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Domenica, 20 Febbraio 2005 16:58

La festa nuziale - Luigi Ghia - 1ma Parte

La festa nuziale

·
Una festa a rischio ·
La nostra festa di nozze ·
E’ davvero una festa? ·
L’amore e la gioia, oltre il deserto…

Prima parte

Cana, piccola località della Galilea, un
paesino di montagna a quindici chilometri da Nazareth, sarà sempre
ricordata, finché durerà memoria d'uomo, per questo fatto che in sé non
ha nulla di straordinario: una festa di nozze che rischia di fallire,
una tranquilla gioia amicale e familiare - sostenuta anche da un buon
vino - che è in procinto di spegnersi, e due giovani sposi un po'
inesperti, che non hanno saputo prendere le misure giuste, destinati ad
una "brutta figura" ed a sopportare le critiche, quanto spesso acide e
malevole, degli invitati. Poi interviene Gesù, sollecitato da Maria, e
ridà senso e vigore a quella festa. Le ridona quelle caratteristiche
che ogni festa nuziale dovrebbe possedere: l'amore e la gioia. E’ il
vero "miracolo". Da una festa a rischio di fallimento, ad una ancora
più piena di quella sperata.

Forse era questo il discorrere (su cui evidentemente
nessun esegeta si sofferma, ma il cui contenuto è lasciato alla nostra
sensibilità emotiva; tra Maria, Gesù, i suoi fratelli e i discepoli nel
lungo cammino del ritorno, in quei poco più di 40 chilometri che
portano da Cana a Cafarnao, sul lago di Galilea, un cammino tortuoso,
impervio e faticoso, dove il parlare assume il significato profondo e
liberatorio dell'aprirsi reciprocamente il cuore, e fa apparire meno
aspra la fatica, e meno lontana la meta.

Anche la nostra rivista nell'anno 2000 vuole
idealmente ripercorrere quel cammino da Cana a Cafarnao. Riflettere non
solo sul tema delle nozze di Cana - colto nella prospettiva esegetica,
filosofica, teologica, pastorale - ma soprattutto su quella "festa
nuziale" di cui le nozze di Cana così come ci sono state tramandate
dall'evangelista Giovanni rappresentano un segno.

Una festa nuziale

Come spesso accade per gli scritti di
Giovanni, sarebbe vano ricercare nel noto brano delle nozze di Cana una
chiave di lettura storica, nel tentativo di ritrovare in esso quei
riferimenti di natura teologica ed etnologica atti a collocarlo
nell’alveo di una tradizione per poi collegarvi una concreta esperienza
di vita. La lettura del quarto Vangelo si situa prevalentemente su di
un piano teologico (anche se varrebbe forse la pena sollecitare una
lettura da parte dei teologi non sulla base della "loro" teologia, ma
cercando di entrare a fondo senza le loro precomprensioni teologiche
nella teologia di Giovanni) e gli elementi che in esso si evidenziano
hanno sempre un contenuto fortemente simbolico sul quale, di volta in
volta nel corso dell’anno, tenteremo di riflettere. Così il tema delle nozze,
secondo tutti gli esegeti, è figura dell’alleanza che Dio ha instaurato
col suo popolo, alleanza che Gesù sostituisce con una "Nuova Alleanza"
(ed è questa sintomaticamente la prima delle "sostituzioni" evidenziate
da Giovanni nel suo Evangelo: subito dopo l’episodio di Cana ci sarà
poi quello di Nicodemo in cui si manifesta la "sostituzione" della
Legge e poi ancora quello della Samaritana in cui viene significata la
"sostituzione" del culto…).

Mentre l’antica era fondata sulla Legge mosaica, la
nuova alleanza è fondata sull’amore, e simbolo di questo amore, e della
gioia ad esso collegata, è il vino. Viene subito in mente l’incipit del
Cantico: "Mi baci con i baci della sua bocca! / Sì, le tue tenerezze sono più dolci del vino…" (1,2).

E ancora, nello stesso poema, ma, quando durante la
danza a due schiere, tipica - anche se non esclusivamente - delle feste
nuziali, nel dialogo ideale che intercorre tra il coro e i due giovani,
la ragazza prorompe in un incontenibile grido d'amore verso il suo
innamorato: "Il tuo palato è come vino squisito, / che scorre dritto verso il mio diletto / e fluisce sulle labbra e sui denti..."
(7,10). Sì, una festa senza vino che festa è? Che festa è una festa
senza amore, quando non c'è la festa nel cuore, e i convitati sorridono
solo per buona educazione, o per ipocrisia? Anche se apparentemente la
festa riesce, c'è in essa una sorta di forzatura, di crisi di senso.
Solo l'amore è in grado di dare senso e pienezza alle cose, ad ogni
cosa, ad ogni avvertimento. Ed è quanto è venuto a fare Gesù.

Eppure, come dare colpe agli sposi che rimangono
senza vino, non sempre per negligenza, o per superficialità, per
presunzione, ma quanto più spesso per mancanza di risorse? Sovente
fanno quello che possono, e non rimane loro - per restare nella
metafora - che confidare nell'aiuto, nel buon senso, nella sensibilità
di chi hanno invitato alla festa... Anche noi ci ritroviamo spesso,
come loro, senza vino, sprovveduti e confusi... E allora, o cediamo al
non senso, desistendo dalla incessante ricerca del significato profondo
dell'esistenza, o accettiamo di riempire d'acqua le giare. Gesù
trasformerà quest'acqua in vino, perché è lui a dare pienezza alla vita
attraverso una relazione intima con Dio, realizzata nella relazione
intima tra un uomo e una donna che si vogliono bene, un amore i cui,
detto in linguaggio povero, non solo noi ma anche Dio ha bisogno per
continuare a vivere nel mondo.

A noi pare - e vorremmo bandire ogni intenzione
polemica - che all'interno della comunità cristiana quando si parla di
nozze, di matrimonio, di incontro di coppia, di due che si vogliono
bene insomma, ci sia ancora un po' la tendenza a mettere in evidenza i
compiti, i vincoli, i "paletti", gli aspetti morali (e frequentemente
moralistici) della relazione, a restare cioè sul piano dell'"antica
alleanza", dimenticandone o sottovalutandone gli aspetti ludici, di
festa, in definitiva di gioia. La felicità, il godimento anche fisico,
è stato spesso tabuizzato da una certa cultura cattolica, cd è un tabù
che da un lato molti di noi stentano a scrollarsi di dosso, e
dall'altro lato richiama, per reazione opposta, estreme banalizzazioni.
A dire il vero, è un rischio che a poco il poco pare vada
dissolvendosi, grazie anche al peso sempre maggiore che coppie mature e
responsabili rivestono nell'impianto e nella formulazione dei documenti
ecclesiali sul matrimonio e sulla famiglia, ma ci sembra che il cammino
sia solo iniziato. Occorre continuarlo.


Luigi Ghia

Asti

da "Famiglia domani" 1/2000

Pubblicato in Spiritualità Familiare
Sabato, 05 Febbraio 2005 18:53

Un’informazione che non informa

Un’informazione che non informa

Ricordo di aver sentito dire una volta, in un Convegno, che il modo migliore per eliminare il problema immigrazione è evitare che se ne parli. Effettivamente, nella contemporanea Società dell’Informazione, la crescente accessibilità dell’informazione aumenta smisuratamente il potere che deriva dal controllo delle sue fonti. Ne è prova evidente il fatto che l’effettivo verificarsi di un evento può essere persino messo in dubbio se di esso non si dà traccia sui media.

Questa riflessione porta a chiedersi perché un certo tipo di informazione, che pure esiste ed è ben nota ai professionisti del settore, poi non emerge al di fuori di questi contesti “chiusi”.

Una probabile ragione si può rintracciare nel predominio di una logica economica che induce gli operatori di questo settore a porsi come obiettivo più che la diffusione di un’informazione “formativa”, l’ampliamento delle vendite che, nel tentativo di accaparrarsi un numero sempre crescente di nuovi lettori, porta i media ad adeguarsi a livelli sempre più bassi, perseguendo logiche commerciali, di “spettacolarizzazione”.

I temi sociali sono i primi ad essere sacrificati da questa logica. Prendiamo, ad esempio, l’immigrazione: dai media italiani questo argomento è stato sempre trattato, e lo è tuttora, quasi esclusivamente come un problema di sicurezza, senza che alcuna attenzione venisse posta al problema dell’integrazione, alle modificazioni, sia positive sia negative, che l’inserimento di queste persone introdurrà nella nostra società, ai problemi degli immigrati... Un simile approccio, più attento agli aspetti sociali del fenomeno, potrebbe promuovere una cultura più aperta e disponibile all’accoglienza e far passare il concetto che l’immigrato è una persona portatrice di valori diversi e non soltanto una fonte di manodopera, un numero, un nemico.

Maurizio Andolfi

 

 

Un popolo in ascolto. Per «fare quello che ci dirà»

Il Figlio in ascolto

Imparò l'obbedienza dalle cose che patì

L'icona mariana

Le sue vie non sono le nostre vie

· In questo numero si vuole «porre la questione» dell’obbedienza da punto di vista biblico- esegetico · da tale ricognizione emerge che essere (meglio: diventare) obbedienti è accettare di essere figli, come Gesù, il Verbo fatto carne · Un modello di obbedienza non deresponsabilizzante.

Una delle preghiere quotidiane di Israele fin dai tempi di Gesù comincia con le parole tratte da Dt 6,4 «š ma’, yisrāël: ascolta, Israele!». Non un comandamento sul fare, né l'invito a prendere un’iniziativa qualsiasi. È il precetto fondamentale: Israele diviene il popolo dell'ascolto, della passività, della docilità di Dio che guida la sua storia. Né il vero israelita dell'antica alleanza, né l'autentico cristiano sono rappresentati dalla Scrittura come eroi che compiono grandi imprese: la via comune è piuttosto la via dell'abbandono, del seguire Dio là dove egli chiama. I profeti dell'Antico Testamento vengono sradicati dalle loro attività, dai loro villaggi per seguire le esigenze tenere e forti allo stesso tempo della Parola divina: questa Parola è come un fuoco che brucia dentro; chi la può trattenere? I discepoli del Nuovo Testamento sono chiamati a seguire Gesù e a rimanere con lui: non si tratta soltanto di una sequela momentanea o di un fate qualcosa per lui, ma di entrate in profonda comunione con lui, lasciandosi guidare. Da Abramo in poi, ogni credente è figlio della promessa; si affida e parte, senza sapere dove andrà: «Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso» (Eb 11,8-10).

Essere obbedienti è dunque semplicemente essere figli. Accettare di essere figli. Accettare cioè la dipendenza da un Altro. È la nostra verità: la tentazione costante del popolo di Israele è quella di costruirsi cisterne con le proprie mani, ma sono cisterne screpolate, che non possono trattenere l'acqua (cf Ger 2). Una sola è la Sorgente dell'Acqua viva, e il figlio che ricerca la propria indipendenza pretendendo di fare a meno della casa paterna si autocondanna alla sterilità (cf Lc 15,11-32). Accettare di essere figli è il primo passo per vivere l'obbedienza. È accettare di essere creature, con i propri limiti, con il proprio peccato, con la propria storia, riconoscere di dipendere in tutto e per tutto.

Il Figlio in ascolto

A questo atteggiamento ogni uomo è - di fatto - restio. L’Adamo originale - cioè l'uomo di sempre, l'uomo di ogni tempo e di ogni luogo - vive costantemente la tentazione della disobbedienza non tanto come rifiuto di leggi o di norme esterne, quanto piuttosto come non accettazione della propria creaturalità e della propria figliolanza. Il peccato originale consiste proprio nel voler essere come Dio (cf Gn 3,5), nel mangiare il frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male: l'uomo vuole impadronirsi della morale, vuol essere legge a se stesso, vuole bastare a se stesso! Gli idoli - opera delle mani dell’uomo - sono il segno più evidente della difficoltà di Israele ad accettare di essere salvati da Dio, senza cercare la salvezza con le proprie mani. La critica profetica contro l'idolatria è l'invito al ritorno all'obbedienza vera, un'obbedienza che renda ragione alla nostra verità.

C'è però un uomo che ha vissuto fino in fondo tutte le esigenze del proprio essere figlio: il Figlio Unigenito di Dio, il Verbo fatto carne per guidarci nella strada di questo ascolto. Il prologo del Vangelo di Giovanni ci offre l'icona originale dell'obbedienza, guidandoci a contemplare il Verbo (cioè la Parola!) nel senso della Trinità, in atteggiamento di perfetta e totale obbedienza. Giovanni inizia il suo vangelo con questa contemplazione, che ci rimanda allo splendore epifanico di tante icone orientali (penso in particolare alla celebre icona della Trinità di A. Rublëv): «in principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio» (1,1). L'espressione greca pròs ton theòn, che traduciamo con «presso Dio», in realtà vuole offrirci l'immagine del Verbo che sta «di fronte a Dio». Padre e Figlio sono contemplati l'uno di fronte all'altro; il Verbo è in atteggiamento di ascolto, di accoglienza e di disponibilità a tutto ciò che il Padre dice. Il Verbo fatto carne dirà tutto e solo ciò che avrà udito dal Padre: egli e il Padre sono una cosa sola (cf Gv 5,19-47; 8,28-29).

 

 L'obbedienza cristiana nasce dal cuore della Trinità, dal Figlio che ascolta ciò che il Padre dice da sempre, lo guarda negli occhi e quasi pende dalle sue labbra. Non c'è obbedienza se non in questo rapporto personale e in questa comunione d'amore.

 

Allora la preghiera del figlio: «sia fatta la tua volontà» (Mt 6,10), preparata e fortificata dalla preghiera angosciata del Figlio: «non come voglio io, ma come vuoi tu!» (Mt 26,39), non è la rassegnazione sfiduciata e remissiva di chi sa che non si può fare altrimenti! È piuttosto il grido gioioso del figlio che desidera fare ciò che al Padre piace, cerca le cose che gli sono gradite, quasi anticipandone la manifestazione e prevenendone i desideri (cf Gv 8,29).

«Imparò l'obbedienza dalle cose che patì»

L'autore della lettera agli Ebrei ci dice fino a che punto si sia spinta questa obbedienza esemplare del Figlio: «pur essendo Figlio, imparò l'obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (5,8-9). Cristo non ha vissuto la sua figliolanza come un tesoro geloso o come un motivo di superiorità, ma l'ha compresa come una consegna totale. Il suo essere Figlio consiste nell'«imparare» l'obbedienza. La vita di Gesù ci dice che non si è obbedienti: lo si diventa se ci si lascia condurre da Dio, che ci educa come un padre fa con i suoi figli. Gesù stesso ha compiuto questo cammino di educazione all'obbedienza! Anche nelle relazioni fraterne la via è dunque l'educazione all'ascolto, all'accoglienza dell'altro per imparare ad accogliere ed ascoltare l'Altro. Questa strada si è imposta al Figlio di Dio soprattutto attraverso la via della sofferenza. L'esperienza di Gesù valorizza il momento della prova, della difficoltà, di ogni crisi come il momento privilegiato per l'educazione all'obbedienza. La notte è simbolicamente il luogo in cui l'uomo smette di fare, di lavorare, di essere il protagonista, per lasciarsi fare e condurre da Dio. Ogni «notte» dell'esistenza umana (crisi, aridità, sofferenze, distacchi) può aprire la strada a un «di più» di ascolto; la sofferenza accolta, accettata e vissuta può affinare la capacità di ascolto di ogni uomo, perché la sofferenza è il momento della verità.

Era questa anche l'esperienza del popolo di Israele, condotto per mano da Dio, liberato dalla schiavitù egiziana e in cammino verso la terra della promessa. Il libro del Deuteronomio ricorda ad un popolo stanco, sfiduciato, tentato dal dubbio, in continua mormorazione contro il Signore, che l'esperienza del deserto fa parte di un cammino di educazione all'obbedienza: «ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che tu avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandamenti. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto o provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma vive di quanto esce dalla bocca del Signore. (…) Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore tuo Dio corregge te» (8,2-3.5).

Se non fossero venuti a mancare la carne, i pesci, i cocomeri, i meloni, i porri, le cipolle e l'aglio che Israele mangiava gratuitamente in Egitto (cf Nm 11,45), se il popolo non avesse fatto l'esperienza dell'essenzialità, della rinuncia e della fatica del deserto, Dio non avrebbe potuto educarlo all'ascolto. Invece è proprio in quell'assenza e in quella fatica che i figli d'Israele possono nutrirsi del dono divino e sentir crescere in sé la fame e il desiderio della parola che esce dalla bocca di Dio.

 

L'icona mariana

Il vangelo ci dona in Maria un'icona dell'umanità docile ed obbediente. La Vergine dell'Annunciazione, creatura del "si", è lo specchio fedele e il risvolto umano di Cristo, l'Amen, il Sì radicale a Dio Padre: egli «non fu "sì" e "no", ma in lui c’è stato il "si"» (2 Cor l,19; cf Ap 3,14). «Avvenga di me seconda la tua Parola» (Lc 1,38) è il grido di gioia di Maria che sa di poter essere la terra fertile in cui Dio potrà seminare la sua Parola.

 

La redazione lucana dei vangeli dell'infanzia ci mostra Maria in questo atteggiamento di ascolto obbediente. Una prima volta in Lc 2,19 ci viene detto che Maria serbava «tutte queste cose/parole» meditandole nel suo cuore, e poi ancora al v. 51 Luca sottolinea questo atteggiamento interiore della Vergine. Nel primo versetto citato, l'evangelista presenta la meditazione di Maria sugli eventi e sulle parole del Figlio con il verbo greco syllambàno, che significa «confrontare, mettere insieme». La madre conserva dunque nel cuore (sede biblica del pensiero, della ragione, dei sentimenti, della volontà) tutte le parole e tutti gli eventi della vita del Figlio, confrontandoli fra loro perché si illuminino a vicenda; di fronte ad ogni situazione, soprattutto di fronte a quelle più difficili (Luca ne parla infatti in occasione di due eventi negativi nella vita di Maria), la Verginità, chiedendosi il perché delle cose: «che cosa vorrà dirmi Dio attraverso quella parola o quella situazione?».

 

Anche l'immagine della spada nelle Parole di Simeone ci porta alla stessa conclusione. Il santo vecchio predice a Maria: «anche a te una spada trafiggerà l'anima» (Lc 2,35). Se è vero che queste parole rappresentano la predizione delle sofferenze future di Maria fino alla croce del Figlio, per cui anche di lei si può dire che «pur essendo figlia, imparerà l'obbedienza dalle cose che patirà», non dobbiamo dimenticare che nella Bibbia la spada simboleggia spesso la Parola di Dio, «viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio» (Eb 4,12). Simeone parla dunque anche del cammino di obbedienza della Madre alle Parola del Figlio.

Le sue vie non sono le nostre vie

Il vangelo non usa mai il verbo greco hypakoùo (obbedire) in riferimento alla relazione di un uomo con un altro uomo, e neppure nei confronti di Gesù: sono gli elementi della natura o gli spiriti maligni che gli obbediscono ciecamente, con un'esecuzione materiale (cf Mt 8,27; Mc 1,27; 4,41; Lc 8,25); anche i discepoli -se solo avessero fede quanto un granello di senape - potrebbero farsi obbedire dalle forze della natura (cf Lc 17,6). Anche il resto del Nuovo Testamento usa questo verbo con una certa parsimonia, e mai nel caso di un uomo che obbedisce ad un altro uomo, se non in pochi testi esortativi dell'epistolario, molto segnati culturalmente e riguardanti precetti di morale familiare (cf Ef 6,1.5; Col 3,20.22; 1 Pt 3,6). Si obbedisce piuttosto a Dio (cf Eb 11,8), al vangelo (cf Rm 10,16; 2 Tes 1,8), alla fede (cf At 6,7), alla parola (cf 2 Tes 3,14), ai desideri della carne o dello Spirito (cf Rm 6,12.16-17). I verbi che meglio caratterizzano l'obbedienza evangelica sono invece i verbi dell'ascolto e dell'accoglienza, che invitano a comprendere l'atto di obbedire più in termini personali e comunionali che giuridici o legalistici

È vero poi che nel vangelo di Luca Gesù dice ai settantadue discepoli inviati in missione: «chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me» (10,16), ma la Bibbia non sottolinea in modo particolare l'obbedienza a mediatori umani: al centro della rivelazione sta un ascolto di Dio che agisce e che parla nella vita di ciascuno e nella vita del nuovo popolo di Dio, che è la Chiesa. Forse una delle presentazioni più sintetiche ed efficaci dell'obbedienza biblica ci è data dalla celebre frase di Rm 8,14, in un contesto che insiste particolarmente sulla filialità: «tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio». Siamo figli, ma in realtà lo diventiamo! Più ci lasciamo guidare dallo Spirito, più viviamo il nostro essere figli! L’obbedienza nella Bibbia non riveste dunque una dimensione di sicurezza: non sappiamo fin dall'inizio che cosa significhi e che cosa comporti obbedire. Ad obbedire s'impara obbedendo! Il figlio obbediente è colui che vive pienamente la speranza teologale, lasciandosi condurre per mano da Dio là dove Dio lo vuole condurre. E poiché le sue vie non sono le nostre vie (cf Is 55,8), può darsi che la sua fedeltà si manifesti nel chiederci oggi cose diverse da quelle che ci ha chiesto fino a ieri. Il cristiano ancorato al suo passato, alle tradizioni puramente umane è l'esatto contrario del figlio obbediente: anche i farisei erano abilissimi ad osservare le tradizioni degli uomini, trascurando il comandamento di Dio e vanificando la sua Parola (cf Mc 7,1-13)!

L'obbedienza secondo la Bibbia non è neppure deresponsabilizzante: non significa delegare ad un altro la fatica di scegliere per me. Gli uomini e le donne che incontrano Gesù nel vangelo sono tutti chiamati ad una scelta libera, responsabile e personale. Prima o poi tutti arrivano ad incontrare Gesù in modo personale e a lasciarsi coinvolgere fino in fondo dalla sua Parola. Gli inviti di Gesù («seguimi, ascolta, rimani in me, se vuoi...») sono inviti personali ed appelli alla libertà di ciascuno. Anche negli Atti degli apostoli la Chiesa delle origini ci appare più come la comunione di persone in ascolto che come una massa di pecoroni intruppati. Basterebbe vedere a tale riguardo l'insistenza con cui l'opera lucana parla della Chiesa come dell'unione di coloro che ascoltano o accolgono la Parola.

Da tutto ciò traspare che l'obbedienza per la Bibbia non è qualcosa di statico e spersonalizzante, ma è una realtà dinamica, è la vita stessa del credente che vive la propria condizione di figlio. Obbedire è ascoltare la Parola, è meditarla con sincerità, è docilità allo Spirito, attenzione alla presenza di Dio, sensibilità nel cogliere i segni dei tempi, è la virtù di chi affina la propria capacità di ascolto, è vittoria sulla pretesa orgogliosa di poter gestire la vita e trovare la salvezza con le proprie mani, è lasciarsi condurre docilmente come Maria. L'obbedienza biblica ha poi una caratteristica fondamentale, che il Nuovo Testamento qualifica con la parola greca parresìa, che potremmo tradurre con una gamma sconfinata di significati: «coraggio, libertà di spirito, franchezza, coerenza, passione per la verità...».

Voglio concludere accennando appunto a due esempi, due icone bibliche di questa obbedienza vissuta con parresìa. La prima, veterotestamentaria, è la vocazione profetica. Ogni profeta - per natura sua - è un uomo in ascolto della Parola, e questa Parola lo conduce spesso là dove egli non vorrebbe (il più emblematico è il caso di Geremia). Ogni profeta ha a che fare con il potere, sia esso incarnato nella persona del re o dei ricchi ingiusti o dei sacerdoti corrotti, come coscienza critica e come voce capace di far risuonare la Parola di verità nella sua integralità. La stessa consacrazione battesimale riveste il credente di questa dimensione profetica che ne fa un uditore della Parola, costi quello che costi, L'altra Icona - questa volta presa dal Nuovo Testamento - è quella dell'apostolo Paolo che, ad Antiochia, non teme di opporsi alle colonne della Chiesa e allo stesso Pietro affinché si affermi la verità. Leggiamo, in conclusione, le sue linee autobiografiche nella lettera ai Galati, non per ricavarne un invito orgoglioso alla ribellione, ma per scoprirvi l'umiltà e la coerenza di una fedeltà alla verità della Parola, caratteristica del vero apostolo: «Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Barnaba la loro destra in segno di comunione. (…) ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a Lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto. Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. (…) Ora quando vidi che non si comportavano rettamente, secondo la verità del vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: "Se tu, che sei giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei giudei, come puoi costringere i pagani a vivere nella maniera dei giudei?"» (Gal 2,9.ll-1214).

Roberto Fornara

Biblista – Roma

Da “Famiglia domani” 3/2000

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato in Spiritualità Familiare
Venerdì, 28 Gennaio 2005 21:24

UNO STILE DI SERVIZIO (seconda parte)

Uno stile di servizio

In cammino verso il prossimo…

All'inizio del nostro «Quaderno di strada» c'è una frase che sottolinea l'impegno preso nella comunità scout, è una frase che possedeva e possiede il carattere di una Promessa: «Con l'aiuto di Dio prometto sul mio onore di servire Dio, la Chiesa e i fratelli».

Un impegno, in età giovanile, è entusiasmante e coinvolgente come ogni proposito: ma, come tutti i buoni propositi, soprattutto se giovanili, è inevitabilmente velleitario, non è una realtà, ma il progetto di una realtà, non è un «essere», ma, al più, un «voler essere».

D' altra parte nell'avventura educativa scout questo limite si trasforma in una grande potenzialità, anzi nella potenzialità per eccellenza. La vita all'aria aperta, ricca di avventure, di incontri e di scoperte singolari a contatto con la natura, la strada faticosa lungo la quale inerpicarsi per raggiungere vette di incontrastato splendore, i canti gioiosi intorno al fuoco assumono il senso di una ricerca e di un tirocinio: una vita vera, dotata di senso, perché inserita in un itinerario conosciuto e scelto; una vita ricca di gioia, perché «garantita» e sorretta dalla forza rassicurante di una comunità.

 

Uno stile di vita

Un impegno, per diventare realtà, deve trasformarsi in forza operante, in «spirito», deve diventare «stile di via». La quotidianità della nostra famiglia possiede lo stile dei servizio? Il nostro vivere mostra questo sigillo?

Non lo sappiamo, e forse non possiamo e non dobbiamo saperlo. Uno stile, se è vero, diventa «naturale», non ha bisogno di conferme né esteriori né interiori, perché ciò che è naturale, di solito, sfugge a chi lo possiede. Certo lo stile va coltivato, perché, come ogni cosa umana, appassisce e muore; ma la lezione scout ci ha fatto capire che il servizio si alimenta di cose abbastanza «strane»: la gioia della natura severa e vissuta con essenzialità, l'allegria della comunità, la preghiera, la solitudine, il silenzio, lo studio, il confronto serio e sincero.

 

L'Impegno educativo

Poi sono nati i figli e con loro l'esigenza di una intenzionalità educante. Una responsabilità nuova e molto più complessa ci investe.

Ricordiamo il tempo della nostra gioventù, quando non eravamo mai così spigliati e brillanti come nei momenti in cui mancava la persona che ci interessava veramente. Se avevamo preparato a fondo un esame, diventavamo ben più nervosi di quando il lavoro non era stato fatto con particolare impegno.

Così oggi sappiamo che quando una cosa ci sta particolarmente a cuore siamo più impacciati, maldestri e controproducenti di quando l'interesse è modesto; forse perché, in fondo, le cose cui teniamo veramente sono più complesse delle altre.

Crediamo nel servizio, nella sua capacità di essere segno di redenzione. Ci sembra una solida verità: non ne abbiamo moltissime, a ben guardare, ma questa è una di quelle, perciò vorremmo trasmetterla, e in particolare ai nostri figli, ma ne siamo preoccupati e non poco.

È vero che nel cuore abbiamo una certezza: la grazia è sempre nelle mani di Dio, ma tale certezza non attenua il peso della responsabilità. Anche l'assoluto abbandono è una scelta, e deve nascere dalla convinzione che questo è l'invito di Dio, che tale specifica vocazione è la nostra. A noi non è sembrato.

Per questo abbiamo cercato di pensare un itinerario verso il servizio, scomponendone la strada e cercando di valorizzare quello che effettivamente possiamo fare, per camminare con i nostri figli.

 

La prima tappa verso il servizio: le «buone maniere»

L'attenzione più naturale, più quotidiana e più semplice, per iniziare con bambini molto piccoli il cammino verso il servizio, ci è sembrata quella rivolta alle «buone maniere», o alla «buona educazione». Sappiamo che è un processo secondario, assai poco eroico e certamente, come tutte le cose umane, ambivalente e deteriorabile, ma nel complesso ci è sembrato carico di potenzialità significative.

I nonni dicevano: «Educati si nasce, non si diventa».

Era falso, ma non completamente. La parte di verità di quel discorso stava nel fatto che un atteggiamento può essere frutto di una recita, di una posa, e quindi essere sostanzialmente incerto, artificiale e in definitiva falso; oppure, come ben sa ogni vero scout, essere uno «stile» di vita, cioè qualcosa che è diventato, e quindi è, naturale.

Cosa significa essere gentili? Perché dire «Buona sera», «Ciao», «Per favore», «Grazie»...? Per rispetto: e Kant diceva che merita rispetto solo ciò che per noi ha «dignità», cioè solo ciò che per noi ha un valore in sé, un valore non trasformabile in prezzo.

Essere gentili significa quindi cominciare a rispettare gli altri.

Essere veramente gentili, significa rispettare veramente gli altri.

Quando si rispettano veramente gli altri? Il primo passo è quello di accorgerci che esistono prestando attenzione. Le buone maniere sono fatte di attenzioni, ma per avere attenzione occorre prestare ascolto. Chi sa «a memoria» gli altri, chi non ha bisogno di ascoltarli, non è mai veramente gentile, finge di esserlo. Ma per ascoltare gli altri bisogna creare le condizioni perché possano esprimersi, bisogna essere accoglienti, cioè gentili.

Per molti versi le buone maniere sotto state uno strumento di classe. Nate con nobili e utili finalità, frutto del processo di civilizzazione dell'uomo, sono poi diventate strumento di discriminazione, un facile modo per bollare i parvenus, per escludere chi non era dello stesso ambiente. Esito paradossale, diametralmente opposto alle origini. Le buone maniere, nate per favorire la convivenza, sono diventate un mezzo per impedirla. Così accade quasi sempre, quando l'uomo pretende di essere misura di se stesso; ma noi vorremmo che per i nostri figli dire «Ciao» o «Scusa» fosse il primo passo per considerare veramente il prossimo: la prima tappa per poterlo più credibilmente servire.

Gian Maria e Federica Zanoni — Brescia

                                                Da “Famiglia domani” 4/2000

Venerdì, 28 Gennaio 2005 21:13

Uno stile di servizio

Uno stile di servizio

 

· La catechesi del «dover essere» ha contribuito a creare coppie e famiglie propense a pensare a ciò che non sono piuttosto che capaci di scoprire ciò che sono · La radice ultima del servizio è Dio Amore · Alcune tappe per raggiungere questo orizzonte che deve trasformarsi in «stile di vita»: «tirare fuori» e contemplare il servizio; contemplare che serve e che deve essere servito; servire per simpatia; fare della famiglia un luogo dove chiunque possa sostare e trovare ristoro · Iniziando da una prima tappa, importante anche se apparentemente poco eroica: educare i figli alle «buone maniere», capaci di dire, non solo formalmente, «grazie», «scusa», «ciao».

 

In famiglia...

 Le nostre famiglie devono servire, devono essere povere, devono essere solidali, devono essere... I tanti «devono essere» a cui spesso sono state richiamate, hanno formato generazioni di genitori e coppie più propense a pensare a ciò che non erano piuttosto che a valorizzare ciò che erano. Ben diverso è «cercare di essere» dallo scoprire, a volte con meraviglia, ciò che si è. In Gesù di Nazareth la nostra umanità è stata riscoperta e rivalutata come segno e benevolenza del Padre, come anticipo di quella piena umanità in Lui realizzata. Si tratta allora di scoprire qualcosa che è già in noi, magari in germe, ma che possediamo. Una famiglia quindi non «deve educare al servizio» ma potenzialmente «educa al servizio» per il semplice fatto di essere famiglia. Significa quindi primariamente portare a consapevolezza strumenti che sono presenti nella vita di tutti i giorni.

La radice ultima del servizio è quel Dio Amore che si è innestato in noi, nella nostra umanità e che non si pone come meta irraggiungibile, ma come forza che preme e che attende di essere sprigionata. Poniamo qui alcune semplici annotazioni, nate più dall'esperienza che da trattati o studi specifici. Trattati e studi su cui però andranno successivamente collocate.

 

«Tirar fuori» il servizio

«Ciò che vuoi che gli altri siano, cerca di esserlo tu per primo». (MADELEINE DELBRÊL)

Il termine educare richiama il «tirar fuori», il considerare un esistente, renderlo evidente e potenziarlo. Educare al servizio vorrebbe dire quindi «rendere evidente e rafforzare il servizio che è in noi». Ma di che servizio parliamo? Forse di quella modalità che spesso identifichiamo come non facente parte di noi stessi, che costa fatica, rinuncia, ma che «cristianamente» dobbiamo attuare? Sarebbe un «metter dentro», piuttosto che un «tirar fuori». Alcune espressioni di E. Fromm identificano bene ciò che vogliamo dire: «essere per l'altro»: «uscire da sé verso altri da sé»; «fare per gli altri»; «volontà di fare, di condividere, di sacrificarsi» (da: Avere o essere?). Fromm, come altri (Adler, Frankl) identifica la massima espressione di potenza di un essere umano, e quindi la sua massima realizzazione, nel donare gratuitamente. Questo ci porta a valutare il servizio anche come «benessere» della persona e non solo come «dover essere», rendendo il servire sicuramente più consono al Lieto Annuncio.

Potremmo dire che servire con amore sicuramente genera amore. Il servire diventa non solo stimolante per chi dona, ma anche per colui a cui è donato. Ed è soprattutto il modo con cui si dona che viene recepito: un genitore che compie con sufficienza o addirittura irato un atto dovuto ai propri figli, farà passare tale atto come insignificante, ingiusto nei propri confronti, dovuto e non dato. Educare al servizio in famiglia significa allenarsi a fare sorridendo anche quando non si ha un riscontro: guarisce chi dà e guarisce chi riceve.

 

Contemplare il servizio

«In qualunque luogo tu sia, tu sei tutta la carità». (MADELEINE DELBRÊL)

Contemplare significa primariamente «porre dentro il proprio orizzonte». Esiste una insignificanza dei gesti quotidiani? Possiamo permetterci di escludere la ripetitività di gesti, azioni, le solite cose di tutti i giorni, dall'orizzonte del Regno? A volte siamo così presuntuosi da definire le azioni in base alla loro eclatanza e alla loro portata. Contemplare il servizio, vuol dire scoprire e dare valore ai piccoli atti quotidiani, indipendentemente da chi li compie all'interno della famiglia e valorizzarli come atti di donazione, anche quando sembrano non esserli nemmeno per chi li compie. Recuperare il senso dei piccoli gesti, delle piccole azioni fatte per il bene di tutti, spesso date per scontate o addirittura dovute, ci dà la possibilità di essere dei veri contemplativi del servizio degli altri, ma anche di rivalutare il nostro.

Lavare, stirare, accudire, accompagnare a scuola al mattino presto i figli... attendere per essere ascoltato, sopportare le sfuriate, che a volte non si capiscono, della mamma, non sono atti dovuti, ma piccoli, costanti, quotidiani servizi di amore.

Educare al servizio in famiglia vuol dire recuperare questi atti al rango e alla dignità che hanno e così scoprirci con piacevole sorpresa molto più servizievoli di quello che crediamo.

 

Contemplare chi serve e chi va servito

«Non chiamare nel prossimo suscettibilità ciò che in te chiami sensibilità». (MADELEINE DELBRÊL)

Ma lo sguardo primo nella famiglia è alla persona. La capacità di andare oltre il gesto e arrivare a chi lo ha compiuto non è da tutti. Percepire a volte il disagio, a volte la difficoltà di servire, ci pone nella condizione di tentare di capire l'altro e di entrare nel suo modo di farsi prossimo. Ci sono gesti e modalità relazionali che vanno colti nella conoscenza della persona che li produce, così come c'è modo e modo di «rendersi utili» diversificando gli interventi a seconda di chi si ha dinanzi, rispettandolo come soggetto e non come oggetto del nostro «essere per lui» in quel momento.

Non si serve prescindendo dalla persona: dove ci sono due o più figli, la stessa azione, lo stesso comportamento del mettersi a disposizione provoca reazioni diverse e non sempre accettate. Non solo: le stesse richieste di aiuto sono inviate in modi talmente diversi e a volte irrazionali che arrivano a confondere chi le riceve.

Educare al servizio in famiglia vuol dire porre attenzione alle persone così come sono tentando di capire e farsi capire, dosando gli interventi non sulla propria ma sulla altrui sensibilità.

 

Servire per simpatia

«Tu sei sempre a servizio». (MADELEINE DELBRÊL)

Uno stile di vita di servizio non lo si trova improvvisamente in noi. Qualcosa o qualcuno prima o poi lo fa emergere. Nella famiglia questo stile emerge per simpatia, cioè per «conformità nel sentire», come dice originariamente il termine greco. È vivendo insieme che si realizza questa conformità. Le attenzioni e le disattenzioni fra i componenti costruiscono o demoliscono un rapporto nella misura in cui sono ignorate, mal valutate, o addirittura sopravvalutale sia da chi le compie che da chi le riceve. Lo spirito di servizio si impara vivendo gomito a gomito, dicendo chiaramente che cosa non è e che cosa è servire/amare senza paura di rivelarsi per come ci si sente in quel momento, avendo presente bene di che cosa si sta parlando e quali sono i parametri di valutazione.

Soprattutto i genitori, in quanto tali, educano al servizio «per simpatia» quando si preoccupano non solo di non far mancare nulla ai figli, ma soprattutto di instaurare veri rapporti tra persone.

La famiglia educa al servizio quando i rapporti sono «veri», quando la coppia vive in sé atteggiamenti di servizio reciproco, senza mascherare la non coerenza in cui ogni tanto si incappa, davanti ai figli.

 

Una «stazione di servizio»

«Mio Dio, se Tu sei dappertutto, come mai io sono così spesso altrove?». (MADELEINE DELBRÊL)

Imparare a servire in famiglia altro non è che la prova in pista per quel viaggio unico e incomparabile a cui siamo chiamati: la vita, che diventa «eterna» (senza fine) dal momento in cui, per amore, impareremo a fare gli affari degli altri come se fossero i nostri. La famiglia sarà allora per noi e per i nostri figli come una stazione di servizio: un luogo dove fermarsi lungo il viaggio per riprendere fiato, dove qualcuno controlla che l'olio non manchi per evitare frizioni strane, dove si provano le gomme perché la pressione (quella che ci consente di «andare verso») rimanga costante, dove c'è sempre qualcuno che offre qualcosa di più di quello che è richiesto…

Stefano Zerbini — Mirandola (Modena)

Venerdì, 31 Dicembre 2004 16:23

Giovani e rischio

Giovani e rischio

Uno dei problemi emergenti che sembra caratterizzareil mondo dei giovani è quello della diffusione di comportamenti‘pericolosi’ per se e per gli altri che fanno pensare a una vera epropria "cultura del rischio" che si manifesta nell’uso o abuso dialcool, spinelli, ecc. Gabriele, un educatore ¡ animatore di un centrogiovanile , partendo dalla sua esperienza e leggendo in questicomportamenti l’espressione di un disagio mi scrive domandando "da cosaderiva questo disagio?" Vorrei innanzitutto segnalare due fenomeni dicarattere generale che parlano delle trasformazioni socioculturali deinostri tempi all’interno dei quali ‘leggere’ almeno in parte ilsignificato di una "cultura del rischio" come caratteristica del mondogiovanile.

Il primo riguarda l’ampiezza che ha assunto nella nella societàoccidentale, e in particolare in Italia, l’arco di tempo che abbracciala condizione giovanile. La fase dell’adolescenza è un periodo ditransizione, di passaggio dall’infanzia all’età adulta. In questasituazione il giovane si trova a vivere una condizione di "vagabondopsicosociale": non appartiene più completamente alla famiglia e nellostesso tempo non è ancora parte del mondo degli adulti. I punti diriferimento si differenziano e articolano in più dimensioni: oltre lafamiglia c’è la scuola, il gruppo dei pari, i diversi contestiassociativi, ecc. questo processo nella sua normale evoluzione consentee favorisce un processo di crescita ed autonomia, quello checomunemente è definito il processo di individuazione. Oggi questatrasformazione sociale fa si che la condizione giovanile, proprio perl’ampiezza di tempo che abbraccia si caratterizza sempre più come unperiodo di indefinita sospensione piuttosto che di transizione,in cui la dimensione psicologica di spaesamento tipica di ogni crisi dipassaggio evolutivo si protrae nel tempo determinando condizioniprolungate di indefinizione e di disagio.

Il secondo aspetto riguarda l’enfasi che nella nostra cultura(attraverso i mass-media) viene attribuita a tutti i livelli, sociale epsicologico, al valore della realizzazione personale. Messaggioche spesso si traduce in una forte spinta verso l’individualismo (cosadiversa dall’individuazione) dentro il quale quello che conta è ilsuccesso, il denaro, il potere ecc, a scapito o relegando sullo sfondola dimensione collettiva del nostro vivere, che fa riferimento a valoricome la condivisione, la solidarietà, l’impegno verso l’altro, loscambio, il rapporto. Un dato preoccupante che emerge da molti studisulla qualità della vita delle persone e delle famiglie è la crescentetendenza a vivere sempre più chiusi nelle proprie case, passando iltempo davanti alla televisione, ci si incontra con gli amici meno diuna volta al mese, i momenti di socialità anche all’interno della casatendono a ridursi. L’isolamento sociale e psicologico sembra caratterizzare sempre di più la vita delle persone.

Tenendo presenti questi due elementi della trasformazione socialeche stiamo vivendo è possibile parlare di cultura del rischio e cercaredi comprenderla come espressione del disagio del giovane nel suodifficile processo di crescita che può manifestarsi in comportamenti‘pericolosi’ che possono evolvere, a volte, in vera e propria devianza.Quello che voglio dire è che questi comportamenti trasgressivi erischiosi sono comunque risposte di adattamento tra l’individuo (ilgiovane) e l’ambiente in relazione ai "compiti di sviluppo"dell’adolescente. Azioni molto diverse che vanno da comportamentinegativi come l’uso di alcool e spinelli a comportamenti positivi comeesprimere la propria opinione, possono assolvere ad una stessa funzionedi affermazione della propria indipendenza. Questo è il "compito"prioritario che il giovane si trova di fronte nella sua crescita. Lefunzioni e i bisogni che questi comportamenti rischiosi sembranoassolvere, anche in maniera contraddittoria, possono essereessenzialmente riconducibili a:

    •  
    • Andare contro le regole, la trasgressione come modalità di affermazione di una propria autonomia, contro il mondo degli adulti
    •  

  • Mettersi alla prova attraverso azioni "forti" ed estreme, comemodo di superare le incertezze e le insicurezze nell’affermazione di séattraverso l’esagerazione

 

  •  
  • Ricerca di una soluzione immediata (fuga dalla realtà) comemodo di superare i conflitti e le difficoltà personali adottandocomportamenti a rischio, come tentativo di uscire dalla difficoltà (usodi sostanze, alcool …)
  •  
  • Ricerca di legami sociali e di gruppo di pari come modalità do coprire la difficoltà di affermazione di sé sul piano individuale attraverso una affermazione come gruppo.

È di fronte a questi bisogni, che riguardano la crescita delgiovane, che diventa rilevante il modo in cui il mondo degli adulti, inparticolari i contesti significativi (la famiglia soprattutto),reagiscono e rispondono. Spesso accade che questi contesti perdano lacapacità di cogliere la domanda che sta sotto tali comportamentireagendo in termini di impotenza e di rifiuto. La crisi che la famigliasta attraversando in questo periodo di transizione, caratterizzatosoprattutto da una perdita di capacità di contenimento e guida,rappresenta uno degli elementi principali di problematicità dellacondizione giovanile.

 

Rischio, trasgressione, sfida, giocopericoloso, sembrano essere diventate le parole chiave per descriverealcuni comportamenti degli adolescenti.

L’adolescenza è un momento in cui ilragazzo desidera "rischiare". Ogni volta che si supera un’esperienzapotenzialmente pericolosa, ci si sente potenti, accettati, infallibili.

E’ un’età in cui correre rischisignifica accettarsi, farsi accettare e trionfare rispetto alle ansie,alle paure e al senso di inadeguatezza, che accompagnano questa fasedella vita.

L’adolescenza è caratterizzata da unagenerale tendenza a manifestare la sofferenza psichica attraverso ilcosiddetto acting-out, cioè la scelta inconsapevole di agire, nonpotendo esprimere il proprio disagio in altro modo. I comportamenti arischio possono essere anche un tentativo di mettere alla prova leproprie capacità in fatto di abilità o di competenza psicofisica.

 

Il periodo di maggiore rischio perl’iniziazione all’uso di alcol è fra gli 11-15 anni e per icannabinoidi fra i 15 e i 17 anni come per l’eroina dai 18 ai 25 anni.

Il 30% dei consumatori adolescenti dialcol è da considerarsi "problematico", anche se solo una parte minimadi questi hanno un rapporto d’uso abituale e pesante.

 

Il rischio in Italia

Per il 90% dei ragazzi frai 14 ed i 22 anni di Roma, Napoli e Milano intervistati in profonditàda psicologi, il rischio è soprattutto una sfida personale, un modo perdefinire se stessi, un’auto-affermazione.

Le motivazioni

Si rischia per essere notati (90%) o per sentirsi parte di un gruppo (80%), ma anche per vincere la paura (70%).

 

Le situazioni

Nella maggior parte deicasi si rischia quando si è in compagnia (90%) o per combattere unmomento di sconforto (70%), molto meno quando ci si sente felici (60%)o soli (50%).

 

I comportamenti

I ragazzi italianiritengono più rischiosi quei comportamenti che creano problemi nellerelazioni interpersonali (contrapporsi ai genitori, sfida con altrigiovani, emularsi) (70%), seguiti lontano dall'assunzione di sostanze(che alcuni associano ai precedenti) e dalla guida pericolosa (circa lametà dei ragazzi intervistati).

 

Dalle testimonianze dei ragazziintervistati che hanno vissuto esperienze di rischio traumatiche,emerge che il rischio è un modo per superare i propri limiti, percolmare un vuoto interiore, per crearsi un'identità. Molto spesso igiovani reputano gli eventi vissuti, come una fatalità o una fonte dieccitazione. Da queste affermazioni si deduce una enorme fragilità , undeficit strutturale.

Secondo questi i ragazzi, il mondodegli adulti non ha possibilità di incidere sui loro comportamenti arischio perché "nessuno può aiutarti ad evitare il rischio".

Questa è una convinzione che, a varilivelli, ritorna in tutti gli adolescenti quando si parla diprevenzione. I giovani mostrano sfiducia nei confronti delle campagnedi prevenzione: "perché, dicono, non considerano le veremotivazioni alla base di una decisione rischiosa, né mettono in risaltoi danni psicologici - accanto a quelli fisici - di un dato comportamento".

I messaggi ritenuti più efficaci sonoquelli non impositivi, che non danno valutazioni, preferibilmenteironici e affermativi; i messaggi repressivi e negativi vengonorifiutati.

 

Il rischio in Europa

Per i giovani europei frai 14 e i 22 anni di Francia, Germania, così come per i loro coetaneiitaliani, il rischio è essenzialmente una sfida positiva. Al contrario,per gli spagnoli il concetto è duplice: da una parte il pericolo edall'altra il divertimento. In Grecia il rischio viene percepito comeuno strumento di crescita personale, mentre i ragazzi britannici locollegano all'eccitazione e ad una "botta di adrenalina". In tutti icasi al rischio viene associata comunque la ricerca di esperienza o lacrescita individuale. A differenza dell'Italia, dove si rischia peressere notati e far parte di un gruppo, la ricerca di esperienze è lamolla che fa scattare la decisione in Francia, mentre i giovani greci ebritannici sostengono che il rischio è parte integrante dell'esseregiovani.

Per quanto riguarda i comportamentiche i giovani considerano maggiormente a rischio, l'uso di droghericorre praticamente in tutti i Paesi, fatta eccezione per l'Italia,dove nella gerarchia prevale la problematica relazionale, ed il RegnoUnito, dove i comportamenti sono più legati ad un rischio immediato(violenza fisica, risse, camminare sui parapetti dei ponti o sui bordidei porti) che non ad un comportamento con conseguenze a più lungotermine.

Cristiana Gatto - Francesca Silvi

Pubblicato in Problematiche Giovanili
Venerdì, 31 Dicembre 2004 13:58

INFORMAZIONI SU TURISMO E HANDICAP IN ITALIA

INFORMAZIONI SU TURISMO E HANDICAP IN ITALIA

 

Numero verde turismo accessibile:

Telefono: 800 - 27.10.27

Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

(a cura del Ministero Welfare e Co.In, Roma).

 

Sportello vacanze Aias Milano

Telefono: 02.67.65.47.40;

Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

 

Servizi informahandicap dei Comuni Italiani

Elenco dei circa 50 sportelli informativi attivi in 10 regioni.

www.handybo.it/informahandicap/servizi_informahandicap.htm

 

Informazioni per viaggiare in treno

Elenco delle stazioni italiane in cui è attivo il sevizio per viaggiatori disabili. Sevizi offerti.

www.trenitalia.com/disabili/hodi.html

 

Informazioni per viaggiare in aereo

www.alitalia.it/viaggio/aereo/assistenze.html

 

Informazioni per viaggiare in nave

www.arpnet.it/cad/ali/guidali/trasport/maritt.htm

 

siti internet utili

www.italiapertutti.it

www.mondopossibile.com

www.h81.org

www.disabili.com

www.accaparlante.it/documentazione/pubblicazioni/guide/index.htm

www.superabile.it

www.milanopertutti.it

www.coinsociale.it

www.bus.it/disabili.htm

www.terredimare.it

www.arpe.it

tratto da "Famiglia Oggi 10 — ottobre 2003"

Venerdì, 31 Dicembre 2004 13:54

UN GIORNALE "ON LINE"

UN GIORNALE "ON LINE"

www.disabili.com

Ricca di spunti di riflessioni e di notizie utili www.disabili.comè una testata giornalistica on line regolarmente registrata e curata daprofessionisti. È uno dei più visibili progetti internet in Italiainteramente dedicato ai disabili e a tutti coloro che operano in questosettore. È luogo di incontro, dialogo e discussione: offre contenutieditoriali aggiornati, consulenze e informazioni utili sulladisabilità. Periodicamente la redazione cura degli "speciali" (fisco,vacanze, senza barriere), pensati per agevolare i navigatori fornendonotizie semplificate, nel caso delle normative, e indirizzi, nel casodi strutture o località accessibili. Numerose, poi, le rubriche chespaziano dai temi più "leggeri" ad altri più impegnati. Degna di nota,la completa , ricca e aggiornata rassegna stampa.

Tratto da "Famiglia Oggi 10 — ottobre2003"

Giovedì, 30 Dicembre 2004 21:47

GLOSSARIO DELLA DISABILITA’ (2/2)

 GLOSSARIO DELLA DISABILITA’ (2/2)

di Renato Pigliacampo

Tratto da "Famiglia Oggi/ ottobre 2003"

Handicap (terminologia)

Nessun termine straniero è stato sottoposto a verifica sui significati e tanto si è scritto come la parola "handicap", proveniente dall’inglese nel cui linguaggio stava ad indicare cavalli e cani favoriti nelle corse, con le relative scommesse, che partivano con un determinato svantaggio affinché la gara fosse più equilibrata e la vittoria incerta sino alla fine, allo stesso modo l’estrazione dei bigliettini della lotteria da un cappello (dall’inglese hand in cap). Nel nostro paese c’è stato un vero e proprio processo sulle varie terminologie adottate per indicare i soggetti o/e la relativa disabilità sensoriale, fisica e psichica. Termini quale anormale, minorato psicofisico, handicappato, ipodotato, caratteriale, mongoloide, cerebroleso, encefalitico, storpio, motuleso, sordomuto, sordocieco e altre voci indicanti aspetti particolari sono stati giudicati dalla società negativamente in considerazione del rifiuto della stessa persona con la menomazione. Tuttavia i termini con cui sono stati sostituiti non sempre chiariscono la condizione psicobiologica, anche per la varietà delle menomazioni e la modificazione delle stesse nel tempo

(regressione o tentativo di normalizzazione). L’indicazione del termine handicappato è generica perché, in talune situazioni può esserlo sia il cieco sia il miope, se questo ultimo non ha gli occhiali per la vista, correggendogli l’offuscato vedere. Si sono succeduti, insistenti in alcuni periodi, termini quali "diverso", "patologico", "minorato", "emarginato", "marginale", "handicappato", "disabile", e ultimamente, "diversabile" o "diversamente abile". Nel momento in cui utilizziamo un termine sul soggetto con deficit parziale o totale della vista, dell’udito, degli arti superiori o inferiori esprimiamo un giudizio che coinvolge tutta la persona del protagonista e noi mostriamo sia la nostra maturità socioculturale dell’accettazione o no sia la sensibilità e conoscenza del "suo problema". Nel 2001 l’Oms ha pubblicato un approfondito lavoro nel quale si afferma che: <<la salute consiste in un a condizione di completo benessere fisico psichico e sociale e non (…) solamente in assenza di malattia o infermità>>. Un esempio clamoroso è il sordo. Può essere in buona salute, intesa a livello psicologico, ma la privazione dell’esperienza sonoro-verbale e l’imposizione d’apprendere la lingua verbale della maggioranza nel corso del tempo possono generare turbe neurologiche, stress se non s’interviene con l’insegnamento del linguaggio visuomanuale (il linguaggio dei segni). Se l’intervento è tempestivo e specializzato il sordo potrebbe raggiungere una gratificazione sociali con i simili conoscenti la lingua dei segni o gli udenti altrettanto capaci di comunicare visivamente e manualmente nell’interazione affettiva. L’anormalità sarà presente solo a livello percettivo sonoro, ma annullata o superata nella sostituzione con una percezione visiva per la cui partecipazione nei gruppi ristretti o allargati (degli udenti)ha la necessità di personale specializzato (nel caso gli interpreti in lingua dei segni o ripetitori labiali per chi non conosce la lingua di segni diffusa nel proprio Paese). In questo caso il sordo non è "handicappato", non parte in "svantaggio", in lui resta si la disabilità del senso d’udito ma la comunicazione. C’è anche la smania, tutta italiana, di parlare per i protagonisti (in particolare per i sordi, i ciechi, i disabili motori) nei convegni per handicappati senza focalizzare di chi si tratta. Assistiamo così ad una bolgia d’interventi sull’integrazione scolastica (insegnanti), sulla riabilitazione (terapisti), sulle nuove scoperte mediche (medici specialistici), sulle nuove tecnologie computerizzate (dirigenti d’azienda e tecnici) e alla fine del convegno è davvero bravo chi ci capisce qualcosa.

Handicap e sport

Lo sport de disabili è molto interessante ed istruttivo. L’attività sportiva è nata come attività ludica o di riabilitazione dolce. Negli ultimi decenni si è arrivati a competizioni qualificate nel basket, nel ciclismo (ciechi con l’accompagnatore), nell’atletica leggera in carrozzina, che inducono gli stessi atleti in una preparazione adeguata le cui performance non sono inferiori a quelle degli atleti normodotati. In Italia la FISD (Federazione italiana sport disabili) è componente del CONI, da cui riceve l’apporto economico e tecnico delle altre federazioni.

Handitutor

Nell’ambito della frequenza dei disabili dell’università i docenti di ruolo che compongono il senato accademico o loro delegati per legge sono chiamati a seguire le modalità d’iscrizione e d’assistenza didattica di studenti con problemi di menomazione. Talvolta le stesse università istituiscono corsi di formazione per rispondere ai bisogni degli studenti con problemi di disabilità specifica. Spesso l’aggiornamento avviene anche in forma indiretta, con l’accesso ai siti delle direzioni generali regionali (Miur) che mettono a disposizione i dati, le normative e tutto ciò che può interessare.

ICF

Iniziali che indicano International Classification of Functioning, Disability and Healt (Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute), testo redatto nel 2001 dall’Oms (organizzazione mondiale della sanità) che cerca di focalizzare con un linguaggio e un giudizio omogeneo le funzioni e le strutture corporee classificandole in percentuale, da 0% "perfettamente funzionante" al 100% "completamente inattivo". L’Icf rappresenta la classificazione della salute e degli atti correlati, utilizzato nei settori assicurativo, previdenza sociale, lavoro, istruzione, economia, legislazione, modifiche ambientali.

Inabilitazione

L’art. 415 del Codice civile indica le persone che possono essere inabilitate facendo riferimento al maggiore d’età infermo di mente, ai soggetti che abusano di droghe e alcool esponendo se stessi o la famiglia a gravi pregiudizi economici, anche il sordomuto o il cieco dalla nascita o dalla prima infanzia che non abbiano avuto un’educazione sufficiente. La differenza tra inabilitazione e interdizione è che nel primo caso le persone che si trovino nelle condizioni indicate "devono" essere interdette, nel secondo caso "possono"essere interdette.

Indennità d’accompagnamento ai ciechi civili assoluti

È stata introdotta nel 1968, spetta ai cittadini italiani, e dell’ Ue residenti in Italia, rifugiati, riconosciuti dalla commissione dell’Asl ciechi civili assoluti. La provvidenza economica è concessa al solo titolo della minorazione. Può essere richiesta anche prima del compimento del 18° ano d’età protratta anche dopo il compimento del 65° anno.

Indennità di comunicazione

È stata introdotta quindici anni fa e spetta ai sordomuti riconosciuti tali ai sensi della legge 381/1970.E’un’indennità, non una pensione erogata per favorire il sordomuto nella partecipazione alla vita socioculturale e per il superamento delle barriere di comunicazione. Concessa al solo titolo di menomazione.

Insegnante di sostegno

Figura professionale complessa e discussa nell’attività didattica di sostegno degli alunni disabili. La sua stessa denominazione non trova concordi tutti. Chiamato, secondo le filosofie delle scuole che li hanno formati, docente specializzato, insegnante specializzato, insegnante qualificato aggiunto. È entrato in servizio ufficialmente nel 1977, con l’approvazione della legge n. 517, quando molti handicappati furono accolti nella classe della scuola ordinaria e avevano bisogno di supporti didattici individuali. Tuttavia molti di questi "samaritani", sebbene di buona volontà, mancavano di preparazione nelle metodologie e didattica speciale o, come per gli scolari sordi, della comunicazione con gli stessi allievi. Negli anni la formazione dei docenti di sostegno ha seguito un iter che ha lasciato scontenti quasi tutti: i protagonisti (capaci di promuovere una funzione critica), le famiglie dei disabili e gli stessi docenti, a volte umiliati dalla scuola perché raramente hanno risposte per il superamento delle difficoltà. Per la loro formazione professionale, oggi vengono organizzati corsi "polivalenti", cioè il docente frequenta un corso da un minimo di 400 ad un massimo di 800 ore aperto a tutte le informazioni didattiche e metodologiche e mediche dei soggetti disabili (a livello dell’età evolutiva). In teoria dovrebbe conoscere didatticamente come operare in funzione dell’apprendimento di qualsiasi alunno. Ne sortisce una figura professionale ibrida, talvolta alienata. A farne le spese sono gli alunni disabili, in particolare i sordi o con deficit uditivo che si trovano in classe con un docente che non sa comunicare con loro, non sa trasformare "quello che sa" in una didattica che si fonda sulla percezione visiva. Inoltre molti laureati in lettere sono inviati a sostenere un ragazzo che frequenta, supponiamo, l’istituto tecnico per geometri che ha necessità di supporto per le costruzioni o topografia, discipline che non conoscono, riducendosi a prendere gli appunti per il ragazzo. Sarebbe ormai tempo di proporre un docente specifico, considerandone anche il corso di laurea, introducendo nella formazione nuove discipline (lingua italiana dei segni, braiile, tecniche linguistiche alternative).

Interprete di Lis

Iniziali di "Lingua dei segni italiana".nell’art.8 della legge 104/1992, è scritto che i comuni singoli o associati "possono" istituire il "servizio d’interpretariato a favore dei sordi". Tale servizio può essere espletato attraverso la ripetizione di ciò che dice l’interlocutore (labiolettura da parte del sordo) o tramite la Lis (decodificazione dei codici visivomanuali). I primi interpreti proposti da un’istituzione pubblica, iniziarono il servizio nel 1982 quando, la regione Marche approvò l’art. 8 in una legge regionale denominata "Abbattimento delle barriere di comunicazione". Molti comuni delle Marche crearono il servizio d’interpretariato per i sordi "segnanti". In seguito ad Ancona, grazie all’Ente Nazionale Sordi, nacque la prima associazione d’interpreti di Lis, l’Anios, tuttora attiva, con sede a Roma. Molti sordi, in ambito scolastico, lavorativo e nei bisogni dei contatti con le istituzioni politiche, culturali e sociali fruiscono dell’ausilio degli interpreti di Lis. Tuttavia in Itala, pur giacendo in Parlamento numerose leggi £ di tutte le fazioni politiche £ per il riconoscimento della Lis (a tale scopo è stata anche approvata una risoluzione al Parlamento europeo perché i Paesi membri riconoscessero la lingua dei sordi del proprio paese come la lingua naturale dei sordi) ancora non è stata approvata, sebbene la Rai e i politici ricorrano a tali interpreti per fare da ponte tra udenti e sordi.

Invalido civile

La legge n. 118/1971, dichiara: "Agli effetti della presente legge si considera invalido civile il cittadino affetto da menomazione congenita o acquisita, anche a carattere progressivo, compreso l’irregolare psichico per oligofrenia di carattere organico o dismetabolico, insufficienza mentale derivante da difetti sensoriali e funzionali che abbia subito una riduzione della capacità lavorativa non inferiore a 1/3 o, se minore di 18 ani, che abbia difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della sua età. Sono esclusi gli invalidi di guerra, di lavoro, di servizio, nonché ciechi civili e i sordomuti". Il sordo di nascita o divenutolo durante l’età evolutiva non è invalido civile, cioè non rientra in questa legge ma in quella n. 381/1970. Al contrario ricade nella legge degli invalidi civili l’individuo che, per malattia o incidente, perde completamente o parzialmente l’udito dopo l’età evolutiva.

Lavoro (benefici)

La legge n. 388/200, all’art. 80, comma 3, dichiara che: "Ai lavoratori sordomuti (…) nonché agli invalidi (…) ai quali è stata riconosciuta un’invalidità superiore al 74% (…) è riconosciuto, a loro richiesta, per ogni anno di servizio(.)effettivamente svolto, il beneficio di due mesi di contribuzione figurativa utile ai loro fini del diritto alla pensione e all’anzianità contributiva: il beneficio è riconosciuto fino al limite massimo di cinque anni di contributi figurativi".

Lavoro (assunzioni)

In passato il collocamento al lavoro dei disabili sensoriali gravi ( ciechi, sordi) e degli invalidi gravi era ordinato dalla legge n. 482/1968 che percentualizzava i "posti spettanti" per ciascuna categoria. Oggi, la legge n. 68/1999 "inserisce" tutti nella stesa categoria del collocamento obbligatorio, includendo anche profughi e vedove, che non hanno nulla di disabile. Attualmente, a parte i ciechi, per i quali è ancora in vigore una legge per i posti riservati (centralinisti telefonici, massofisioterapisti) trovano difficoltà d’assunzione i sordi perché, non avendo una buona preparazione scolastica, non superano le selezioni d’idoneità all’occupazione e sono costretti a ripiegare su lavori dequalificati.

Lingua dei segni

I sordi da sempre "fanno i gesti", per comunicare fra di loro per secoli nel nostro Paese si sono fronteggiate due scuole: i moralisti e i segnanti. I primi consideravano il recupero sociale e culturale del sordo solo se capace ad esprimersi con la lingua della maggioranza; gli altri valutavano il sordo nelle capacità d’apprendimento, nell’interazione con i simili per creare un gruppo o una piccola comunità per far valere i propri diritti di fronte alle istituzioni. La maggior arte delle rivendicazioni sociali sono state portate avanti dai dirigenti sordi segnanti riuniti nella maggiore associazione nazionale dei sordi (l’En). Attualmente i sordi stanno "martellando" il Governo per il riconoscimento della lingua dei segni italiana come lingua propria della comunità dei sordi. Con tale riconoscimento la comunità dei sordi auspica l’insegnamento della lingua dei segni nelle scuole dell’obbligo agli utenti come lingua facoltativa (avviene nei paesi nordici e negli Usa) e l’obbligo d’apprendimento ai docenti di sostegno. Inoltre negli enti pubblici deve essere presente una persona che la conosca.

Logopedista

Ha il compito di rieducare le turbe inerenti ai disturbi della voce, della parola e del linguaggio sia nel bambino che nell’adulto. Lavora nell’Asl e nei centri privati. Le prime logopediste che operavano nella Asl o nelle scuole pubbliche respingevano la proposta dell’apprendimento della lingua dei segni dei sordi perché credevano pregiudicasse il loro lavoro logopedico. Oggi, invece, la lingua dei segni è riconosciuta utile nell’impostazione del dialogo segno col bambino.

Metodo Malossi

Proposto dai maestri napoletani Artusio e Aurelio Colucci, esso è localizzato su aree anatomiche della mano ben definite: sulle tre falangi delle dita, sull’articolazione delle dita della mano e al vertice delle dita. Per esempio sull’indice della mano sinistra della prima falange abbiamo la lettera V, nella seconda falange abbiamo G, nella terza falange B e "in cima" Q. le lettere vanno "pizzicate" e in questo modo il sordocieco n’assocerà il significato. Ci vuole intesa tra il cieco e colui che con lui utilizza il metodo Malossi.

Motulesi

Sono i soggetti afflitti da limitata o nulla attività motoria. Le cause sono molteplici: poliomielite, paralisi spastiche, deformazioni congenite, amputazioni d’arti, traumi per incidenti stradali.

Onlus

(Organizzazioni non lucrative d’utilità sociale). Il Governo italiano col decreto legislativo n. 460/1997, ha dato concreta attuazione della legge n. 662/1996, definendo le caratteristiche strutturali e funzionali delle Onlus. La legge favorisce un insieme d’agevolazioni fiscali e contabili. Possono godere dello stato d’Onlus associazioni, comitati, fondazioni e altri enti sociali a carattere privato, con o senza personalità giuridica. Coloro che hanno ottenuto il riconoscimento d’Onlus, devono riportare l’indicazione su ogni distintivo o comunicazione rivolta al pubblico.

Pluriminorato

Ci si riferisce ad un soggetto che associa due o più deficit. La pluriminorazione può essere classificata in due forme: con danno funzionale e con danno organico. La prima è la conseguenza di una minorazione sensoriale perché si è intervenuti tardi o in modo insufficiente a livello educativo e riabilitativo; la seconda è causata da lesioni cerebrali, patologie e traumi. Un esempio: il bambino sordo può unire alla sordità un deficit motorio o visivo che rende difficoltoso l’apprendimento o l’interloquio verbale e segnico.

Quoziente intelligenza (Qi)

S’intende la misura generale dell’intelligenza in un individuo. Il Qi è stato introdotto la prima volta da W. Stern nel 1912. E’ancora utilizzato in tutti i Paesi sebbene negli ultimi decenni abbia subito verifiche perché gli psicologi hanno messo in evidenza che ciascun individuo ha un’intelligenza diversa rispetto all’altro e la quantità e la qualità dell’intelligenza è connessa a molteplici varianti. Di solito è considerata nella norma un Qi a 90 e 110, un Qi inferiore o superiore corrisponde ad un ipodotato e un superdotato. Per misurare l’intelligenza d’individui disabili sensoriali (sordi e ciechi) è necessario predisporre reattivi appropriati al processo d’apprendimento visivo, speciali testi visivi per i sordi e verbali per i ciechi.

Riabilitazione

Interventi per ripristinare funzioni fisiologiche, psicologiche, mentali dovute a trauma o malattie pre £ post nascita. Gli obiettivi della riabilitazione sono quattro: il recupero di un apparato o competenza funzionale; lo stimolo o la riattivazione di una competenza che non è comparsa durante lo sviluppo; il tentativo di bloccare o frenare una determinata regressione funzionale; il tentativo di ricercare possibilità alternative di recupero. Ogni soggetto sottoposto a riabilitazione ha diritto ad un programma personalizzato. Non deve essere "costretto" nel suo tentativo di recupero o normalizzazione né prendere come modello una persona con tutte le funzioni e gli apparati corporei sani.

Servizi sollievo

È una struttura territoriale che sta diffondendosi sempre più nel nostro paese per venire in aiuto alle famiglie che hanno un componente con problemi psichici. L’obiettivo principale è alleviare la solitudine e il disagio dei familiari o di chi si occupa del soggetto con disturbi mentali. Tali servizi sono in contatto con altri del territorio e si giovano di personale specializzato. La sede non va mai ubicata nell’ospedale, ma in luoghi urbani.

Sordomuto (definizione)

A mente della legge 26 maggio 1970, n.381: "Si considera sordomuto il minorato sensoriale dell’udito affetto da sordità congenita o acquisita durante l’età evolutiva che gli abbia impedito il normale apprendimento del linguaggio parlato, purché la sordità non sia di natura esclusivamente psichica o dipendente da cause di guerre, di lavoro o di servizio". Negli ultimi decenni dello XX secolo gli specialisti del settore, medici e psicologi, pedagogisti e vari settori di riabilitazione, hanno svolto un’attenta critica del termine. Con l’appoggio delle famiglie associate hanno compiuto un lavoro "estetico" sul termine che ha determinato, nella popolazione, confusione negli interventi istituzionali e nel linguaggio comune. Sino agli anni ’50 negli istituti in cui erano ricoverati i sordomuti spiccava all’esterno l’indicazione "istituto per sordomuti". Tutto oggi la legge fa riferimento al "sordomuto", di fatto "indennità di comunicazione per sordomuto", "posto riservato ai sordomuti". A livello psicolingustico il termine può essere confutato perché essere "sordo" non vuol dire essere "muto", o almeno non considerando la sola lingua verbale su cui fermò l’attenzione il legislatore. Oggi ci si sta orientando all’educazione bilingue dei bambini sordi: la lingua dei segni e di fatto la lingua verbale. Di fatto un sordo può benissimo comunicare le sue emozioni e le sue idee nella modalità visivo £ manuale (nella lingua dei segni) e meno nella lingua verbale. In quella lingua non è "muto", a meno che non si voglia dare del muto anche alludente che non conosce la lingua dei segni.

Negli Usa e nei paesi nordici dove la lingua dei segni è riconosciuta dal Governo i sordi sono considerati esclusivamente Deaf senza l’appellativo di "muto". Se occorre salvaguardare alcuni termini del linguaggio medico (ipoacusico, cofotico, presbiacusico) è bene diffondere esclusivamente il termine "sordo", come desidera la maggioranza della comunità dei sordi italiana associata all’En, evitando indicazioni come audioleso, sordastro, non udente, anacustico, duro d’orecchio.

Telelavoro

S’intende un’attività lavorativa svolta in un luogo diverso della sede dell’azienda o ente cui si appartiene, ma collegato agli stessi tramite il sistema telematico. Le tecnologie favoriscono il trasferimento in tempo reale di dati, documenti, immagini dalla sede principale di lavoro al dipendente esterno (teledipendente) che pratica il telelavoro. Per coloro che hanno problemi di mobilità come i disabili motori, il telelavoro è una via occupazionale da favorire perché non sempre le aziende hanno strutture e strumentazioni idonee al disabile. Alcune regioni contribuiscono con apposite leggi all’iniziale spesa per l’acquisizione delle attrezzature e il collegamento internet e per le categorie di cui alla legge 104/92. Le associazioni dei disabili stanno organizzando corsi per la diffusione di questa nuova forma di lavoro.

Tutoring

Consiste nella presa a carico, da parte dei compagni o di uno di loro, dei problemi del disabile inserito nella classe. L’intervento non è quello di prendersi cura di tutti i suoi problemi e risolverli, ma di facilitargli il rapporto con i compagni di classe e con i docenti curricolari specializzati. Il tutor è reclutato su proposta volontaria. Di solito è scelto tra studenti che "conoscono", per esperienza familiare o parentale, la realtà della disabilità del compagno di classe. Ottimi tutor per i ragazzi sordi inseriti nelle classi comuni, in particolare nella comunicazione, sono i figli udenti di genitori sordi.

Welfare state

La realtà a cui si riferisce il termine è molto vasta, tuttavia la"filosofia" può essere ristretta all’intervento dello stato nell’occuparsi di svariate incombenze perché i cittadini, in particolare i più indigenti e problematici, ricevano i bisogni di sussistenza materiale e i servizi necessari per la salute fisica e psichica. Tra i punti salienti del welfare state forniti dallo Stato (o per delega dalle Regioni, Comuni, Province) ricordiamo: assistenza sanitaria pubblica a tutti i cittadini, pensioni ai lavoratori che hanno cessato di lavorare per i limiti d’età, sussidi per i disoccupati, cassa d’integrazione per i lavoratori d’aziende in crisi o con limitate commesse, sussidi alle famiglie con difficoltà economiche. La filosofia che ispira il welfare state è aiutare coloro che per motivi esistenziali o cause diverse mancano del sostegno economico (esigenze materiali di sussistenza quotidiana) e /o del sostegno educativo, culturale e di salute (esigenza e dignità personali). Il welfare state ha avuto molta considerazione nei paesi scandinavi e in Giappone. Nell’ultimo decennio forze sociali e politiche hanno esercitato una funzione critica sia in Italia sia in altri Paesi della Ue affermando che "lo stato non può garantire tutto a tutti", col tentativo di "passare" alcuni servizi privati o ai settori assicurativi, compresi alcuni servizi forniti ai disabili.

Giovedì, 30 Dicembre 2004 21:36

GLOSSARIO DELLA DISABILITA’ (1/2)

 GLOSSARIO DELLA DISABILITA’ (1/2)

di Renato Pigliacampo

Tratto da "Famiglia Oggi/ ottobre 2003"

Abnormal Psychology

Termine molto utilizzato nei trattati specialistici che sta ad indicare una personalità anormale. I fenomeni psicopatologici possono riguardare le anomalie della percezione, delle funzioni psicomotorie, i disturbi delle funzioni cognitive, motivazionali o d’altra natura psicologica, i disturbi della personalità (per esempio neurosi o malattie psicosomatiche, caratteropatia), condotta sociale anormale (azioni criminali).

Anomalo/Anomalia

Termine utilizzato nel linguaggio della media e fa riferimento a vari significati, spesso contraddittori. Le differenziazioni sono due: l’anomalia è definita come deviazione da una norma ideale o prestabilita; deviazione dalla norma in determinate condizioni sociali per raffronti/confronti con altri soggetti o per motivazioni interculturali che, di conseguenza, portano a sanzioni sociali quando le leggi non lo permettono.

Abuso Pedagogico

Negli ultimi anni si è portata maggiore attenzione sul rispetto del bambino nella sua individualità. Il bambino con deficit sensoriale, fisico o psichico deve essere riabilitato ma non costretto a "gareggiare"col coetaneo normodotato. Il concetto di normalizzazione o di normalità esiste solo nella proposta del riabilitatore o dell’educatore. Non si costringe un bambino sordo ad udire quando l’udito è in grave deficit nell’ascolto della parola verbale né obbligare l’occhio oscurato a vedere. E’ bene che gli operatori si adoperino a stimolare meglio i sensi sani, proponendo una metodologia appropriata £ in particolare nei processi d’apprendimento scolastici £ da parte degli insegnanti specializzati.

Acufene

È un ronzio £ rumore interno all’orecchio del paziente con gravi o medi problemi d’udito. A tutto oggi non si conoscono le cause, non è stata definita pertanto una terapia efficace. Ricerche italiane e straniere hanno dimostrato che il 20%/30% della popolazione è afflitta da questo disturbo per un periodo lungo e talvolta per l’intera vita. L’acufene spesso peggiora durante i mutamenti meteorologici, gli sforzi fisici e gli impegni intellettuali, durante una malattia o disagi psichici.

Afasia

Disturbo del linguaggio dovuto a lesioni dei centri del cervello, in particolare dei centri del linguaggio dell’emisfero celebrale (sx nel destromane). I disturbi afasici sono diversi altre forme più semplici di disturbi anche perché il linguaggio è emanazione della complessa attività simbolica.

Anoressia

È il rifiuto psicologico di mantenere il peso su valori giudicati nella norma per età e statura. La spia si presenta quando il peso del soggetto scende oltre il 15%del peso normale. La tradizione psicologica attribuisce la causa a problemi psicologici, educativi e di relazione. Qualche anno fa dei ricercatori australiani del "Children’s Hospital" di Westmead hanno scoperto il primo gene collegato all’anoressia, il Net. Costui farebbe da "rubinetto" per il passaggio della noradrenalina, sostanza coinvolta nello stress, ansia e depressione. Se il Net è alterato c’è predisposizione alla malattia. In ogni caso è un’ipotesi che taluni respingono. Degli psicologi ricordano che il rifiuto del cibo coincide con delusioni affettive nell’età adolescenziale, stress per esami, separazione dei genitori.

Amministratore di sostegno

La legge italiana prevede gli istituti d’interdizione e dell’inabilitazione. Ci sono "casi", anche talvolta gravi, che non si confanno a nessuna delle due istituzioni. L’amministratore di sostegno è l’alternativa alle altre due, accanto al tutore e al curatore. La conseguenza di tale scelta ha portato alla modifica dell’articolo 414 del Codice civile che prevedeva testualmente: <<il maggiore d’età e il minore emancipato, i quali si trovano in condizioni d’abituale infermità di mente che li rende incapaci di provvedere ai propri interessi devono essere interdetti>>. Il nuovo testo modifica la parola "devono" con la parola "possono". Ciò per la dignità e il rispetto dovuto alla persona. Il nuovo istituto è applicabile ad un soggetto per effetto di una grave malattia o menomazione o a causa dell’età avanzata e l’indicazione nella normativa proprio dell’"età avanzata"e di "menomazione" va oltre la gelida definizione di "infermità mentale" prevista per i casi d’interdizione e d’inabilità.

Assistente/assistenza domiciliare

Si tratta di un intervento compiuto a domicilio da parte d’operatori esperti dell’ente locale (Comune) nei confronti dei cittadini che necessitano d’aiuto per compiere gli atti elementari dell’esistenza (mangiare, bere, lavarsi, camminare). L’assistenza domiciliare riguarda anche i disabili sia a livello d’intervento personale sia a sostegno della famiglia del soggetto problematico per l’assistenza infermieristica, motoria e per quanto riguarda le necessità della persona.

Audioleso

Sia chi ha difficoltà d’ascolto. Di solito il termine audio leso sostituisce il termine "sordo". Molto diffuso nelle famiglie udenti con bambini sordi, anche gravi. La comunità adulta sorda italiana, associata all’Ens (Ente nazionale sordi), non accoglie la definizione perché la trova limitante nell’indicare il deficit uditivo. Audioleso letteralmente sta ad indicare l’audio…leso, rovinato! Di fatto avremo videoleso, polsoleso, ditoleso. Potrebbe essere accolto per un udente che, per un incidente o per una malattia, subisce una lesione dell’udito, ma non per chi ha un deficit grave dalla nascita, il quale dovrebbe essere classificato con un termine specifico che, più che per nascondere la disabilità dell’udito, indichi all’interlocutore "come"interagire con lui.

Autismo

A parte il significato letterale (autos, se stesso) molte problematiche dell’autismo sono ancora avvolte nel mistero. Fu Kanner (1943) tra i primi studiosi ad utilizzare il termine quando descrisse il comportamento di 11 bambini che mostravano un comportamento anormale nel linguaggio, notevole abitudinarietà, rifiuto dei contatti sociali. La diagnosi tuttavia è a volte inesatta anche perché l’autismo spesso è assegnato ad ogni bambino con difficoltà di condotta, o di disordini psicologici o cognitivi. Le cause sono sconosciute. Le ricerche autoptiche post morte hanno messo in evidenza varie anomalie in varie regioni del cervello, di più nel lobo frontale(che pianifica e modella l'azione nel sistema libico( che presiede al controllo emotivo) e in diverse altre aree. Qualche anno fa (2001) una serie di ricerche ha dimostrato che una significativa percentuale di casi autistici ha base genetica. Sembra che il gene situato nel cromosoma 7 alteri lo sviluppo della corteccia celebrale. La misura del quoziente intellettivo dei bambini artistici è controversa. Ci sono state esagerazioni in positivo e in negativo. Oggi ci sono esperti che testano i bambini autistici con speciali test.

Barriere architettoniche

S’intendono gli ostacoli (mobili e immobili) che s’intromettono nella mobilità di chiunque e in particolare di chi ha una ridotta o nulla capacità motoria. L’art. 24 della legge 104/1992 prevede che tutte le opere edilizie riguardanti gli edifici pubblici e privati aperti al pubblico devono essere costruite o adattate per permettere l’accesso ai disabili. Le successive di normative o decreti hanno indicato una specie di vademecum a vantaggio dei disabili motori sui percorsi pedonali, parcheggi, contrassegni speciali, accessi agli edifici, scale, porte, corridoi, locali igienici, tranvie, bus, treni.

Bilinguismo (nel bambino sordo)

Negli ultimi anni si sono scoperte capacità diversamente abili nel bambino sordo sfruttando al massimo i processi d’apprendimento visivo. Per bilinguismo nel bambino sordo s’intende l’apprendimento di due lingue: la lingua dei segni che è consideratala prima lingua e la lingua verbale e scritta della maggioranza. Gli psicolinguisti esperti fanno notare che il bilinguismo del sordo non può essere paragonato al bilinguismo dell’udente che utilizza al massimo il canale uditivo. Il bilinguismo studiato nei figli sordi di genitori sordi segnanti è stato considerato vantaggioso perché non emargina il piccolo dal mondo relazionale sia con i familiari sia con gli insegnanti e i bambini coetanei segnanti, ai quali sono proposti speciali corsi d’apprendimento della lingua dei segni.

Borderline (disturbi)

Termine introdotto da Huges e Rosse, perfezionato da C. Stern per far riferimento ad una condizione diagnostica psicopatologica con difficoltà di sistemazione nosografia. Gli stessi psichiatri e psicologi non sono concordi sul termine. Per alcuni la definizione è legata a disturbi della personalità; per altri a diverse condizioni psicopatologiche. In definitiva s’intende pazienti che non rientrano nei classici confini della nevrosi e della psicosi.

Braille ( sistema)

È una forma di scrittura e lettura tattile. Fu proposta dal francese Louis Braille, cieco lui stesso. Per il cieco leggere con il tatto è molto importante e rassicurante. L’invenzione del braille portò molti cambiamenti nel sistema educativo e d’istruzione dei ciechi. I bambini ciechi per apprendere bene il braille devono adattarsi ad usare bene il punteruolo ( che equivale alla penna per il vedente), ossia lo strumento che serve per scrivere in braille. Poi devono avere appreso la rappresentazione spaziale e la lateralizzazione, il senso dell’alto e del basso, oltre ad un’ottima educazione motoria della mano. Il sistema braille è stato accettato dai ciechi di tutto il mondo.

Cani guida (per i ciechi)

La storia dell’addestramento dei cani guida per i ciechi è molto istruttiva e affascinante. La prima scuola per cani guida è stata proposta dall’Uic (unione italiana ciechi) nella sede di Scandicci (Fi) e sino al 1978 l’ha gestita l’associazione dei ciechi per poi passare, con la riforma degli enti del sociale e assistenziale, al Dipartimento delle Politiche Sociali della regione Toscana. Oggi l’orientamento del cieco è facilitato dalle nuove tecnologie o dai percorsi facilitati o predisposti come si nota nelle grandi città, nelle stazioni ferroviarie, oppure il cieco fruisce di un accompagnatore per il quale ottiene un’indennità dallo Stato. Il ricorso ai cani guida è sempre meno frequente anche se molti ciechi lo richiedono e ne parlano positivamente perché costruiscono con l’animale un rapporto psicologico gratificante che gli permette di superare momenti d’avvilimento.

Carrozzina

È il veicolo di movimento del soggetto con problemi motori agli arti inferiori. È bene che colui che la utilizza n’apprenda il meccanismo di funzionamento e sappia "guidarla". Se l’accoglimento non crea problemi psicologici ai più giovani (ai disabili motori dalla nascita), spesso lo diventa per coloro che perdono il funzionamento degli arti da giovani o in età adulta. La ricerca tecnologica permette oggi la costruzione di carrozzine sempre migliori sia per materiali leggeri e resistenti sia per esigenze d’uso personale, per esempio, l’attività sportiva, costruite per la competività nelle diverse discipline.

Cieco

La legge n.382/1970 afferma: <<agli effetti della presente legge si considera cieco civile colui che sia colpito da cecità assoluta o abbia un residuo visivo non superiore a 1/20in entrambi gli occhi con eventuale correzione, con esclusione di cause di guerra, infortunio sul lavoro e di servizio>>. La legge n. 138/2001 classifica e quantifica le minoranze visive dando indicazioni per gli accertamenti legali del deficit della vista. E detta definizione di "ciechi totali" e "parziali", che non modifica le norme in vigore sulle prestazioni economiche e sociali. È definito, invece, "cieco parziale" chi ha un residuo visibile non superiore a 1/20 in entrambi gli occhi o nell’occhio migliore anche con eventuale correzione.

Complesso (della crocerossina)

Il termine sta ad indicare il comportamento della donna volontaria o dell’assistenza verso il disabile assistito o paziente, identificandosi nei problemi della sua malattia o disabilità, nel dolore e nell’angoscia, facendosene carico col dono di sé, convivendo o sposando chi assiste.

Comportamento (verso il disabile)

S’intende l’azione che una persona manifesta con l’eloquio, l’atteggiamento in genere, le scelte verso la persona con problemi visivi, uditivi, mentali, psicologici, motori(…).

Comunicazione totale

Termine proveniente dagli Usa che indica un nuovo approccio comunicativo col sordo adottando varie modalità tecniche affinché sia in grado di comprendere meglio quanto gli è detto. La comunicazione totale è composta dalla lingua dei segni (in Italia la Lis), dalla dattilologia, dalla labiolettura, dalla mimica, dall’espressività.

Dichiarazione dei diritti delle persone disabili dell’Onu.

Nella 243esima seduta plenaria del 9 dicembre 1975 l’Assemblea generale presso gli Stati membri, nello spirito della Carta delle nazioni unite, ha proclamato la Dichiarazione dei diritti delle persone disabili facendo appello all’azione nazionale e internazionale per assicurare che essa sia usata quale base comune e quadro di riferimento per la difesa di questi diritti: 1)il termine "persona disabile" significa qualunque persona incapace di assistere da sola, totalmente o parzialmente, le necessità per una vita normale individuale e/o sociale, quale conseguenza di una deficienza, congenita o no, delle sue capacità fisiche o mentali. 2)le persone disabili godranno di tutti i diritti fissati in questa dichiarazione.Questi diritti spetteranno a tutte le persone disabili, senza alcun’eccezione o discriminazione per ragioni di razza, colore, sesso, lingua, religione, opinioni politiche o altre, d’origine nazionale o sociale, delle condizioni di censo, di nascita o di qualunque altra situazione che si riferisca alla persona disabile o alla sua famiglia. 3)le persone disabili hanno diritto al rispetto inerente alla loro dignità umana. Quali siano l’origine, la natura e la gravità delle loro minorazioni e disabilità, hanno gli stessi fondamentali diritti dei loro concittadini della loro stessa età, il che implica innanzitutto il diritto di godere di una vita decente, piena e normale quanto più possibile. 4) le persone disabili hanno gli stessi diritti civili e politici degli altri esseri umani. 5)le persone disabili hanno diritto a disposizioni mirate affinché diventino autosufficienti. 6)alle cure mediche, psicologiche e funzionali, comprendenti gli apparati di protesi e d’ortopedia, alla riabilitazione, all’aiuto e al consiglio medico e sociale, ai servizi di collocamento e ad altri servizi che le mettano in grado di sviluppare al massimo le loro capacità e attitudini che possano accelerare il processo della loro integrazione o reintegrazione. 7)alla previdenza economica e sociale e ad un decente livello di vita. Esse hanno il diritto ad ottenere e conservare un impiego in relazione alle loro capacità, oppure d’impegnarsi in un’occupazione utile, produttiva e remunerativa e di iscriversi ai sindacati del lavoro 8) hanno diritto che siano prese in considerazioni le loro speciali necessità a tutti i livelli della pianificazione economica e sociale. 9) di vivere con le loro famiglie e con i loro tutori e di prendere parte a tutte le attività sociali, creatrice e ricreative. Nessuna persona disabile sarà soggetta, per quanto si riferisce alla sua residenza, ad un trattamento differenziale se non quello richiesto dalle sue condizioni o dal miglioramento di esse che ne possa derivare. 10) le persone disabili devono essere protette da qualsiasi sfruttamento, da qualunque disposizione e trattamento di carattere discriminatorio, abusivo e degradante. 11) devono poter avvalersi d’assistenza legale qualificata quando tale assistenza si dimostri indispensabile per la protezione della loro persona o proprietà. Se s’istituisce un processo giudiziario contro di se, la procedura seguita deve tenere pienamente conto delle loro condizioni fisiche e mentali. 12)le organizzazioni delle persone disabili possono essere utilmente consultate per tutto quanto riguarda i diritti delle persone disabili. 13) le persone disabili, le loro famiglie e le comunità devono essere esaurientemente informate, con tutti i mezzi idonei, dei contenuti di questa dichiarazione.

Disabilità/disabile (definizione)

Negli ultimi anni il concetto di disabilità e di fatto "il disabile" ha subito importanti cambiamenti dopo approfondita critica su cosa è la normalità in considerazione di una visione culturale dovuta all’ Icf ( Classificazione internazionale del funzionamento della disabilità e della salute), in cui si è passati dalla classificazione delle " conseguenze della malattia" (versione del 1980) ad una classificazione delle "componenti della salute", che identificano meglio gli elementi costitutivi della salute, le "conseguenze" sono l’impatto delle malattie e le altre condizioni che ne derivano. La disabilità è quindi un universo e come tale quindi riguarda tutti. Perché tutti, in vari periodi della nostra vita, siamo disabili. Per questo bisogna comprendere bene cosa sono le funzioni corporee e le strutture corporee. Le prime (incluse le funzioni psicologiche) che sono funzioni fisiologiche del corpo. Le seconde sono le parti anatomiche del corpo. Per esempio gli arti e le loro componenti. Le menomazioni sono problemi che sorgono quando funzioni e strutture del corpo sono colpite da disfunzioni causate da aspetti genetici, infettivi, accidentali e non sono in grado di compiere l’azione propria o limitano l’attività. Una volta conosciuta la disabilità il discorso si sposta su due modelli: il modello medico e il modello sociale. Il primo valuta la disabilità come un problema della persona causato dalla malattia, trauma e perciò necessità di professionisti per la cura e la riabilitazione. La disabilità è gestita intervenendo ( talvolta radicalmente) o curando gli aspetti che l’hanno causata. L’intervento medico è prioritario e, a livello politico si tende a riformare e cambiare le politiche d’assistenza sanitaria. Il secondo esamina gli aspetti sociali ammettendo che la disabilità è "un problema creato dalla società", dalla mancanza d’integrazione degli individui nella società. La disabilità non è la caratteristica di un individuo ma di una serie di condizioni, molte causate dall’ambiente sociale. La gestione del problema induce perciò tutta la società a farsene responsabile negli atteggiamenti e nei cambiamenti politici: e questo, a livello politico, diventa un problema di diritti umani. Pertanto, quando esprimiamo un giudizio sulla persona "disabile" o definiamo la "disabilità" è bene conoscere il suo mondo relazionale e la comunità d’appartenenza.

Demotica

È lo studio della casa in genere e delle strutture interne in funzione di chi la abita. È molto importante la domotica per i soggetti con difficoltà motorie e gli anziani che vogliono raggiungere l’autosufficienza nella propria abitazione. Oggi ingegneri edili e architetti studiano appartamenti "su misura" per favorire la mobilità dei disabili.

Down (sindrome di )

Evento di disordine genetico causato dal trisma 21 scoperto da Jerome Lejeune, sebbene il primo a descriverlo sia stato il medico inglese L.Down. I soggetti colpiti sono caratterizzati per la somiglianza somatico-facciale e tozza alla popolazione della Mongolia, per questo motivo erano chiamati anche mongoloidi in tempi passati. L’intervento educativo deve essere individualizzato e basarsi su "percorsi esplorativi" attraverso esempi imitativi per raggiungere l’autonomia di lavarsi, mangiare da soli, vestirsi, passeggiare. Oggi il problema educativo e d’istruzione del bambino down è mirato ad un "progetto di recupero" che non impegna solo la scuola, ma anche la famiglia e la comunità. Ci sono tappe di "passaggio": l’accettazione del bambino, problemi psicologici e d’interazione tra i membri familiari, inserimento scolastico, riabilitazione, sviluppo cognitivo, sessualità, linguaggio. In conclusione il soggetto down da adulto, se ha ricevuto un’educazione specializzata, raggiungerà l’autonomia e una buona qualità di vita.

Famiglia e handicap

La presenza in famiglia di un bambino con problemi di deficit sensoriali o motori o mentali sconvolge le relazioni psicologiche dei suoi componenti. La madre, talvolta è sopraffatta dall’ansia, è disorientata, entra in disagio relazionale con i vicini, i parenti, e non sempre accetta l’aiuto e i suggerimenti degli specialisti. Il padre è spesso "assente", immerso in una contraddizione affettiva che spesso si ripercuote sul menagè della coppia. Molte volte la famiglia con bambini disabili rifugge gli adulti con lo spesso problema del figlio. Non vogliono confrontarsi con la realtà adulta del figlio. Sperano sempre che i luminari della medicina guariscano il piccolo e rinviano sempre la conoscenza approfondita dei bisogni educativi specializzati, di appropriarsi di linguaggi e metodologie d’interazione perché "capisce tutto quello che gli dico"(genitori di bambini sordi), "vede bene e sa camminare da solo" (genitori di bambini ciechi), "mica è stupido, anche suo padre ha cominciato a parlare tardi" ( genitori di bambini con problemi di linguaggio). La famiglia equilibrata e intelligente risolve il problema dell’accettazione vedendo nel piccolo più le risorse da esplorare e da stimolare che le negatività; si applica di studiare le necessità del figlio, chiedendo ausilio e informazione agli adulti delle stesse disabilità; approfondisce le tematiche con speciali corsi.

Frustrazione

Per frustrazione s’intende una condizione in cui viene a trovarsi un organismo quando è ostacolato, per un periodo di tempo o per sempre, nel raggiungimento di gratificazioni o bisogni. Freud ha valutato tre concezioni della frustrazione: la situazione, lo stato di frustrazione, la reazione. L’invalidismo rappresenta una condizione di frustrazione che assumono i vecchi per ricavare vantaggi, attenzioni o premure, giustificazioni per i fallimenti. Nei disabili la frustrazione è espressa nella razionalizzazione, nel senso che il soggetto cerca di spiegare con argomenti razionali l’insuccesso nell’ambito familiare, parentale, amicale, per il raggiungimento di una meta.