Vita nello Spirito

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Giovedì, 11 Novembre 2004 22:58

Amarsi l'un l'altro è dimorare in Dio Amore (Don Giacomino Piana)

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AMARSI L’UN L’ALTRO È DIMORARE IN DIO-AMORE

Esegesi di 1 Gv 4,7-21

· Il comandamento nuovo di Gesù · Il volersi bene come fratelli rende ancora presente in noi il Maestro · L’amore infatti viene da Dio che è amore · · E questo Dio-amore dimora in noi e scaccia la paura · L’amore diventa così la "vocazione" che racchiude tutte le vocazioni (Teresa di Lisieux).

Il comandamento nuovo di Gesù · Il volersi bene come fratelli rende ancora presente in noi il Maestro · L’amore infatti viene da Dio che è amore · · E questo Dio-amore dimora in noi e scaccia la paura · L’amore diventa così la "vocazione" che racchiude tutte le vocazioni (Teresa di Lisieux).

Prima parte

All'inizio del discorso di addio nell'ultima cena, Gesù lascia ai suoi discepoli, quasi come disposizione testamentaria, il comandamento "nuovo": "Vogliatevi bene gli uni gli altri; come io vi ho amato, così anche voi dovete amarvi a vicenda". E aggiunge: "Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri" (Gv 13,34 ss). Queste parole seguono immediatamente e perciò sono strettamente collegate con l'annuncio che Gesù fa della sua prossima e dolorosa separazione: "Figlioli (notare l'affettuoso "tèknìa"), ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete... ma dove vado io voi non potete venire" (Gv 13,33). In altre parole: "Quando io non sarò più fisicamente con voi, il volervi bene come fratelli mi renderà presente tra voi". Nel Vangelo di Matteo lo stesso pensiero chiude il discorso di Gesù alla comunità dei fratelli: "In verità vi dico: se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la accorderà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro" (Mt 18, 19ss) Mi è sembrato utile partire da qui, perchè il brano di Gv 4,7-21 su cui proponiamo di meditare, può essere considerato come una lunga e profondissima riflessione sul "comandamento nuovo" lasciato da Gesù come suo testamento. Il Brown, nel suo ampio e preciso commento di questo brano, propone questa divisione e questi titoli:

  1. L'amore (agàpe) è dal Dio che è amore (agàpe): 1 Gv 4, 7-10 .
  2. Il Dio di amore dimora in noi: 4, 11-16b
  3. L’amore ha raggiunto la perfezione in noi scacciando il timore: 4, 16c-19,
  4. Amare il proprio fratello come comandato da Dio: 4, 20-21.

1.L'amore è dal Dio che è amore

Osserviamo subito che l’Autore di 1Gv si rivolge ai suoi lettori con l'appellativo "agapetòi", tradotto con "carissimi" o "diletti". Nel greco dei LXX "agapetos" viene spesso usato per tradurre l’ebraico "jâhîd" = "diletto in modo unico", "figlio prediletto" (es Isacco) o anche l’"unigenito" ed è l'aggettivo usato spesso per designare il popolo diletto di Dio, Israele. In Marco, il Padre celeste presenta così lo stesso Gesù, sia nel battesimo al Giordano, sia nella trasfigurazione. Tu sei il Figlio mio "prediletto", in te mi sono compiaciuto (Mc 1,11; cf 9,7). Paolo del resto si rivolge ai cristiani di Roma chiamandoli "Diletti di Dio, chiamati santi" (Rm 1,7) E ai "diletti" l'Autore ripropone in prima persona coinvolgendo quindi se stesso come aveva già fatto in 3,23, il comandamento: "Vogliamoci bene l’un l’altro, dal momento che l’"agàpe" è da Dio. Ognuno che ama è generato da Dio e conosce Dio". L’agàpe dunque non è un amore che abbia la sua origine dal cuore umano, "ma è un amore spontaneo, immediato, creativo, che scende da Dio nel cuore del cristiano e dal cristiano passa, sempre attraverso l’azione di Dio, ad un altro cristiano". E’, cioè, dono di grazia, è il carisma a cui Paolo invita ad aspirare come al più grande dei carismi e che ci indica come "via migliore di tutti" (I Cor 12,31; 13,13).

In 3,1 l'Autore di 1 Gv aveva esclamato: "Quale grande amore (agàpe) ci ha donato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!". Qui ci dice che i figli di Dio fanno vedere, manifestano di essere veramente tali proprio nell'amore. E’ amandosi che i cristiani scoprono di avere in comune la natura di figli di Dio. Ed è amando che i figli arrivano a "conoscere" il Padre.

Il v.8 riprende al negativo, nel caratteristico stile semitico del parallelismo antitetico, lo stesso concetto, ricalcandolo: "Chi non ama non ha conosciuto Dio" e conclude con la grande affermazione: "Perché Dio è amore!".

Viene spontaneo ripensare alle altre affermazioni giovannee, sia del Vangelo che delle Lettere: "Dio è Spirito" (Gv 4,24); "Dio è luce" (1Gv 1,5 ) e a quelle che, in prima persona, Gesù proclama solennemente con i ripetuti "io sono" (Egô eimi = YHVH): "Io sono la luce del mondo" (Gv 8,12); "il pane di vita" (Gv 6,48), "la risurrezione e la vita" (Gv 11,25); "la via, la verità e la vita" (Gv 14,6). ecc.

S. Agostino, commentando questa definizione di Dio, esclama: "Se niente altro a lode dell'amore fosse stato scritto nella lettera, o meglio nel resto della S. Scrittura, e noi avessimo udito dalla bocca dello Spirito di Dio solo questa asserzione: "Dio è amore", non dovremmo cercare niente altro".

"E l'amore di Dio si è manifestato a noi da questo: che Dio ha mandato il suo Figlio "unico" nel mondo, perché noi avessimo la vita per mezzo di Lui" (v. 9). Qui, tenendo presente Gv 3,16, possiamo parafrasare: "da questo siamo venuti a conoscere che cosa significhi l' "agàpe" di Dio: per noi Cristo diede la sua vita". In altre parole ci viene rivelato che Dio ha un solo Figlio "prediletto", che è disposto a offrirlo in sacrificio fino alla morte ed è disposto a fare questo per noi, per la remissione dei nostri peccati e perché possiamo avere la vita in Lui.

E conclude questa prima parte: "In questo consiste l'amore: non è che siamo noi che abbiamo amato Dio, ma è Lui che amò noi e mandò il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati" (v.10). L'amore dunque è da Dio: non sono io che ho scelto per primo di amare Lui (cf Gv 15,16), ma è Lui che ha scelto me da amare. Sono venuto all'esistenza per una sua scelta, perché mi ha voluto bene. Esisto, perché Lui continua a volermi bene, mi fa oggetto continuo del suo amore. Accogliendomi come "dono suo per me", accolgo il dono supremo che Egli mi fa: il suo Figlio "prediletto", che si offre in sacrificio per i miei peccati, per darmi la vita eterna. Accogliendo l'altro (fratello, sorella, fidanzato/a, sposo/a, amico/a, ecc) come "dono di Dio per me", e donandomi all'altro come "dono di Dio per lui", entro in questo vortice dell'amore di Dio.

Amare è perciò anzitutto accogliere; "lasciarsi amare" da Lui, prendere coscienza che Lui mi vuole bene, è entrare nella sua pace e riposare nell'amore. Ma è anche capire che l'altro, quello che io incontro (tutti, ma in modo particolarissimo il compagno o la compagna dalla mia vita - fidanzato/a, sposo/a), è stato pensato da Lui per me. Non sono in fondo io che l'ho scelto, è Lui che me lo ha fatto incontrare e me lo "dona" ogni giorno, ogni istante. Scoprire l'altro come "il dono di Dio per me", mi aiuta a scoprire Dio in lui, un Dio che diventa "Dio per me", un Dio Padre che, attraverso l’altro, mi dona il suo Figlio. Prendere coscienza di queste verità, proporcele come norma di vita, esercitarci ogni giorno a realizzarle nel quotidiano: è questa la strada o il cammino per educarci all’amore.

 

Seconda parte

2. Dio che è amore dimora in noi (cf 1Gv 4,11-16)

La Lettera riprende: "Carissimi, se Dio ha voluto bene a noi così, bisogna che noi a nostra volta ci vogliamo bene l'un l'altro. Nessuno ha mai visto Dio. Tuttavia se ci vogliamo bene l'un l'altro, Dio dimora in noi e il suo amore ha raggiunto in noi la perfezione" (vv. 11-12). Qui troviamo la conseguenza già intravista in quanto detto sopra: il comando di volerci bene l'un l'altro è la logica conseguenza dell'amore che Dio ha per noi. Nel IV° Vangelo Gesù dice: "Voi dimorate nel mio amore, se osserverete i miei comandamenti, proprio come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e dimoro nel suo amore... Questo è il mio comandamento: "vogliatevi bene l'un l'altro"" (Gv 15,10.12). Se Dio è amore, là dove egli è deve esserci amore. Noi non abbiamo mai visto Dio: tuttavia il volerci bene tra noi fa si che Dio dimori in noi. L'amore che ci doniamo e che accogliamo l'un l'altro è il segno-sacramento dell’amore che il Padre ci dimostra mandando il suo Figlio a morire per noi. È questo amarci l’un l’altro come membri vivi dei Corpo di Cristo, che realizza la nostra "comunione" (Koinonìa) con Lui e la presenza di Lui in noi: "Come il Padre ha amato me, così anche io ho amato voi: rimanete nel mio amore" (Gv 15,9)

La Lettera continua: "Da questo possiamo conoscere che dimoriamo in Dio ed Egli dimora in noi, perché ci ha fatto dono del suo stesso Spirito" (v.13). S. Paolo trova appunto nel dono dello Spirito Santo e nella sua presenza attiva in noi la ragione per cui, con il suo aiuto, possiamo gloriarci persino nella tribolazione, perché, dice, "questa produce pazienza, la pazienza (produce) una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l'amore (agàpe) di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato" (Rm 3,3-5). È la promessa fatta da Gesù nel suo discorso di addio che si realizza: "Io pregherò il Padre ed Egli vi darà un altro "Consolatore", perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità… che voi conoscete perché dimora presso di voi e sarà in voi... Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama. Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anche io lo amerò... e noi (il Padre ed io) verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui" (Gv 14,16-23). "Con Gesù che si apre così intimamente ai discepoli, anche il Padre viene a loro; essi verranno immersi nella comunione di vita e di amore con Dio. Le parole di Gesù circa le "molte dimore nella casa del Padre" (Gv 14,2) si adempiono già ora: Gesù e il Padre dimoreranno presso quel discepolo". Ne. consegue che in ogni rapporto di persona a persona, ma in modo unico irripetibile nel rapporto tra fidanzati o soprattutto tra sposi, quando c'è amore (agàpe), è Lui che incontriamo, è Lui che in definitiva "dà pienezza, porta a compimento" il nostro amore.

Tutti abbiamo fatto l'esperienza che quanto più amiamo una persona, tanto più troviamo inadeguati a esprimere quello che sentiamo dentro, i segni, i gesti con cui tentiamo di esprimere il nostro amore. C'è in noi qualcosa di infinito, dobbiamo "dirlo" con gesti così finiti! Per questo ci son sempre tante nostalgie, c'è sempre il senso della nostra finitudine, del "fino a quando?".

E’ Lui che mi garantisce che il mio amore per te entra nell'eterno, perché è Lui che lo salva dal tempo. È per Lui che, quando ti dico che "ti voglio un bene infinito e per sempre" sono "vero", perché, sì, ti dico qualcosa che sento profondamente vero, ma come può la mia finitudine garantirti l'infinito e il "per sempre"? È ancora Lui, il Salvatore, che mi dona giorno dopo giorno la grazia del "per sempre". Ecco perché il mio amore per te entra nell'eterno…!

 

Terza parte

3. L'amore ha raggiunto in noi la perfezione, scacciando il timore (1Gv 4,16-19)

Se il cristiano "dimora nell’amore, dimora in Dio e Dio dimora in lui, perché Dio è amore" e l'amore raggiunge la perfezione nel fatto che, vicendevolmente, Dio dimora in colui che ama e colui che ama dimora in Dio. Ne consegue, aggiunge la Lettera, che possiamo aver fiducia nel giorno del giudizio, perché già in questo mondo siamo come Lui, il Cristo, cioè abbiamo già in questa vita una somiglianza con Lui, perché siamo in mutua comunione col Cristo, e in Cristo col Padre. E allora, perché aver paura? L'amore non lascia spazio alla paura, anzi, l’amore perfetto scaccia il timore (v. 18); per cui, sembra dirci S. Giovanni: "Rifletti bene su te stesso: se sei ancora timoroso, è segno che il tuo amore non ha ancora raggiunto la perfezione". "Quanto a noi, ripete, noi amiamo perché Egli ci ha amati per primo" (v. 19).

4.Amare il proprio fratello come comandato da Dio (1Gv 4,20-21)

I vv. 21-22 che chiudono il capitolo, richiamano quanto l'Autore aveva già detto in 3.16-17: "Da questo abbiamo conosciuto l'amore: Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli. Ma se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello nella necessità gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l'amore di Dio?". Qui precisa: l’amore - agàpe - che viene da Dio, si deve esprimere nell'amore del fratello: "Chi infatti non ama il fratello che vede, non può amare Dio che non vede" (4,21). In altre parole, "l’amore per Dio e l'amore per il fratello sono due aspetti dello stesso amore, cosicché, quando è assente l'uno è assente anche l’altro… E la ragione è che il proprio fratello è un figlio del Dio, dal quale viene l’amore, e Dio Padre esprime l'interesse per i suoi figli attraverso l'amore che ciascun figlio ha per l'altro".

Se riflettiamo bene, siamo nella logica del giudizio finale di Mt 25,31-46: " ...In verità vi dico: ogni volta che avete fatto (o non avete fatto) queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, lo avete fatto (non l'avete fatto) a me" (Mt 25,40.45>.

Ecco perché per Teresa di Lisieux, come per noi - con tutti i nostri limiti -, scegliere l'amore-agàpe come "vocazione" è "comprendere che l'AMORE racchiude tutte le vocazioni, che l'amore è tutto, che abbraccia tutti i tempi e tutti i luoghi, in una parola che l'amore è eterno…!".

E, se al termine della nostra vita saremo giudicati sull’amore, sforziamoci, come ci esorta S. Paolo, di "Farci imitatori di Dio, quali figli carissimi, e di camminare nell'agàpe, nel modo che anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore"

(Ef 5,1-2)

DON GIACOMINO PIANA

Genova

(da "famiglia domani" 2/99)

Letto 6638 volte Ultima modifica il Giovedì, 30 Dicembre 2004 21:17

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