimo. L'uno non conta senza l'altro, cosa che sarà formalizzata nel riassunto della Torà come il doppio comandamento d’amore (Mt 22,37-40). Il Decalogo diventa così la leva che permette a Gesù di sollevare tutta la Legge: ciò che non è finalizzato al bene dell'altro può cadere. Non serve che ad aumentare l'immagine che il credente si fa di se stesso. Ecco perché Gesù, senza abolirla, manifesta una regale (e sbalorditiva) indifferenza verso la Legge rituale, che codificava la salvaguardia della purezza del singolo. La vera purezza personale, avrebbe potuto dire, è l'onore reso all'altro: la formula potrebbe in ogni caso servire di conclusione al capitolo 7 del vangelo di Marco, in cui egli dibatte con i Farisei sul concetto di ciò che è puro.
Lettere di fuoco
Il solo passo dei vangeli in cui sono citate parecchie parole del Decalogo, anche se non in ordine, è l'incontro con il giovane ricco (Mc 10,17-22). All'uomo che domanda che cosa bisogna fare per guadagnare la vita eterna, Gesù cita le ultime cinque parole. Come costui afferma che le ha osservate fu dalla giovinezza, Gesù lo ama e gli dice di vendere tutti i suoi beni e darli ai poveri: «e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi». Si vede indicare qui quello che è sempre stato il fulcro delle Dieci parole: un testo che organizza la libertà e che invita a vivere nell'alleanza. Gesù indica a quest'uomo lo spazio della libertà da conquistare: i suoi beni. Gli è indicato anche il luogo per vivere l'alleanza: seguire il nuovo Mosè che ha voluto restituire alle Dieci parole il loro fuoco.
* Professore di Nuovo Testamento, Facoltà di Teologia, Università di Losanna.
(da Il mondo della Bibbia, n. 51)