Il documento qui riprodotto è stato elaborato da: Paolo Branca, docente di Lingua e letteratura araba nell’Università Cattolica di Milano; Stefano Allievi docente di Sociologia nell’Università di Padova; Silvio Ferrari, docente nelle Università di Milano e Lovanio; Mario Scialoja, presidente della Lega musulmana mondiale-Italia e del suo direttore, Giovanni Sarubbi. E’ caduta tradizionalmente alla chiusura del periodo di digiuno e purificazione previsto dalla religione islamica (ramadan). Per conoscere le iniziative connesse alla Giornata (oltre che accedere a numerosi articoli e documenti sui temi del dialogo cristiano-islamico) si può consultare il sito www.ildialogo.org
E’ necessaria una gestione coraggiosa e consapevole di questo processo di incontro e convivenza.
Il diritto alla differenza non può mai diventare pretesa di una differenza nei diritti e nei doveri.
La presenza di musulmani in Italia ha ormai raggiunto una tale «massa critica» da non consentire che il fenomeno sia gestito soltanto attraverso forme d’intervento estemporanee e improvvisate, com’è spesso stato finora. L’impegno di molti che si sono prodigati, sia da parte italiana sia da parte islamica, con numerose iniziative conferma le potenzialità di un tessuto sociale vivo e attivo, ma proprio per non vanificare tali energie e al fine di evitare derive che hanno interessato di recente altri Paesi europei, ci sembra indispensabile che le istituzioni e i cittadini - italiani e non - coinvolti a vario titolo nella questione trovino modalità per riflettere e agire insieme all’interno di un progetto comune ispirato a principi chiari e condivisi.
Per questo (…) riteniamo doveroso richiamare alcuni punti che ci paiono di cruciale importanza nel compito comune che ci troviamo ad affrontare. Va da sé che i musulmani condividono con immigrati di altra origine molte problematiche simili. Sarebbe pertanto indebito ritenere le considerazioni che seguiranno come pensate esclusivamente per loro, anche se il presente documento ne tratta in modo specifico: una buona legge sulla libertà religiosa, ad esempio, andrebbe incontro alle esigenze di tutte le comunità e non solamente di quella islamica. La globalizzazione in atto, contrariamente a quanto ci si poteva ingenuamente aspettare, invece che a un indebolimento delle identità (reali o immaginarie) sta conducendo piuttosto a un loro irrigidimento che non sembra cogliere sufficientemente le potenzialità positive pur presenti nell’inedito incontro di uomini e culture che si sta producendo, bensì tende a enfatizzare diffidenze e timori che inducono alla chiusura e alla contrapposizione.
Siamo consapevoli dei rischi insiti in un vacuo relativismo che potrebbe portarci a poco auspicabili confusioni e allo svilimento delle tradizioni culturali e religiose di ciascuno: ma il valore che attribuiamo alla nostra e altrui identità ci spinge a ritenere necessaria una gestione coraggiosa e consapevole di questo processo di incontro e convivenza, l’unica in grado di portare a buoni risultati nell’interesse comune. Per questa ragione pensiamo che vada scoraggiato con ogni mezzo lo spirito di sospetto e di rivalsa che in taluni - da entrambe le parti - sembra purtroppo prevalere. I punti che ci pare necessario richiamare sono:
1. Incoraggiare la collaborazione con le istituzioni a ogni livello per promuovere una reale partecipazione. dimostrando che le regole della democrazia tutelano e premiano i comportamenti migliori. A tale scopo è utile in particolare partire dal censimento e dalla valorizzazione delle molteplici esperienze in atto anche al fine di contrastare una comunicazione basata su semplici opinioni, anziché su evidenze empiriche. Interventi formativi all’interno delle pubbliche amministrazioni (scuola, sanità, carcere, personale di polizia, ecc.) sulle tematiche relative al pluralismo culturale nelle aree di loro competenza, con un taglio che privilegi la concretezza delle situazioni su considerazioni di ordine astrattamente teologico, ideologico o politologico. Il confronto con esperienze internazionali che già affrontano da tempo temi e situazioni analoghe consentirebbe di valutarne gli esiti e di ispirarsi alle pratiche (legislative e operative) più efficaci.
2. Scoraggiare con fermezza ogni forma di illegalità per evitare il formarsi di società parallele o gruppi che si percepiscano e si presentino come corpi estranei: il diritto alla differenza non può e non deve mai diventare pretesa di una differenza nei diritti e nei doveri.
3. Valorizzare le iniziative che si pongono nella prospettiva della condivisione di valori, interesso e impegno comune al servizio della collettività.
4. Dare priorità alle donne e ai giovani che, senza rinunciare alla propria specificità culturale e religiosa, dimostrano di voler sviluppare, con chi condivide i loro problemi e le loro aspirazioni, attività che favoriscono contatti, scambi e integrazione.
5. Offrire, a livello universitario, percorsi di maturazione e di formazione a quanti intendono svolgere funzioni di servizio alle comunità, specie nei ruoli di orientamento e di guida. Non si tratta ovviamente di formare i ministri del culto, ma di favorire l’emersione e il consolidamento di competenze e capacità specifiche tra coloro che già operano nei diversi gruppi, affinché la loro azione sia maggiormente adeguata alle finalità dell’integrazione e della partecipazione alla vita del Paese in cui risiedono.
6. Stimolare, specie nelle scuole, la valorizzazione degli apporti delle differenti culture del Mediterraneo alla costruzione di una comune civiltà. Laddove siano presenti numerosi alunni arabofoni, appositi corsi per la conservazione e lo sviluppo della lingua d’origine (del resto già in atto, in forma sperimentale) andrebbero diffusi e sostenuti. Tali interventi non sarebbero ad esclusivo vantaggio degli immigrati, ma contribuirebbero alla trasformazione dell’intero settore scolastico non sarebbe adeguato che alla realtà di un mondo sempre più interdipendente se restasse ancorato a forme di istruzione centrate soltanto sulla cultura locale.
7. Incoraggiare i mass media a dare spazio alle numerose esperienze di collaborazione e di condivisione tra persone di fede e di cultura diversa, evitando di diffondere e/o amplificare soltanto fatti e notizie che confermino mutui pregiudizi. Non si tratta evidentemente di occultare le problematicità, ma ancora una volta di partire dalla realtà che è più ricca delle sue rappresentazioni, mediante inchieste sul campo, lavoro di terreno empirico, informazione completa e imparziale.
8. Promuovere politiche che migliorino le condizioni di vita delle società di provenienza degli immigrati, con riferimento non soltanto alla situazione economica ma anche allo sviluppo della società civile, al rispetto dei diritti umani e alla valorizzazione del pluralismo ad ogni livello.
9. Valorizzare l’azione delle istituzioni locali, che sono a contatto diretto con le realtà di base, nel promuovere iniziative che - per la qualità degli interventi e le loro ricadute positive sul territorio - possono costituire dei modelli validi anche per analoghe situazioni, in stretto contatto con le agenzie culturali e religiose che già operano in tal senso.
10. Approfondire la conoscenza reciproca, nel mutuo rispetto pur senza rinunciare allo spirito critico e autocritico, non solamente con sporadiche iniziative informative, ma attraverso il lavoro permanente e sistematico di gruppi che affrontino insieme tematiche specifiche di comune interesse. Ciò favorirebbe inoltre lo sviluppo di prospettive professionali che facciano tesoro delle competenze e delle capacità di chi si distingue nel lavoro interculturale.
(da Popoli, ottobre 2006)
di Samir Khalil Samir
Il dialogo con l’islam richiede amore sincero. Non gesti ambigui.
Subito dopo Natale è scoppiata una polemica a Cordoba, orchestrata dalla stampa internazionale: il vescovo Juan José Asenjo Pelegrina ha osato rigettare la richiesta della Giunta islamica di Spagna presieduta dal convertito Mansur Escudero, che chiedeva che i musulmani potessero pregare nella cattedrale. Il motivo è che otto secoli fa la cattedrale era una moschea, senza ricordare che tredici secoli fa era una basilica. Il vescovo ha spiegato che una cosa simile avrebbe «generato confusione tra i fedeli» e «non contribuirà a una coabitazione pacifica tra i credenti». «Noi, cristiani di Cordoba, desideriamo vivere in pace con i credenti di altre religioni, ma non vogliamo essere sottomessi a pressioni continue che non contribuiscono alla concordia». Allora Mansur ha steso il tappeto davanti alla cattedrale e vi ha pregato.
Poco prima, i musulmani di Colonia avevano chiesto di poter pregare nel famoso duomo della città, e il cardinale Joachim Meisner vi si era opposto. A novembre, lo stesso porporato aveva vietato ai professori di religione cattolica della diocesi di organizzare preghiere interreligiose, perché i bambini non erano in grado di fare le dovute distinzioni. È stato vivamente criticato da politici e insegnanti. A quando il prossimo scandalo europeo?
Nonostante questi casi, a me sembra che il dialogo con l’islam stia entrando in una fase più autentica. Questi due rifiuti si capiscono. Negli anni Settanta-Ottanta si è un po’ diffusa la pratica di prestare ai musulmani - non senza ambiguità - luoghi di culto cristiani, ma già il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, l’aveva vietato nella sua diocesi. Oggi tutte le città europee in cui ci sono musulmani hanno una moschea, e dunque questa pretesa non si capisce più. Un conto è pregare insieme in un’aula, su testi non sacri, un conto è farlo in una cattedrale.
Ma il Papa, si dirà, ha pregato con il gran muftì d’Istanbul nella moschea blu, il 30 novembre scorso. È stato un gesto bellissimo, spontaneo, su proposta dello stesso Mustafa Cagrici: ambedue si sono raccolti in preghiera per un minuto, orientati verso la Kaaba, e il Santo Padre ha adottato l’atteggiamento del muftì. Personalmente, quando mi succede di entrare in una moschea, la prima cosa che faccio è di pregare per i musulmani, affinché Dio li sostenga e li colmi di benedizioni. Dopo tutto, una moschea è un luogo dal quale salgono milioni di preghiere verso il Padre di tutta l’umanità.
Una cosa è un gesto personale e puntuale, un’altra è un atto collettivo e organizzato. E se, per qualche motivo legittimo, un altro vescovo decidesse di far cessare questa pratica, come ci riuscirebbe senza suscitare ancora più veleno? Nel 1974 Saddam Hussein, allora vicepresidente del Consiglio della Rivoluzione, in visita a Cordoba, pregò nella cattedrale: non fu un precedente, ma un’eccezione. Che i musulmani, entrati in un luogo cristiano, preghino discretamente e silenziosamente, è bello. Ma se si mettessero a compiere la salât, cioè la preghiera rituale musulmana, sarebbe irriverente. Lo stesso andrebbe detto se io celebrassi la nostra salât, cioè la Messa, in una moschea: sarebbe una provocazione!
Il dialogo richiede discernimento. Ogni gesto ambiguo porta più danno che beneficio, anche se l’intento è buono. Il dialogo richiede amore sincero. Il musulmano è mio fratello. L’islam può essere un progetto sociologico, culturale, politico o militare, oppure spirituale e religioso; ma il musulmano non è un progetto, è un uomo come me, che va rispettato nella sua dignità di persona e di credente, e amato con lo stesso amore che nutro verso il cristiano. Amore e verità, affetto e discernimento sono inseparabili e ci permettono di basare il dialogo interpersonale su fondamenta solide. Trattandosi di musulmani, il fondamento è Dio stesso. Anche per questo il vero dialogo non può fare a meno dell’annuncio del Vangelo, come d’altronde il musulmano sincero e pio che mi vuol bene mi annuncia Dio come l’intende lui. Lungi dall’essere un’aggressione, l’annuncio è amore servizievole. Noi cristiani ci sentiamo solidali con tutti coloro che, proprio in base alla loro convinzione religiosa di musulmani, s’impegnano contro la violenza e per la sinergia tra fede e ragione, tra religione e libertà. In questo senso, i dialoghi di cui ho parlato si compenetrano a vicenda.
(da Mondo e Missione, Febbraio 2007)
Il documento qui riprodotto è stato elaborato da: Paolo Branca, docente di Lingua e letteratura araba nell’Università Cattolica di Milano; Stefano Allievi docente di Sociologia nell’Università di Padova; Silvio Ferrari, docente nelle Università di Milano e Lovanio; Mario Scialoja, presidente della Lega musulmana mondiale-Italia.
La Giornata del dialogo cristiano-islamico si è tenuto il 20 ottobre e giunge quest’anno alla quinta edizione. E’ nata in particolare su iniziativa del periodico Il dialogo e del suo direttore, Giovanni Sarubbi. E’ caduta tradizionalmente alla chiusura del periodo di digiuno e purificazione previsto dalla religione islamica (ramadan). Per conoscere le iniziative connesse alla Giornata (oltre che accedere a numerosi articoli e documenti sui temi del dialogo cristiano-islamico) si può consultare il sito www.ildialogo.org.LE «TAVOLE DEL DIALOGO»
In occasione della Quinta giornata del dialogo cristiano-islamico (20 ottobre 2006), pubblichiamo un documento che ha ricevuto l’adesione di numerose persone singole, associazioni, enti, riviste (tra le quali Popoli).
L’idea è quella di un decalogo di cose possibili da fare, sulla via del dialogo con l’islam,
per costruire un‘etica comune.
E’ necessaria una gestione coraggiosa e consapevole di questo processo di incontro e convivenza.
Il diritto alla differenza non può mai diventare pretesa di una differenza nei diritti e nei doveri.
La presenza di musulmani in Italia ha ormai raggiunto una tale «massa critica» da non consentire che il fenomeno sia gestito soltanto attraverso forme d’intervento estemporanee e improvvisate, com’è spesso stato finora. L’impegno di molti che si sono prodigati, sia da parte italiana sia da parte islamica, con numerose iniziative conferma le potenzialità di un tessuto sociale vivo e attivo, ma proprio per non vanificare tali energie e al fine di evitare derive che hanno interessato di recente altri Paesi europei, ci sembra indispensabile che le istituzioni e i cittadini - italiani e non - coinvolti a vario titolo nella questione trovino modalità per riflettere e agire insieme all’interno di un progetto comune ispirato a principi chiari e condivisi.
Per questo (…) riteniamo doveroso richiamare alcuni punti che ci paiono di cruciale importanza nel compito comune che ci troviamo ad affrontare. Va da sé che i musulmani condividono con immigrati di altra origine molte problematiche simili. Sarebbe pertanto indebito ritenere le considerazioni che seguiranno come pensate esclusivamente per loro, anche se il presente documento ne tratta in modo specifico: una buona legge sulla libertà religiosa, ad esempio, andrebbe incontro alle esigenze di tutte le comunità e non solamente di quella islamica. La globalizzazione in atto, contrariamente a quanto ci si poteva ingenuamente aspettare, invece che a un indebolimento delle identità (reali o immaginarie) sta conducendo piuttosto a un loro irrigidimento che non sembra cogliere sufficientemente le potenzialità positive pur presenti nell’inedito incontro di uomini e culture che si sta producendo, bensì tende a enfatizzare diffidenze e timori che inducono alla chiusura e alla contrapposizione.
Siamo consapevoli dei rischi insiti in un vacuo relativismo che potrebbe portarci a poco auspicabili confusioni e allo svilimento delle tradizioni culturali e religiose di ciascuno: ma il valore che attribuiamo alla nostra e altrui identità ci spinge a ritenere necessaria una gestione coraggiosa e consapevole di questo processo di incontro e convivenza, l’unica in grado di portare a buoni risultati nell’interesse comune. Per questa ragione pensiamo che vada scoraggiato con ogni mezzo lo spirito di sospetto e di rivalsa che in taluni - da entrambe le parti - sembra purtroppo prevalere. I punti che ci pare necessario richiamare sono:
1. Incoraggiare la collaborazione con le istituzioni a ogni livello per promuovere una reale partecipazione. dimostrando che le regole della democrazia tutelano e premiano i comportamenti migliori. A tale scopo è utile in particolare partire dal censimento e dalla valorizzazione delle molteplici esperienze in atto anche al fine di contrastare una comunicazione basata su semplici opinioni, anziché su evidenze empiriche. Interventi formativi all’interno delle pubbliche amministrazioni (scuola, sanità, carcere, personale di polizia, ecc.) sulle tematiche relative al pluralismo culturale nelle aree di loro competenza, con un taglio che privilegi la concretezza delle situazioni su considerazioni di ordine astrattamente teologico, ideologico o politologico. Il confronto con esperienze internazionali che già affrontano da tempo temi e situazioni analoghe consentirebbe di valutarne gli esiti e di ispirarsi alle pratiche (legislative e operative) più efficaci.
2. Scoraggiare con fermezza ogni forma di illegalità per evitare il formarsi di società parallele o gruppi che si percepiscano e si presentino come corpi estranei: il diritto alla differenza non può e non deve mai diventare pretesa di una differenza nei diritti e nei doveri.
3. Valorizzare le iniziative che si pongono nella prospettiva della condivisione di valori, interesso e impegno comune al servizio della collettività.
4. 4 Dare priorità alle donne e ai giovani che, senza rinunciare alla propria specificità culturale e religiosa, dimostrano di voler sviluppare, con chi condivide i loro problemi e le loro aspirazioni, attività che favoriscono contatti, scambi e integrazione.
5. Offrire, a livello universitario, percorsi di maturazione e di formazione a quanti intendono svolgere funzioni di servizio alle comunità, specie nei ruoli di orientamento e di guida. Non si tratta ovviamente di formare i ministri del culto, ma di favorire l’emersione e il consolidamento di competenze e capacità specifiche tra coloro che già operano nei diversi gruppi, affinché la loro azione sia maggiormente adeguata alle finalità dell’integrazione e della partecipazione alla vita del Paese in cui risiedono.
6. Stimolare, specie nelle scuole, la valorizzazione degli apporti delle differenti culture del Mediterraneo alla costruzione di una comune civiltà. Laddove siano presenti numerosi alunni arabofoni, appositi corsi per la conservazione e lo sviluppo della lingua d’origine (del resto già in atto, in forma sperimentale) andrebbero diffusi e sostenuti. Tali interventi non sarebbero ad esclusivo vantaggio degli immigrati, ma contribuirebbero alla trasformazione dell’intero settore scolastico non sarebbe adeguato che alla realtà di un mondo sempre più interdipendente se restasse ancorato a forme di istruzione centrate soltanto sulla cultura locale.
7. Incoraggiare i mass media a dare spazio alle numerose esperienze di collaborazione e di condivisione tra persone di fede e di cultura diversa, evitando di diffondere e/o amplificare soltanto fatti e notizie che confermino mutui pregiudizi. Non si tratta evidentemente di occultare le problematicità, ma ancora una volta di partire dalla realtà che è più ricca delle sue rappresentazioni, mediante inchieste sul campo, lavoro di terreno empirico, informazione completa e imparziale.
8. Promuovere politiche che migliorino le condizioni di vita delle società di provenienza degli immigrati, con riferimento non soltanto alla situazione economica ma anche allo sviluppo della società civile, al rispetto dei diritti umani e alla valorizzazione del pluralismo ad ogni livello.
9. Valorizzare l’azione delle istituzioni locali, che sono a contatto diretto con le realtà di base, nel promuovere iniziative che - per la qualità degli interventi e le loro ricadute positive sul territorio - possono costituire dei modelli validi anche per analoghe situazioni, in stretto contatto con le agenzie culturali e religiose che già operano in tal senso.
10. Approfondire la conoscenza reciproca, nel mutuo rispetto pur senza rinunciare allo spirito critico e autocritico, non solamente con sporadiche iniziative informative, ma attraverso il lavoro permanente e sistematico di gruppi che affrontino insieme tematiche specifiche di comune interesse. Ciò favorirebbe inoltre lo sviluppo di prospettive professionali che facciano tesoro delle competenze e delle capacità di chi si distingue nel lavoro interculturale.
(da Popoli, ottobre 2006)
Giornata ecumenica del dialogo cristianoislamico
Un decalogo per il dialogo
di Brunetto Salvarani
Tre indicazioni - 2° ottobre 2006, ultimo venerdì di Ramadam 1427, quinta giornata ecumenica del dialogo cristianoislamico - per un unico giorno del calendario. Esemplari, per cogliere la lettura plurale con cui il processo di moltiplicazione di sguardi religiosi con cui, anche nel nostro paese, si legge la realtà: ma anche per evidenziare il bisogno di più dialogo (e non di meno dialogo, come strillano di regola le gazzette che contano) per affrontare con speranze di successo la sempre più difficile situazione in atto. Semmai. di un dialogo più qualificato, consapevole e popolare, su cui le chiese cristiane italiane - così come le comunità musulmane - investano e in cui credano, come l’unico linguaggio credibile per dire Dio nell’oggi della storia.
E’ una volta di più, la linea del Vaticano II con la dichiarazione Nostra aetate, della pedagogia dei gesti così cara a Giovanni Paolo II, della Charta oecumenica stilata nel 2001 a Strasburgo, ma anche delle prime dichiarazioni di Benedetto XVI, non appena eletto al soglio di Pietro lo scorso anno, e ancora alle comunità islamiche di Colonia, ai margini della Giornata mondiale della gioventù, la scorsa estate. Poi, venne Ratisbona, con i ben noti fraintendimenti più o meno cercati, su cui ormai è già stato detto tutto. In ogni caso, segnale vistoso della complessità estrema delle relazioni interreligiose, in una stagione di identità troppo spesso esibite, urlate e violente; nonché, una volta di più, cercando di volgere in positivo la cosa, occasione di purificazione per un colloquio (quello cristianoislamico, in particolare) che è ancora bambino e troppo influenzato dal surriscaldatissimo clima planetario.
La convivenza come “sfida”
In tale contesto, appare quasi miracoloso che l’esperienza della Giornata ecumenica del dialogo, nata all’indomani dell’11 settembre 2001 con un appello firmato da un gruppo qualificato di cristiane e cristiani di diverse confessioni e impostasi con la forza del passaparola, senza finanziamenti e senza amplificazioni mediatiche, sia giunta al termine del suo primo lustro in buona salute.(1) Tra le molte manifestazioni previste un po’ in tutta Italia, cito almeno quella di Roma, che si svolgerà presso la grande moschea e culminerà in una tavola rotonda dal titolo La sfida della convivenza e il dialogo tra le fedi. Vi parteciperanno Abdellah Redouane, segretario del Centro islamico culturale d’Italia, il vescovo Vincenzo Paglia, presidente della Commissione Cei per l’ecumenismo e il dialogo, la pastora Maria Bonafede, moderatore della Tavola valdese. mons. Piero Coda, presidente dei teologi italiani, Paolo Naso, direttore della rivista Confronti. e il ministro per la solidarietà sociale, On. Paolo Ferrero.
Se la Giornata ecumenica ha saputo attraversare indenne questi anni complicati e faticosi, e questi ultimi mesi addirittura affannati, densi di slogan beceri e di contrapposizioni frontali, è perché, in fondo, al dialogo non esiste alternativa. Il problema, piuttosto, riguarda, da un lato, la sua praticabilità, in un contesto di reiterate e penose strumentalizzazioni, di ascolto reciproco sostanzialmente nullo e di reciproche scomuniche quotidiane; e, dall’altro, i suoi contenuti, quelli di una parola che rischia il depotenziamento a causa del suo abuso e della sua banalizzazione.
Ecco allora che, opportunamente, il comitato organizzatore, di anno in anno allargatosi fino a comprendere molte riviste e associazioni oltre ai singoli che lanciarono il primo appello, propone stavolta, quale motto, Un decalogo per il dialogo, con l’obiettivo di riempire di contenuti concreti tale cammino, recuperando e facendo proprio il lavoro prezioso di un gruppetto di specialisti impegnati in prima persona, il sociologo Stefano Allievi, il linguista Paolo Branca, il giurista Silvio Ferrari e Mario Scialoja, presidente per l’Italia della Lega musulmana mondiale. (2)
La loro riflessione prende le mosse dalla constatazione secondo cui la presenza di musulmani nella nostra penisola ha ormai raggiunto una tale mossa critica da non consentire che il fenomeno sia gestito soltanto attraverso forme d’intervento estemporanee e improvvisate, com’è spesso stato finora. L’impegno di molti che si sono prodigati, da una parte e dall’altra, con numerose iniziative, conferma le potenzialità di un tessuto sociale vivo e attivo ma, proprio per non vanificare tali energie e al fine di evitare derive che hanno interessato di recente altri paesi europei, appare indispensabile che le istituzioni e i cittadini italiani e non, coinvolti a vario titolo nella questione, trovino modalità per riflettere e agire insieme all’interno di un progetto comune ispirato a principi chiari e condivisi.
La dimensione politica del dialogo
Per questo, mentre il nostro paese vive un decisivo momento di riformulazione degli equilibri politici e delle sue prospettive di riforma, il documento motiva il richiamo ad alcuni punti che sembrerebbero di cruciale rilevanza nel compito comune che ci troviamo ad affrontare. Va da sé che i musulmani condividono con immigrati di altra origine molte problematiche simili. Sarebbe pertanto indebito ritenere le considerazioni tracciate come pensate esclusivamente per loro, anche se il testo ne tratta in modo specifico: una buona legge sulla libertà religiosa, ad esempio, andrebbe incontro alle esigenze di tutte le comunità e non solamente di quella islamica.
La globalizzazione in atto, contrariamente a quanto ci si poteva ingenuamente aspettare, invece che ad un indebolimento delle identità (reali o immaginarie) sta conducendo piuttosto ad un loro irrigidimento che non sembra cogliere sufficientemente le potenzialità positive pur presenti nell’inedito incontro di uomini e culture che si sta producendo, bensì tende ad enfatizzare diffidenze e timori che inducono alla chiusura e alla contrapposizione.
I quattro si dicono consapevoli dei rischi insiti in un vacuo relativismo che potrebbe portarci a poco auspicabili confusioni e allo svilimento delle tradizioni culturali e religiose di ciascuno: ma il valore che attribuiamo alla nostra e altrui identità li spinge a ritenere necessaria una gestione coraggiosa e consapevole di questo processo di incontro e convivenza, l’unica in grado di portare a buoni risultati nell’interesse comune:
Per entrare più nel dettaglio, riprendiamo un paio di punti del decalogo, a partire dal primo, il più esteso e quello, per certi versi, maggiormente strategico, secondo il quale occorrerebbe incoraggiare la collaborazione con le istituzioni ad ogni livello per promuovere una reale partecipazione, dimostrando che le regole della democrazia tutelano e premiano i comportamenti migliori. A tale scopo sarebbe utile, in particolare, partire dal censimento e dalla valorizzazione delle molteplici esperienze in atto, anche al fine di contrastare una comunicazione basata su semplici opinioni, anziché su evidenze empiriche; e promuovere interventi formativi all’interno delle pubbliche amministrazioni (scuola, sanità, carcere, personale di polizia...) sulle tematiche relative al pluralismo culturale nelle aree di loro competenza, con un taglio che privilegi la concretezza delle situazioni su considerazioni di ordine astrattamente teologico, ideologico o politologico. Il confronto con esperienze internazionali che già affrontano da tempo temi e situazioni analoghe consentirebbe di valutarne gli esiti e di ispirarsi alle pratiche (legislative e operative) più efficaci.
Importante è altresì il punto sette in cui s’incoraggiano i mass media a dare spazio alle numerose esperienze di collaborazione e di condivisione tra persone di fede e di cultura diversa, evitando di diffondere e/o amplificare soltanto fatti e notizie che confermino mutui pregiudizi. Non si tratta evidentemente di occultare le problematicità, ma ancora una volta di partire dalla realtà che è più ricca delle sue rappresentazioni, mediante inchieste sul campo, lavoro di terreno empirico, informazione completa imparziale. Gli esempi delle ultime settimane, ancora una volta, esprimono la centralità di un simile assunto.
La novità più evidente riguarda la dimensione politica del dialogo che non può più restare confinato nelle spesso anguste formulazioni del religioso. Anzi. Questo è il messaggio di fondo, ineludibile: per lavorare nel dialogo con la prospettiva di un confronto sincero quanto fruttuoso, dovremo sempre più usare parole laiche e stili di comportamento laici. Laici e, beninteso, piaccia o no, politici.
Non è lo scontro tra bene e male
Va infatti sottolineato come, attualmente, il dialogo si riveli sovente più aspirazione che realtà: e sarà perciò, per ora, più onesto limitarsi a parlare di incontri interreligiosi, o, più in generale, di rapporti interreligiosi, o ancora, come fa la teologia più avvertita, di scambi o conversazioni tra religioni. Del resto, in più di un documento vaticano - fra cui la stessa Nostra aetate e l’enciclica Ecclesiam suam di Paolo VI - il termine dialogo traduce il latino colloquium, evocarne una versione maggiormente dimessa e quotidiana: è la dimensione dialogica che si manifesta nelle relazioni sociali tra credenti di differente appartenenza. Infatti, accade spesso, oggi, che la fondante dimensione dialogica sia quella personale, privata, concreta, come quella di fatto sperimentata da quanti hanno a che fare, direttamente e non superficialmente, con immigrati di religioni altre. ad
(da Settimana, 15 ottobre 2006)
Dialogo Islamo-Cristiano
di Halim Noujaim
Direttore della scuola Terra Sancta College - Nazareth
Introduzione
Molti sono i pareri contraddittori riguardo al dialogo islamo-cristiano.
Molte le posizioni contraddittorie riguardo allo stesso argomento. Difficilmente possiamo trovare su questo argomento una posizione equa e stabile.
In questa mia esposizione cercherò di prendere una posizione media, fin tanto è possibile, riguardo alla serietà del dialogo e della sua necessità in una società come quella della Terra Santa.
Noi francescani e specialmente noi che operiamo in Terra Santa, non possiamo ignorare questo argomento, perché è punto focale nella nostra spiritualità francescana di Terra Santa. Come possiamo dimenticarlo, quando l’Assisiate fu tra i pionieri del dialogo tra cristiani e musulmani! Inoltre molte nostre istituzioni sociali e religiose vivono questa realtà quotidianamente!
Se osserviamo la storia cristiana in Terra Santa, troviamo che i cristiani di queste regioni hanno vissuto e vivono tuttora in condizioni molto difficili, mettendo in pratica la parola del Signore: "come hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi" perché "il discepolo non è più grande del maestro".
Dopo l’islamizzazione di queste regioni, in Terra Santa si ebbero tre religioni monoteiste: Ebraismo, Cristianesimo e Islam. Di conseguenza l’autorità civile, lungo i secoli, apparteneva ad una o all’altra religione. Molte volte le "religioni" si sono fronteggiate con guerre dure e sanguinose. Conflitti e guerre per la sopravvivenza.
Ora tocca a noi capire che il nostro destino è di vivere insieme, prendendo lezioni dal passato, lontano e vicino, e accettare di formare una società multi religiosa, basata sulla uguaglianza, e sulla giustizia.
Il dialogo tra le tre religioni è così una esigenza irrinunciabile della Terra Santa.
Cristianesimo:
Nel cristianesimo troviamo l’invito all’apertura a tutti i popoli. Questo invito già lo troviamo nell’Antico Testamento specialmente quando dichiara che la Salvezza si estende a tutti i popoli e non solo agli israeliti.
Cristo Signore, nonostante che nel Vangelo affermi che è stato inviato per i figli d’Israele, lo troviamo a conversare con la samaritana, la cananea e fare miracoli a beneficio dei pagani, come il centurione. Cristo loda la fede dei pagani (Dialogo e Proclamazione, n. 21) … e invia i suoi discepoli a portare il Vangelo a tutte le genti senza distinzione tra popoli, razze e religioni.
Papa Paolo VI, dice (16) : "La religione musulmana merita la nostra ammirazione per tutto quello che c’è di vero e buono nell’adorazione di Dio", e di nuovo, nel suo discorso a Kampala, in Uganda, ha espresso il suo profondo rispetto per la fede che i musulmani hanno, ed ha auspicato la speranza che "ciò che noi possediamo in comune possa servire a unire cristiani e musulmani, sempre più strettamente, in una autentica fraternità". (17)
Questa affermazione di Paolo VI, causò scompiglio nella chiesa cattolica. Alcuni sono arrivati a pensare che la missione della Chiesa di convertire i popoli alla fede di Cristo, perché possono salvarsi, non era più necessaria, purché i credenti delle altre religioni vivessero la propria fede con coerenza.
Dopo un lungo silenzio, il Papa pubblica la "Evangelii Nuntiandi", per chiarire la posizione della Chiesa, e dire che, nonostante la presenza di alcuni elementi buoni e veri nelle altre religioni, tuttavia rimane solamente la religione di Cristo, che la Chiesa proclama, attraverso l’Evangelizzazione, ad essere l’unica religione che pone la persona umana, oggettivamente, in relazione con Dio. In altre parole la nostra religione stabilisce effettivamente un’autentica e viva relazione con Dio, che le altre religioni non sono riuscite ad avere. (18)
Attualmente la dottrina della Chiesa in questo campo dice che i cristiani non devono pensare di possedere tutta la verità, e quelli delle altre religioni non hanno nulla di vero. Piuttosto devono essere pronti a riconoscere la presenza dello Spirito nell’altro. Non possiamo porre limiti all’azione dello Spirito.
Anche se si trova qualche cosa di buono nelle altre religioni, tuttavia non si deve pensare che ogni cosa sia perfetta nelle varie tradizioni religiose del mondo. Esse hanno anche i loro lati oscuri. Possono includere riti degradanti o pratiche che sono moralmente discutibili. Questi elementi sono quindi soggetti a giudizio.
Perciò quanto di bene si trova seminato nel cuore e nella mente degli uomini o nei riti particolari e nelle culture dei popoli, non solo non deve andar perduto, ma viene sanato, elevato e perfezionato per la gloria di Dio… Papa Giovanni Paolo II dice che "il dialogo interreligioso fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa". (19)
Questo dialogo può assumere molte forme, ovunque stiano insieme persone di differenti religioni: cercare di vivere in armonia, fianco a fianco, lavorare insieme a beneficio della società, chiarire le idee sull’altro attraverso scambi formali, condividere esperienze spirituali ecc...
Sappiamo, che le relazioni fra persone di differenti religioni non sempre sono facili. Possono sorgere tensioni. Mediante il dialogo, i cristiani e gli altri sono invitati ad approfondire il loro impegno religioso, e a rispondere, con crescente sincerità, all’appello personale di Dio e al dono gratuito che egli fa di se stesso. (20)
Giovanni Paolo II, a più riprese parla chiaramente della presenza dello Spirito Santo anche nelle altre religioni. E, nell’Enciclica "Redemptor Hominis", afferma chiaramente la presenza dell’opera dello Spirito oggigiorno persino fuori del Corpo Visibile della Chiesa".(6) Questa affermazione è da intendersi nel senso che, "secondo Giovanni Paolo II, l’azione dello Spirito della verità è limitata a ciò che vi è di buono nella vita dei musulmani e nella loro religione". (21)
Nel discorso agli 80.000 giovani a Casablanca, il 19 agosto 1985, Papa Giovanni Paolo II, dopo d’aver affermato che cristiani e musulmani hanno molte cose in comune, come credenti e come uomini, parla pure di differenze, che non possiamo sottovalutare: "La lealtà esige pure che riconosciamo e rispettiamo le nostre differenze. Evidentemente, quella fondamentale è lo sguardo che posiamo sulla persona e sull’opera di Gesù di Nazaret. Inoltre, aggiunge il Papa, che "dobbiamo rispettarci, e anche stimolarci gli uni gli altri nelle opere di bene sul cammino di Dio". (22) Ad ogni modo "il dialogo deve esser condotto e attuato con la convinzione che la Chiesa è la via ordinaria di salvezza (23) e che solo essa possiede la pienezza dei mezzi di salvezza" , e "il Papa classifica le altre religioni come teologicamente immature, incomplete e bisognose di aiuto".
1 – Dialogo di vita:
Il dialogo è il mezzo in cui i cristiani e i musulmani s’incontrano per camminare insieme verso la verità e per lavorare insieme in progetti di comune interesse…
Il dialogo richiesto dalla regola francescana con persone di altre religioni ci ha insegnato che, come cristiani, dobbiamo vivere la nostra fede in maniera più integra ed essere veri testimoni di Cristo nella collaborazione con gli altri credenti, proprio come scrive S. Francesco nel capitolo 16° della Regola non bollata, dove si legge: "I frati - che vivono tra i musulmani (saraceni) - non facciano liti o dispute, ma siano soggetti a ogni creatura umana per amore di Dio, e confessino di essere cristiani".
Dai cristiani di oggi ci si attendono atteggiamenti, non di confronto e di conflitto, ma di vero spirito di collaborazione… La semplice ma salda testimonianza di Francesco d’Assisi… ci spiega che cosa voleva dire Gesù quando invita i suoi discepoli ad essere "il sale della e la luce del mondo". San Francesco è oggi venerato non solo dai cristiani ma anche da molti seguaci di altre tradizioni religiose. (26)
E’ questo il dialogo che conviene alle società, multi religiose, come la nostra: discutere i problemi di divergenza e solverli con oggettività e razionalità, favorendo una convivenza pacifica e vera collaborazione in tutti i campi del sapere.
2 – Dialogo di servizio sociale:
Collaborazione dei cristiani e musulmani per sviluppare i progetti del servizio sociale, per arrivare a stabilire la giustizia sociale, per aiutare gli abbandonati dalla società e per difendere i diritti dell’uomo
3 – Dialogo nelle attività spirituali:
I cristiani e i musulmani che vivono una vita spirituale di relazione intima con Dio, debbono scambiarsi queste esperienze.
4 – Dialogo teologico:
Lo scopo di questo dialogo è di chiarire i dubbi e le false idee che uno ha riguardo all’altro. Riguardo ai dogmi della propria religione, per giungere ad una convivenza pacifica e al rispetto reciproco. Questo dialogo non mira a trovare la vera religione, ma ad accettare il principio della molteplicità delle religioni in una società come la nostra.
(conferenza tenuta a Gerusalemme il 26/11/2002)
Note
1) Tim. 4:2.Il coraggio di fare autocritica
di Samir Khalil Samir
Teologia islamo-cristiana della liberazione
di Juan José Tamayo
L'idea che l'islam sia "la civiltà meno tollerante delle religioni monoteiste" (Huntington) è molto diffusa in Occidente, dove si va avanti con stereotipi sul cristianesimo e sull'islam che diventano uno degli ostacoli più seri al dialogo interreligioso, insieme alla non conoscenza che una religione ha dell'altra, anche all'interno di settori considerati colti. Le svalutazioni sono tanto più grossolane e viscerali quanto maggiore è l'ignoranza reciproca. Le certezze si rafforzano quanto l'ignoranza è più crassa. Quando si giudica e si valuta un'altra religione, non si è soliti partire da una informazione oggettiva a riguardo, ma da stereotipi o interpretazioni interessate che finiscono col deformare il senso profondo della religione. La mancanza di fiducia e la diffidenza hanno caratterizzato storicamente le relazioni fra il cristianesimo e l'islam. Il risultato è stato lo scontro, quando non la guerra aperta fra le due. Però ci sono stati anche momenti di pacifica convivenza, di dialogo interreligioso, di feconda interculturalità, di convergenze ideologiche, di lavoro scientifico comune e di dibattito filosofico creativo.
È questo, credo, il cammino da seguire in futuro ed è questo lo spirito che deve presiedere alle relazioni tra cristianesimo e islam. Cosa che implica rifuggire dagli stereotipi e delle generalizzazioni ed evitare una religione usi termini minacciosi nei confronti di un'altra, senza per questo rinunciare alla critica e all'autocritica. In quanto religioni nate da un tronco comune, l'abramitico; in quanto caratterizzate dal monoteismo e impegnate nel vivere alcuni valori religiosi emanati da una rivelazione che intende liberare l'essere umano dalle schiavitù e dalle oppressioni, il cristianesimo e l'islam non possono costituire l'uno per l'altro una minaccia. Soprattutto quando i loro testi sacri e i loro fondatori richiamano costantemente a rispettare le altre credenze e ad affermare espressamente che non c'è coazione nella religione.
Bisogna impegnarsi a costruire una teologia cristiana e musulmana di liberazione. Forse la teologia cristiana della liberazione è più conosciuta ed è più sviluppata della teologia islamica della liberazione, ma ciò non significa che questa non esista. Ci sono importanti studi in questa direzione. Concentrerò il mio intervento in tre campi in cui è possibile una siffatta teologia della liberazione: l'immagine di Dio, l'etica e la prospettiva di genere.
1 - Dal Dio della guerra al Dio della pace
L'immagine di Dio che ha predominato nel cristianesimo e nell'islam è quella di un Dio violento, vendicativo, al quale tutte e due le religioni hanno fatto frequentemente ricorso per giustificare gli scontri, le aggressioni e le guerre tra di loro e contro gli altri popoli e religioni considerati nemici. Anche per giustificare le azioni terroristiche, le invasioni e le aggressioni belliche ci si appella a Dio, come è successo negli attentati terroristici dell'11 settembre contro le Torri Gemelle e negli attentati dell'11 marzo a Madrid, ed anche negli attacchi degli Stati Uniti e della coalizione internazionale contro l'Afghanistan e l'Iraq. È rivelatore, a questo riguardo, il seguente testo di Martin Buber:
"Dio è la parola più vilipesa di tutte le parole umane. Nessuna è stata tanto sporcata, tanto mutilata. Le generazioni umane hanno buttato su di essa il peso di tutte loro. Le generazioni umane, con i loro patriottismi religiosi, hanno stracciato questa parola. Hanno ucciso e si sono fatte uccidere per essa. Questa parola porta le loro impronte digitali ed il lor sangue. Gli esseri umani disegnano un fantoccio e ci scrivono sotto la parola 'Dio'. Si assassinano gli uni gli altri e dicono 'lo facciamo in nome di Dio'. Dobbiamo rispettare quelli che proibiscono questa parola, perché si ribellano contro l'ingiustizia e gli eccessi che con tanta facilità si commettono con una presunta autorizzazione da parte di 'Dio'".
Così è, di fatto. In non pochi testi fondanti del giudaismo, del cristianesimo e dell'islam, l'immagine di Dio è violenta e associata al sangue, fino a combaciare con quella che René Girard chiama sacralizzazione della violenza o violenza del sacro (cfr. R. Girard, La violencia y lo sagrado, Anagrama, Barcellona 1983; L. Maldonado, La violencia de lo sagrado. Crueldad "versus" oblatividad o el ritual del sacrificio, Sígueme, Salamanca, 1974).
Ebbene, malgrado l'uso e l'abuso del nome di Dio, invano e con intenzioni distruttive, concordo con Martin Buber quando dice che "sì, possiamo: sporcata e mutilata com'è la parola 'Dio', sollevarla da terra ed erigerla in un momento storico trascendentale". Perché, se nelle tre religioni monoteiste esistono numerose ed importanti tradizioni che fanno appello al "Dio degli eserciti" per dichiarare la guerra a miscredenti e idolatri, altre ce ne sono che presentato Dio con un linguaggio pacifista e gli attribuiscono atteggiamenti pacificatori e tolleranti.
La Bibbia descrive Dio come "lento all'ira e ricco di grazia", il Messia futuro come "principe di pace" e arbitro di "innumerevoli popoli". Fra le più belle immagini bibliche del Dio della pace bisogna citarne tre: l'arcobaleno come simbolo dell'alleanza duratura che Dio stabilisce con l'umanità e con la natura, dopo il diluvio universale (Gn 8,8-9); la convivenza ecologico-fraterna dell'essere umano - violento lui - con gli animali più violenti (Is 11,6-8); l'idea della pace perpetua (Is 2,4). Nelle Beatitudini, Gesù dichiara felici coloro che lavorano per la pace, perché essi saranno chiamati figli di Dio (Mt 5,9).
Allah è invocato nel Corano come il Molto Misericordioso, il più Generoso, Compassionevole, Clemente, Prudente, Indulgente, Comprensivo, Saggio, Protettore dei poveri, ecc. Allah viene definito "Pace, Colui che dà Sicurezza, Custode" (Corano, 69,22). Tutte le sure del Corano, eccetto una, cominciano con l'invocazione "Nel nome di Dio, il Clemente, il Compassionevole…". Il rispetto del prossimo, della sua reputazione e delle sue proprietà è quello che in modo più completo definisce il credente, secondo uno dei hadizes (detti) del Profeta Muhammad.
C'è un imperativo coranico che ordina di fare il bene e di non seminare il male: "Fa' il bene degli altri come Dio ha fatto il tuo bene; e non seminare il male nella terra, perché certamente Dio non ama chi semina il male" (28,77). Il Corano chiarisce che non è la stessa cosa operare bene e operare male, chiede di avere pazienza e di rispondere al male con il bene, anzi con qualcosa che sia meglio (13,22; 23,96; 28,54), fino al punto che la persona nemica si converta in "vero amico" (41,34). C'è sintonia con le raccomandazioni di Gesù e di Paolo. Il primo invita a non resistere al male, ad amare i nemici e a pregare per i persecutori (Mt 5,38ss). Paolo chiede ai cristiani di Roma che non restituiscano il male a nessuno, che non si lascino vincere dal male, ma che vincano il male con il bene (Rom 12,21).
Anche nel Corano è presente il perdono dei nemici e la rinuncia alla vendetta: "Ricorda che un male ha per pagamento un male eguale. Ma chiunque perdona e si riconcilia verrà ricompensato da Dio. In Verità Egli non ama gli ingiusti" (42,40).
Come credenti delle diverse religioni abbiamo condannato gli attentati terroristici dell'11 settembre contro le Torri Gemelle e dell'11 marzo contro i cittadini madrileni, abbiamo celebrato atti interreligiosi per la pace e contro la violenza e ci siamo opposti alle ultime aggressioni contro i popoli dell'Afghanistan e dell'Iraq richiamando il precetto divino "non uccidere", che costituisce l'imperativo categorico per eccellenza e afferma la vita come il principio di tutti i valori. Il richiamo al Dio della pace e il rifiuto delle guerre in suo nome possono essere un importante punto di partenza per passare definitivamente dall'anatema religioso e dallo scontro di civiltà al dialogo fra le religioni, le culture e le civiltà. Le differenze religiose non dovrebbero essere motivo di divisione, ma la migliore garanzia per il rispetto di tutte le fedi e gli agnosticismi e il lavoro comune nella costruzione di alternative comunitarie di vita.
2 - Etica liberatrice nel cristianesimo e nell'islam
Il cristianesimo e l'islam sono due religioni monoteiste, di un monoteismo non dogmatico, ma etico, con un orizzonte morale. Così è stato vissuto dagli stessi fondatori e dai profeti di Dio di entrambe le religioni.
2.1. Nel cristianesimo
Gesù è stato un uomo di grande statura morale, che è stato paragonato a Socrate, Budda, Confucio, ecc. Nella sua persona si armonizzano mistica e liberazione, esperienza religiosa ed orizzonte etico in una unità differenziata. Lo ha percepito molto bene il Mahatma Gandhi, che ha mostrato grande ammirazione per Gesù, persona morale che gli è servita d'esempio nella sua vita personale e nella sua azione politica nella prospettiva della nonviolenza attiva. L'insegnamento morale del vangelo è stato per lui fonte di ispirazione permanente nella sua attività politica e nel suo programma economico. Gandhi invitava a studiare la vita di Gesù e a mettere in pratica il suo messaggio ugualitario e pacificatore (cfr. M. Gandhi, The message of Jesus Christ, Bharatiya Vidya Brhavan, Bolbeay 1963). Racconta il leader religioso indù che durante il secondo anno del suo soggiorno in Inghilterra conobbe, in una pensione vegetariana, un buon cristiano di Manchester che gli parlò del cristianesimo e lo invitò a leggere la Bibbia. Cominciò a leggerla e non gli riuscì di arrivare alla fine dell'Antico Testamento. Diversa fu l'impressione che produsse in lui il Nuovo Testamento, specialmente il Sermone della Montagna, che lo colpì profondamente. "Lo paragonai - riferisce - al Bhagavad Gita. I versetti dove dice: 'ma io vi dico: non opponetevi (con la violenza) al male; a chi ti colpisce la guancia destra tu porgi l'altra. E se qualcuno si impossessa del tuo mantello, dagli anche la tua tunica' mi piacquero oltremodo…'. La mia giovane mente cercava di armonizzare l'insegnamento del Gita con quello del Sermone della Montagna" (M. Gandhi, La mia vita è il mio messaggio. Scritti su Dio, la verità e la nonviolenza).
Messaggio etico e prassi di liberazione guidano la vita di Gesù di Nazareth e devono guidare anche la vita della comunità cristiana in ogni contesto storico, se si vuole essere fedeli all'etica dell'iniziatore del cristianesimo. Fra le caratteristiche dell'etica di Gesù è importante citare le seguenti: liberazione, giustizia, gratitudine, alterità, solidarietà, fraternità-sororità, pace inseparabile dalla giustizia, difesa della vita, di tutta la vita, tanto della natura come dell'essere umano, della vita in pienezza qui, sulla terra, e non solo della vita spirituale e della vita eterna, conflitto, debolezza, compassione per le vittime, riconciliazione e perdono. La grande rivoluzione del Nazareno consistette nell'avere eliminato l'idea così escludente del popolo eletto e nella proposta di una comunità fraterna, senza frontiere né discriminazioni.
Una delle migliori espressioni di questa etica è data dal cristianesimo liberatore vissuto nel Terzo mondo e nelle enclave di emarginazione del Primo mondo, e dalla teologia della liberazione, nata in America Latina alla fine degli anni '60 del secolo XX e diffusa oggi in tutto il Sud del pianeta. È una teologia che, con diversi accenti a seconda dei contesti nei quali si sviluppa, cerca di rispondere alle sfide poste dalle alterità negate - culture, donne, razze, etnie, ecc. - e dal mondo della povertà strutturale, cioè dall'"altro povero", così come dalla pluralità delle religioni, cioè dall'"altro religioso".
2.2. Nell'islam
L'islam condivide con il cristianesimo lo stesso orizzonte morale, che deriva dal monoteismo etico nel quale tutti e due si situano e al quale non possono rinunciare. La sua etica mostra profonde affinità con quella del cristianesimo, fino al punto che non è difficile stabilire un consenso su alcuni punti basilari morali fra le due religioni e il giudaismo.
I precetti orali del Corano si focalizzano su: essere buoni con i genitori, non uccidere i figli per paura della povertà, evitare le disonestà, pubbliche o private, non toccare quanto spetta agli orfani, se non in modo conveniente, fino alla loro maggiore età, dare con equità a ciascuno il suo, non chiedere a nessuno qualcosa che vada oltre le sue possibilità, essere giusti quando si deve dichiarare qualcosa, anche se si tratti di parente, essere fedeli all'alleanza con Allah (6,151-153). La pietà per il Corano non sta nel volgere il volto a Oriente o a Occidente, ma nel credere in Dio, nella Scrittura e nei profeti, "nel dare ricovero… a parenti, orfani, bisognosi, pellegrini (seguaci della causa di Dio), mendicanti e schiavi, nel fare la azalá (orazione istituzionale obbligatoria) e dare l'azaque (imposta-elemosina per legge), nel mantenere gli impegni… (2,177).
L'opzione per i poveri costituisce il principio vertebrale del discorso dell'ayatollah Khomeini (1902-1989) in sintonia con il discorso della teologia cristiana della liberazione elaborata in America Latina: "L'islam ha risolto il problema della povertà e ha fatto di essa il principio del suo programma: sadaqt (la carità) è per i poveri. L'islam è cosciente che la prima cosa che si deve fare è porre rimedio alla situazione dei poveri" (Khomeini, Islam and Revolution: Writing and Declarations of Imam Khomeini, Mizan Press, Berkeley, 1981).
Come il cristianesimo e come altre religioni, l'islam ha ispirato molti dirigenti politici e sociali nella loro lotta per la liberazione in parole e opere. Al suo interno si è dato origine a una teologia della liberazione.
Il punto di partenza dei movimenti di liberazione nati nell'islam è l'esperienza di oppressione vissuta dai popoli musulmani e la perdita della loro identità culturale e del loro potere sociale durante le tappe coloniale e postcoloniale. Credenti musulmani di rilievo vedono nel Corano e nella Sunna progetti originali per realizzare una forma di vita integrale e liberatrice. Possiamo citarne quattro: Sayyid Abu'l-A'la Mawdudi (1903-1979), dirigente morale e politico musulmano nato ad Aurangabad (India), che si mostrò critico tanto della società moderna secondo il modello occidentale quanto dell'islam tradizionale, che considerava cristallizzato, e difese il ritorno ad un islam autentico; il dottore iraniano Ali Shari'ati (1933-1977), che John L. Esposito considera teologo della liberazione per il suo tentativo di combinare il credo islamico liberatore con il pensiero sociopolitico moderno emancipatore; l'indiano Asghar Ali Engineer, impegnato nella difesa dei diritti umani e a favore dell'armonia tra le religioni, che fa risalire gli elementi liberatori dell'islam al Profeta il quale, con la sua vita e il suo messaggio, vuole rispondere alle situazioni di oppressione e di ingiustizia, di ignoranza e di superstizione, di schiavitù e di discriminazione della donna, imperanti nella Mecca.
3 - Ermeneutica femminista della liberazione
3.1. Il Corano, strumento a favore della liberazione delle donne
Da vari decenni si stanno sviluppando nell'islam importanti correnti riformiste e femministe che denunciano il monopolio tradizionale dei maschi, e più in concreto dei "chierici", nell'esegesi del Corano e nella sua interpretazione patriarcale, contraria allo spirito originario e alla difesa dell'uguaglianza fra uomini e donne in esso contenuta. Queste correnti vogliono liberarsi dalla casta degli intermediari e dalla burocrazia degli ulema, perché credono che l'islam si basi sulla relazione diretta dei credenti con Dio e non ha bisogno di chierici. Reclamano il diritto delle donne ad accedere direttamente ai testi e ad interpretarli nella prospettiva di genere. Prospettiva che le porta a considerare il Corano come un importante strumento in favore della liberazione della donna. Le cose stanno così o tale affermazione è frutto di una lettura troppo interessata?
Certamente l'islam costituisce un significativo passo avanti nel riconoscimento della dignità delle donne. In più, come osserva Jadicha Candela, sostituisce il sistema socioculturale sessista vigente nell'Arabia preislamica con un sistema umanitario capace di integrare le diverse minoranze discriminate: le donne, le bambine orfane, gli schiavi, ecc. Sono numerosi i testi del Corano, soprattutto quelli dell'epoca de La Mecca, che riconoscono uguaglianza di diritti e doveri fra uomini e donne.
Intanto, bisogna constatare che non esiste alcun racconto della creazione della donna come costola dell'uomo, come nella Bibbia ebraica (Genesi 2,21-22). Racconto che è stato assunto dal cristianesimo ed è molto presente nell'immaginario dei cristiani e delle istituzioni ecclesiastiche per giustificare la superiorità dell'uomo sulla donna e le relazioni di dipendenza e sottomissione di questa rispetto all'uomo. Secondo il testo coranico, uomo e donna sono creati uguali senza subordinazione né dipendenza di uno dall'altro. La relazione fra i credenti e le credenti è di amicizia e mutua protezione. Nel Corano compare 25 volte il nome di Adamo, che non è arabo ma ebreo, e 21 volte ha il significato di umanità, non di uomo-maschio. Tantomeno si trova, nel libro sacro dell'islam, un racconto che renda responsabile la donna del peccato e dell'espulsione dal paradiso, come invece all'inizio della Bibbia ebraica (Genesi 3,6).
Nella situazione di discriminazione, anche di disprezzo della vita, nella quale si trovavano le donne nella società araba preislamica, il Corano costituisce un avanzamento importante. Era tale l'offesa suscitata dalla nascita di una bambina in quella società, che alcuni genitori arrivavano a ucciderla alla nascita, come constata il Corano che condanna fermamente questa pratica: "Quando si annuncia a uno di essi una bambina, rimane cupo e angosciato. Schiva la gente per vergogna, chiedendosi se la conserverà, a suo disonore, o se la nasconderà sotto terra… Che pessimo modo di giudicare" (16,58-59).
Il Corano riconosce uguaglianza di diritti e di doveri di uomini e donne rispetto alla religione, come dimostra il seguente testo che utilizza un linguaggio chiaramente inclusivo di uomini e donne: "Dio ha preparato perdono e magnifica ricompensa per i musulmani e le musulmane, i credenti e le credenti, i devoti e le devote, i sinceri e le sincere, i pazienti e le pazienti, gli umili e le umili, quelli e quelle che fanno l'elemosina, quelli e quelle che digiunano, i casti e le caste, quelli e quelle che ricordano molto Dio" (33,35). La ricompensa e la buona vita per le buone opere spettano agli uomini e alle donne credenti allo stesso modo (16,97).
3.2. Tradizioni patriarcali nel Corano ed ermeneutica di genere
Con tutto ciò vi sono testi chiaramente patriarcali che difendono la superiorità del maschio, la sua funzione protettrice della donna e la dipendenza di questa. In essi la virtù delle donne è essenzialmente legata alla devozione, all'obbedienza e all'atteggiamento di sottomissione nei confronti dei mariti. La ribellione è considerata una mancanza di rispetto nei loro confronti, che deve essere castigata. Leggiamo nel Corano: "Gli uomini hanno autorità sulle mogli in virtù della preferenza che Dio ha dato agli uni piuttosto che agli altri e dei beni che ottengono. Le donne virtuose sono devote. E badano, in assenza dei loro mariti, a ciò a cui Dio ha ordinato loro di badare. Ammonite quelle di cui temete l'insubordinazione, lasciatele sole nei loro letti, battetele! Se vi obbediscono, non scontratevi con loro" (4,34).
Come interpretano le teologhe femministe e i teologi riformisti all'interno dell'islam questo testo ed altri analoghi? Tutti sono d'accordo sul fatto che riflettono la mentalità dell'epoca, nella quale l'inferiorità della donna era molto radicata. Vi è chi ritiene che i testi che giustificano la soggezione della donna all'uomo devono essere intesi in senso metaforico. In generale si tende ad affermare che la traduzione non è corretta. Dáraba è una parola che ha molti significati. Alla base del giudizio contro l'imam di Fuengirola, i filologi arabi credono che l'imperativo di dáraba di 4,34 non può essere tradotto con "battetele" o "date loro una bastonata". La traduzione corretta sarebbe "date loro un tocco di attenzione". Vi sono anche coloro che credono che possa essere tradotto con "fate l'amore".
Alcune tendenze femministe islamiche tendono a spiegare la misoginia e la struttura patriarcale di molte società musulmane facendo riferimento alla influenza che nell'islam aveva esercitato la misoginia del mondo mediterraneo, quando questa religione entrò in contatto con la cultura mediterranea. L'evoluzione stessa della tradizione del Hadiz pare confermare questa tendenza, poiché le prime compilazioni, basate sulle informazioni di A'isha, la vedova del profeta, difendono, generalmente, l'uguaglianza tra uomini e donne, mentre le compilazioni posteriori non riconoscono tanta importanza ad A'isha e introducono una serie di regole che restringono la libertà delle donne.
Le tendenze islamiche riformiste e femministe sono solite convenire sul fatto che il Corano deve essere interpretato alla luce dei diritti umani e non viceversa. Questo è applicabile ai testi sacri di tutte le religioni. In questa direzione va la Dichiarazione Islamica Universale dei diritti umani proclamata il 19 settembre 1981 alla sede dell'Unesco dal Segretario generale del Consiglio Islamico per l'Europa, che difende "un ordine islamico in cui tutti gli esseri umani siano uguali e nessuno goda di alcun privilegio né subisca uno svantaggio o una discriminazione, a motivo della sua razza, colore, sesso, origine o lingua".
Questa interpretazione, tuttavia, non si ferma al terreno dei principi. Vi sono musulmani che la mettono in pratica, come Shirin Ebadì, avvocata iraniana e docente di Diritto all'Università di Teheran, che ha ricevuto il Premio Nobel per la pace l'anno scorso per la sua lotta a favore dei diritti umani. È una musulmana praticante che ha levato la voce nelle aule e nella sua attività contro la discriminazione delle donne in un Paese musulmano come l'Iran dove continua ad essere applicata la Shari'a. Il suo atteggiamento mostra e dimostra non solo la compatibilità tra fede in Allah e difesa dei diritti umani, ma anche la relazione intrinseca tra entrambi. Shirim Ebadì difende l'uguaglianza fra uomini e donne e la conseguente emancipazione di queste, mentre considera il maschilismo una malattia come l'emofilia, trasmessa dalle madri ai propri figli.
"Alcune madri hanno nel loro corpo gli elementi latenti della malattia, e anche se non la mostrano visibilmente, la trasmettono ai loro figli e li contagiano. Considero questo male simile alla cultura patriarcale nel mondo. Nel sistema patriarcale, le donne sono le vittime, ma al tempo stesso, sono coloro che trasmettono questa cultura ai loro figli maschi. Non si può dimenticare che ogni uomo repressore è stato creato da una madre. Le stesse madri fanno parte del ciclo di espansione del maschilismo".
3.3 Dalla prospettiva dei diritti umani e dell'ermeneutica del sospetto
Senza interpretazione le religioni sboccano direttamente nel fondamentalismo. Senza l'orizzonte dei diritti umani le religioni finiscono per giustificare pratiche contrarie a dignità, libertà, uguaglianza e inviolabilità della persona, come torture, maltrattamenti, violenza di genere, esecuzioni, ecc. E lo fanno facendo riferimento a Dio per dare legittimazione religiosa e validità normativa a queste pratiche, cosa che implica una contraddizione, poiché si invoca il Dio della Vita e della Pace, il Dio del Perdono e della Riconciliazione per praticare la vendetta e la violenza, nel caso di cui ci stiamo occupando, contro le donne.
Il cristianesimo e alcune tradizioni islamiche tendono a difendere la superiorità del maschio sulla donna, basandosi su tre presupposti: a) la creazione del maschio prima della donna, uscita da una costola dell'uomo, cosa che la rende ontologicamente inferiore; b) la responsabilità della donna nel peccato originale, che provoca la cacciata dal paradiso; c) il compito ausiliare di servire il maschio che viene assegnato alla donna e, di conseguenza, il carattere strumentale della sua esistenza (cfr. R. Hassan, "Las mujeres en el islam y en el cristianismo". Concilium 253, giugno 1994), pp. 39-44).
Il ricorso all'ermeneutica critica, del sospetto, dalla prospettiva di genere, svuota di contenuto questi tre miti o principi fondamentali, che sono registrati nell'immaginario religioso dei credenti, nei loro predicatori e nei loro teologi, nelle loro istituzioni, e nega loro ogni legittimità.
Nel suo libro pioniere La Bibbia delle donne, la teologa cattolica nordamericana Elisabeth Cady Stanton stabiliva già nel 1895-1898 (Ediciones Cátedra, Universitat Valencia, Instituto de la Mujer, Madrid, 2000) i principi di una nuova ermeneutica dei testi fondanti del cristianesimo e dell'ebrai-smo, validi anche per l'islam: è l'ermeneutica del sospetto, che mette in discussione il contesto patriarcale, il linguaggio patriarcale, il contenuto patriarcale, le traduzioni patriarcali e le interpretazioni patriarcali della Bibbia. La Bibbia, affermava Cady Stanton, è un libro scritto da maschi che non hanno visto Dio né hanno parlato con lui. L'ermeneutica del sospetto di Cady Stanton è stata ripresa dalle teologhe femministe del XX secolo con la lettura dei testi biblici a partire dalla prospettiva di genere, che prevede due momenti metodologici: quello della decostruzione e quello della ricostruzione.
La lettura dei testi fondanti del cristianesimo e dell'islam a partire dalla prospettiva di genere porta direttamente a superare il patriarcalismo nell'organizzazione di entrambe le religioni e l'androcentrismo nel loro pensiero teologico. Credo che sia giunto il momento di stabilire un'alleanza, tanto nel campo della ricerca quanto in quello della strategia, per porre le basi di una teologia islamo-cristiana femminista che recuperi le tradizioni bibliche e coraniche di emancipazione delle donne e dei settori esclusi, restituisca loro la dignità umana e li riconosca come soggetti politici nella società e soggetti religiosi nelle rispettive comunità di fede, con pienezza di diritti, senza discriminazioni di genere, etnia, classe o cultura (un esempio di tale ermeneutica sono i libri di Fátima Mernisi, scrittrice marocchina e docente all'Istituto Universitario di Ricerca Scientifica dell'Universi-tà Mohamed V del Marocco, specializzata nello studio della condizione femminile nelle società musulmane; tra le sue opere, cfr. Marruecos a travéò de sus mujeres, Ediciones del Oriente y del Mediterraneo, Madrid 1998; id., El Harén politico. El profeta y las mujeres, Ediciones del Oriente y del Mediterraneo, Madrid 2002, 2ª ed., opera in cui investiga le origini dell'islam a ricerca delle cause dell'attuale misoginia nelle società musulmane).
(da Adista, 6 novembre 2004)
Chiesa e Islam in Italia
di Giovanni Paolo Tasini
La presenza mussulmana in Italia è destinata a crescere in modo rilevante. Essa, motivata essenzialmente da ragioni economiche e dalla ricerca di un lavoro, è fonte di un dibattito non solo a livello politico (con le conseguenti scelte legislative) ma anche all’interno delle comunità ecclesiali. La preoccupazione è quella del mantenimento dell’identità cristiana dei popoli europei e del carattere cristiano dei valori dell’Europa e della sua cultura.
Il dibattito sulla presenza mussulmana in Italia, sul significato e le caratteristiche di questa presenza, sui problemi che essa apre e sempre più aprirà per la società italiana, è ormai uscito dal gruppo ristretto di pochi interessati e sta diventando un dibattito pubblico destinato a coinvolgere e a dividere i diversi ambienti, civili e religiosi, del nostro paese.
Nel panorama plurale della comunità mussulmana in Italia emerge la minoranza "islamista", molto attiva e sostenuta da alcuni paesi mussulmani, che dà vita ad associazioni, moschee, sale di preghiera, istituti culturali, ecc.
Gli "islamisti" rifiutano una concezione privatizzata della religione, si propongono come rappresentanti della comunità mussulmana presso lo Stato italiano, e il loro obiettivo principale, nei paesi mussulmani come in Europa, è quello di "reislamizzare" i mussulmani, riportarli cioè alla "fede autentica", all’Islam originario, in cui la sharìa, la legge di ispirazione religiosa, domina tutta la vita, privata e pubblica, religiosa e politica, della comunità mussulmana.
La situazione in Italia e la posizione ecclesiale
A motivo della massiccia e inevitabile immigrazione mussulmana (la demografia, il mercato del lavoro e la posizione geopolitica dell’Italia rendono non evitabile l’immigrazione dei paesi mussulmani che si affacciano sulla sponda meridionale del Mediterraneo) la presenza mussulmana in Italia è destinata a crescere in modo rilevante, a organizzarsi sempre più, e a porre in modo sempre più visibile le questioni relative alla propria identità.
Di fronte a questa prospettiva, e nel quadro dell’attuale contesto internazionale, anche i rappresentanti della Chiesa italiana hanno iniziato ad esprimersi. (Per una panoramica dell’Islam in Italia e una discussione delle principali posizioni nella società e nella Chiesa italiana si veda: R. GUOLO, Xenofobi e xenofili, Laterza 2003).
Se è vero che dalla metà degli anni Ottanta alla metà degli anni Novanta, il rapporto della Chiesa con l’immigrazione è stato guidato da organizzazioni come Caritas e Migrantes, e che da queste gli immigranti mussulmani sono stati guardati – alla stregua degli altri immigrati – come "fratelli" e bisognosi, tuttavia una parte significativa del corpo ecclesiale non condivideva questa linea di apertura e di dialogo verso i mussulmani.
Il dissenso verso la linea del dialogo, proveniente dall’ala del clero più tradizionalista e dai vescovi più legati all’idea di cristianità come tradizione europea, ha trovato negli ultimi anni espressione in alcune voci autorevoli dell’episcopato italiano.
Pur nella diversità dei giudizi e delle posizioni, si può forse dire che buona parte delle argomentazioni gira attorno all’idea dell’identità cristiana della società europea e del carattere cristiano dei valori e della cultura dell’Europa.
Questa insistenza sullo stretto legame fra l’identità cristiana e l’identità dell’Europa o dell’Occidente avviene nel momento storico nel quale da un lato il "modello di cristianità", in crisi da almeno due secoli, è in piena dissoluzione; dall’altro, l’"Occidente cristiano" affronta con la forza delle armi la protesta del mondo povero e in particolare la sfida del mondo mussulmano.
L’insistenza sull’identità cristiana rischia perciò di essere sempre più una insistenza sull’Occidente e i suoi valori e la sua cultura: la cui difesa, quindi, diverrebbe al contempo anche la difesa della Chiesa e della fede cristiana.
Quanto il discorso sull’identità cristiana possa essere problematico lo si vede se si allarga lo sguardo al di là dell’Europa e dell’Occidente, e si considera la crisi delle missioni della Chiesa nel mondo, particolarmente nelle aree mussulmane del mondo e nella grande Asia.
Cristianesimo o cristianità? Un dibattito antico e sempre nuovo...
Si tratta di una crisi che non è spiegabile soltanto come l’effetto di un "calo o mancanza di fede" all’interno della Chiesa – come da alcune parti si va ripetendo.
Essa fa parte di quella crisi epocale nella storia della Chiesa che si ha ormai la consuetudine di chiamare fine della "cristianità" o del "modello di cristianità".
Proprio le missioni sono la verifica più importante di questa crisi; proprio là diventa evidente la problematicità dell’identificazione o dell’insistenza sullo stretto legame fra identità cristiana e cultura europea o occidentale.
I cristiani pakistani uccisi dalla Messa domenicale nell’imminenza dell’intervento anglo-americano in Afganistan, sono stati uccisi indubbiamente perché cristiani: ma chi li ha uccisi, li ha uccisi perché cristiani, o li ha uccisi perché – essendo cristiani – potevano rappresentare per lui l’"Occidente cristiano"?
Uno sguardo più universale sulla Chiesa mostrerebbe alle Chiese di Europa che esse hanno bisogno di ripensare a fondo il modo di concepire la propria presenza nella società della futura Europa multi-etnica e multi-religiosa: invece di insistere sul legame fra identità cristiana e cultura europea, invece di vagheggiare un’ "Europa cristiana" che non ci sarà, le comunità ecclesiali europee hanno bisogno di educarsi a distinguere la propria appartenenza alla cultura europea dall’appartenenza al Corpo del Cristo, appartenenza per sua natura universale, e che non può coincidere con alcun popolo e alcuna cultura.
La fine della "Cristianità" non è la fine della Chiesa: e la prevedibile futura condizione di "minorità", un’effettiva "marginalità storica", potrà aiutare la Chiesa a comprendere e ad esprimere in modo rinnovato la sua natura più profonda, che è una natura essenziale anti-identitaria o sovra-identitaria:
"dove non c’è greco e giudeo, circoncisione e incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma tutto e in tutti Cristo" (Col 3,11).
A partire da una simile prospettiva, a un tempo liberante e capace di guardare al futuro con realismo e speranza evangelica, si comprende quanto siano equivoche le varie "guerre dei crocifissi" che già si manifestano nel nostro paese; o quanto sia improprio, dal punto di vista cristiano da parte della Chiesa, invocare un principio di reciprocità rispetto ai paesi mussulmani: cadendo oltre tutto in un doppio paradosso: quello di presupporre una larga coincidenza fra Chiesa e società europea, che oggi più non esiste e sempre meno esisterà; e quello di pensare che uno Stato, laico per definizione, dovrebbe o potrebbe svolgere un tipo di funzione corrispettiva a quella che nei paesi mussulmani svolge lo Stato, che per definizione è uno Stato mussulmano.
Infine, l’acquisizione da parte delle comunità ecclesiali di un senso profondo, purificato e sovra-identitario della natura della Chiesa è condizione indispensabile sia per il dialogo che per la testimonianza nei confronti della comunità mussulmana.
Se è vero che coloro che criticano l’apertura e il dialogo con il mondo mussulmano possono cogliere effettive ingenuità e impreparazione in chi conduce il dialogo, è ancor più vero che è necessaria una radicale purificazione e riformulazione del senso dell’identità cristiana, da essi tanto insistentemente sottolineata.
di Martine de Sauto
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