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Sabato, 04 Febbraio 2006 11:23

PERCHE’ LA FAMIGLIA E’ BUONA NOTIZIA

PERCHE’ LA FAMIGLIA E’ BUONA NOTIZIA

 

Durante il quarto incontro mondiale della famiglia, svoltosi a Manila in gennaio, il tema che si è affrontato è stato: “La famiglia cristiana: una buona novella per il terzo millennio”. La notizia è bella perché viene dal cuore di Dio. Traccia una storia in cui i valori familiari si rivelano parte essenziale della “grammatica fondamentale dell’umana convivenza” (Giovanni Paolo II). Credere nell’amore fedele “sino alla fine”, costruire un intreccio di generazioni che si ritrovano nella comunione: è il dispiegarsi della buona notizia che la famiglia cristiana offre agli uomini del terzo millennio. La comunità coniugale e familiare, anche quando non risplende in tutta la sua bellezza, custodisce, come germe deposto da Dio nel suo cuore, la bella notizia dell’amore e della vita.

 

Di fronte alla famiglia lo stupore è intuizione della “buona notizia”.

La famiglia “che prende inizio dall’amore dell’uomo e della donna, scaturisce radicalmente dal mistero di Dio”. Il matrimonio è “un grande mistero”, perché “in esso si esprime l’amore sponsale di Cristo per la Chiesa”.

Si delinea un intreccio di orizzonti sui quali si dispiega la “buona notizia”. “Non esiste il grande mistero, che è la Chiesa e l’umanità in Cristo, senza il grande mistero espresso nell’essere una sola carne, cioè nella realtà del matrimonio e della famiglia. La famiglia stessa è il grande mistero di Dio”.

La famiglia è trasparenza di Dio: ripresenta il suo amore appassionato per l’umanità. Rimanda ad un mistero d’amore più grande, al mistero trinitario. Così, il modello originario della famiglia deve essere cercato nel mistero stesso di Dio, nel mistero della sua vita trinitaria;l’esistenza stessa della famiglia rimanda a quel mistero. “Il <<Noi>> divino costituisce il modello eterno del <<Noi>> umano, di quel <<noi>> che è formato dall’uomo e dalla donna, creati a immagine e somiglianza divina”. “Il matrimonio dei battezzati è simbolo reale della nuova ed eterna alleanza”: gli sposi, sono il volto concreto di Cristo sposo, e “la fecondità è il frutto e il segno dell’amore coniugale, la testimonianza viva della piena donazione reciproca degli sposi”.

 

La coppia/famiglia custodisce il mistero. Lo vive, lo trasmette.

 Essa testimonia, dunque, la dedizione con cui Cristo si spende per gli uomini. Nel volto dell’uomo e della donna che si amano traspare l’immagine più bella di Dio.

 

La famiglia è parola-immagine di Dio, essendo Dio in se stesso mistero nuziale: comunione di persone, che si cercano, si donano, si accolgono, esistendo in un’unica natura divina.

 

-La famiglia è parola-carne di Dio. Il vincolo d’amore che unisce gli sposi è “ripresentazione di ciò che è accaduto sulla croce”. Il dono sponsale reciproco nel segno del corpo e quindi della totale gratuità rende presente la dedizione nuziale del Cristo sposo.

 

-La famiglia è parola-parabola di Dio. La vita concreta della famiglia, snodandosi come ricerca costante della comunione e rispetto delle diversità, lascia intravedere il mistero di Dio che è convivialità di tre Persone diverse, esistenti nell’unità della natura divina. Spiega la bellezza dell’Amore che, creando unità, genera nuova vita.

 

-La famiglia è una buona notizia perché scaturisce dal cuore di Dio. Infatti, il mistero trinitario illumina la nuzialità umana che, a sua volta aiuta a contemplare il mistero.

 

Esiste “un mistero grande nascosto da secoli nella mente di Dio”. Cristo, parla del sogno di Dio nei confronti dell’umanità. Dio invita l’umanità alle nozze con sé, perché egli stesso è mistero nuziale. Costruendo la sua relazione con l’umanità, sceglie un suo popolo come uno sposo sceglie la sua sposa. E’ la nuzialità la chiave di lettura del mistero di Dio, la “bella notizia” che da esso scaturisce.

Dio si fa conoscere e si comunica nella nuzialità umana. Vuole la coppia umana come “immagine e somiglianza di sé”. Quando gli sposi entrano in relazione e si costituiscono nell’unità “in una sola carne” appare il volto della Trinità, si realizza la coppia-famiglia che racconta Dio, lo dona, lo svela. La coppia umana è chiamata ad essere in se stessa manifestazione di Dio.

 

L’amore coniugale è “l’immagine e il simbolo dell’alleanza che unisce Dio e il suo popolo”. L’alleanza d’amore che Dio costruisce con l’umanità ha una connotazione sponsale. All’inizio della storia della salvezza sta una coppia (Adamo ed Eva); al termine della storia sta una coppia (Agnello e la sposa). Tra la coppia iniziale e quella finale si sviluppa una stupenda avventura d’amore. La realtà dell’amore coniugale racconta l’alleanza nuziale che unisce Dio al suo popolo, il suo amore per esso. L’amore coniugale è simbolo di tale alleanza, di tale amore.

 

Cristo “rivela la verità originaria del matrimonio, la verità del principio e, liberando l’uomo dalla durezza del cuore, lo rende capace di realizzarla interamente”. Il grande mistero dell’Amore è rivelato ed attuato in Cristo. Gli sposi, consacrati “nel Signore”, raccontano Cristo. D’altronde, essi si ispirano ad un mistero, quello nuziale (dono del Signore), che già palpita in loro. E la famiglia, esistendo, afferma l’esistenza di Dio.

 

La famiglia è in se stessa una buona notizia per tutti, per la chiesa e per la società. La famiglia è una stupenda risorsa per l’umanità, in quanto amore, vita, solidarietà, fedeltà, generosità, fecondità. Ma essa è chiamata ad elaborare al suo interno tutti gli stimoli di educazione e di impegno affinché si realizzi l’immagine di Dio. La famiglia deve essere spazio in cui vivere l’uno per l’altro. “le famiglie” – come affermava don Tonino Bello, vescovo di Molfetta – “ non possono dirsi cristiane se non assumono la logica della reciprocità”.

La “buona notizia” che urge nel cuore di ogni famiglia cristiana, sarà, dunque stupenda, perché aprirà un futuro nuovo, fatto di concretezza umana e risonanza divina, realizzando il sogno di Dio per l’umanità.

 Don Renzo Bonetti

 

 

Tratto da “Settimana – 19 gennaio 2003”

Riduzione e adattamento a cura di Simona Internullo

Pubblicato in Spiritualità Familiare
Sabato, 04 Febbraio 2006 11:01

Uno spazio tutto mio

UNO SPAZIO TUTTO MIO

MOLTI DISAGI FAMILIARI HANNO ORIGINE NELLA DIFFICOLTÀ A CONCILIARE LA DIMENSIONE PERSONALE CON QUELLA DI COPPIA. EPPURE IL TEMPO PER SÉ È FONDAMENTALE PER COSTRUIRE RELAZIONI EQUILIBRATE

Venerdì, 13 Gennaio 2006 19:42

La coppia tra ferialità e festività

La coppia tra ferialità e festività

 

· Per la coppia, la ferialità è il superamento della quotidianità, luogo in cui esprime nell’attività di ogni giorno la propria identità · Con lo sguardo fisso al Sabato, alla festività, giorno destinato alla contemplazione e alla festa. Alla libertà.

 

Ha senso parlare di ferialità e festività?  Ci sembra che la cultura moderna tenda a globalizzare tutto. Anche il tempo. Denominiamo questa globalizzazione del tempo «quotidianità». Quotidianità come ripetitività ossessionante, uniformante, omologante. Il formicaio, l'alveare (il vespaio?) potrebbero essere posti come stemma sulla bandiera della così detta «civiltà» occidentale, del nord ricco ed opulento.

 

La quotidianità

La quotidianità è il ripetere giorno e notte (esiste un popolo della notte!) per sette giorni la settimana gli stessi riti, adorare gli stessi idoli, dedicare loro tutto il tempo.

«Fare, avere, produrre, consumare». Agitarsi, correre, non avere mai tempo «per altro». Il tempo libero è diventato preda dell'«industria del tempo libero». I media s'impegnano, con successo, a suscitare sempre nuovi bisogni e desideri. I desideri diventano necessità indispensabili.

Quotidianità è cogliere tutte le occasioni che i media propongono come risolutive per cancellare le insoddisfazioni, i limiti che l'uomo ha in se stesso. Smania del possesso delle cose e delle persone per placare il desiderio di onnipotenza che l'uomo crea nella sua interiorità.

Quotidianità è culto della moda, della fisicità, dell'apparire, dello sport, dell'automobile e della moto, di Internet e del cellulare, della TV e dell'auricolare.

Quotidianità che fa porre la speranza di chi non riesce a realizzare immediatamente i modelli indotti dalle idolatrie consumistiche, nelle lotterie, nelle scommesse, nelle bische, in turpi commerci di sesso e droga.

Quotidianità che non concede mai tempo all'uomo per essere se stesso, per chiudersi nella sua «cameretta» (cf Mt 6,6).

Talvolta, le stesse manifestazioni religiose sembrano cadere nella tentazione della quotidianità, dell'apparire, assumono l'aspetto di manifestazioni di folle, di masse, diventano spettacolo mediatico.

Quotidianità come inutile fatica di Sisifo, o, biblicamente, come «scavarsi cisterne screpolate, che non tengono acqua» (Ger 2,13)... Ed «essi seguirono ciò che è vano, diventarono essi stessi vanità» (Ger 2,5). Quotidianità, forma di schiavitù che sottomette l'essere all'avere, che non concede tempo all'uomo di essere con l'Altro, con l'altro, di «essere coppia».

 

La ferialità

Gli sposi realizzano la ferialità quando si impegnano per realizzare alloro interno (famiglia) e al loro esterno (società ed «ecclesia») un nuovo modello di famiglia e società. Tutto ciò che è stato creato nell'universo è buono, nulla va demonizzato e nulla va idolatrato.

La coppia nella ferialità sì prende cura di se stessa, ma si assume anche la responsabilità di essere l'affidataria di tutti i beni della terra che deve coltivare e custodire. La coppia si impegna nel lavoro, nella ricerca, nelle scienze, nella tecnica, nella finanza e nel commercio, in campo educativo e socio-solidale, ma trasforma il senso del fare. Il fare è allusione alla finitudine. Il fare, non potrà mai realizzare pienamente l'uomo e

la coppia. La totalità della conoscenza e dell'appagamento, nonostante i progressi meritori che l'uomo fa giorno dopo giorno, secolo dopo secolo, è sempre «oltre».

La sete, il bramare, il soddisfacimento in modo completo di ogni desiderio non è realizzabile perché nell'uomo vi è fame di infinito che la finitudine del tempo rende impossibile attuare. Con questa semplice constatazione, che non deve indurre né a drammatizzazione, né a frustrazione, la coppia dà senso all'impegno della ferialità, avendo come fine il tempo della festività.

Il tempo della festività è il tempo della libertà; libertà dalla schiavitù del lavoro (cf Es 5,14). La ferialità non può indurre l'uomo a vendere la sua dignità e la sua primogenitura per un piatto di lenticchie (cf Gn 25,29-34).

La ferialità è allora il tempo e il luogo dove la coppia esprime fattivamente e attivamente la propria identità, presente e attenta alle necessità dell'altro e degli altri. Non si rifugia in uno spiritualismo disincarnato, ma si fa tutta a tutti, senza esibizioni, con pacata serenità. Svolge bene i compiti che le sono stati assegnati, superando con tenacia e perseveranza, gli ostacoli che ogni cammino, ogni costruzione umana, comporta. La coppia vive di ferialità come proposta per uscire dal «sistema», dal circolo vizioso: «tutto, ora, qui e subito», per un progetto di società nuova, fraterna e solidale.

La coppia vive la ferialità come un continuo esodo dai molti idoli, verso il solo, unico e vero Dio.

Questo traguardo non la rende estranea all'impegno, anzi la induce a «sporcarsi le mani» per progettare e costruire il mondo, dono di Dio, in modo conforme al suo disegno (cf Gaudium et spes 37 e 38).

È qui nel mondo che la ferialità inizia la realizzazione della storia della salvezza che sfocerà in un nuovo cielo e una nuova terra (cf Ap 21,1). Si può allora applicare alla coppia cristiana quanto leggiamo in «A Diogneto»: «Dio ha assegnato loro un posto così sublime e ad essi non è lecito abbandonarlo».

La coppia (la famiglia) esce tutti i giorni di casa per impegnarsi con spirito di servizio nel sociale, non solo per il soddisfacimento dei propri bisogni, ma anche per costruire un ordine sociale nuovo, fondato non sull’egoismo e l'interesse privato, ma per il bene comune. Una società, cioè, in cui solidarietà, giustizia, condivisione, corresponsabilità siano valori primari e fondanti.

Una «società dell'amore».

 

La festività

Ogni settimana ha il suo sabato, il giorno in cui Dio stesso cessò ogni lavoro (cf Gn 2,3). Giorno consacrato alla contemplazione della stupenda opera del Creatore. Giorno di festa. Giorno in cui l'uomo prende coscienza degli inestimabili doni che ha ricevuto in affidamento e innalza canti di ringraziamento. È il giorno del riposo (cf Es 20,8-11), in tutti i tempi (cf Es 34,21) per tutti gli uomini e anche per gli animali.

Per il cristiano, perché la festa è già venuta con Gesù il Cristo, è il primo giorno della settimana che illumina tutto l'impegno feriale. La festa è l'unione fraterna di tutti gli uomini. Non vi sono più gerarchie, ceti, etnie, razze, ecc. Tutti sono chiamati a riconoscersi pari nella dignità e nel valore, perché figli dello stesso Padre. 

Ogni anno ha la sua festa. La Pasqua ebraica ricorda il passaggio dalla schiavitù del lavoro alla libertà, per onorare Dio: «questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come la festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete con rito perenne» (Es 12,14). 

La Pasqua cristiana celebra il passaggio dalla schiavitù del peccato alla libertà dei figli di Dio. 

Ogni cinquanta anni (sette settimane di anni) la festa del Giubileo (cf Lev 25).  Non solo uomini e animali riposano, ma anche la terra riposa. (Quale l'elenco delle cose da far «riposare», oggi?). Si rimettono i debiti.

La festa insegna a rispettare il sistema ecologico, a non sfruttare, a non inquinare, ad essere attenti alle biotecnologie per non correre il rischio di far pagare ai figli i peccati dei padri.

È il riconoscimento concreto che tutto viene dal Padre e al Padre tornerà (cf Lev 25,23).

Dio ha creato l'uomo libero e nessuno può renderlo schiavo o prigioniero. Non si può lasciare nel limbo di una spiritualità astratta il riconoscimento della paternità di Dio e della fraternità di tutti gli uomini.

La festa è libertà da tutte le schiavitù e passioni, dai vincoli devastanti che vogliono impastoiare l’uomo nell'oppressione dell'«avere» per farlo essere nel riposo, nella pace, nella solidarietà, nella gratuità. Rende gli uomini liberi dalla storia di peccato nella quale sono immersi.

La festa è canto di «osanna e alleluia» per la bellezza della creazione. La coppia vive «alla Presenza» sente «Dio con noi», una luce la illumina e comprende che la sua essenza non si esaurisce nella mondanità, nella ricchezza, nel piacere, ma che ha una vocazione più alta, trascendente.

La festa libera lo spirito dell'uomo.

La festa fa «memoria», e rinvia non solo ad una individuale privata salvezza in un mondo che verrà, ma sollecita ad una attenzione all'oggi, alla salvezza di tutto il popolo. (Già Mosè - come farà poi Gesù in modo perfetto - antepone la salvezza del popolo alla sua: «Mosè tornò dal Signore e disse: "Questo popolo ha commesso un grande peccato, si sono fatti un dio d'oro. Ma ora se tu perdonassi il loro peccato... E se no, cancellami dal tuo libro che hai scritto!"»). Nel mondo vi sono semi di bontà che devono essere fatti fiorire oltre i rovi, le spine, i sassi.

 

La coppia e la festa

Nella sua realtà esistenziale, la coppia deve realizzare tutti i giorni

la festa. Siano cinque minuti, sia un'ora, o più, gli sposi devono celebrare la festa ogni giorno. Staccare la spina (reale e metaforica) per essere se stessi. Uno di fronte all'altro, uno di fianco all'altro. Contemplare l'uno negli occhi dell'altro la meraviglia del loro amore, e cantare e ringraziare per lo stupendo dono che è stato loro elargito. La festa è:

· fare silenzio. Fermarsi, sedersi, non fare, non parlare con

la bocca. Guardarsi, vedersi. Consentire che la comunicazione si svolga con gli occhi e con il cuore. I pensieri passano con lo sfiorarsi lieve di una carezza. È la pace clic si realizza tra uomo e donna. Purificarsi dagli inquinamenti della ferialità in cui antagonismo, rivalsa, efficientismo avvelenano l'anima; ossigenarsi con la vicinanza. con la prossimità, con la fiducia reciproca, con il sentire che si è «valore» per l'altro, che l'altro ha cura di me. È solidarietà, responsabilità;

· farsi conoscere per quello che si è e non per quello che si appare. Abbandonarsi con fiducia all'accoglienza. Abbassare

la guardia. Offrirsi disarmati sapendo che l'altro non ne approfitta. Conoscersi limitati e non pretendere gratificazioni, farsi carico della fragilità dell'altro, non meravigliarsi o irritarsi perché l'altro non è perfetto come lo abbiamo immaginato. È tenerezza e comprensione;

· confidarsi le fatiche sia lavorative che familiari della giornata, per dividere le pene e raddoppiare le gioie. Capire le motivazioni dello stare assieme, confrontarle. Momento di riposo per ridestare speranze e sogni. Risorgere per dare nuovo impulso, nuova linfa vitale, un senso, un significato a cui tendere come sposi nell'impegno feriale. È progetto;

· rimettersi i debiti. Perdonarsi. Restituirsi reciprocamente la libertà per potersela nuovamente donare. Ridarsi dignità e stima. È onorarsi;

· convivialità, sedersi a tavola assieme. Spezzare e condividere il pane, il vino…

la mela. Rinnovare la gioia e l'allegria del giorno delle nozze. «Il vino allieta la vita» (Qo 10,11). «Sì, le tue tenerezze sono più dolci del vino» (Cc 1,2). La festa della tenerezza disincaglia dai bassi fondali dell'abitudinarietà e della solitudine per far alzare le vele verso la sorpresa, la scoperta, la luminosa meraviglia di essere due, ma di essere una sola carne, un solo spirito nell'unità della distinzione. La cena diventa celebrazione, simbolo e richiamo dell'interiorità. Esprime realtà che la comunicazione orale non può far capire in pienezza. È gratuità e gratificazione;

· dono del corpo. Silenzio, parole, convivialità si condensano, si esprimono nella completezza del dono. Non una parte, ma tutta la persona si offre e si dona. Nel vero amore il dono del corpo diventa sacramento, segno visibile dell'amore spirituale, intimo e interiore che anima

la fisicità. Il dono del corpo è il dono della totalità, è la festa dell'alleanza, la festa della comunione. La logica del dono esclude il possesso, ma non il desiderio, ed esalta

la gratitudine. Gli sposi donano tutto se stessi, il visibile e l'invisibile, non appartengono più a sé stessi, ma sono grazia uno per l'altro. Oltre non si può andare.

 

La festa domenicale. 

Pellegrinaggio verso un Sabato senza fine

In questa cornice si inserisce l'icona della festa domenicale. 

Giorno del Signore da celebrare come coppia, liturgia, convito, comunione.  Eucaristia. Solenne inno di ringraziamento innalzato al Padre per il dono del Figlio sposo e dello Spirito Santo che rendono possibile l'amore «per sempre». 

La festa della coppia è la gioia del Padre, anticipazione della festa escatologica. 

La coppia (la famiglia) esce dalla casa in modo particolare la Domenica, le pareti della casa non sono le mura di un fortino assediato dove ognuno sta chiuso in difesa di un suo interesse privato, indifferenti a quanto avviene fuori. 

La coppia (la famiglia) apre le porte. Esce. Inizia un cammino, un esodo, un pellegrinaggio con gli abitanti delle case vicine. Da clan diventa popolo, un popolo in cammino verso una Chiesa comunità sponsale, la parrocchia (famiglia delle famiglie). 

La festa domenicale diventa il luogo e il tempo in cui loda e ringrazia il Padre per i benefici accordati, chiede aiuto per tutte le necessità personali e comunitarie, ma principalmente ascolta qual è il disegno che il Padre comunica in Cristo Gesù e invoca lo Spirito per avere la capacità di attuarlo. 

La festa domenicale non è però una semplice manifestazione di buone intenzioni, una monotona ripetitività di formule e di riti, non è moralismo, adesione formale, soddisfacimento di un obbligo.

La festa della Parola, del ringraziamento (Eucaristia), della comunione si avvera quando il singolo, la coppia, le famiglie prendono sul serio e attuano concretamente le parole che pronunciano con le labbra: «Ti preghiamo umilmente: per la comunione al corpo e al sangue di Cristo, lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo» (Preghiera Eucaristica II). Si deve riconoscere che quanto noi chiediamo il Padre lo concede immediatamente; spetta alla nostra libertà accoglierlo, attuarlo o rinviarlo ad un futuro ipotetico.

Costruendo e vivendo la comunità-comunione si realizza la parola che il Creatore ha fatto all'inizio: «non è bene che l'uomo sia solo». Comprendere la bellezza della Parola è gioia e piacere, e la si vuole attuare non solo perché volontà di Dio, ma perché salva e libera dall'autosufficienza, dalla pretesa dell’autorealizzazione. È stare insieme, spezzare il pane spirituale e materiale, condividerlo, è servizio («lavarsi i piedi») vicendevole.

È necessario che la festa diventi testimonianza di vita perché solo vivendo in unità e concordia si può convincere il mondo. Si educa e si converte all'amore dando testimonianza d'amore. La festa realizza, all'interno della coppia, della famiglia, della società, della chiesa il momento di sosta e di nutrimento per continuare con speranza e letizia il cammino verso il punto omega dell'incontro, quando risuoneranno: «le grida di gioia e la voce dell'allegria, la voce della sposa e dello sposo» (Ger 7,34).

Tina e Michele Colella

Genova

Da “Famiglia domani” 4/2000

 

Pubblicato in Spiritualità Familiare
Venerdì, 13 Gennaio 2006 19:25

Cuore di nonno

 I nonni italiani sono 11 milioni, con in media 3,5 nipoti ciascuno Un nutrito campione di bambini, interpellato da "Noi", a sorpresa dichiara: «Con loro non facciamo niente di speciale». Possibile? O non sarà che "speciale" è già lo stare insieme? Ecco le risposte.

Mercoledì, 28 Dicembre 2005 19:50

Un mondo di maghi

UN MONDO DI MAGHI

Noi domandiamo un consiglio, ma in realtà cerchiamo approvazione

(C.C.Colton)

Che cosa si nasconde dietro la ricerca affannosa di informazioni mediche, di consigli da parte di maghi e fattucchiere, di trasmissioni te-levisive basate su uno psicologismo spesso rozzo e a buon mercato.

Non si tratta di semplice curiosità, ma di un bisogno più profondo che può forse essere identificato come la ricerca di un senso alla vita

0 di un Senso, il bisogno religioso per eccellenza.

Le persone che, entrando in un ambulatorio, spiazzano il medico con una dissertazione sul proprio stato di salute, proprio come se fossero lì a confortare lo specialista con la loro sicurezza, sono sempre più numerose. I termini tecnici e scientifici sono ormai usati e abusati senza pudore né ritegno. Quello che una volta veniva rimproverato alla classe medica quando, per spiegare lo stato di salute di un paziente, usava termini come iperpiressia al posto di febbre o mialgia invece di dolori muscolari, è diventato strumento di linguaggio quotidiano.

 A creare questo balzo di qualità (?!?) hanno contribuito almeno due fattori che rappresentano il prodotto più tipico della nostra era mediatica. Il primo è l’insostituibile strumento della informazione cartacea. Al pari di una sirena ricca di richiami e di tentazioni per tutti coloro che avvertono la sudditanza di un vuoto culturale e informativo, la rivista, specie se monografica, con la possibilità che offre di essere raccolta, rilegata e consultata, resta il mezzo principe del sapere popolare. Qualche umorista buontempone ha affermato – ma è davvero solo umorismo? – che quando una categoria professionale batte la fiacca o si trova in crisi di «materia prima», può sempre cercare di procacciarsi nuovi clienti, attirando la loro attenzione su problemi di cui fino ad allora non erano a conoscenza. Il risultato è paradossale e sicuro, come dire: «quando sai che c’è un rischio, cessa la tua tranquillità». La proliferazione di pubblicazioni, quasi sempre a carattere divulgativo, su argomenti attinenti la salute fisica e mentale, con la falsa pretesa di informare e snellire le frequenze negli ambulatori, di fatto ha tolto la tranquillità a tutti coloro che fino ad allora non si erano posti il problema. Gli slogan del tipo «conoscersi è curarsi» o «salute fai da te» hanno fatto buona presa sull’ipocondria latente che è in ognuno di noi, convincendo una gran parte di persone a farsi visitare, dopo essersi documentata su una malattia fino ad allora sconosciuta perché, giurava, quei sintomi li aveva proprio tutti.

Il secondo fattore è dato dalla pletora selvaggia e incontrollabile di maghi, streghe e presunti addetti ai lavori che dai luoghi più disparati invia, soprattutto di notte, informazioni e richiami su possibili rischi di malattie o disagi striscianti. Condannati dal buio della notte a dover sopportare l’insonnia o le sempre più scomode sfalsature degli orari, il terminale domestico del «villaggio globale», la televisione, con un balzello che va dall’oroscopo al paranormale, dalla curiosità sessuale morbosa spacciata per inchiesta di costume al ciarpame new age, ci porta in casa quanto di più acriticamente insulso si possa trovare in questo composito immondezzaio.

 

La sete di significato

 

Complici di questa campagna di proselitismo sono le televisioni minori, in genere emittenti locali che, attraverso rubriche dalla pretesa scientifica, ora terrorizzano ora imboniscono quella popolazione di curiosi o di insonni la quale, nella calma della notte, non ha altra possibilità di passare le ore se non davanti alla scatola magica della tv.

Alcune inchieste hanno messo in evidenza un tratto ancora più inquietante: tutte queste trasmissioni sono sempre e regolarmente pagate dai maghi stessi i quali traggono un indubbio beneficio dal fatto che ogni tanto qualcuno abbocchi. Il prodigio si spiega fin troppo bene: il linguaggio allusivo e inconcludente, la frequente visitazione dei luoghi comuni che gratificano il potenziale cliente investendolo dall’inizio di un interesse che si prende cura di tutte le presunte patologie appena enunciate, la constatazione del buio di una ignoranza e di una grossolanità nelle quali ogni lucciola potrebbe accecare, la promessa di una risoluzione sicura in cambio di una incondizionata fiducia. Non può esserci risposta più appropriata ad un inganno desiderato.

L’ignoranza religiosa, del resto, ne è lo specchio fedele: la magia colma per un attimo e a poco prezzo (ma questo sarebbe tutto da verificare!...) una sete di significato destinata a rimanere insoddisfatta, almeno di giorno, quando il dinamismo della quotidianità opprime e ad evocare fantasmi minacciosi di notte, quando il tempo non passa e l’inadeguatezza non garantisce alcuna via di fuga dalle paure. Una decina di anni fa la diocesi di Bologna promulgò un documento che riassumeva alcuni tratti dell’ansia dell’uomo contemporaneo e del suo bisogno di «conoscere il mistero, le forze occulte della natura, ciò che sta oltre la sfera sensibile, il mondo dello spirito, il futuro; un bisogno che si mescola con la ricerca di trascendenza, senza però che se ne accetti la vera natura e si ammettano i limiti dell’intelligenza umana».

Nessun antropologo nega che la sete di sacro sia innestata nell’animo dell’uomo, ma l’incapacità, forse la caratteristica più appariscente nell’uomo acculturato, di dare delle risposte è oggi causa di una cascata di equivoci su scala esponenziale. Il prodotto è una confusione che se da un lato mira a sacralizzare ogni stato psichico appena diverso da quello «usuale» (e qui potrebbero entrare in ballo tutte le codificazioni della normalità), dall’altro tende a ridurre a livello di esperienza ogni sacralità vissuta. Per comprendere questo basti pensare a quali suggestioni sono capaci di trasmettere certe persone dalle pretese doti carismatiche o il richiamo al benessere urlato dal culto della new age. Ma in tutto questo non scopriamo niente di nuovo: le deformazioni ideologiche della realtà hanno un paradigma fin troppo noto: l’errore attorno alla religiosità umana è in stretta derivazione con l’errore sull’uomo stesso.

Ad aggravare questa situazione c’è l’effetto alone che simili sbagli comportano. L’uomo infatti si organizza in comunità e le sue scelte esperienziali finiscono per trasformarsi in fenomeni dalla portata culturale, spandendosi nel tessuto sociale al pari delle onde che nascono dal lancio di un sasso in uno stagno.

 

La vulnerabilità del nostro progresso

 

Con l’avvento delle grandi scoperte, e illuminato dal primato della ragione sulla materia, l’uomo moderno ha creduto di poter ribaltare la gerarchia dei valori che per secoli lo aveva guidato. La conoscenza della psicologia, in particolare quella del profondo, ha frantumato le barriere dell’esperienza, e una volta insinuatasi nella periferia dei salotti o dei chiacchiericci, ha ridotto la fenomenologia dell’intimità ad un evento su cui dissertare senza pudore e senza la paura di lasciarsi inghiottire dagli eccessi della banalità. È molto facile parlare di tutto e, al tempo stesso, contestare quanto affermato. La moderna ideologia, così, applicandosi all’esperienza intima – psicologica e religiosa – rischia di ridurre tutto a misura di sé, provocando un disordine che si dipinge facilmente di suggestioni che, dopo aver parodiato il sacro, sfociano nelle superstizioni individuali e sociali. Se anche questo è progresso, dobbiamo essere pronti ad ammettere che il lato che la scienza ci mostra è quello della vulnerabilità e dell’incertezza.

Il risultato che il facile psicologismo produce, specie in chi si dimostra permeabile alle dissertazioni semplicistiche della saggezza televisiva, se da una parte mostra tutta l’ansia e il bisogno di trascendere che sta nell’animo umano, dall’altra mette in evidenza tutti i gradini che si possono scendere quando si confonde la dimensione psicologica con quella religiosa.

In primo luogo troviamo la progressiva perdita dell’esperienza concreta del Sacro, accompagnata da una crescente riduzione della vita interiore che tende ad aderire alla semplice convenzione sociale della morale.

La conseguenza di questo primo passo è la frustrazione dei bisogni spirituali della persona e, per paradosso, un individualismo religioso in cui ognuno avverte la responsabilità del rapporto con la religione senza alcuna mediazione comunitaria.

Ne nasce il consumismo religioso, prodotto originale di quel materialismo spirituale in cui la spiritualità è trattata alla stregua di un prodotto da supermercato o, peggio ancora, da esportare come mezzo utile a colonizzare.

Il traguardo di questa metamorfosi è la «religione-fai-da-te», ossia l’acquisizione di una mentalità desacralizzata in cui religiosità, spiritualità e misticismo si ammantano di uno «pseudo» che porta con sempre più naturalezza a ricercare in esperienze paranormali o in contatti con entità immateriali l’ultimo barlume di divinità indispensabile alla vita dell’uomo.

Ed è proprio l’immagine del vagare, spesso senza meta, di questo uomo post-moderno che ci mostra come, a dispetto del progresso, gli atteggiamenti non cambino molto a distanza di millenni. Cosa portò il figlio prodigo a cercare la via di fuga da casa? E cosa lo convinse a tornare sui suoi passi? Quella favola così ricca di significati e capace di ispirare e condizionare l’espressività degli infiniti linguaggi estetici dalla letteratura al cinema, dalla pittura al melodramma, potrebbe essere riletta, oggi più che mai, per giungere ad immaginare un diverso finale.

Nel bel mezzo di una carestia (una guerra?, un esilio?) e in preda ai morsi della fame, il nostro giovane sente crollare tutte le superbie che lo avevano indotto a lasciare la casa paterna. La fame fa miracoli e, attanagliato dai crampi del digiuno, comincia ad abbassare gli occhi, avendo perduto la capacità di guardare dall’alto delle sue ricchezze. Vede solo i maiali e invidia il loro pastone. Ora ha due possibilità: «rientrare in se stesso» o sedersi al trogolo dei porci. La parabola di Luca ci dà la prima versione; noi immaginiamo

la seconda. Uno sguardo circospetto per assicurarsi che nessuno veda e, preda di un riflesso primordiale, si getta sulle ghiande, afferrandone quante può contenerne la sua bocca per acquietare, senza neppure masticare, quello stomaco provato dagli stenti. Dopo pochi minuti i crampi, tutt’altro che sedati, crescono fino a congestionarlo ed ucciderlo.

Potremmo supporre che le ghiande, per un miraggio della fame, avessero lo stesso aspetto e colore di un prodotto di pasticceria. In realtà la sola deduzione logica che possiamo elaborare è che, nel suo vagabondare, ma sempre in orizzontale, il nostro giovane abbia sentito fortissimo il bisogno di soddisfare il vuoto di Senso e, appena intravisti degli oggetti che potevano offrire una somiglianza con ciò che desiderava e che aveva perduto, privo di spirito critico, abbia seguito l’impulso primitivo a soddisfarsi. Anche a rischio di morire.

 

Un po’ di umorismo... e di buon senso

 

Credo che sia questo sia il ritratto più fedele del nostro mondo attuale: una realtà piena di false risposte a bisogni autentici e condannata a nutrirsi di superstizioni trasformate in mercato. Nella mia esperienza di lavoro ho fatto spesso i conti con le emozioni altrui; in qualche occasione, come nei training di gruppo o come nel caso di lezioni a corsi di studenti, ho anche provato un certo interesse a suscitarle, sempre attraverso specifici quesiti, per poter vedere in quale misura si contendevano un primato sulla razionalità. La scoperta più interessante e più liberatoria la avvertivo quando trovavano risposte che erano partorite da uno spirito umoristico.

Quali discipline ti suscitano le emozioni più grandi? Qual è il ruolo degli insegnanti, degli amici, dei familiari nel loro rafforzamento? In che modo le emozioni hanno ostacolato o favorito la tua formazione? Solo per citare alcune delle domande. Alla fine gli stessi corsisti erano interessati a scoprire il ruolo delle emozioni e i percorsi che a quel momento avevano seguito. Ricordo di aver parlato spesso della perdita di senso e di come sia facile arroccarsi su posizioni assurde pur di non ammettere che si è immersi nell’errore. Al termine dei miei discorsi però c’era in genere un silenzio che non mi soddisfaceva perché per primo mi rendevo conto che si respirava un sapore di predicozzo tutto retorica e niente praticità. Un giorno una studentessa mi chiese:

 

«Può farci un esempio?». Tornai verso la cattedra e lessi una storiella di Niels Ull Jacobsen della Università di Copenaghen.

Un biologo, uno statistico e un matematico partecipano ad un foto-safari in Africa. Viaggiano nella savana a bordo di una jeep scrutando l’orizzonte con i loro binocoli (tranne il matematico che guida la jeep). Improvvisamente il biologo, in preda all’agitazione, esclama:

«Guardate! C’è un branco di zebre! E in mezzo c’è una zebra bianca! Fantastico! Esistono zebre bianche! E io le ho scoperte! Sarò famoso!».

Lo statistico replica:

«Non è un dato significativo. Noi sappiamo che esiste UNA zebra bianca».

Il matematico, senza neppure guardare la zebra, dice con voce calma:

«Vi sbagliate entrambi. In realtà noi sappiamo soltanto che esiste UNA zebra che è bianca da UN lato».

Agli studenti piacque e il risultato fu che decidemmo tutti di sorridere di più e, soprattutto, a distinguere i momenti in cui si cercava la verità da quelli in cui eravamo animati solo da polemica accomodante.

In realtà i nostri atti, le nostre relazioni interpersonali si muovono costantemente tra un polo remissivo e uno espressamente polemico. La tentazione a dissertare è continuamente in agguato e c’è da aggiungere che il più visitato è, comunque, il mondo dei valori. Qui la tentazione a esprimere la nostra opinione, specie se siamo freschi di informazione, è molto forte. Psicologia e religione restano i «siti» preferiti. Su questi argomenti lo spirito polemico può essere sconfinato. Un altro aneddoto riferiva di una disputa tra le menti più eclettiche del mondo su quanto facesse «2x2». L’ingegnere estrasse il regolo calcolatore e dopo lunghi e laboriosi scorrimenti verso destra e sinistra, sentenziò: «3.99». Il fisico consultò i suoi manuali, impostò i suoi cervelloni e corresse: «È un risultato che sta fra 3.99 e 4.01». Il matematico dopo averci pensato bene disse: «Cosa vi importa di quanto fa? L’importante è che il problema sia ben impostato. In questo caso chiunque è in grado di dare la risposta». Il filosofo senza distrarsi dalle sue elucubrazioni disse: «Ma poi, cosa intendete con 2x2?». Il commercialista chiuse porte e finestre e ammiccando con fare circospetto mormorò: «Mettiamoci d’accordo senza farci pubblicità: quanto volete che faccia?».

Don Milani, prete ed educatore, metteva in guardia dalle persone che oggi leggono un libro e domani te lo raccontano, spacciando, magari, quelle teorie per frutto della propria mente. Un invito a non rinunciare a far ricorso al buon senso. Alla fine ci si accorge che la buona volontà, andando di pari passo con la sincerità d’animo, ha sempre la meglio.

 

Giovanni Scalera

Psicologo - Psicoterapeuta

Il linguaggio dell'amore:

1 - La rassicurazione

2 - I momenti speciali

3 - La collaborazione

 

Ciascuno di noi possiede un linguaggio dell’amore, ovvero una modalità del tutto personale di esprimere i propri sentimenti e le proprie sensibilità. E non è detto che le due componenti della coppia parlino lo stesso linguaggio. Spesso la costruzione di un linguaggio condiviso è anzi il frutto di un processo lento, di reciproca conoscenza e comprensione. Tuttavia, non è così difficile come si potrebbe credere. Basterebbe infatti riflettere sul proprio linguaggio per renderlo più facilmente comprensibile all’altro, aprendosi al contempo alle sue esigenze.

Quali momenti sono speciali per noi? E in che modo viviamo l’esigenza di essere rassicurati? O di collaborare? Alle volte basta un gesto, una parola che venga incontro alla necessità del partner di sentirsi voluto bene, di sentirsi compreso e apprezzato, per dare un valore positivo all’amore e portare un sorriso in famiglia.

Troppo spesso, invece, la mancanza di comunicazione alimenta le incomprensioni e le difficoltà di relazione.

Bisognerebbe dunque interrogarsi su quale sia il proprio linguaggio dell’amore, che è fatto sì di parole di rassicurazione e tenerezza ma anche della capacità di vivere e condividere momenti speciali (regalarsi una cena romantica, uscire con il proprio partner per una passeggiata...), di donare e ricevere doni, di aiutarsi a vicenda nella gestione delle incombenze quotidiane, di contatto fisico.

Occorre perciò scoprire qual è il proprio linguaggio preferito e comunicarlo all’altro.

Un discorso simile vale anche per i figli, nei cui confronti bisogna utilizzare un linguaggio dell’amore condiviso che consenta di interrogarsi e di capire cosa desiderino veramente, aldilà delle apparenze e delle superficialità.

Maurizio Andolfi


Vedi anche:  Il linguaggio dell'amore: il contatto fisico - comprensione dei bisogni - saper vedere insieme

Venerdì, 16 Dicembre 2005 18:35

Una saggezza antica

UNA SAGGEZZA ANTICA

Di fronte alla comparsa invadente del dolore nell'esistenza umana e al conseguente tentativo di rimuoverlo, sempre più importante appare il «chiedere aiuto» Per mettere in atto, in un accordo tra me­dico e «paziente», un progetto di guarigione.

Non c'è dubbio che il senso del malessere fisico favorisca in noi la presa di una coscienza più concreta dell'esistere. Possiamo attraversare momenti di gioia e di euforia: tutto ci appare normale e non ci viene da chiederci la provenienza di quello stato d'animo. Ma il dolore non è più normalità: è il male, e quando lo si avverte ci pone degli interrogativi che possono avere un sapore angosciante; primo fra tutti: quanto durerà? Si inizia da bambini, con la ben nota «angoscia dell'ottavo mese», momento insostituibile per il futuro equilibrio psico-fisico, per giungere, attraverso le prove che la nostra esigenza di vita relazionale ci im­pone, a fare esperienza di dolore quotidianamente. Non so in quante parti del nostro territorio si usino espressioni che riescano, con una semantica essenziale ed illuminata, a rendere bene l'idea di questo binomio dolore-esistenza. Ricordo un compagno di banco del ginnasio, proveniva dalla zona di Volterra, che quan­do aveva mal di testa si esprimeva così: «Mi sento la testa». Una volta decodifi­cato il suo modo di ragionare, sono certo che non mi avrebbe meravigliato se avesse aggiunto: «Quando non ho dolori, non mi accorgo neppure di esistere».

La ricerca di aiuto

Quante facce ha il dolore? E chi può dire se ciò che colpisce lo spirito fac­cia sanguinare più di una cruenta ferita che lacera il corpo? Il protagonista sartriano de «La nausea», Roquetin, ci offre un esempio di come si possa giun­gere a cogliere il senso dell'esistenza, attraverso il dolore. Non si tratta qui di un malessere fisico, ma di un disagio esistenziale di fronte al quale può sorge­re la tentazione all'arrendevolezza. L'esperienza del dolore è qualcosa che, prima o poi, si è fatta strada in ognuno di noi; guarire significa prendere co­scienza delle ragioni del proprio star male e impegnarsi con tutta la volontà per uscirne. Nell'immaginario comune, al concetto di salute e di malattia, con sempre maggiore frequenza, si associano attributi esterni alla persona come il delegare totalmente al farmaco il compito di preservarci dal dolore, l'affidar­si alle arti di un guaritore, il raccomandarsi alle forze soprannaturali. In realtà, questi atteggiamenti, che potrebbero suscitare una simpatia per la creatura che coltiva autentici tratti di umiltà, si mischiano sempre più spesso a gesti di abbandono o di superstizione, quando sono prodotti dalla convinzione che le normali vie verso il benessere siano state vanamente esperite e praticate. Qualche volta, poi, si verifica il rifiuto, da parte di un paziente, di praticare i normali percorsi verso la propria guarigione perché questi gli appaiono inop­portuni o improponibili per le rinunce che richiedono; altre volte, infine, si ne­ga al medico di offrire spiegazioni, per la paura di apprendere verità che si preferisce non conoscere.

Il dolore appare sempre più invadente nella vita dell'uomo moderno. Se una volta, nel romanzo della vita, la trama che comprendeva l'avventura di ogni essere umano, non sapeva disgiungere nascita, esistenza, sofferenza e morte, oggi il dolore viene quanto più possibile enucleato da questo ciclo, e relegato ad ambienti asettici o luoghi il cui ingresso è riservato agli addetti ai lavori. Il contatto con il dolore, forse perché si contrappone ad una vita dalle premesse e dalle promesse totalmente edonistiche, è rifiutato fino dalla prima presa di co­scienza. Piuttosto che soffrire, si preferisce allora aggirare il traguardo della gioia. Sociologi e antropologi ci ammoniscono che le relazioni profonde sono sempre più spesso evitate, perché, non impegnandosi in rapporti troppo coin­volgenti, si evita di soffrire in caso di eventuali fratture o fallimenti.

Ma il dolore, negato e fuggito da ogni essere vivente, per paradosso si ri­vela un compagno insostituibile. È presente nel trauma della nascita, scruta i nostri rossori nei turbamenti adolescenziali, ci fa abbassare lo sguardo nelle delusioni amorose, ci fa scoprire la sensazione di impotenza nelle aggressi­vità del climaterio, ci nega con sempre maggiore frequenza la compagnia di una mano amica nel momento dell'ultimo trapasso. Forse l'errore dell'uomo moderno è quello di immaginare una esistenza senza dolore, piuttosto che cercare un rimedio per la guarigione.

Guarire tra bisogno e volontà

A prendere in esame i vissuti del dolore, prima ancora dei medici e dei biologi, sono stati i filosofi, i quali hanno cercato di vedere in questo retaggio il lievito di un disagio dai contorni proteiformi e inesauribili. Da Parmenide a Pascal, da Erasmo da Rotterdam a Heiddegger, lo studio dell'uomo e dei suoi bisogni insoddisfatti viaggia di pari passo con quello della sua esistenza, fino ai nostri pensatori attuali, i quali hanno teorizzato che ogni essere vivente oscilli perpetuamente tra il dolore per la mancanza di ciò a cui aspira e il do­lore per il tedio e il disgusto per ciò che ha raggiunto. La conseguenza inevi­tabile è che se il rapporto con il mondo dal quale dipendono salute, benessere e felicità non può essere reso saldo e garantito da nessuna accortezza, c'è so­lo da affidarsi alla precarietà e, per molti, al primo segnale negativo, è la di­sperazione. La fragile maturità nell'affrontare la sofferenza da parte dell'uo­mo moderno è sottolineata da un recente rapporto del Censis che riporta nel numero di 6.000 i suicidi verificatisi nel nostro Paese lo scorso anno.

Se è impossibile annullare il dolore, deve essere possibile recuperare una sag­gezza che almeno ci ponga in condizioni di affrontarlo. Purtroppo, i grandi cam­biamenti che hanno modificato la nostra cultura hanno finito con l'assumere i contorni di una idolatria. Al mondo dei valori nei quali si era sempre creduto si sono sostituiti dei feticci - primi fra tutti soldi e successo - e, a questi, si è dedi­cata la nostra intera esistenza. Solo le anime grandi provano senso di angoscia per tutte le ferite con le quali viene messo a prova il nostro mondo. Gran parte delle persone si libera della propria tradizione e degli insegnamenti come ci si li­bererebbe di orpelli inutili per giungere, poi, nei momenti della prova, a racco­mandarsi ai propri defunti ai quali crede di poter attribuire poteri magici. Ma i morti non soccorrono i vivi; invocarli sull'orlo dell'abisso ci fa avvertire un si­lenzio che ha il sapore della complicità. Anche la perdita della fede, più che un fallimento personale, ha il sapore di un torto alla società perché si pone contro tutti gli stimoli che hanno fatto da culla allo sviluppo dell'uomo. L'umiltà e un certo buonsenso raccomanderebbero, allora, che la ricerca di aiuto potesse anda­re in una direzione capace di portare alla riscoperta di una saggezza antica. L'e­sempio di quanti ci hanno preceduto, il tesoro della loro esperienza, il desiderio di essere interpreti di un cambiamento, possono portarci a riscoprire le autentiche strade verso

la guarigione. La cosa importante resta la volontà di sentirsi risana­ti, facendosi carico dello sforzo necessario. Ai malati che gli chiedevano il mira­colo, Gesù chiedeva sempre: «Cosa chiedi?», quasi non sapesse quale era la loro vera preghiera. E subito dopo aggiungeva: «Lo vuoi davvero?». Perché ognuno si sentisse protagonista della propria supplica e del proprio risanamento.

Ma l'uomo di oggi ha altre mire e, nel suo incessante occuparsi a produrre beni materiali per esorcizzare il rischio di mancanze o sofferenze, arriva al punto di non riconoscere più se la sua fronte è bagnata dal sudore o dall'angoscia.

Di Giovanni Scalera

Tratto da “Famiglia Domani – marzo 2002”

Domenica, 27 Novembre 2005 00:55

Ti scelgo per sempre

Scegliersi «per sempre» significa scegliersi «sempre», giorno do­po giorno, abbandonando le nostre sicurezze e le nostre paure. Signi­fica essere fedeli alla persona in ogni tappa del suo sviluppo . E significa vivere la fedeltà in ogni sua dimensione: essere cioè fedeli con se stessi, con Dio, con il partner e con la comunità.

Pubblicato in Spiritualità Familiare
Sabato, 12 Novembre 2005 10:00

LA BELLEZZA

                                         LA BELLEZZA

«Dio vide che era cosa buona...». Nel mondo della Bibbia e nel mondo greco «buono» e «bello» coincidono.Ma che cos’è la bellezza? È ciò che suscita un senso di piacere e di ammirazione nella persona. Per il credente, la Pasqua rivela la bellezza di Dio. La famiglia è il giardino privilegiato in cui cresce la bellezza.

La prima pagina della Bibbia sottoli­nea ripetutamente le diverse giornate della creazione con la nota frase: «Dio vide che era cosa buona».

Nel mondo ebraico come in quello greco solitamente non veniva disgiunto il concetto di bellezza da quello di bontà, anzi l’uno sembrava il completamento dell’altro. Insieme il kalòs hai agathòs (il bello e il buono) esprimevano perfezio­ne, quasi si volesse sottolineare che una realtà bella doveva essere anche buona, e che il bene doveva per forza essere bello.

Forse quella frase del racconto bibli­co potrebbe essere meglio espressa così: «Dio s’accorse che era una bella cosa». E quando si vuole evidenziare la creazio­ne dell’uomo: cosa!».

Le meraviglie del cielo, della terra e del mare, infatti, rappresentano una gran­de bellezza statica, mentre l’uomo espri­me una bellezza dinamica. Le cose sono belle per se stesse, ma non sono soggetto di emozioni, non sof­frono passioni. Invece esse stimolano la fantasia, suscitano interesse, risvegliano ammirazione nell’uomo, scuotono in­somma la sua mente e il suo cuore.

La bellezza stessa della persona non si può relegare ai soli lineamenti esterio­ri del suo corpo, ma parte dall’intimo e si esprime attraverso sguardi, sorrisi, at­teggiamenti, movenze. Possiamo dire che ogni persona può soltanto irradiare all’esterno quella bellezza che possiede dentro di sé, altrimenti è una bellezza morta, statuaria, opaca.

La nostra mentalità occidentale, abi­tuata a classificare e definire, a rinchiu­dere in tanti scomparti i vari concetti, si accorge di trovarsi davanti ad un termine troppo spesso equivocato, come avviene per la parola amore o per altre parole chiave dell’esistenza umana.

Bellezza è:

bontà

semplicità

impegno

grazia

sapienza

gioia

donna

uomo...

Nelle espressioni quotidiane mesco­liamo un po’ di tutto: «Che bella perso­na!», e non ci riferiamo al suo aspetto fi­sico; «Che bel piatto!», e si intende un piatto abbondante e gustoso; «Che bella idea!», ed è qualcosa di interessante.

Bello significa tutto e nulla nello stes­so tempo.

Presso popolazioni che vivono nella povertà o nell’essenzialità il concetto di bello diventa quasi sinonimo di utile, nella società del superfluo si avvicina al concetto di dilettevole, nel mondo della cultura bello può significare estetica­mente perfetto.

Bello è semplicemente bello

Bello è quello che la persona perce­pisce come tale e suscita in lei un senso di piacere e di ammirazione.

Sicuramente bello è Dio, e Gesù di Nazareth, il Figlio di Dio, il più bello tra i figli degli uomini, nato da donna. Bella è sua madre, Maria ripiena di grazia, bontà, semplicità, impegno, gioia, fem­minilità.

Essi hanno ispirato e impegnato gli artisti del mondo e della storia cristiana a descrivere la loro bellezza.

Bellezza è donna

Ritorniamo per qualche riflessione ancora nel mondo della Bibbia.

Rebecca, incontrata dal servo di Abra­mo, destinata a diventare sposa di Isacco era «molto bella d’aspetto, era vergi­ne...» (Gn 24,16) e oltremodo servizie­vole.

Giuditta, prima di invocare il Signore, si prostrò con la faccia a terra, si cosparse il capo di cenere e mise allo scoperto il sacco di cui, sotto, era rivestita nella sua vedovanza. Dopo aver pregato, si alzò, si tolse il sacco di cui era rivestita, si lavò, si profumò, spartì i capelli del capo e vi mise un diadema. «Si mise i sandali ai piedi, cinse le collane e infilò i braccia­letti, gli anelli e gli orecchini e ogni altro ornamento che aveva e si rese molto affa­scinante agli sguardi di qualunque uomo che l’avesse vista» (Gdt 10,4).

Giuditta, moglie di Manasse, con la sua bellezza salvò Israele dalla furia di Oloferne («che si è lasciato ingannare dal mio volto» [Gdt 13,16]) e del suo esercito assiro.

Ester, per smascherare le trame di Aman contro gli Israeliti, fece digiunare tutti i Giudei di Susa per tre giorni, non dovevano né mangiare né bere, ed anche lei e le sue ancelle fecero altrettanto. Ester si tolse le vesti di lusso ed indossò abiti miseri, si cosparse il capo di cenere e umiliò molto il suo corpo. Poi, come Giuditta, dopo aver lungamente pregato il Signore, lei, la regina, osò presentarsi al re Assuero.

Quattro donne che nella loro bellezza sono viste e ricordate come determinanti per la storia del popolo di Dio e per la sua salvezza.

Bellezza è uomo

C’era un uomo della tribù di Benia­mino chiamato Kis. «Costui aveva un fi­glio chiamato Saul, alto e bello: non e c’era nessuno più bello di lui tra gli Israeli­ti» (I Sam 9,2).

Davide, il ragazzine fatto chiamare dal pascolo dal profeta Samuele: «Era fulvo, con begli occhi e gentile d’aspetto» (1 Sam 16,12).

I primi re d’Israele non furono grezzi gorilla da combattimento e il terzo di lo­ro poi, Salomone, fu chiamato «il saggio per eccellenza».

La bellezza salverà il mondo?

Davvero il cammino della storia sarà corretto e salvato dalla bellezza? Quale bellezza?

Al centro della vita di ogni cristiano c’è l’avvenimento della Pasqua.

Questa grande e bella festa sta ad in­dicare una vita di continue risurrezioni, perciò diventa una vita interessante e bella nonostante i continui intoppi.

Un giardino per la bellezza

C’è un giardino privilegiato dove cre­sce la bellezza: la famiglia.

In questo luogo essa viene alimentata dall’amore dello sposo e della sposa, e dai figli che sbocciano come i germogli di una rigogliosa pianta di ulivo attorno al tavolo di cucina, come vuole il salmo 128.

I figli sono belli quando crescono in una famiglia bella.

La famiglia è bella quando coltiva l’essere più dell’apparire, il bene più del benessere, la comunione più degli squilli dei telefonini, l’attenzione ad ogni perso­na più di tante distrazioni, l’amore dona­to più di quello preteso o ricevuto.

Di certo questo tipo di famiglia non fa notizia, fa solo felici.

Utopia?

Un sogno spezzato dal risveglio in una cruda realtà? No! Tensione verso un ideale. Il Vangelo non propone mai tra­guardi corti.

Non si vuole però negare l’evidenza di tanti, troppi figli «belli» che conducono una «brutta vita» da pendolari tra un bab­bo e una mamma distanti, ingannati, spes­so attirati da una bellezza bugiarda, fatta di emozioni meschine, di egoismi bassi.

Anche questa è un’opportunità per chi crede in tante belle famiglie che pos­sono davvero salvarsi e salvare.

Valeria e Tony Piccin

Tratto da “famiglia Domani – aprile2002”

Pubblicato in Spiritualità Familiare
Lunedì, 31 Ottobre 2005 20:28

IL SACRAMENTO RISCOPERTO NEL WEEK END

IL SACRAMENTO RISCOPERTO NEL WEEK END

 

Molte sono le iniziative e le attività proposte dalle associazioni di spiritualità familiare in Italia: i Centri di preparazione al matrimonio per la formazione dei fidanzati; i Gruppi di spiritualità familiare e i gruppi famiglia dell’Azione Cattolica, per il cammino spirituale della propria fede; l’Associazione comunità e famiglia, per creare la solidarietà tra famiglie.

 

Nate tra gli anni 50 e 60, queste associazioni hanno avuto una crescita esponenziale, e possono essere considerate come il tentativo di trasferire nella base ecclesiali le intuizioni e gli stili di vita di piccoli gruppi ristretti. Ognuna di queste ha delle caratteristiche specifiche, nella propria organizzazione, nelle attività, ma si possono trovare dei tratti che accomunano queste associazioni. Innanzitutto, si trova il chiaro riferimento al Concilio Vaticano II, che ha messo in primo piano il tema del matrimonio e della famiglia, fino a quel momento assente dalla ricerca teologica e dalla cura pastorale.

 Poi deve essere evidenziata la riscoperta del senso del matrimonio come sacramento, per la santificazione personale dei coniugi, e per il suo valore ministeriale, teso all’edificazione della Chiesa. Di conseguenza, la famiglia torna ad essere considerata come la struttura portante dell’evangelizzazione, di cui il Papa indica l’urgenza nell’attuale società occidentale.

Altro tratto comune è la riscoperta della Bibbia, del suo insegnamento sul matrimonio, e della riattualizzazione del Cantico dei cantici, con una visione positiva della corporeità e della sessualità, anche se questi temi devono ancora interagire in modo positivo e armonico con la pastorale parrocchiale di base. Questa ultima, infatti, è stata finora piuttosto chiusa  e incapace di far percepire ai fedeli la ricchezza della spiritualità familiare, identificando il matrimonio prevalentemente come via alla santità.

 

In conclusione, deve passare  con maggiore forza il messaggio, perciò la realtà delle associazioni laiche non deve costituire un’alternativa alla parrocchia ma una risorsa della pastorale ordinaria, superando così chiusure, differenze e particolarismi. Solo in questo modo la Chiesa italiana potrà accogliere in modo efficace l’invito di Giovanni Paolo II a considerare la famiglia come “via della Chiesa”nel terzo millennio.

 

Di Pietro Boffi

Tratto da “vita pastorale – maggio 2002”

Riduzione e adattamento a cura di Simona Internullo